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Procedure concorsuali e misure patrimoniali antimafia.

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Academic year: 2021

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INDICE

INTRODUZIONE ... 4

CAPITOLO 1

Fallimento e misure di prevenzione patrimoniali:

Autonomia ed interferenze

1. Presupposti del fallimento ... 7

2. Effetti del fallimento per il fallito ... 12

3. Gli effetti verso i creditori ... 15

4. L’azione revocatoria ... 17

5. Misure di prevenzione patrimoniali: presupposti ... 20

6. Interferenze ... 26

CAPITOLO 2

Quadro legislativo e giurisprudenziale antecedente al

Codice antimafia.

1. Confisca antimafia acquisto a titolo originario o derivativo? ... 28

2. La tutela dei terzi nel caso del sequestro/confisca di prevenzione ... 32

2.1. I terzi titolari di diritto di credito non garantiti da diritti reali ... 35

2.2. I terzi titolari di diritti reali di garanzia ... 37

3. La buona fede del creditore ... 42

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2

5. Il criterio temporale ... 54

6. I progetti di riforma ... 56

CAPITOLO 3

Una

imperfetta

“fallimentarizzazione”

del

procedimento di prevenzione

1. La tutela dei terzi creditori nel codice antimafia ... 60

1.1. La legge di stabilità e l’intervento della Suprema Corte ... 65

2. La sospensione delle procedure esecutive ... 69

3. I rapporti giuridici pendenti ... 70

4. Il limite della garanzia patrimoniale ... 72

5. L’accertamento dei diritti dei terzi ... 74

6. La domanda del creditore ... 76

7. L’udienza di verifica dei crediti ... 79

8. L’opposizione allo stato passivo ... 81

9. La liquidazione dei beni ... 85

10. Il pagamento dei crediti prededucibili ex art. 54 e il piano di pagamento ex art. 61 ... 88

CAPITOLO 4

Rapporti tra procedure concorsuali e misure di

prevenzione patrimoniali

1. Le scelte del Legislatore ... 91

2. Dichiarazione di fallimento successiva al sequestro ... 93

2.1. La legittimazione a proporre l’azione revocatoria ... 98

(3)

3 4. Rapporti tra procedure concorsuali e misure di prevenzione

“minori” ... 104

5. Rapporti tra misure di prevenzione e procedure concorsuali “minori” ... 106

6. Conclusioni ... 106

BIBLIOGRAFIA ... 110

SITOGRAFIA ... 116

(4)

4

INTRODUZIONE

Lo scopo del presente elaborato è quello di fornire una ricognizione esaustiva e completa dei rapporti tra le misure di prevenzione patrimoniali antimafia e le procedure concorsuali, dedicando particolare attenzione alla tutela dei terzi. È opportuno ricordare che le misure patrimoniali furono introdotte nel nostro ordinamento solo nel 1982, con la “Legge Rognoni- La Torre”, poiché lo Stato volle ripristinare la supremazia delle istituzioni statali che era stata intaccata a seguito di alcuni "omicidi eccellenti1”, ed introdusse nel Codice Penale l’art. 416 bis che, per la prima volta nell'esperienza giuridica nazionale, sanzionava l'associazione di tipo mafioso cui riconosceva autonoma rilevanza penale, individuandone sia i metodi operativi, rappresentati dalla forza d'intimidazione del vincolo associativo e dalla condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva, sia i fini specifici, cioè la commissione di delitti, la gestione o il controllo, in modo diretto o indiretto, di attività economiche, concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici, la realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Da questo momento in poi, la mafia viene inquadrata nell'ordinamento come un'associazione, e finalmente non si perseguono più le singole persone o i singoli fatti delittuosi. L’introduzione delle misure di prevenzione patrimoniali portò sin dalle prime applicazioni al sequestro con successiva confisca delle aziende “mafiose”, quindi cominciarono a sorgere problemi di coordinamento tra la legislazione antimafia e quella concorsuale. Nonostante le due procedure si basino su presupposti diversi ed abbiano effetti differenti, come illustrato nel primo capitolo del presente elaborato vi sono dei casi in cui possono sorgere delle interferenze.

1 Si ricordano tra gli altri il capo della Procura di Palermo Gaetano Costa (1980), il

Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella (1980), il prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa (1982) e il promotore della legge stessa, segretario regionale siciliano del P.C.I. e membro della commissione parlamentare antimafia, Pio La Torre (1982).

(5)

5 Il Legislatore per circa 30 anni non intervenne per tutelare i terzi che vantassero diritti sui beni del proposto e tantomeno le possibili interferenze tra il procedimento di prevenzione e il fallimento, l’intera disciplina venne quindi disciplinata in via giurisprudenziale con numerosi contrasti tra sezioni penali e civili e con altrettanto numerosi interventi della Suprema Corte e dei giudici Costituzionali. Nel secondo capitolo vengono quindi ampiamente illustrate le varie teorie giurisprudenziali e dottrinarie che si susseguirono per cercare delle soluzioni ai molteplici problemi che l’applicazione del sequestro e della confisca facevano sorgere. Finalmente nel 2011 il governo in attuazione della delega conferitagli con la Legge 13 agosto 2010, n. 136, emanò con il D.Lgs. 6 Settembre 2011, n.159 il “Codice delle

leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010 n. 136″. Lo scopo di detto

Codice era ed è quello di effettuare una completa ricognizione delle norme antimafia di natura penale, processuale e amministrativa, il Codice si compone di 4 libri: il Libro I dedicato alle misure di prevenzione; il Libro II alla documentazione antimafia; il, Libro III alle attività informative ed investigative nella lotta contro la criminalità organizzata. L’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata; il Libro IV alle modifiche al codice penale e alla legislazione penale complementare. Abrogazioni. Disposizioni transitorie e di coordinamento. Proprio all’interno del Libro I ed in particolare nel titolo IV il Legislatore disciplina “ La

tutela dei terzi e i rapporti con le procedure concorsuali”, recependo

da un lato le soluzioni che la giurisprudenza aveva proposto nei trent’anni precedenti, e introducendo criteri di giudizio per la valutazione della buona fede del terzo, indispensabili per il riconoscimento del suo diritto; dall’altro riprendendo l’attività di accertamento dei diritti dei terzi così come disciplinata nella Legge

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6 fallimentare, creando una sorta di “ imperfetta fallimentarizzazione del

procedimento di prevenzione”. Alla luce di quanto appena esposto, il

terzo capitolo di questo elaborato ha analizzato nel dettagliato le scelte del Legislatore, confrontandole con quanto previsto nella Legge fallimentare ed individuando le eventuali criticità. Infine nell’ultimo capitolo si analizza ciò che è disciplinato nel Capo III del citato Titolo IV, ove il Codice recepisce la teoria privilegiata prima della sua emanazione, e quindi garantisce la preminenza dell’interesse pubblico rispetto alla par condicio creditorum, affermando la prevalenza delle misure di prevenzione patrimoniali nei confronti del fallimento.

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7

CAPITOLO 1

Fallimento e misure di prevenzione patrimoniali:

autonomia ed interferenze

.

SOMMARIO: 1. Presupposti del fallimento. 2. Effetti del fallimento per il fallito. 3. Gli effetti verso i creditori. 4. L’azione revocatoria. 5. Misure di prevenzione patrimoniali: presupposti. 6. Interferenze.

1. Presupposti del fallimento

La legge fallimentare (Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267) stabilisce determinati presupposti di natura soggettiva ed oggettiva in presenza dei quali un’impresa rientra nel campo di applicazione del fallimento. Con riguardo al presupposto soggettivo, è subito possibile escludere dal diritto fallimentare l’imprenditore agricolo.

Le ragioni di questa esclusione sono da attribuire al fattore di rischio ambientale che storicamente e originariamente giustificava questo beneficio. Nella nuova e ampia nozione di imprenditore agricolo contenuta nell’art.2135 c.c., introdotta con la riforma di cui al D. lgs. n. 228/2001, l’inerenza al fondo non costituisce più un elemento essenziale e caratterizzante la categoria dell’impresa agricola. Ciò che contraddistingue oggi la nozione di imprenditore agricolo è, invece, lo sfruttamento di un ciclo biologico di carattere animale o vegetale: è possibile quindi includere in questa categoria l’apicoltura, l’acquacoltura, l’allevamento industriale in batteria ecc. A fronte di una così ampia nozione di imprenditore agricolo, dunque, la sua perdurante esclusione dalla fallibilità non pare condivisibile, derogandosi al principio dell’ordinamento secondo cui l’impresa insolvente deve essere eliminata dal mercato.

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8 Un’altra categoria esclusa dal diritto fallimentare, con riguardo al presupposto soggettivo, è quella del professionista intellettuale disciplinata all’art. 2238 c.c. La ragione della sua esclusione scaturisce dalla prevalenza dell’attività personale rispetto a quella organizzativa. La esclusione dell’imprenditore agricolo e del professionista intellettuale, rende comunque necessaria l’individuazione della nozione di imprenditore di cui all’articolo 2082 c.c., come colui che esercita: “professionalmente”, “un’attività economica organizzata”,

“al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi”. L’articolo

2195 c.c. individua invece le attività proprie dell’imprenditore commerciale: 1. L’attività industriale in senso stretto; 2. L’ attività

commerciale in senso stretto; 3. Alcune attività di servizio non corrispondenti alle prime, come il trasporto, l’attività bancaria e quella assicurativa; 4. Altre attività ausiliare, secondo il criterio elastico di adattamento all’evoluzione della fattispecie: è il caso dell’esercizio di impresa da parte di un agente di commercio, di un mediatore, di un intermediario finanziario; l’attività di estrazione mineraria. La nozione di imprenditore commerciale non coincide

esattamente con la nozione di imprenditore commerciale fallibile, dopo la riforma del 2007, per individuare l’imprenditore commerciale fallibile non è più utilizzabile la definizione di piccolo imprenditore desumibile dall’articolo 2083 c.c., su cui ha fatto leva la dottrina e la giurisprudenza prima della riforma.

In virtù del susseguirsi di una serie di riforme, per poter oggi individuare la categoria dell’imprenditore commerciale fallibile bisogna esaminare l’art. 1 del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 come modificato dal D. lgs. 12 settembre 2007 n.169 il quale, al primo comma, stabilisce la sottoposizione alle disposizioni sul fallimento degli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici, ed al secondo comma stabilisce dei parametri quantitativi ai fini dell’individuazione dell’imprenditore sottoponibile a fallimento.

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9 Si noti che la norma non utilizza volutamente l’espressione piccolo

imprenditore, ma utilizza la nuova terminologia di imprenditori non sottoposti a fallimento. Ciò è reso chiaro se si guarda alla storia

dell’articolo 1 legge fallimentare, che originariamente escludeva i piccoli imprenditori dall’ambito dei soggetti sottoposti a fallimento, perché si riteneva che la procedura fallimentare, in virtù dei suoi costi e della sua complessa organizzazione, apparisse inadeguata alla gestione della crisi delle piccole imprese, in relazione alle quali la tutela e la realizzazione del credito potesse essere effettuata tramite lo strumento dell’esecuzione civile di cui al codice di procedura civile. Ai fini dell’individuazione del piccolo imprenditore venivano poi individuati due parametri, uno di carattere fiscale, l’altro quantitativo. Il primo criterio venne meno già nel 1973 con la riforma tributaria, che abolì l’imposta di ricchezza mobile; il secondo, venne dichiarato incostituzionale nel 1989, ma era già di fatto disapplicato da numerosi tribunali. Poiché l’articolo 2221 c.c. prevedeva che non fossero soggetti al fallimento e al concordato preventivo i piccoli imprenditori, e l’articolo 2083 c.c. rimaneva l’unica norma nel nostro ordinamento che conteneva la nozione di piccolo imprenditore, il criterio ivi indicato, della “prevalenza del lavoro proprio e della propria

famiglia” sul lavoro altrui e sul capitale investito, è stato quindi quello

utilizzato, sino alla riforma del 2006, dai tribunali fallimentari per individuare la soglia minima di fallibilità dell’imprenditore commerciale. Ciò provocò da un lato, una assoluta disomogeneità di comportamenti tra i vari tribunali, a causa della generica formulazione del’articolo 2083 c.c., dall’altro furono dichiarate fallite imprese di piccole dimensioni, fallimenti quindi antieconomici e spesso anche inutili. Si rese quindi necessaria una riforma che permettesse di sganciare definitivamente i presupposti di fallibilità dall’articolo 2083c.c., dettando criteri certi, omogenei e di facile applicabilità.

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10 Ed infatti grazie alla riforma del 2007 il legislatore riuscì a dettare una disciplina che risolvesse ogni dubbio, dettando tre nuovi requisiti dimensionali, in presenza dei quali si è esenti dal fallimento:

a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila;

b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila;

c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.

Si noti che l’art. 1 prevede una inversione dell’onere della prova a carico dell’imprenditore che sia stato oggetto di una richiesta di fallimento; è infatti quest’ultimo, e non il ricorrente o il pm, a dover provare di non aver superato nessuno dei tre requisiti previsti dall’art.1 della legge fallimentare.

Oltre ad un presupposto soggettivo, coincidente con la qualità di imprenditore commerciale, per la dichiarazione di fallimento è richiesto un presupposto oggettivo che consiste nello stato di insolvenza del medesimo.

In realtà si può osservare come la nozione di insolvenza che il diritto assume non ha una unitaria accezione, poiché dalle regole positive è possibile desumerne una duplice: quella di insolvenza vera e propria e quella generica di crisi dell’impresa. In virtù dell’art. 5, 2°comma, legge fallimentare, l’imprenditore versa in stato di insolvenza in caso di: “inadempimenti od altri fatti esteriori ,i quali

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11

dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.

Secondo il prevalente orientamento dottrinale, l’insolvenza consiste nello stato d’impotenza patrimoniale al regolare adempimento delle proprie obbligazioni, da non intendere come un inadempimento isolato (tranne che questo si manifesti con un peculiare carattere di esteriorità che, in modo non equivoco, dimostri l’esistenza di un patrimonio in dissesto), ma come condizione particolare dell’imprenditore commerciale che metta in risalto una generale incapacità di adempiere alle sue obbligazioni2. Il legislatore nel già menzionato art. 5, 2° comma, utilizza il termine regolarmente con riferimento al soddisfacimento delle obbligazioni del debitore. Costituisce ad esempio adempimento irregolare la datio in solutum: nel caso di specie, in particolare, l’imprenditore fa fronte al proprio debito attraverso mezzi anormali, quali appunto la cessione di beni, e non già attraverso gli ordinari mezzi di pagamento (ad es. denaro o titoli di credito). Quanto ai fatti esteriori, essi sono indicati dal legislatore come alternativi alla illiquidità poiché la crisi dell’impresa può manifestarsi anche attraverso altri fatti, come ad esempio la fuga dell’imprenditore, il trafugamento o la sostituzione o diminuzione fraudolenta dell’attivo e la chiusura dei locali dell’impresa.

Il concetto più generale di crisi dell’impresa, invece, si ricava dall’art. 160, 1°comma, legge fallimentare. Esso consiste in una situazione generale di difficoltà economica o finanziaria che comprende anche l’insolvenza, come precisato dall’ultimo comma del citato articolo. Si noti, quindi, che i concetti di “crisi dell’impresa” e “stato di insolvenza” si pongono fra loro in rapporto di genere a specie, poiché rientra nel primo non solo l’insolvenza in senso stretto

2 Così FERRARA-BORGIOLI, Il fallimento, Milano, 1995, p. 139 ss.; DE SEMO, Diritto fallimentare, Padova, 1964, p. 127 ss. In senso contrario, distinguendo tra

insolvenza “manifesta” e “presunta”, v. PROVINCIALI, in Trattato di diritto

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12 ma anche altre vicende cui può essere soggetta l’impresa, quali lo sbilancio patrimoniale per la prevalenza evidente del passivo sull’attivo e, come sostenuto da una parte della dottrina, ogni fenomeno di malessere economico-finanziario dell’imprenditore3.

2. Effetti del fallimento per il fallito

La dichiarazione di fallimento produce molteplici effetti nei confronti del fallito: da una parte costui viene privato dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni presenti e futuri, tali facoltà essendo trasferite agli organi della procedura ed in particolare al curatore che diviene amministratore del patrimonio fallimentare; dall’altra si tiene il fallito a disposizione della procedura, per quanto possa esser utile ai vari organi.

Analizzando gli effetti patrimoniali, il primo comma dell’art. 42 legge fallimentare stabilisce che “ la sentenza che dichiara il fallimento,

priva dalla sua data il fallito dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione del fallimento”

Il fenomeno delineato dalla norma in esame viene comunemente indicato come spossessamento del fallito, finalizzato da un lato ad evitare che il fallito possa depauperare il suo patrimonio, dall’altro a consentire agli organi della procedura la gestione e l’eventuale alienazione del patrimonio nell’interesse del ceto creditorio.

È opportuno sottolineare come il fenomeno dello spossessamento sia strettamente legato alla svolgimento della procedura fallimentare. Il fallito, infatti, non perde la proprietà dei beni bensì la loro

disponibilità così, qualora il fallimento si chiuda con un esubero di

attivo, esso deve essere restituito all’imprenditore. Lo spossessamento,

3

SANDULLI, La riforma della legge fallimentare, in Commentario Nigro Sandulli, II, Torino, 2006, p. 983.

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13 opera anche nei confronti dei beni di terzi che si trovano nella disponibilità del fallito, i quali possono essere aggrediti, salvo la facoltà dei terzi di esercitare la rivendica; inoltre opera nei confronti dei beni di cui il debitore ne è in possesso a titolo precario al momento della dichiarazione di fallimento. Nei confronti di tali beni gli organi della procedura non acquisiscono il potere di procedere alla loro liquidazione, poiché tale potere non spettava nemmeno al debitore, potendo i legittimi proprietari chiederne la restituzione o la rivendica nei termini e nelle forme previste dall’art. 103 l. fall., oppure, qualora ne ricorrano i presupposti, secondo la procedura semplificata ex art.87 bis, comma 1 l. fall.4

Lo spossessamento, come già anticipato, colpisce sia i beni presenti che quelli futuri, cioè quelli che pervengono al fallito nelle more della procedura siano essi a titolo gratuito od oneroso5.

A tutela dello spossessamento, ed onde evitare che il fallito possa disperdere il proprio patrimonio ormai divenuto oggetto del vincolo fallimentare, il legislatore all’articolo 44, comma. 1, legge fallimentare, stabilisce che “ tutti gli atti compiuti dal fallito e i

pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori”. Ne consegue che tutti gli atti compiuti

dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento sono validi e vincolano lo stesso, ma sono inefficaci rispetto alla massa dei creditori se hanno per oggetto beni e diritti ricompresi nello spossamento. Sono altresì inefficaci i pagamenti eseguiti dal fallito e da lui ricevuti dopo la dichiarazione di fallimento, con la conseguenza che il terzo anche se in

4

v. A. NIGRO, D. VATTERMOLI, Diritto della crisi delle imprese, il Mulino, Bologna, 2012

5

Per i beni sopravvenuti vanno però dedotte le passività incontrate per l’acquisto e la conservazione degli stessi, considerando anche il fatto che tali passività vanno pagate in prededuzione, e potrebbero rendere inconveniente l’avocazione alla massa di tali beni. Infatti il legislatore stabilisce che il curatore fallimentare, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può rinunciare ad acquisire i beni sopravvenuti qualora “ i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro

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14 buona fede6 sarà costretto a ripetere l’adempimento in favore della curatela. V sottolineato che l’articolo 44 legge allimentare, non opera in relazione ad atti e pagamenti connessi ai beni esclusi dallo spossamento e di cui all’articolo 46 legge fallimentare7

.

Il fallimento oltre a produrre degli effetti patrimoniali, produce effetti che colpiscono la persona del fallito, aventi da un lato lo scopo di agevolare lo svolgimento della procedura, dall’altro uno scopo tipicamente sanzionatorio. È opportuno precisare che la disciplina risultante dalla riforma del 2006 ha fortemente attenuato gli aspetti sanzionatori. Restano quindi in vigore gli obblighi finalizzati allo svolgimento della procedura che si sostanziano in doveri di collaborazione del fallito con gli organi della procedura, in particolare l’art. 48 l. fall. prevede l’obbligo del fallito persona fisica di consegnare al curatore la propria corrispondenza di ogni genere, inclusa quella elettronica, riguardante i rapporti compresi nel fallimento. Il Legislatore ha previsto come sanzione all’inadempimento di tale obbligo l’impossibilità del fallito di avvalersi del beneficio dell’esdebitazione come previsto dall’art. 142, comma 1, n. 3 l. fall. Un discorso diverso va fatto nel caso in cui il fallito non sia una persona fisica, ma un soggetto collettivo, poiché si ritiene che per tali soggetti la corrispondenza non possa mai avere carattere personale, ciò giustifica la previsione secondo cui la corrispondenza debba essere consegnata direttamente nelle mani del

6

CECCHELLA, Il diritto fallimentare riformato, Il Sole 24 ore S.p.A., 2007 p.204 la riforma del 2006 ha dato maggiore attenzione alla tutela del terzo, l’art. 17, legge fallimentare ha diversificato il momento in cui si perfeziona l’effetto del fallimento per i terzi, rispetto al fallito. I pagamenti ricevuti da terzi o i pagamenti effettuati da terzi dopo il deposito della sentenza ma prima della sua trascrizione, liberano e sono legittimamente ricevuti se il terzo è in buona fede.

7 L’articolo 46 legge fallimentare indica una serie di beni, esclusi in maniera assoluta

o relativa dallo spossessamento. Scopo della disciplina è quello di garantire il sostentamento del fallito e della sua famiglia, nonché il rispetto della sua sfera intima: i beni e i diritti di natura strettamente personale, i beni impignorabili, assegni a carattere alimentare, stipendi, pensioni, salari e ciò che il fallito guadagna con la sua attività entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della sua famiglia.

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15 curatore. Tra gli obblighi aventi lo scopo di agevolare la procedura vi rientra inoltre l’art. 49 l. fall. che pone in capo al fallito l’obbligo di comparire dinanzi al giudice delegato se occorrono informazioni o chiarimenti, inoltre al primo comma del citato articolo pone l’obbligo di comunicare al curatore ogni cambiamento della propria residenza o del proprio domicilio, una previsione più “duttile8” rispetto a quanto

previsto prima della riforma del 2006.

Con riguardo a quelle norme che hanno natura meramente sanzionatoria, numerose ipotesi di incapacità sono sparse in vari testi normativi, si pensi all’incapacità a svolgere la funzione di revisore contabile, ex art. 2409 bis c.c., o ancora all’incapacità a svolgere funzioni di amministratore, ex art. 2382 c.c., ecc.

3. Gli effetti verso i creditori

Il fallimento produce effetti particolari, non solo nei confronti del debitore, ma anche verso i creditori. Scopo principale della procedura concorsuale è soddisfare, secondo il principio della parità di trattamento, tutti coloro che sono creditori del fallito in ragione dell’entità dei loro crediti e delle garanzie che li assistono.

L’articolo 52 legge fallimentare dispone che “il fallimento apre il

concorso dei creditori sul patrimonio del fallito”.

Con la dichiarazione di fallimento i creditori del fallito diventano creditori concorsuali, quindi non hanno più la possibilità di porre in essere una tutela individuale del credito, ma si da luogo ad una tutela collettiva realizzata dagli organi della procedura, sull’intero patrimonio del fallito, secondo i principi dell’universalità e della concorsualità. I creditori concorsuali acquistano il diritto di partecipare alla ripartizione dell’attivo fallimentare solo dopo aver presentato domanda di

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16 ammissione al passivo ex articolo 93ss. Legge fallimentare, in virtù dell’insinuazione diventano creditori concorrenti. Va quindi considerata improponibile la domanda di partecipazione al passivo proposta in via ordinaria, cioè con forme ed in sedi diverse da quelle rigorosamente prescritte dagli art. 93ss, pertanto a differenza delle esecuzione singolare, ove il creditore partecipa al riparto solo perché afferma di essere tale e allega il titolo che consente una tutela esecutiva, nel diritto concorsuale il creditore deve previamente ottenere nell’apposito processo di cognizione camerale l’accertamento del suo diritto: solo così potrà esercitare i diritti che sono attribuiti nella procedura al creditore9. Alla procedura dell’accertamento del passivo sono sottoposti tutti i creditori concorrenti, che comunque non sono posti sullo stesso piano, poiché la dichiarazione di fallimento non fa venir meno le cause legittime di prelazione precedentemente acquisite. Tuttavia, per ragioni di opportunità e celerità, in casi particolari, i crediti prededucibili possono essere soddisfatti senza la previa insinuazione o collocamento nel piano di riparto. È opportuno quindi la distinzione fra creditori chirografari e creditori privilegiati. Il principio della par condicio creditorum non incide sui diritti specifici dei creditori privilegiati, il legislatore ha infatti previsto all’articolo 54 legge fallimentare, che in sede di riparto quest’ultimi sono preferiti agli altri in relazione al ricavato del bene sul quale vantano la causa di prelazione, la preferenza opera solo in relazione al bene oggetto di prelazione, e nei limiti del ricavato ottenuto da questo, per l’eventuale eccedenza del credito sono trattati come i creditori chirografari, quest’ultimi infatti partecipano alla ripartizione dell’attivo fallimentare non gravato da vincoli, in proporzione del loro credito e sono quindi soddisfatti tutti nella stessa misura percentuale.

I creditori privilegiati, a differenza dei chirografari, hanno diritto a far valere i loro crediti per il capitale, gli interessi e le spese.

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17 È facile intuire dalla disciplina del fallimento che i creditori concorsuali possono insinuarsi nel fallimento, proprio perché in possesso di titolo antecedente alla dichiarazione, i creditori il cui titolo sia sorto dopo la dichiarazione non hanno tale possibilità. Può tuttavia verificarsi, l’ipotesi in cui dopo la dichiarazione di fallimento vi siano dei nuovi creditori che vantino delle pretese non nei confronti del fallito bensì della procedura fallimentare. Coloro vengono definiti

creditori della massa e i loro crediti devono essere soddisfatti in

prededuzione, cioè prima dei creditori concorrenti.

4. L’azione revocatoria

Normalmente intercorre un certo intervallo di tempo fra il momento in cui si manifesta lo stato di insolvenza e quello in cui il fallimento è dichiarato. È probabile, che in tale lasso di tempo, l’imprenditore per cercare di far fronte alla crisi o di mascherarla, abbia compiuto una serie di atti di disposizione che alterano l’integrità del proprio patrimonio e arrecano pregiudizio ai creditori. Intervenuto il fallimento vi è l’esigenza di tutelare la massa dei creditori contro tali atti neutralizzando il pregiudizio loro arrecato.

Il problema in realtà si presenta non solo nell’ambito fallimentare, ma sorge ogni qualvolta il debitore sottrae beni al suo patrimonio con pregiudizio dei propri creditori. Se il rapporto obbligatorio si colloca nel contesto di una relazione tra privati non imprenditori, oppure corre con un imprenditore non insolvente, il singolo creditore può attivarsi ed ottenere dal giudice che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione con i quali il debitore reca pregiudizio alle sue ragioni e quindi soddisfarsi sui relativi beni, come se non fossero mai usciti dal patrimonio del debitore (azione revocatoria ordinaria art. 2901, c.c.). Quando invece trova applicazione il diritto concorsuale,

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18 ovvero il rapporto corre con un imprenditore insolvente, il principio della par condicio esige che l’azione revocatoria venga esercitata dal curatore, affinché le conseguenze dell’insolvenza si ripartiscano in maniera proporzionale sull’intero ceto creditorio.

Si è già messo in rilievo come il pregiudizio alla garanzia patrimoniale mediante sua alterazione quantitativa o qualitativa, costituisca il presupposto oggettivo e quindi l’elemento costitutivo dell’azione revocatoria ordinaria, dobbiamo però precisare che esiste anche un presupposto soggettivo, in capo al debitore: il dolo generico nel caso di un atto perfezionato quando il credito è già insorto; il dolo specifico nel caso di atto che precede il sorgere del credito. L’azione revocatoria fallimentare si fonda invece su elementi costitutivi differenti, in quanto sono irrilevanti sia il pregiudizio alla garanzia patrimoniale, sia lo stato soggettivo del debitore o del terzo contraente, mentre assumono rilevanza tutti gli atti che ledono la par condicio, di conseguenza qualsiasi atto di disposizione compiuto durante il periodo di insolvenza dell’imprenditore si ritiene sia idoneo a ledere quest’ultima. Tuttavia non è facile individuare il momento esatto in cui l’impresa entra in stato di insolvenza e come già detto la dichiarazione di fallimento può intervenire molto dopo il configurarsi della stessa, per questa ragione il legislatore ha preferito, per esigenze di certezza, individuare in modo preciso i periodi sospetti, ovvero i periodi nei quali con presunzione

iuris et de iure è ritenuta sussistere l’insolvenza dell’imprenditore. In

funzione della tipologia degli atti e quindi della diversa intensità lesiva della par condicio, gli artt. 64, 65 legge fallimentare stabiliscono un periodo sospetto di due anni per gli atti a titolo gratuito e i pagamenti di debiti non scaduti; mentre l’articolo 67, comma 1, prevede un anno per gli atti a titolo oneroso caratterizzati da una notevole sproporzione fra la prestazione a carico del fallito e quella a carico della controparte, per i pagamenti con mezzi anormali e per la costituzione di garanzie per debiti preesistenti , e al comma 2 il periodo di sei mesi per i c.d.

(19)

19 atti normali quali pagamenti di debiti scaduti10, costituzione di garanzie per debiti contestualmente creati. Il dies a quo dal quale è calcolabile a ritroso il termine, muove dalla sentenza dichiaratrice di fallimento, nel caso di consecuzioni di procedure concorsuali, secondo la giurisprudenza corrente, dal primo atto di ammissione della procedura che ha preceduto il concordato. L’art. 69 bis, introdotto con il d. lgs. n. 5/2006, prevede un duplice termine decadenziale per l’esercizio dell’azione revocatoria: un termine di tre anni, con decorrenza dalla dichiarazione di fallimento, ed uno di cinque anni, che invece decorre dal compimento dell’atto.

Se il compimento dell’atto durante il periodo di insolvenza è il presupposto oggettivo dell’azione revocatoria fallimentare, quello soggettivo si riferisce alla conoscenza o meno da parte del terzo contraente della condizione di insolvenza in cui si trovava l’imprenditore, mentre la consapevolezza del pregiudizio da parte del fallito è in re ipsa e nasce dalla coscienza dell’insolvenza che l’imprenditore non può non avere.

L’onere della prova nell’azione revocatoria fallimentare è a carico del curatore, che però indubbiamente si trova in una posizione agevolata sotto un duplice profilo in quanto: la prova del compimento dell’atto durante l’insolvenza è facilitata dalla presunzione iuris et de iure del periodo sospetto ex lege; la prova dell’elemento soggettivo gode in alcuni casi della presunzione iuris et de iure (atti a titolo gratuito), per altri atti c.d. anormali, la legge presuppone lo stato di insolvenza, imponendo al creditore o al terzo contraente l’onere di provare la mancanza della scientia decoctionis, infine per i c.d. atti normali l’onere di provare la scientia decoctionis grava sul curatore.

10 Si ritiene che la revocatoria è esperibile anche se il fallito fu costretto a pagare in

via di esecuzione coattiva, si veda, MONTANARI, Profili della revocatoria

fallimentare dei pagamenti, Milano, 1984, p. 86 ss; Cassazione 26 febbraio 1994, n.

1968, in Giurisprudenza commerciale, 1995, II, 353; ma in senso contrario, VISALLI, in Rivista diritto civile, 1997, II, 257

(20)

20 5

Misure di prevenzione patrimoniali: presupposti

L’ordinamento giuridico italiano, a partire dal secondo dopoguerra, ha visto il susseguirsi di una serie di provvedimenti legislativi, volti a contrastare il fenomeno della criminalità organizzata. In generale, la legislazione antimafia è caratterizzata dal fatto di essere qualificata come una legislazione di emergenza, intervenuta sempre a seguito del verificarsi di fatti di sangue che ne hanno resa necessaria l’emanazione. Il fenomeno criminale mafioso a partire dagli anni ‘70 ha subito un mutamento, poiché una serie di attività illegali come i sequestri di persona, il gioco d’azzardo, la produzione e il commercio internazionale di sostanze stupefacenti hanno messo nelle mani dei malavitosi ingenti capitali11. Queste notevoli risorse iniziano ad essere reinvestite nel circuito dell’economia legale: vengono acquisiti alberghi, supermercati, terreni non solo nel sud del paese ma anche nelle altre regioni d’Italia. Le aziende “mafiose” iniziano a crescere, creano strutture economiche sempre più imponenti, a discapito degli onesti industriali, stringono legami con il mondo degli affari12. Fondamentale importanza assume il rapporto con il sistema bancario, che viene utilizzato per riciclare i soldi sporchi nascondendone l’illecita provenienza. Le operazioni di pulitura del denaro hanno assunto un carattere sempre più sofisticato ed il supporto dei c.d. colletti bianchi si è rivelato fondamentale, il tutto al fine di accrescere il proprio potere non solo per ragioni di espansione economica ma anche per riuscire a manovrare le scelte politiche del Paese13. Le imprese mafiose godono dell’indubbio vantaggio della continua

11 P. ARLACCHI, La mafia imprenditrice: l’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo,

Bologna, 1983, p. 121

12

P. MARTUCCI, La criminalità economica: una guida per capire, Bari, 2006, p. 74.

13

7 L. LA GRECA, Il riciclaggio dei proventi delle associazioni mafiose, in Cass. pen., 2010, VII-VIII, p. 2686

(21)

21 disponibilità di risorse finanziarie derivanti dalle attività illecite, riescono a scoraggiare la concorrenza con l’utilizzo dei metodi mafiosi e nei confronti dei propri dipendenti praticano compressioni salariali. Un insieme di fattori che le rende “padrone” e vincenti sul mercato legale e che consente di accumulare ingenti quantitativi di denaro liquido e di immobili. Cosicché, se davvero si vuole sconfiggere l’organizzazione mafiosa, non sono più sufficienti le misure di prevenzione personale, dirette a colpire esclusivamente la libertà personale degli affiliati, ma è necessario puntare dritti sui patrimoni, la mafia va colpita nel portafoglio14.

Il legislatore con il Decreto legislativo n. 159/2011, con cui è stato emanato il“Codice delle leggi antimafia e delle misure di

prevenzione”, ha in sostanza riprodotto le disposizioni previgenti

sull’applicabilità delle misure di prevenzione personali e patrimoniali prima disperse in diverse leggi ( nn.1423/56, 152/75, 575/65, 646/82 ). In particolare il libro 1 è suddiviso nel titolo 1 per le misure personali e nel titolo 2 per quelle patrimoniali; le personali sono state a loro volta suddivise in quelle applicate dall’autorità giudiziaria e quelle applicate dal questore; l’applicabilità di quelle patrimoniali è stata estesa a tutte le categorie di pericolosi cui possono essere applicate quelle personali. Ed infatti l’art. 16, d.lgs. n. 159/2011, nell’individuare i soggetti destinatari della misura di prevenzione patrimoniale rimanda a tutti i casi previsti dall’art. 4, d.lgs. n. 159/2011, che per l’applicazione di una misura di prevenzione personale richiede diverse condizioni di tipo soggettivo e menziona alla lettera c) i soggetti di cui all’articolo 1 ossia, in particolar modo: “a) coloro che debbano ritenersi, sulla base

di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi; b) coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; c) coloro che per il loro comportamento

(22)

22

debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”, si possono ricomprendere queste condizioni nella categoria

delle fattispecie di pericolosità generica. Il sopra citato articolo 4, alle lettere a) e b) del comma 1, prevede l’applicazione delle misure di prevenzione per delle fattispecie di pericolosità qualificata connesse alla criminalità organizzata: a) i soggetti indiziati di appartenere alle

associazioni di tipo mafioso, di cui all’art. 416-bis c.p.; b) i soggetti indiziati di uno dei reati rientranti nella competenza della Direzione Distrettuale Antimafia, secondo la previsione dell’ art. 51, comma 3-bis, c.p.p. Sono previste inoltre alle lettere d), e), f), g), b), fattispecie

di pericolosità connesse al terrorismo, mentre alla lettera i) una fattispecie di pericolosità connessa alla violenza in occasione di manifestazioni sportive. É necessario inoltre che sussista un ulteriore requisito quale la pericolosità sociale del soggetto da accertare in una valutazione globale dell’intera personalità del soggetto con riguardo all’intera sua condotta e in un accertamento in relazione alla persistenza nel tempo di un comportamento illecito e antisociale, tale da rendere necessaria una particolare vigilanza da parte degli organi di pubblica sicurezza15. La pericolosità deve inoltre essere attuale, quindi concreta e specifica e non meramente potenziale, ed essere desunta da particolari comportamenti, sussistenti nel momento in cui la misura di prevenzione deve essere adottata. In virtù dell’art. 18 d.lgs. n. 159/11 e come già sostenuto dal prevalente orientamento della Suprema Corte è ormai possibile applicare la misura di prevenzione patrimoniale pur in mancanza di una pericolosità attuale, fermo restando che in questo caso occorre accertare incidentalmente che la pericolosità a una certa data esisteva16.

15

Cassazione Penale sezione 1; 5 maggio 1999, n. 3426

16

Cassazione penale sezione 1; 13 gennaio 2011, n. 18327; Contra, nel senso che occorre che vi sia correlazione temporale tra la pericolosità e l'acquisto dei beni,

(23)

23 Inoltre ai sensi del sopra citato art. 18 d.lgs. n. 159/11, che recepisce quanto già stabilito dal legislatore nella Legge n. 94 del 2009, la misura patrimoniale può essere applicata anche disgiuntamente e quindi indipendentemente dalla misura personale, in ogni ipotesi in cui, pur in presenza di persona pericolosa o che è stata pericolosa, non può farsi luogo alla misura personale ovvero questa non sia più in atto.17

L’applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale, richiede oltre ai già elencati presupposti di carattere soggettivo, la ricorrenza di presupposti di carattere oggettivo, nello specifico gli artt. 19, 20, 24, 26, richiamano: la disponibilità diretta o indiretta in capo al proposto: il concetto di disponibilità indica la signoria sulla cosa da un punto di vista effettivo e non formale, vale a dire la possibilità per il soggetto di determinare la destinazione o l’impiego del bene18

. In caso di disponibilità diretta, il proposto è titolare del bene e quindi la prova è agevole, nel caso di disponibilità indiretta, bisogna provare, che al di là della formale intestazione del bene, il proposto ne risulti essere l’effettivo dominus, desumendo ciò anche da forme di intestazione fittizia a terzi attraverso contratto simulato o fiduciario.

non essendo sufficiente la sussistenza di indizi di carattere personale

sull'appartenenza del soggetto ad una associazione di tipo mafioso, implicante una latente e permanente pericolosità sociale, con la conseguenza che è illegittima la confisca disposta su cespiti acquisiti in epoca non riconducibile a quella

dell'accertata pericolosità, v. Sez. V, 23 marzo 2007, n. 18822, Cangialosi, ivi, n. 236920; Sez. V, 13 giugno 2006, n. 24778, Cosoleto, ivi, n. 234733

17 Cass; 13 gennaio 2011, n. 5361: “ la Legge n. 94 del 2009 ha fatto venire meno la

regola generale della accessorietà delle misure patrimoniali al procedimento applicativo delle misure di prevenzione di natura personale e ha spezzato definitivamente il nesso di necessaria presupposizione tra i due tipi di misura, già peraltro oggetto di riflessione critica da parte della giurisprudenza di legittimità e dalla Corte Costituzionale (Sez. 2^, 14 febbraio 1997, n. 12541; Sez. Un. 17 luglio 1996, n. 18; Sez. 2^, 13 novembre 1997, n. 6379; Sez. 1^, 24 novembre 1998, n. 5830). La nuova regola è quindi, quella dell’autonomia tra misure di prevenzione personali e reali; il procedimento di prevenzione patrimoniale può, pertanto, essere avviato a prescindere di qualsiasi proposta relativa all’adozione di misure di

prevenzione personale.”

18

Così G. ABBATTISTA, I profili funzionali e gli standards probatori nei moduli

ablativi prevenzionali dopo l’emanazione del “Codice Antimafia”, Incontro di studio

(24)

24 La giurisprudenza ha sottolineato la distinzione dettata dal legislatore tra terzi intestatari estranei, i cosiddetti prestanome, e terzi che abbiano vincoli di parentela o convivenza con il proposto, che, ai sensi dell’art. 19, comma 3, d.lgs. n. 159/11, impone indagini patrimoniali: coniugi figli e coloro che nell’ultimo quinquennio hanno convissuto con il proposto. Nei confronti di questi ultimi opera una presunzione

iuris tantum di disponibilità indiretta dei beni, che può essere superata

solo dalla prova contraria fornita dagli interessati. L’esistenza di stretti vincoli familiari o di convivenza nell’ultimo quinquennio lascia, dunque, ragionevolmente ritenere che il proposto sia in grado di esercitare la signoria di fatto su beni solo formalmente intestati a individui sottoposti alla sua soggezione. Rilievo importante assume l’art. 26 d.lgs. n. 159/2011 in quanto prevede che, ove venga accertato che taluni beni siano stati fittiziamente intestati o trasferiti a terzi, il giudice con il provvedimento che dispone la confisca, dichiara la nullità dei relativi atti di diposizione. La medesima norma contempla un’ulteriore presunzione iuris tantum, sia pure temporalmente delimitata. Si tratta della presunzione di simulazione dei trasferimenti e delle intestazioni, anche a titolo oneroso, effettuati nei due anni antecedenti la proposta della misura di prevenzione nei confronti dell’ascendente, del discendente, del coniuge o della persona stabilmente convivente, nonché dei parenti entro il sesto grado e degli affini entro il quarto grado ovvero dei trasferimenti e delle intestazioni, a titolo gratuito o fiduciario, che siano stati effettuati nei due anni antecedenti la stessa proposta, con possibilità di caducazione dell’atto. Simile innovazione normativa, introdotta con il “Pacchetto Sicurezza” del 2008, disciplina, di fatto, una sorta di azione revocatoria, anche se gli effetti conseguenti alla similarità dei presupposti sono decisamente differenti, legittimandosi nell’un caso un’azione in revoca e, nell’altro, un’azione di nullità tout court dell’atto dispositivo, assolutamente ignota in precedenza nella materia delle misure di prevenzione

(25)

25 patrimoniali19. Ulteriore presupposto richiamato dalle norme in esame è: l’esistenza di sufficienti indizi, in particolare la sproporzione tra il valore dei beni ed i redditi dichiarati o l’attività svolta, tali da far

ritenere che tali beni siano frutto di attività illecita o ne costituiscano il reimpiego. Il proposto, per paralizzare l’iniziativa ablativa, deve

fornire la giustificazione della legittima provenienza dei beni. È necessario quindi mettere a confronto due elementi, da un lato il valore del singolo bene, dall’altro il reddito dichiarato o l’attività economica svolta, da rapportare al periodo temporale di acquisizione del bene, onde accertare la legittimità di ogni singolo acquisto operato dal proposto. Sul tema la Suprema Corte ha sottolineato che : “ Quanto al

metodo da applicare nella rilevazione della sproporzione tra il valore dei beni nella disponibilità, diretta o indiretta, del proposto e i redditi dichiarati o l’attività economica svolta, questa Corte ha precisato che non è sufficiente un raffronto globale tra il patrimonio ed il reddito formalmente disponibile, ma è necessario procedere all’accertamento per ogni singolo bene inserito nel patrimonio comparando, al momento dell’acquisizione, il reddito ufficialmente disponibile con l’incremento patrimoniale determinato dall’acquisto del bene20” .

Il riferimento nel d.lgs. n. 159/2011 a beni che siano frutto di attività

illecita o ne costituiscano il reimpiego, allude chiaramente a fenomeni

di riciclaggio o di cosiddetto auto riciclaggio, successivi all’acquisizione del bene. Tra i frutti suscettibili di confisca rientrano sia le cose che vengono create, trasformate o acquisite attraverso il reato, sia le eventuali utilità economiche conseguite per effetto della consumazione della condotta tipica. La nozione di reimpiego fa invece riferimento ad ogni forma di utilizzazione ovvero di investimento in attività economiche o finanziarie dei beni di provenienza illecita.

19

G. CAPECCHI, F. BRIZZI, G. FICHERA, Misure di prevenzione patrimoniali e tutela

dei terzi, Giappichelli editore., Torino, 2013. 20 Cassazione Penale, Sezione 1, 5 luglio 2012

(26)

26 6.

Interferenze

Dopo aver esaminato i presupposti e gli effetti che caratterizzano da un lato la procedura fallimentare, e dall’altro le misure di prevenzione patrimoniale, sembra chiaro che mentre il fallimento è caratterizzato indubbiamente dalla universalità e dalla qualità di imprenditore commerciale del soggetto che vi è sottoposto, la misura di prevenzione invece prescinde sia dal concorso attivo, sia dalla natura di imprenditore commerciale del proposto. Il fallimento si occupa di imprese commerciali, paralizzando la sua attività e assoggettando al vincolo dell’ indisponibilità tutto il patrimonio dell’imprenditore, nel quale ovviamente si ricomprendono non solo beni, ma anche rapporti giuridici, ancorchè aventi ad oggetto beni, eliminando l’impresa stessa dal mercato se la crisi che la colpisce è insanabile, e ripartendo in virtù del già citato principio della par condicio creditorum,

proporzionalmente presso tutti i creditori le conseguenze dell’insolvenza. Le misure di prevenzione patrimoniale hanno invece lo scopo di sottrarre al circuito mafioso beni materiali e risorse finanziarie destinate a sorreggere ed alimentare un vero e proprio sistema di attività illecite e inquinanti, inoltre mediante la confisca e in base a quanto stabilito dall’art. 24. D.lgs. 159/2011 si trasferisce allo Stato la proprietà del bene confiscato, così da poter conservare la capacità produttiva e reddituale dei beni stessi.

È ovvio quindi che quando la misura di prevenzione colpisce un soggetto che non ha la qualità di imprenditore commerciale, e di conseguenza non sottoponibile alla procedura fallimentare, oppure quando il sequestro e la confisca hanno ad oggetto un bene che non è nella titolarità formale del fallito e quindi non rientra nella massa attiva del fallimento, non si pone il problema di un eventuale concorso delle due procedure. Vi sono però delle ipotesi in cui il soggetto destinatario della misura di prevenzione è anche un imprenditore commerciale, e

(27)

27 che venga colpito da sequestro e confisca un bene di proprietà del fallito e acquisito alla massa attiva fallimentare. In questi casi sorge l’esigenza di un coordinamento tra le due procedure e tra i relativi organi.

(28)

28

CAPITOLO 2

Quadro legislativo e giurisprudenziale antecedente al

codice antimafia

SOMMARIO: 1. Confisca antimafia acquisto a titolo originario o derivativo? 2. La tutela dei terzi nel caso del sequestro/confisca antimafia. 2.1. I terzi titolari di diritto di credito non garantiti da diritti reali. 2.2. I terzi titolari di diritti reali di garanzia. 3. La buona fede del creditore. 4. Prevalenza della misura di prevenzione rispetto al fallimento. 5. Il criterio temporale. 6. I progetti di riforma.

1. Confisca antimafia acquisto a titolo originario o

derivativo?

Il sequestro e l’eventuale successiva confisca disciplinati dall’ articolo 2 ter della Legge n° 575/65, modificato dalla legge n° 646/82, trovavano discordi conclusioni sulla loro natura giuridica, sia in dottrina che in giurisprudenza. Se da un lato era concorde l’affermazione della funzione prodromica del sequestro alla successiva eventuale confisca dei beni sottoposti alla misura21, non parimenti univoca era la conseguenza di tale funzione sull’inquadramento giuridico dell’istituto.

I giudici nei tribunali civili tendevano ad escludere che l’acquisto del bene confiscato in capo allo Stato avvenisse a titolo originario; e ciò sulla considerazione che quando il diritto del prevenuto fosse ridotto e compresso dai diritti che terzi potessero vantare sulla cosa, fosse sufficiente privare il prevenuto dei residui diritti che egli avesse sul

21 A. RUGGIERO, Amministrazione dei beni sequestrati o confiscati, in Quaderni del C.S.M., 1988 p.41, parifica il sequestro di prevenzione al sequestro giudiziario civile

perché in entrambi i casi gli strumenti giuridici hanno la finalità precipua di privare temporaneamente un soggetto del possesso di determinati beni, in attesa di accertare a chi spetti la titolarità o il possesso degli stessi.

(29)

29 bene confiscato senza necessità di sacrificare anche i diritti che sulla cosa avessero i terzi, la cui tutela trovava dunque una particolare giustificazione nella inutilità del sacrificio dei loro diritti sulla cosa per il perseguimento dei fini propri della confisca. Tale tesi era stata elaborata per la prima volta dalla Suprema Corte nel 1962, dove stabilì

che la presunzione di pericolosità che giustifica la confisca trovava fondamento non nella pericolosità della cosa ma nella relazione con il soggetto ed in tali limiti doveva essere contenuta. Il principio

fu ribadito dalla stessa Corte nel procedimento contro Greco Michele e venne precisato che “ la confisca nel sistema delle misure di

prevenzione concerne i beni di cui i proposti hanno la disponibilità e non può incidere sui diritti autonomi dei terzi.” Di analogo tenore la

Cassazione penale 21gennaio 1992 la quale affermò che la confisca realizza la sola traslazione del diritto di proprietà dall’indiziato allo Stato, senza operare alcuna trasformazione giuridica della natura dei diritti dei creditori e senza pregiudicarne le ragioni, le quali potranno essere fatte valere nei confronti dello Stato successore a titolo particolare del bene22. L’ Amministrazione Finanziaria dello Stato è sempre stata di contrario avviso e riteneva infatti che “ la confisca dei

beni portata dalla Legge Rognoni-La Torre contro i profittatori della delinquenza mafiosa travolge certamente tutte le aspettative che i terzi creditori chirografari fondano sul bene confiscato”, giungendo

addirittura ad ipotizzare una assimilazione con la confisca dei beni introdotta con la legislazione contro il fascismo emanata tra il 1944 e il 1946, laddove i beni oggetto del provvedimento ablativo erano destinati a contribuire alla refusione del danno cagionato alla collettività dei cittadini italiani che lo Stato giuridicamente riassume e rappresenta. La confisca contro i membri del governo fascista ed i gerarchi del fascismo si atteggiava quindi come sanzione civile

specifica, mentre con la confisca antimafia di cui alla legge 575/65 lo

22

Si vedano anche Cassazione, Sezioni Unite, 18 maggio 1994, n. 353 e Cassazione,

(30)

30 Stato non ha l’obiettivo di ristorare la collettività dei cittadini dei danni economici cagionati dal soggetto cui è diretta la misura di prevenzione, ma semplicemente sottrarre a quest’ultimo i beni che egli abbia acquisito illecitamente e soprattutto, i diritti che egli ha ancora su di essi. A favore della tesi sostenuta dall’ Amministrazione Finanziaria dello Stato si è espresso un orientamento più risalente. Si sostiene, anzitutto, la natura originaria dell’acquisto per confisca23

, desunta dalla circostanza che esso si realizza ope legis indipendentemente dalla volontà del precedente titolare. In secondo luogo, si osserva che gli interessi sottesi alla normativa antimafia hanno un rilievo tale da precludere, nella materia in questione, l’ingresso alle regole e alle categorie proprie del diritto civile; la confisca in esame andrebbe pertanto considerata una sorta di espropriazione per pubblico interesse, corrispondente ad una generale finalità di prevenzione penale, che consentirebbe persino l’ablazione, senza alcun ristoro, degli eventuali diritti dei terzi sui beni confiscati24. Tutti gli argomenti adotti al fine di giustificare il sacrificio dei diritti dei terzi prestano il fianco a delle critiche. Si è escluso in primo luogo che la confisca costituisca un modo di acquisto della proprietà a titolo originario, in quanto non si può prescindere dal rapporto già esistente tra quel bene e il precedente

23

La tesi è sostenuta da MAISANO, Profili commercialistici della nuova legge

antimafia, in “Rivista critica del diritto privato, II, n. 2, 1984, p 434”; Misure

patrimoniali antimafia e tutela dei creditori, in Giurisprudenza commerciale, 1986, II, p. 889 ss. e in giurisprudenza da Cass. Pen., 5 marzo 1999, n. 1868 in Mass. Giurisprudenza italiana, 1999; Cass. Pen., 23 marzo 1998, n. 1947; Trib. Palermo, 26 marzo 2002; Trib. Bari, ord. 16 ottobre 2000; Trib. Palermo, 18 aprile 1989; Trib. Palermo, ord. 19 aprile 1986; Trib. Palermo, 8 ottobre 1983; Cass. Pen., S.U., 8 gennaio 2007, n. 57.

24

7 Cfr., in tal senso, l’ordinanza emessa dal Pretore di Pisa, in data 8 giugno 1998, nella vicenda Baccherotti, procedimento deciso da Cass. Pen., S.U., 28 aprile 1999, n. 9, in Giustizia penale , 1999. e Cass. Pen., S.U. 8 gennaio 2007, n. 57, ove si legge che: “la confisca si connota come irrevocabile, cosa sottolineata da autorevolissima dottrina anche sulla base della considerazione che la misura in esame rappresenta, in sostanza, una sorta di espropriazione per pubblico interesse, identificato,

quest’ultimo, nella generale finalità di prevenzione penale. Infatti, al provvedimento che la ordina consegue un trasferimento a titolo originario del bene sequestrato al patrimonio dello Stato. Con il che si pone un suggello finale ad una situazione che deve ritenersi ormai esaurita”

(31)

31 titolare, anzi tale rapporto si presuppone e deve venir meno per ragione di prevenzione o di politica criminale, attuando il trasferimento dal privato allo Stato. L’acquisizione del bene allo Stato va considerata come una conseguenza della sottrazione, non già l’obiettivo della confisca. Tra l’altro la tutela dei diritti dei terzi creditori è perfettamente coerente con i principi fondamentali del nostro sistema civilistico in materia di responsabilità patrimoniale, dove il rapporto obbligatorio non è soltanto di natura personale. Per quanto riguarda la tutela di questi soggetti allora, si è ritenuto condivisibile l’orientamento ribadito dalle Sezioni Unite della Cassazione25, che pur riconoscendo la finalità preventiva e sanzionatorie delle confische speciali, tra le quali rientra indubbiamente la confisca antimafia, afferma tuttavia che “nessuna

forma di confisca può determinare l’estinzione dei diritti reali di garanzia costituiti sulla cosa, in puntuale sintonia col principio generale di giustizia distributiva, per cui la misura sanzionatoria non può ritorcersi in ingiustificati sacrifici delle posizioni giuridiche soggettive di chi sia rimasto estraneo all’illecito”. La Cassazione ha

riconosciuto inoltre, al terzo titolare di un diritto di garanzia la possibilità di far valere in sede esecutiva penale il suo diritto, purché in buona fede e purché lo abbia trascritto anteriormente al sequestro antimafia. Si è precisato, poi, che in sede di esecuzione, il titolare del diritto può chiedere l’accertamento della sussistenza del proprio diritto reale, riguardo alla sussistenza delle condizioni per la sua tutelabilità, con particolare attenzione alla buona fede. In dottrina l’orientamento più antico, che è sempre stato minoritario, ed oggi è pressoché abbandonato riteneva che la confisca costituisse un acquisto a titolo originario, e quindi estinguesse tutti i diritti reali di garanzia sul bene confiscato26. A sostegno di questa tesi si sosteneva che la confisca

25

Cass., sez. UU, 08 giugno 1999, n. 9.

26

MONTELEONE, Effetti “ultra partes” delle misure patrimoniali antimafia, in Riv. trim. proc., 1988, p. 574 e ss.

(32)

32 avesse una funzione repressivo-sanzionatoria, che qualsiasi diversa interpretazione non avesse assicurato effettività al sistema delle misure antimafia, e che il superiore interesse dello Stato al contrasto della “piovra” mafiosa non potesse non prevalere sull’interesse del singolo alla conservazione del suo credito. L’orientamento dottrinario che prevalse, negò che la confisca antimafia potesse qualificarsi come acquisto a titolo originario perché, in primo luogo non fosse possibile far acquisire allo Stato un diritto maggiore di quello di cui era titolare il prevenuto, quindi se questo fosse stato proprietario di un bene ipotecato, allo Stato si sarebbe trasferito il diritto di proprietà così come limitato dalla garanzia ipotecaria27. Inoltre l’art. 2, ter, l. 575/65 prevedeva la possibilità di confiscare anche i crediti, ed è chiaro che l’acquisto di un credito non può mai avvenire a titolo originario, perché la sua stessa esigibilità presuppone la permanenza del vincolo col debitore ceduto28. La natura originaria della confisca con la conseguente perdita dei diritti garantiti da ipoteca sui beni del mafioso, poteva inoltre comportare degli effetti controproducenti, inducendo i creditori del mafioso a non denunciare le situazioni dove aleggiava l’inquinamento mafioso.

2. La tutela dei terzi nel caso del sequestro/confisca

antimafia

Questione necessariamente collegata alla natura giuridica della confisca è, come già anticipato nel paragrafo precedente, la tutela dei terzi, senz’altro fra le più delicate nella materia della prevenzione, considerato che i beni oggetto delle misure patrimoniali possono essere di proprietà anche di soggetti diversi dai destinatari delle stesse, e che

27 BONGIORNO, Tecniche di tutela dei creditori nel sistema delle leggi antimafia, in

Rivista diritto processuale, 1988, p. 454.

28

FARINA, Sulla tutela dei creditori ipotecari e dell’aggiudicatario

(33)

33 in relazione ai medesimi beni altri soggetti vantino situazioni giuridiche collegate oppure pretese di natura obbligatoria. Quindi il conflitto fra l’interesse statuale a sottrarre alle associazioni mafiose tutte le ricchezze illecitamente accumulate e le risorse materiali necessarie alla loro sopravvivenza, e l’interesse privato alla protezione dei diritti comunque collegati alla posizione del soggetto prevenuto, in assenza di un’organica disciplina, è stato per anni al centro di un acceso dibattito dottrinario e giurisprudenziale. La difficoltà della regolamentazione derivava appunto dal problema di conciliare la tutela dei diritti dei terzi con la prevenzione dei rischi derivanti da precostituzione di posizione creditorie di comodo che consentissero di aggirare gli esiti dell’azione di prevenzione. A ciò si aggiungeva la necessità di evitare appesantimenti del procedimento di prevenzione derivanti dalla necessità di accertare la buona fede dei terzi ovvero di rallentare o bloccare il procedimento di destinazione dei beni confiscati definitivamente a causa di diritti di garanzia iscritti. Il bilanciamento di tali interessi veicolava e veicola per la soluzione di una serie di questioni interpretative: l’individuazione dei presupposti in presenza dei quali i terzi possono opporre i propri diritti allo stato confiscante; la scelta del giudice civile o penale cui attribuire la competenza a risolvere il conflitto tra i soggetti in contesa; la ripartizione dell’onere della prova in ordine alla dimostrazione dello stato soggettivo di buona o mala fede del terzo; i rimedi esperibili dal terzo successivamente al provvedimento di confisca.

Risale al 1998 l’istituzione della “Commissione per la ricognizione e il riordino della normativa di contrasto della criminalità organizzata” ,presieduta da Giovanni Fiandaca, il cui progetto di riforma conclusivo prevedeva anche una dettagliata regolamentazione degli effetti del sequestro e della confisca nei riguardi dei terzi. Quest’ultimo, nel 2007 è stato richiamato nello schema di disegno di legge delega al Governo «per l’emanazione di un testo unico delle disposizioni in materia di

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34 misure di prevenzione», laddove si sollecitava l’introduzione di un iter procedimentale che consentisse di dare spazio a tutte le istanze proveniente dai soggetti a vario titolo interessati dalle singole misure di prevenzione, contemperando tale esigenza con quella, altrettanto evidente, di rendere agile e celere la procedura medesima. Segnali davvero concreti del risveglio legislativo per la posizione dei terzi sono stati il d.l. 23/05/2008, n. 92 (c.d. pacchetto sicurezza per contrastare fenomeni di illegalità diffusa collegati alla criminalità organizzata), che ha aggiunto al citato art. 2 ter, fra gli altri, il 10°, 13° e 14° co., e il d.l. 4/02/2010, n. 4, che ha modificato l’originario 5° co. del medesimo articolo29.

Le opinioni circa la necessità ed opportunità o meno di offrire una tutela ai terzi creditori in sede di prevenzione, prima dell’emanazione del c.d. Codice antimafia, erano tripartite tra: chi prediligeva la prevalenza della tutela dell’affidamento dei terzi, e quindi affermava il diritto del terzo a partecipare al procedimento di prevenzione nonché, in caso di pretermissione, ad esercitare l’incidente di esecuzione; chi non vedeva altra alternativa per il terzo oltre a tentare di ottenere in sede civile un accertamento di un diritto nei confronti dell’erario; chi affermava la prevalenza assoluta degli interessi pubblici sottesi alla prevenzione, sottolineando che il bene confiscato entrasse nel patrimonio indisponibile dello Stato, che non ammettesse deviazioni dalla destinazione pubblica, mostrandosi anche scettico sulla possibilità di distinguere buona e malafede in capo ai terzi.

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BALSAMO-CONTRAFFATTO-NICASTRO, Le misure patrimoniali contro la

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