• Non ci sono risultati.

Cesare Pavese e Augusto Monti: un rapporto difficile

L’età delle traduzioni e Lavorare stanca

2.2 Cesare Pavese e Augusto Monti: un rapporto difficile

Tra gli anni Venti e gli anni Trenta Pavese si tiene fondamentalmente lontano da qualsiasi forma di politica attiva, si è concentrato sulla produzione di testi poetici, alcuni dei quali verranno letti alla confraternita, mentre altri verranno conservati per essere pubblicati nella prima raccolta di poesie Lavorare stanca o, altrimenti, saranno editi postumi. Ha partecipato con entusiasmo alle iniziative della confraternita, ma ha anche cercato di dare una forma maggiormente seria e concreta ai suoi interessi traducendo alcuni romanzi Melville, Lewis e Anderson per la casa editrice Frassinelli e stendendo articoli di letteratura americana contemporanea per «La Cultura». Questo non significa che alla politica Pavese rimanga completamente estraneo, anzi, come si tenterà di dimostrare di seguito, proverà ad esercitare il suo impegno attraverso le traduzioni e l’attività di critico e poeta.

Nell’estate tra la maturità classica e il primo anno di università Pavese frequenta Monti, vi intrattiene una corrispondenza epistolare e aderisce insieme a lui e ad alcuni suoi amici del liceo alla confraternita degli ex allievi del D’Azeglio. Monti fu a tutti gli effetti il fondatore di questo gruppo, sebbene non sia opportuno dar credito a Lajolo quando ritiene che fu anche il vero responsabile della svolta verso la militanza antifascista della compagnia.26 Come precedentemente sottolineato, la confraternita

degli ex allievi del D’Azeglio non nasce come organizzazione politica cospirativa, lo diventa col passare del tempo attraverso l’impegno di alcuni membri come Mila e, soprattutto, Ginzburg ma al momento della sua costituzione gli interessi di questa gravitano attorno a questioni di arte, letteratura e filosofia.

Profonda stima e affetto reciproci contraddistinguono dai tempi del D’Azeglio il rapporto tra Monti e Pavese; nella già citata lettera dell’agosto 1926 Cesare ci tiene a dar notizia all’ormai ex insegnante delle sue giornate – delle sue «occupazioni in villa»27

–gli rende riconoscenza del suo insegnamento e lo aggiorna sulle sue letture estive cui allega commenti di natura letteraria. Il professore ed il liceo in generale hanno un effetto stimolante su Cesare che, non a caso, con l’ambiente dazegliano rimarrà legato fino alla morte. Per quanto la relazione tra l’ex insegante e l’ex alunno sia caratterizzata da sincera ammirazione e grande rispetto, essa non è tuttavia esente da tensioni e scontri di materia letteraria dietro i quali, al di là dei gusti personali, è possibile scorgere diverse concezioni di vita. I primi dissapori si verificano allorché Pavese, giovane studente di lettere, fa leggere alcuni racconti a Monti il quale, tuttavia, non sembra apprezzarli

per due ragioni principali. Non si tratta tanto di stile quanto di contenuti. La prima ragione di critica che Monti fa a quei primi racconti, è quella dell’imitazione dannunziana; la seconda, ancor più grave, riguarda la conclusione dei racconti stessi, per la fine suicida che Pavese impone ai vari protagonisti. Pavese rimane contrariato e turbato dalla prima osservazione, quella che riguarda l’accusa di imitazione dannunziana; ma, sia pure dopo molto discutere, la riconosce giusta. Alla seconda accusa ribatte, invece più fieramente ed ostinatamente. […] La discussione con Monti diventa disputa. Monti non cede di un millimetro, e Pavese recalcitra. Poi il vecchio professore ha il sopravvento28.

Si tratta solo della prima della lunga serie di critiche che Monti muoverà alle opere di Pavese: negli anni esse infatti si sommeranno e non faranno altro che alimentare tra i due aspri dissapori29; in ogni modo queste critiche, per quanto dure e talvolta al limite

27 CESARE PAVESE, Lettere (1924-1944), cit., p. 26.

28 DAVIDE LAJOLO, Il «vizio assurdo», cit., pp. 96-97. Così Monti rievoca questi racconti: «Una di quelle

tre novelle che il mio non più scolaro e non ancora amico mi portò durante quelle ferie di agosto a Giaveno finiva, ricordo bene, con un suicidio. Come n’ebbe terminata la lettura io, senza dirgli “bene” senza dirgli “male”, posi la questione: – Ma… ancora dura quella… moda? –. Pavese, come se ancora leggesse su quel foglio, citò “a farsi grattar dagli altri non grattano mai dove ti prude”, un nostro proverbio piemontese, ed io “quella però grattò bene al punto giusto” con voce assente di chi si racconta una storia lontana; cominciava la serie di quei dialoghi ermetici di cui troppo Pavese si dilettò, per cui troppo – forse – io mi spazientii. […] Quel chiodo! Fu un’idea che maledettamente il ragazzo si portò con sé quasi educandola e adattandola via via ai tempi, ai suoi tempi, prima come motivo di racconto ed a me parve allora che non si trattasse d’altro, poi come leopardismo adolescente – ma forse era ancora illusione mia –; della ragazzina che ha sempre qualche disturbo in casa “quando sarà signorina andrà a posto tutto”: così allora pensavo di lui». AUGUSTO MONTI, I miei conti con la scuola, cit., p. 257.

29 Volendo aprire una breve parentesi con un salto di vent’anni rispetto a questi iniziali contrasti,

collocando così il rapporto tra Monti e Pavese in una prospettiva temporale più ampia, si può affermare che questi dissapori culmineranno nel 1950 con la dedica alla copia de La luna e i falò spedita all’ex professore «et nunc dimittis me, domine». Dal professore la frase viene interpretata come una prima mossa verso la riconciliazione dopo più di venti anni di contrasti (Cfr.AUGUSTO MONTI, I miei conti con

dell’offensivo, si riveleranno estremamente feconde per entrambi e per Pavese si configureranno come uno dei molti stimoli per una produzione sempre più colta e raffinata. Le tensioni tra l’ex professore e l’ex alunno cominciano dunque molto presto e sono radicali poiché concernono anche il senso e la natura dell’operare letterario: nel maggio del 1928 Pavese, che non ha ancora vent’anni, ha l’occasione di prendere per la prima volta una posizione netta contro Monti:

Io sono un uomo che connette poco e che ragiona con fatica e con molta nebbia, mentre Lei è preciso e limpido e pieno di esperienza vitale, tanto che quando Lei parla io sto a sentirla colla stessa sicurezza con cui mi abbandono dinanzi alla natura: pure su questo argomento del lavoro di creazione dell’arte, penso ora proprio l’opposto di Lei.

Lei dice che per creare una grande opera basta vivere il più intensamente e profondamente possibile una qualunque vita reale, ché se il nostro spirito ha in sé le condizioni del capolavoro, questo verrà fuori quasi da sé, naturalmente, sanamente, come accade di tutti i fenomeni vitali.

Lei vede l’arte, insomma, come un prodotto naturale, una normale attività dello spirito, che avrebbe per carattere essenziale la sanità.

Ebbene, io nego molta parte dei significati dati a queste cose e specialmente l’ultima.

No, secondo me, l’arte vuole un tal lungo travaglio e maceramento dello spirito, un tale incessante calvario di tentativi che per lo più falliscono, prima di giungere al capolavoro, che si potrebbe piuttosto classificarla tra le attività anti- naturali dell’uomo.

Sana è in sé l’opera d’arte veramente buona, poiché, opera d’arte essendo soltanto una costruzione organica, dove palpiti la vita, una vita, qualunque essa sia, come quella di piante e pietre, la sanità, cioè la perfetta rispondenza e attività delle sue diverse parti, ne è l’indispensabile condizione; ma non affatto per questa ragione han da essere egualmente sani il contenuto dell’opera e l’anima del creatore.

Che anzi, se quest’anima non si è contorta e stravolta e dissanguata, se non è passata per una serie lunghissima di esperienze e queste ripetute fino all’assorbimento intero da parte sua, se non si è insomma ridotta per le fatiche e l’abuso di atteggiamenti particolari ad un aspetto fuori d’ogni comune e privo di quel gretto ottimismo che porta in sé la naturale sanità, quest’anima non varrà mai a comporre un capolavoro.

E ripeto, soltanto e appunto per queste condizioni anti-umane, o forse sopra- umane, e per un lungo tormento di tentativi falliti lo spirito può giungere a dare quei suoi frutti risentiti e miracolosi, quelle nuove creature che sono sulla terra come tanti altri esseri viventi.

Per questo l’arte è la più alta delle attività e porta l’uomo più di ogni altra cosa vicino alla divinità: permette di creare esseri vivi.

Ed è per questa speranza vertiginosa che io non mi indurrò mai a «pensare ad altro» attendendo che il capolavoro mi nasca bell’e pronto, ma continuerò a logorarmi, a rompermi, e arricchirmi di vita e di mano sicura30.

la scuola, cit., p. 259-260), ma è più probabile che Pavese, ormai all’apice della sua carriera di romanziere,

dopo aver ottenuto notevoli riconoscimenti dalla critica, con questa dedica chiedesse al professore di smetterla con i severi giudizi nei confronti delle sue opere con cui, fin dalla giovinezza, lo perseguitava.

Sul concetto di arte Pavese non fatica ad assumere posizioni opposte a quelle del professore; di fronte ad un uomo come Monti, votato all’azione e all’organizzazione, Pavese, che col passare degli anni ha sempre più chiaro il suo futuro da poeta e critico letterario, non riesce a condividere delle riflessioni che dell’arte forniscono interpretazioni troppo poco interiorizzate. Le teorie sull’arte di Monti risentono di quelle crociane, d’altronde, afferma Gionaola,

Monti è un crociano di razza pura nella crociana Torino anni Venti, quindi è debitamente razionalista e storicista, con un suo simpatico vitalismo intriso di impegno civile. La “sanità” nell’estetica crociana è un concetto portante perché l’arte, come manifestazione primaria dello spirito, non può che rifletterne la luce intellettuale, nell’armonica identità di intuizione-espressione31.

Per il filosofo napoletano l’arte si configura come quel momento fondamentale delle attività dello spirito che è l’intuizione, termine che indica l’apprendimento immediato di un contenuto sensibile, opposta all’elaborazione discorsiva prodotta dall’intelletto; è un prodotto immediato e spontaneo dello spirito perché è presenza di un contenuto ai sensi dell’individuo prima dell’intervento di qualsiasi organizzazione intellettuale, per questo motivo l’arte come atto di intuizione è autonoma dalla trasmissione di qualsiasi tipo di verità e non è nemmeno riconducibile al mero piacere dei sensi. Citando la lettera di Pavese a Monti, per Croce l’arte «ha in sé le condizioni del capolavoro» il quale «verrà fuori quasi da sé, naturalmente, sanamente» e quindi l’arte è una «normale attività dello spirito». Per il giovane Pavese l’arte implica, invece, un duro travaglio dello spirito ed è un’attività che pretende numerosi tentativi prima di produrre il capolavoro: essa costa talmente tanta fatica che non potrà mai essere un’attività naturale dello spirito, ma potrà semmai essere annoverata tra le attività più anti-naturali dell’uomo; d’altronde questa è una delle più antiche convinzioni del Pavese poeta, basti ricordare la “tenzone poetica” con Mario Sturani e tutti gli sforzi che ne sono conseguiti per eguagliare o raggiungere la raffinatezza letteraria dell’amico nel tentativo di compiere il capolavoro.

Da un lato, dunque, tensioni legate a differenti modi di intendere determinate questioni artistiche e letterarie, dall’altro incomprensioni di carattere esistenziale. È stato precedentemente sottolineato che per Monti l’essenza del buon cittadino risiede nell’azione e nel riuscire a «guadagnarsi la vita» e dunque per un uomo è necessario

trovare un mestiere che gli permetta di realizzarsi, evitando così di condannarsi a una vita di insoddisfazioni. Monti è inoltre completamente votato alla politica e non perde occasione per impegnarsi nella lotta all’antifascismo: quando Ginzburg decide di ricostituire il gruppo di «Giustizia e Libertà» di Torino, il professore vi aderisce con entusiasmo assieme ad altri suoi ex alunni. La propensione all’azione e la passione politica sono due componenti importanti della vita di Monti, esse investono anche i rapporti che intrattiene con gli altri, compresi i suoi alunni ai quali impartisce un’educazione indirizzata verso la realizzazione personale ed i valori civili. Nella relazione con Pavese questi aspetti del carattere di Monti si riflettono in maniera assai singolare e, almeno in parte, si intersecano l’uno con l’altro. Il professore si allinea fondamentalmente a quel filone della critica che definisce Pavese inadatto alla vita pratica e incapace di riuscire a trovare un vero mestiere perché malato di letteratura.

Per Monti si può essere letterati solo per passione e nel tempo libero perché, prima di abbandonarsi alla letteratura, la vita impone «una professione da albi e da annuari»32;

anche «il povero Pavese», afferma il professore, si stava convincendo di questa idea:

E il povero Pavese aveva appena preso appena «maturato» quell’impegno, aveva voluto darmi quella parola, e l’aveva voluta mantenere a tutti i costi, lettere, specializzazione, laurea, un concorso, un altro concorso, essere anche lui un «ruolo B» un «ruolo A», comparir con cognome e nome in quegli annuari e ruoli di anzianità. Non glielo permisero; chi? […] quelli che lo fecero arrestare un giorno, di mattino per tempo, proprio il giorno che egli due ore dopo sarebbe andato a far il suo scritto per il concorso generale ai licei, istituti, e licei magistrali, coloro a cui il povero ragazzo forse pensava con fieri propositi di opposizione quando prometteva al profe «riconoscenza» di «opere»33.

Nonostante le avversità della sorte, Pavese non rinuncia al suo intento di trovare un’occupazione; se l’arresto gli ha impedito di riuscire ad abilitarsi per l’insegnamento, una volta rientrato a Torino dal confino a Brancaleone Calabro, si impegnerà nella ricerca di un impiego «per campare» e, continua ad affermare Monti, si illuderà di averlo trovato come editore presso la casa editrice Einaudi, pur continuando a sentirsi un letterato di professione; da qui nasce il suo travaglio:

E quando dal confino lo rimandarono a casa – rovinato, è la parola – per campare, non dico per vivere, per campare si aggiustò con Einaudi: – Faccio, – rispondeva ad analoga domanda, – il cavallo da stanga del birroccio di Einaudi –; ma quel lavoro rientrava nei bisogni come il mangiare, che Pavese faceva senza gusto quasi

32 AUGUSTO MONTI, I miei conti con la scuola, cit., p. 252. 33 Ivi,p. 253.

rabbiosamente come per necessità, ma non era quello il suo «mestiere», il suo

ministerium; quale dunque? Quello di cui gli avevano dato l’esempio i suoi

«maggiori», i classici e i maestri che quei classici in scuola gli avevano posto in mano, cioè… scrivere, che non era una professione, un impiego, era… letteratura. Ma Pavese era un uomo di coscienza, Pavese era un uomo di parola, e per mantenere coscienziosamente la parola che una volta aveva data a qualcuno – e prima di tutti a sé – quello «scrivere», quella «letteratura» volle dimostrarsi, volle persuadersi che veramente fosse un mestiere, il suo mestiere, una professione come qualunque altra, la sua professione. E avrà avuto ragione anche in questo, non discuto, anche in questo avrà marciato coi tempi, ma di questo me non mi fece mai persuaso: a me è sempre parso che il cammino naturale, il cammino giusto fosse dalla vita alla poesia, dal mestiere alla letteratura; far la strada inversa, mettersi in capo di andar dalla poesia «all’arte», dalla letteratura al mestiere alla professione alla vita vuol dire far seccare poesia ed arte, vuol dire trasformare tutta la vita in letteratura, tutta la vita anche il lavorare anche l’amare, ridur tutto a parole e gesti. […]. Questa secondo me è stata la tragedia di quel povero ragazzo: di essa la responsabilità, secondo me, ricade su coloro che lo fecero arrestare nel maggio del 1935, un’ora prima che andasse a far il suo scritto per il concorso d’italiano e latino ai licei34.

A parer di Monti, dunque, il comportamento e la vita del suo ex alunno corrisponderebbero all’idea che si era fatta di lui come uomo inadatto alla vita pratica, per cui alla base della «tragedia» di Pavese risiederebbe, per Monti, la sua mancata realizzazione professionale come insegnante e l’illusione di averla trovata nel mestiere della letteratura. Inutile dire che la collaborazione di Pavese per la casa editrice Einaudi e lo zelo che questi vi ripose rivelano una dedizione e un trasporto che vanno ben al di là di un mero impiego che permetta di «campare»; la Giulio Einaudi editore fu infatti possibile grazie alla presenza di tre personalità: Giulio Einaudi, Leone Ginzburg e Cesare Pavese. Il ruolo determinante di Pavese in Einaudi, negli anni precedenti e successivi alla Seconda guerra mondiale, è universalmente riconosciuto e testimoniato da più voci, e non è dunque chiaro il motivo per cui Monti si ostini a non qualificare l’impegno editoriale di Pavese al rango di «ministerium».

In ultima analisi Monti si autoaccusa come colpevole di quella che fu la «tragedia» della vita di Pavese perché, a bene vedere, fu a causa del fervore antifascista del professore se Pavese si introdusse negli ambienti cospirativi:

Tu, cercando di spiegarti – raccontarti – la «tragedia» di Pavese hai l’aria di dire in sostanza che essa si riduce al fatto di un adolescente cui è stato impossibile diventar uomo. […] Il tuo Pavese a tanto non poté arrivare, perché quando con quel concorso (che certamente avrebbe vinto) stava per metter la mano su quella «maniglia» lo arrestarono e quando lo rimisero in circolazione effettivamente gli avevano tolto i «diritti civili» i mezzi, per usar il tuo linguaggio, di farsi uomo. La colpa è stata dunque del fascismo. Un momento: ma Pavese a metterlo in

34 Ivi, pp. 253-254.

condizione di farsi arrestare a quel modo chi è stato? Mettiti una mano sulla coscienza, se quel Pavese Cesare in quell’ottobre del 1923 l’ammissione invece di farla al D’Azeglio l’avesse fatta, poniamo, a Carmagnola, in altre parole se fra i quindici e i diciotto e i venticinque anni non fosse capitato nelle mani del «livido antifascista» pari tuo, niente, dico niente, gli sarebbe successo35.

Monti, che si assume l’intera responsabilità dell’esistenza tormentata dell’ex allievo, non tiene conto del fatto che dall’iscrizione al D’Azeglio all’arresto siano passati dodici anni e sembra, quindi, voler cristallizzare la persona di Pavese a quella dell’adolescente sofferente ed appassionato, ignorando o comunque non ritenendo importanti tutte le relazioni che il giovane ha intessuto in questi anni, alcune delle quali, per esempio quella con Ginzburg, sicuramente più incisive dal punto di vista dell’impegno civile rispetto a quella con il professore del liceo. Comunque sia, Monti annulla completamente la volontà di Pavese, come se fosse incosciente del pericolo in cui stava incorrendo accettando la direzione de «La Cultura» solo come copertura – perché dotato della tessera fascista – pur sapendo che i gestori effettivi della direzione sarebbero stati Leone Ginzburg, Carlo Levi e altri membri di «Giustizia e Libertà». Pavese era conscio del fatto che non si sarebbe trattato di una posizione di prestigio e che si sarebbe esposto all’oculatezza della polizia e della censura, ma disse di sì perché il favore gli fu chiesto dai suoi amici impegnati, soprattutto da Ginzburg: questa, sostiene Mariani, può essere considerata una forma di impegno, per il bene de «La Cultura» e per la divulgazione delle sue idee doveva necessariamente figurare una personalità come quella di Pavese36. Quando la polizia fascista, grazie all’aiuto della spia Pitigrilli, riuscì

a stabilire la connessione tra i membri di «Giustizia e Libertà» e «La Cultura», arrestò tutti i collaboratori della rivista, incluso Pavese; la condizione di quest’ultimo si aggravò ulteriormente allorché, durante un sopralluogo nella sua abitazione, fu trovata una lettera del pittore comunista Bruno Maffi indirizzata Tina Pizzardo – che aveva intrattenuto una relazione sentimentale con Pavese e al quale aveva chiesto il piacere di ricevere e passarle le missive di Maffi. La situazione per Pavese divenne così talmente critica da essere condannato a tre anni di confino da scontare a Brancaleone Calabro, anche se la pena fu abbreviata a otto mesi. Nonostante tutte queste implicazioni con la politica, Monti continuò a sostenere che Pavese si fosse compromesso a tal punto