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Augusto Monti erede gobettiano

La temperie politica e culturale della Torino degli anni Venti, quella dove cresce Cesare Pavese, è assai vivace ed è agitata da intellettuali provenienti dagli ambienti della cultura accademica e da singoli cittadini interessati a determinate questioni nazionali. Uno di questi è Augusto Monti che, avvicinatosi a Gobetti per la pubblicazione del suo volume Scuola classica e vita moderna, scrive una quarantina di articoli per «La Rivoluzione Liberale» e, come sottolineato precedentemente, suggerisce il motto per la Piero Gobetti Editore. Morto Gobetti74 nel 1926 a Parigi, in seguito alle violenze subite dai

fascisti,

l’animatore e il direttore occulto de “Il Baretti” era stato Augusto Monti. Monti era un gobettiano di antica data, attraverso il comune maestro Salvemini o addirittura, in quanto vociano ardente e convinto, un gobettiano avanti lettera. […]. C’era in Monti e in Gobetti qualche cosa che li accumunava: lo stesso spirito di serietà e di rigore, alimentato da una severa disciplina nel lavoro intellettuale e da un’indomita energia morale75.

Su Monti, professore di lettere di Pavese al Liceo D’Azeglio, è necessario soffermarsi per il ruolo importante che ha giocato nella formazione di Pavese e per la

72 VITTORIO ALFIERI, Epistolario, III (1799-1803), a cura di LANFRANCO CARETTI, Asti, Casa d’Alfieri,

1989, pp. 111-113.

73 «Il greco serviva ad Alfieri anche come arma capace di cogliere e colpire i mali nati dalla Rivoluzione.

Ma il motto in questione nella sua interezza non pare affatto provenire da un autore greco. Nessun esempio che gli somigli si estrae dal Thesaurus linguae grecae in cd rom. Il costrutto poi non è greco.», ANGELO FABRIZI, “Che ho io a che fare con gli schiavi?” Gobetti e Alfieri, Firenze, Società editrice fiorentina, 2007, p. 60. Per la ricostruzione dell’intera vicenda si rimanda a questo studio.

74 Dopo pochi mesi dalla morte di Gobetti Monti lo ricorderà come un «terribile scolaro» che incuteva

soggezione anche ai maestri e al quale anche i maestri erano debitori «della loro tenace fedeltà alle proprie idee», AUGUSTO MONTI, Lo scolaro maestro, in «Il Baretti»,IV, n. 2, febbraio 1927, p. 9.

funzione determinante nella costituzione del gruppo degli ex allievi del D’Azeglio. Si anticipa già ora che è tuttavia opportuno ridimensionare l’importanza del professore nello sviluppo dei valori etici e politici nei suoi allievi, al contrario di quanto ha fatto molta critica – specialmente del secolo scorso – che, influenzata dall’autobiografia professionale di Monti, I miei conti con la scuola, tende a investire quest’ultimo di un ruolo decisivo sotto questo aspetto. Si anticipa inoltre, molto sinteticamente, che per quanto il rapporto tra Monti e Pavese sia contraddistinto da stima e affetto reciproci, esso non è tuttavia esente da tensioni, conflitti e incomprensioni – tanto che, negli ultimi anni di vita di Pavese, i loro rapporti si interromperanno quasi del tutto – di carattere letterario o politico: noti sono, infatti, i rimproveri del professore al suo ex alunno per la mancata partecipazione alla Resistenza. L’idea che Pavese sia stato un intellettuale poco interessato alla politica ed incapace di sentirla fino in fondo, perché «malato di letteratura»76, proviene principalmente dal suo ex insegnante di lettere del liceo ed è

stata diffusa, lasciando una traccia indelebile nella critica, da Davide Lajolo nella biografia Il «vizio assurdo», che della testimonianza di Monti risente ampiamente.

Nel 1923 Pavese entra al Liceo Massimo d’Azeglio di Torino, nello stesso anno Monti vi prende servizio dopo aver esercitato la sua professione in molte zone d’Italia: a Giaveno (in Piemonte), a Bosa (in Sardegna), a Chieri (in Piemonte), a Reggio Calabria, a Brescia ed infine a Torino. In Sardegna si avvicina alla Federazione nazionale insegnanti scuole medie, Fnism, e scrive per la rivista «Nuovi Doveri» di Giuseppe Lombardo-Radice; rientrato in Piemonte, a Chieri, pubblica alcuni articoli sul giornale socialista «Il Grido del Popolo», su «La Voce» di Prezzolini77 e su «L’Unità» di Gaetano

Salvemini, intervenendo con alcuni articoli sulla didattica e critica dei costumi. Nel 1911 Monti viene trasferito a Reggio Calabria dove prende contatti con l’Associazione nazionale per gli interessi morali ed economici del Mezzogiorno d’Italia (ANIMI) e dove, «contrariamente allo stereotipo piuttosto diffuso, secondo cui egli sarebbe il simbolo di una radicata piemontesità» avviene il processo di maturazione politica e intellettuale «secondo il consolidato canone della “spiemontesizzazione”, teorizzato da

76 CESARE PAVESE, Il mestiere di vivere, cit., p. 275.

77Al periodo dell’esperienza vociana risalgono gli esordi di Monti scrittore di narrativa e autobiografo,

«è da considerarsi una specie di incunabolo dei libri della maturità una coppia di articoli: Cose d’un uomo

moderno. M’è nato un figlio (La Voce, 23 ottobre 1913) ed Educazione religiosa e padri atei (ibid., 13 gennaio

1914). L’autobiografismo vociano sarebbe stato un aspetto costitutivo della prosa intrisa di moralità di Monti». ALBERTO CAVAGLION, Augusto Monti, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 76, 2012.

Carlo Dionisotti per Vittorio Alfieri e Giuseppe Baretti»78. Nel 1917 partecipa alla

Grande guerra come interventista democratico, viene fatto prigioniero e trasferito per un anno e mezzo nel campo di Mauthausen. Nel 1919 riprende ad esercitare la sua professione a Brescia, dove scrive su «Il Combattente» e nel 1921, a Torino, conosce Piero Gobetti e ne ammira da subito il talento: nasce così la collaborazione di Monti con le riviste del giovane intellettuale, che, gradualmente, si sostituisce ai suoi interventi sui periodici vociani.

Il primo intervento che Monti pubblica su «La Rivoluzione Liberale» è del 9 aprile 192279, due mesi dopo la fondazione della rivista. In un articolo pubblicato su

«Belfagor», volto a sottolineare gli articoli politici del professore80, sempre trascurati

dalla critica a vantaggio delle opere narrative, Norberto Bobbio ricostruisce il legame politico e intellettuale tra Monti e Gobetti attraverso le pubblicazioni del primo nelle riviste del secondo. Il sodalizio con il giovane intellettuale torinese avviene nel 1921, allorché Monti si rivolge a Gobetti, che ha appena dato avvio all’attività di editore, per la pubblicazione di Scuola classica e vita moderna, volume rifiutato da Vallecchi e dalla casa editrice de «La Voce» (il testo di Monti risulta così il secondo ad essere stato pubblicato da Gobetti tra il 1923 e il 1928)81. Anche Gobetti nutre una sincera e profonda stima

nei confronti del professore e ritiene fondamentale la sua presenza nella redazione de «La Rivoluzione Liberale» se è vero che la rivista è «sorta […] dall’incontro di quattro pensieri, il federalismo di Monti, il tradizionalismo di Ansaldo, la critica sindacale di Formentini, e il liberalismo rivoluzionario di chi scrive»82. Alla base della concezione

politica di Monti risiedono il pensiero antiburocratico e il federalismo, «due tesi

78Ibidem.

79AUGUSTO MONTI, Note sulla burocrazia. L’utopia dei pochi e ben pagati, in «La rivoluzione Liberale», I, n.

8, 9 aprile 1922. p. 30.

80 La fama di Monti come scrittore militante è affidata al suo unico libro puramente politico, La realtà

del partito d’azione, edito da Einaudi dal 1945 e non più ripubblicato.

81 Gobetti, inoltre, si preoccupa di recensire Scuola classica e vita moderna negli annunci pubblicitari de «La

Rivoluzione Liberale» (dove definisce il volume come un «testamento spirituale di un professore che ha dedicato venti anni di lavoro a vivere la scuola classica come fattore di modernità. Un libro che farà rimpiangere a molti di non essere stati a imparare greco e latino con A. Monti. Parlare poi delle doti di scrittore arguto e fine che vi si manifestano è superfluo per i lettori della “Rivoluzione Liberale” che ben le conoscono», PIERO GOBETTI, In preparazione: Scuola classica e vita moderna, in «La Rivoluzione Liberale», I, n. 30, 19 ottobre 1922, p. 114) e su la «Rivista di Milano» (in cui descrive l’autore come uno «tra gli scrittori dell’eresia che continuano nella scuola, nel giornalismo, nella scienza, i primi moti del Risorgimento, quando s’incominciò a vedere l’invincibile ostilità degli italiani contro il pensiero italiano e la fatale impopolarità a cui, nella nostra terra di retori, ogni sogno di cultura sarebbe stato condannato». PIERO GOBETTI, Un maestro classico di modernità, in «La Rivista di Milano», IV, n. 2, giugno 1923, ora in

ID., Scritti storici, letterari e filosofici, a cura di PAOLO SPRIANO, Torino, Einaudi, 1969, p. 562.)

connesse tra loro, il retto e il verso, per così dire, della stessa medaglia. Tutte e due erano di diretta ispirazione salveminiana, e attraverso Salvemini, cattaneana»83. Monti

inizia la sua collaborazione alla rivista gobettiana con una serie di articoli sulla burocrazia84 dove lamenta non tanto la burocrazia in sé quanto la cattiva burocrazia e

lo stato burocratizzato, poiché la vera piaga della burocrazia consiste nella tendenza a sostituirsi al governo, esattamente ciò che sta accadendo in Italia con l’ascesa al potere di Giolitti.

Monti partecipa, inoltre, alla discussione sul fascismo, il primo articolo sull’argomento è del 28 maggio 192285, esattamente sei mesi prima della Marcia su

Roma, e si configura come un’analisi sociologica del fascismo, secondo la quale in Italia esistono due tipologie differenti di questo fenomeno: un fascismo agrario (o schiavista) e un fascismo urbano (o interventista); entrambi sono ben radicati nel nostro paese; il primo ha avuto delle iniziali manifestazioni nei mazzieri e nel brigantaggio, il secondo «è figlio diretto del movimento interventista del 1914-1915, e, a farne la storia, si giunge al garibaldinismo e al partito d’azione»86. Entrambi si sono rivelati nel dopoguerra

attraverso l’odio comune per il socialismo ed entrambi ambiscono a sostituire lo stato con una minoranza, motivi per cui il fascismo deve essere combattuto dai liberali. L’avvento del fascismo ha portato ad un ulteriore arresto allo sviluppo del paese ma ha anche acceso una grande speranza perché

lo stato liberale, negato nelle parole e nei fatti, prima dalle moltitudini pseudo- socialiste, invocato sempre più a gran voce dalle turbe intermedie, cesserà di essere un concetto filosofico, famigliare a pochi solitari studiosi, per diventare, un’aspirazione sempre più chiara e sempre più precisa nella mente e nel volere di sempre più numerosi italiani.

Il che è forse la più grande e più vera rivoluzione che in Italia – per ora – si possa vagheggiare87.

Si tratta di affermazioni nelle quali Monti esprime la sua adesione al concetto e al fine della rivoluzione liberale: in un paese, come l’Italia, in cui lo stato liberale non è mai esistito, la vera e unica rivoluzione consisterebbe nel concretizzarlo.

83 NORBERTO BOBBIO, Monti e Gobetti, in «Belfagor» XXXVI, n. 1, 1981, p. 86.

84AUGUSTO MONTI, Note sulla burocrazia. L’utopia dei pochi e ben pagati, in «La Rivoluzione Liberale», I, n.

8, 9 aprile 1922. p. 30.

85AUGUSTO MONTI, Due fascismi, in «La Rivoluzione Liberale», I, n. 15, 28 maggio 1922, p. 57. 86 Ibidem.

I gobettiani oltre ad esaminare storicamente e culturalmente il fenomeno fascista si pongono il problema dell’azione; nell’articolo Congiure e opposizione88 Monti sostiene con

forza la necessità di fare opposizione costituzionale per arrivare a quella libertà tanto auspicata ma che oggi sembra essere così lontana:

tutti noi, che abbiamo o sentiamo responsabilità di educatori politici, in questo tempo dobbiamo far ogni sforzo per contenere il malcontento dilagante contro la tirannide fascista e “convogliarlo” nelle vie “liberali”, cioè nelle vie della lotta politica pubblica e aperta, cioè nelle vie della opposizione politica.

Il nostro motto insomma deve essere: non congiure ma opposizione!

[…] in quest’altra guerra (che è ancora quella guerra) noi liberali vinceremo solamente se ci sarà fra noi chi non ammetterà mai, neanche per un momento, né la realtà né la possibilità della soppressione della libertà89.

L’opposizione costituzionale si profila come unico mezzo per raggiungere questa libertà ed inoltre fornirebbe all’Italia la possibilità di un cambiamento epocale:

organizzare in Italia una buona volta, la opposizione politica, e, più precisamente, un partito di opposizione. […] Opposizione costituzionale, non opposizione rivoluzionaria: questa da noi non conta e non ha mai contato niente […]. Una vera opposizione politica, in Italia, non può e non deve essere che costituzionale. Solamente col porsi sul terreno costituzionale (patria, libertà, responsabilità di governo) l’opposizione può essere efficace. Inoltre l’opposizione costituzionale nella vita politica italiana costituirebbe uno dei più grandi fatti rivoluzionari della storia della terza Italia, anzi segnerebbe esso l’inizio, veramente della nostra rivoluzione liberale90.

Dirigere questa opposizione costituzionale spetta al partito liberale, il quale beneficerebbe a sua volta di una possibilità per riscattarsi dal torpore che attualmente lo contraddistingue:

come la passione della guerra per la difesa e per la riconquista della patria ha favorito la germinazione e la vegetazione dei partiti nazionalisti, così ora la passione della lotta per la difesa e la riconquista della libertà pone le condizioni necessarie e sufficienti per il sorgere ed il vigoreggiare di un vero partito liberale. Ma questo partito potrà sorgere vitale e vivacemente affermarsi solo se, fedele al suo nome e alle sue tradizioni, si affermerà subito come intransigente difensore di ogni libertà contro i movimenti politici, che di queste libertà han fatto e stan facendo scempio91.

88AUGUSTO MONTI, Congiure e opposizione, in «La Rivoluzione Liberale», II, n. 15, 22 maggio 1923, p. 61. 89 Ibidem.

90 Ibidem. 91 Ibidem.

Monti non si limita a fornire un’analisi politica ed una possibile soluzione affinché l’Italia si liberi dal fascismo, ma espone anche delle considerazioni sociali riguardo al favore che il fascismo ha ottenuto tra le differenti classi e ciò che questa diversificazione ha comportato. Il pericolo non consiste meramente nel fascismo in sé, ma piuttosto nella vecchia borghesia che si è gettata ai suoi piedi rendendo, così, evidente l’esistenza di due Italie: «quella dei fascismi e quella delle opposizioni. E fra le due c’è una fossa, anzi un abisso»92. Per ribadire ulteriormente la distanza tra queste, Monti procede con

una differenziazione pronominale: «alla vostra Italia pensateci voi, noi penseremo alla nostra», specificando che quest’ultima

è l’Italia degli operai di Torino, di Milano, di Molinella, che premuti, minacciati, braccati da ogni parte han resistito a oltranza e si son difesi da sé con le sole armi della loro irreducibile fedeltà alle loro idee, […]. È l’Italia delle povere donne dei nostri contadini, a cui gli scherani degli agrari uccidono o sbandiscono figli e mariti […]. È l’Italia dei Combattenti di Sardegna rimasti fedeli a Lussu, dei Combattenti di Puglia rimasti fedeli a Salvemini […]. È l’Italia di quei borghesi, fulgido esempio di fermezza fra l’innominabile bassezza del loro ceto, che non vollero mai piegarsi al vincitore, che, sinceramente, fieramente seppero riscattare l’illusione o la debolezza di un’ora, con anni di resistenza pervicace e di lotta implacata.93

È insomma l’Italia degli oppressi e di coloro che resistono con la forza e con la cultura e che si è potuta rivelare soltanto sotto la dittatura fascista:

La nostra è insomma l’Italia seria, austera, l’Italia moderna, europea, che noi qualche volta nell’angoscia delle giornate più scure, avevam pianto come morta in sul nascere, e che invece la raffica fascista ha messo allo scoperto, come il diluvio del nubifragio, dilavando via il terriccio più molle, scopre e rivela sui fianchi del monte l’armatura eterna della roccia di granito.94

«La nostra Italia» è dunque quella del proletariato. Sul tema dei ceti in Italia Monti interviene su «Rivoluzione Liberale» con due articoli95. Uno dei problemi che

affliggono il paese consiste nella mancanza di un ceto medio moderno, anche se negli ultimi anni il proletariato industriale, organizzato e facente capo ai partiti socialisti, si sta guadagnando questo nome; una dimostrazione di questo dato è evidente nella lotta

92AUGUSTO MONTI, Congiure al chiaro giorno, «La Rivoluzione liberale», III, n. 43, 18 novembre 1924, pp.

173-174.

93 Ibidem. 94 Ibidem.

95 AUGUSTO MONTI, Ceti medi in Italia, e La borghesia in Italia, rispettivamente in «La Rivoluzione

contro il fascismo, dove il proletariato sembra risultare il ceto dirigente di una democrazia moderna:

noi crediamo nel liberalismo e nella democrazia, che sono per noi l'essenza stessa della civiltà moderna; noi crediamo che liberalismo e democrazia non possano non incarnarsi in una classe sociale interposta fra la "plebe" ed i "grandi", fra gli strati crepuscolari della società civile e le sussistenti forze dell'antico regime, in una classe a cui in mancanza d'altro nome, seguitiamo a dar il nome di "borghesia": noi crediamo che oramai le forze sociali capaci in Italia di attuare quel tanto che da noi è attuabile di liberalismo e di democrazia siano le forze operaie di cui sopra: noi dobbiamo, per necessità, considerare queste forze operaie non come "ceti infimi", come "quarto stato", ma come ceti medi, come terzo stato, come "borghesia"96.

Come già sottolineato, molte sono le affinità tra Gobetti e Monti97: è comune la

matrice salveminiana ed entrambi considerano Einaudi e Croce i due maggior teorici del liberalismo italiano, detentori di insegnamenti non sempre condivisibili ma in ogni caso meritevoli di essere ascoltati con rispetto ed umiltà. Affini sono, inoltre, le interpretazioni della storia del Regno d’Italia dalla sua fondazione all’attualità: il Risorgimento non aveva portato allo stato liberale delle dichiarazioni ufficiali, ma aveva avviato l’Italia verso un processo di burocratizzazione che troverà il suo culmine durante il governo di Giolitti, che Monti non risparmiò di criticare aspramente. Buona parte di responsabilità in questo spettava anche al partito socialista riformista che non agiva mai direttamente ma si limitava, invece, ad aspettare l’intervento dello stato, per cui, afferma Bobbio

tanto Gobetti quanto Monti non ebbero mai molta simpatia per il partito socialista ufficiale, come del resto il loro comune maestro Salvemini dopo la rottura. Essi si consideravano quanto ai principi primi anzitutto dei liberali […]. Idealmente liberalismo voleva dire autonomia, governo dal basso, diffidenza verso lo stato, la lotta come fattore di progresso, tutte idee che erano agli antipodi di quelle per cui erano sorti i partiti socialisti. Tanto Gobetti quanto Monti si sentirono più vicini, il primo sin dalla fondazione, il secondo durante e dopo “la liberazione”, al partito comunista, nel quale vedevano dichiarate ed esercitate alcune virtù etiche che ammiravano, come il rigore, l’intransigenza, lo spirito di disciplina, il coraggio98.

Sia Monti che Gobetti furono da subito avversari del fascismo ed entrambi, pur apportando spiegazioni storiche e sociali diverse, erano convinti che il fascismo

96AUGUSTO MONTI, La borghesia in Italia, cit., p. 77. 97NORBERTO BOBBIO, Monti e Gobetti, cit., p. 93. 98 Ivi, p. 94.

affondasse le sue radici nella storia d’Italia, che fosse cioè un dispotismo di lunga durata.

Bobbio sostiene che il gobettismo sia fondamentalmente caratterizzato da «una concezione etica della politica» e come tale

non può essere che […] una politica per piccoli gruppi, in sostanza una politica per intellettuali […]. Non a caso Gobetti critica tutti i partiti e si rivolge con le sue riviste a un pugno di intellettuali, e Monti dopo esser passato attraverso il movimento di “Giustizia e Libertà” approderà al piccolo (piccolo per destinazione) ed effimero (effimero per i propri errori) Partito d’Azione. Concezione etica della politica vuol dire anche che la politica prima di essere azione deve essere educazione. Il gruppo che si forma attorno a Gobetti è una classe di mentori più che di uomini di azione, come del resto era stato il gruppo de “La Voce”, e ancora più scopertamente, il gruppo de «L’Unità»99.

Il gobettismo si risolve nella formula di rivoluzione liberale, definizione che racchiude tre idee fondamentali: la prima è che una rivoluzione o è apportatrice di libertà o si trasforma velocemente nel suo contrario, in restaurazione, e dunque una rivoluzione deve necessariamente essere liberale altrimenti non è rivoluzione; la seconda è che la trasformazione dello stato italiano – mai stato liberale – potrà avvenire esclusivamente attraverso una rivoluzione, una trasformazione profonda, che negli altri paesi è già avvenuta e che l’Italia, non ha ancora conosciuto; per ultima l’idea che, nell’epoca della grande rivoluzione del quarto stato, apertasi con la Rivoluzione bolscevica, se un cambiamento così radicale dovrà avvenire, esso sarà guidato dal proletariato e non più dalla borghesia la quale, gettandosi nelle braccia del fascismo, ha dimostrato in maniera esemplare di aver esaurito il suo compito storico.100