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Prevalenza della misura di prevenzione rispetto al fallimento

I principi e le considerazioni espresse nei paragrafi precedenti, assumono particolare rilievo quando il prevenuto svolge attività imprenditoriale e, anteriormente o in pendenza del procedimento per misure di prevenzione, viene dichiarato fallito.

Il controverso e spinoso rapporto tra misure di prevenzione e fallimento ha parecchio affannato la dottrina e la giurisprudenza, anche tenendo conto del fatto che il fallimento dell’imprenditore spiega effetti ben più ampi di quelli propri del sequestro di prevenzione, individuabili nella mera spoliazione dell’amministrazione e della disponibilità di determinati beni46. Per cercare di avere un quadro completo, è necessario, in primo luogo distinguere le diverse ipotesi che si possono verificare in concreto e che pongono problemi tra loro molto diversi.

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v. C. COSTA, Il fallimento dell’imprenditore sottoposto a misure di prevenzione, in Diritto fallimentare, 1996, I, p. 10.

46 Frequenti sono le ipotesi in cui il sequestro di prevenzione ha per oggetto l’intero complesso aziendale o perché esso fa capo ad un imprenditore individuale, o perché pure essendo riconducibile a una società è oggetto di uno specifico provvedimento di sequestro cui seguirà l’eventuale confisca. In questo caso, sono frequenti dei contrasti tra gli organi fallimentari e quelli della prevenzione, dato che le due procedure hanno per oggetto gli stessi beni, ma perseguono per volontà del legislatore, finalità diverse e per certi versi inconciliabili, in quanto il fallimento come già precisato, ha carattere conservativo- liquidativo nel rispetto della par condicio creditorum; il sequestro/confisca ha invece caratteristiche di amministrazione attiva al fine di incrementare la redditività dei beni. In assenza di un’organica normativa che disciplinasse la materia e colmasse il vuoto legislativo, nel corso degli anni si è assistito a una molteplicità di orientamenti giurisprudenziali (non solo tra i giudici di legittimità e di merito, ma anche tra pronunce della Suprema Corte in sede civile e penale) e dottrinari sovente in contrasto tra loro nel riconoscere di volta in volta prevalenza agli effetti del fallimento, ovvero al giudizio di prevenzione, o ancora, nell’adottare un criterio di delimitazione temporale dell’efficacia delle due concorrenti misure.

Nell’ipotesi in cui la dichiarazione di fallimento preceda il sequestro ex legge antimafia, il curatore aveva il diritto di trattenere i beni, amministrarli, liquidarli e soddisfare i creditori, ignorando la pendenza della procedura per misure di prevenzione. Si sosteneva infatti che in casi come questi, l’acquisizione da parte dello Stato dovesse essere limitata ai beni o al ricavato della liquidazione che a conclusione della procedura concorsuale, fossero residuati dopo la soddisfazione di tutti i creditori concorrenti47. Ed infatti, una volta che i beni del prevenuto fossero stati acquisiti all’attivo del fallimento e quindi sottratti alla effettiva disponibilità della persona implicata in fatti criminosi, si

47 riteneva pienamente raggiunto lo scopo che la legge n. 575 del 1965 si prefiggeva, cioè per l’appunto quello di evitare che la persona nei cui confronti fosse stato iniziato il procedimento per misure di prevenzione potesse continuare a disporre, direttamente o indirettamente, dei beni che fossero il frutto di attività illecite o che risultassero reimpiegati in queste attività48.

Maggiori complicazioni invece si presentavano nel caso in cui, il fallimento veniva dichiarato dopo l’inizio del procedimento per misure di prevenzione, ma prima che fosse intervenuta una pronuncia definitiva di confisca. In questo caso infatti i beni erano già usciti dal patrimonio del prevenuto, quindi la successiva sentenza dichiarativa poteva colpire solo i beni che si trovavano nel patrimonio del fallito al momento della dichiarazione giudiziale dello stato d’insolvenza. Vi era, chi però sosteneva che proprio nel fallimento il fenomeno della responsabilità-garanzia (art. 2740 c.c.) trovava e trova la sua più completa manifestazione attraverso lo spossessamento dell’imprenditore insolvente e la conseguente sostituzione degli organi della procedura nell’attività di gestione dei suoi beni, in vista della loro liquidazione. Proprio sui beni dei quali il debitore non poteva disporre, vuoi perché sotto il profilo giuridico della responsabilità garanzia non gli appartenevano più, vuoi perché ne era stato spossessato in seguito alla dichiarazione di fallimento, lo Stato non aveva l’autorità di esercitare alcun diritto di apprensione, mancando quella situazione di pericolo che legittimava e giustificava l’adozione dei provvedimenti coercitivi reali ai quali faceva riferimento la legge n. 646/198249. Sembrava quindi una conseguenza logica che se il fallimento venisse

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v. Tribunale penale Palermo, sezione misure prevenzione 16 aprile 1984, decreto n. 66/83 reso nel procedimento contro Rosario Spatola; Tribunale Palermo 11 dicembre 1991, sentenza resa nel giudizio tra Amministrazione finanziaria dello Stato e Fallimento SO.CO.PA.; Tribunale Agrigento 26 agosto 1197, ordinanza n. 45/97 resa nel procedimento nei confronti del fallito Gerlando Piparo.

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v. G. BONGIORNO., “Misure di prevenzione e procedimenti concorsuali:gli ultimi

48 dichiarato dopo il sequestro ma prima della confisca definitiva, il curatore avesse il diritto di pretendere dall’amministratore giudiziario la consegna dei beni appartenuti al fallito, al fine di custodirli, amministrarli e liquidarli. Discorso diverso andava fatto nel caso in cui la confisca fosse già intervenuta e fosse già definitiva, poiché il curatore non poteva acquisire all’attivo fallimentare dei beni che appartenevano al patrimonio indisponibile dello Stato. Cosicché l’attivo del fallimento era costituito soltanto dai beni che fossero sfuggiti al provvedimento di confisca in quanto ritenuti di provenienza lecita50. Soltanto su tali beni potevano soddisfarsi i creditori del prevenuto fallito.

L’unica pronuncia della Corte di legittimità emanata in materia, fino al 1994 fu quella della Sezione I, 14 febbraio 1987, con tale decisione la Corte escluse che i beni compresi nel fallimento potessero essere sottratti alla misura cautelare della legge antimafia ed alla relativa disciplina; con la conseguenza che la curatela fallimentare non fosse legittimata ad intervenire nel procedimento di cui al quinto comma dell’art. 2-ter. legge 575/65 posto che la massa dei creditori non era titolare dei beni costituenti il patrimonio del fallito e potendo far valere eventuali diritti esclusivamente a mezzo di incidente di esecuzione. La decisione muoveva dalla considerazione che il termine “appartenenza” nell’articolo 2-ter stava ad indicare esclusivamente la titolarità formale del diritto, indipendentemente dalla reale situazione di fatto, sia o meno coincidente con la titolarità formale. Ed inoltre precisava che il curatore del fallimento, per poter validamente contrastare la misura cautelare, eseguita quando nessuna limitazione della disponibilità dei beni dell’imputato ancora sussisteva, avesse l’onere di dimostrare,

50 Contra A. GAITO, Sui rapporti tra fallimento e sequestro antimafia in funzione di confisca, in Rivista diritto processuale, 1996, p. 399 ss. ad avviso del quale, persino

la confisca definitiva non sarebbe d’ostacolo, i creditori potendo chiedere la revoca del provvedimento ablativo, ovvero proporre incidente di esecuzione.

49 nell’interesse della massa dei creditori, la legittima provenienza dei beni sequestrati.

In virtù dell’emanazione e del recepimento della sentenza sopra citata, da parte dei giudici di merito, i tribunali penali cominciarono a mutare orientamento, impartendo agli amministratori dei beni sequestrati ex legge antimafia precise istruzioni dirette ad impedire che i beni frutto di attività illecite, venissero acquisiti dai curatori di fallimenti di imprenditori sottoposti a misure di prevenzione. Immediata fu la reazione dei giudici addetti ai tribunali fallimentari, nacque così un accanito contenzioso tra curatori di fallimenti di imprenditori assoggettati a misure di prevenzione e amministratori giudiziari di beni sequestrati ai medesimi imprenditori ex legge n. 575/1965. Nello specifico, gli amministratori giudiziari spesse volte si opponevano alla sentenza dichiarativa di fallimento, sostenendo che in pendenza di procedimento ex legge antimafia non fosse ammissibile la dichiarazione giudiziale di insolvenza del prevenuto; altre volte i giudici delegati a fallimenti di imprenditori sottoposti a misure di prevenzione, emanavano provvedimenti con i quali ordinavano agli amministratori giudiziari, ai sensi dell’art. 25 legge fallimentare, di mettere a disposizione del curatore i beni sequestrati e da essi amministrati. Chiaramente a tali ordinanze gli amministratori giudiziari, di concerto con il tribunale penale, erano soliti rispondere negativamente. Come già anticipato la questione diede adito sia in dottrina che in giurisprudenza a tesi contrastanti. Parte della dottrina sostenne che dovevano prevalere sul fallimento le misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca, gli argomenti a sostegno di tale tesi partivano dalla ratio perseguita dal legislatore: evitare che il mafioso possa godere e trarre vantaggio dai beni che provengono da attività illecite o ne costituiscano il reimpiego51. Inoltre

51

v. NAPOLEONI, Interferenze problematiche tra fallimento e sequestro antimafia, in Cass. Pen. 1989, p. 465; in tal senso anche A. MAISANO, Misure patrimoniali

50 si rilevava che il termine “appartenenza” utilizzato nella legge n. 575/1965, poteva riferirsi esclusivamente ai diritti di proprietà o ai diritti reali di godimento. Ad avvalorare questa interpretazione solitamente si osservava che l’interesse pubblico sotteso alla normativa antimafia dettata in materia di prevenzione prevalesse su quello, essenzialmente privatistico, della par condicio creditorum, in tal modo precludendo in radice qualsiasi possibilità di contemperamento tra esigenze della repressione penale e istanze di tutela dei soggetti privati. Autorevole dottrina riteneva che non esisteva valida ragione perché il sequestro di prevenzione non dovesse prevalere sul fallimento, in quanto tra i diritti dei creditori e la pretesa dello Stato a punire e prevenire i crimini non poteva esistere dubbio circa la scelta relativa alla tutela degli interessi primari ed essenziali di natura penale. D’altro canto, la tesi che voleva parificare al sequestro i vincoli imposti dal fallimento ai beni, non reggeva sol che si considerava che il fallito rimaneva proprietario e titolare degli stessi. Doveva quindi concludersi, che il sequestro e la confisca operavano come una vicenda estintiva dei diritti patrimoniali del terzo avverso la quale non era ammesso alcun rimedio sia perché l’atto non era in frode ai creditori e sia perché perfettamente lecito52.

La Suprema Corte, dieci anni dopo la citata sentenza del 198853, con la sentenza n. 1947 del 1998 ribadì i principi già affermati e ne introdusse altri, di cui alcuni alquanto discutibili, partì dalla configurazione della confisca come modo di acquisto a titolo originario del bene al patrimonio dello Stato e sulla base di questa premessa, sostenne che una volta che tale provvedimento fosse divenuto definitivo, veniva ad essere vanificato se il bene oggetto della confisca fosse stato acquisito alla massa fallimentare allo scopo di soddisfare le ragioni dei creditori del fallito. Inoltre quest’ultimi non potevano vantare pretese sui beni

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v. G. MONTELEONE., Effetti “ultra partes” delle misure patrimoniali antimafia, in Riv. trim. proc., 1988 in op. cit.

51 sottoposti a sequestro nel corso del procedimento di prevenzione, posto che detti beni, a seguito del sequestro, erano stati sottratti alla disponibilità del fallito e, quindi non potevano entrare a far parte della massa fallimentare. La Cassazione inoltre sempre nella medesima sentenza affermò che: “la procedura di prevenzione deve essere

considerata prioritaria rispetto a quella fallimentare, tanto più che la posizione dei creditori in buona fede dell’azienda appartenente al proposto dichiarato fallito può essere tutelata anche mediante la procedura di prevenzione. Infatti ai sensi dell’art. 2 septies, comma 1 della legge 575/65, è riconosciuta all’amministratore dei beni, con l’autorizzazione scritta del Giudice Delegato, la facoltà di compiere attività di straordinaria amministrazione anche a tutela dei diritti dei terzi, dovendosi intendere per terzi non solo i titolari di diritti di proprietà o di altri diritti reali sui beni in sequestro, ma anche quei soggetti che in buona fede vantino pretese creditorie nei confronti dell’azienda appartenente al proposto dichiarato fallito.” La Corte

sosteneva inoltre che se il curatore avesse utilizzato i beni sequestrati per soddisfare i creditori, si poteva verificare che in seguito alla chiusura della liquidazione, l’eventuale residuo fosse stato restituito dal curatore al prevenuto fallito che in tal modo si sarebbe potuto avvantaggiare di beni acquisiti mediante lo svolgimento di attività lecite di matrice mafiosa. Proprio per evitare questo gravissimo inconveniente gli organi preposti al fallimento venivano ad essere sostituiti dall’amministratore giudiziario che sotto la direzione del giudice penale, avrebbe provveduto alla soddisfazione di tutti quei soggetti che in buona fede vantassero pretese creditorie nei confronti dell’azienda appartenente al proposto dichiarato fallito. Quest’ultima affermazione sembrò aprire uno spiraglio in favore dei terzi creditori in buona fede e, quindi del fallimento, ma appariva comunque una forzatura, non in grado di colmare la lacuna legislativa, poiché l’espressione creditori in buona fede richiedeva una precisazione

52 almeno sulla natura e sul titolo del credito ed inoltre non era specificato quale fosse lo strumento adatto per far valere il riconosciuto diritto54. Qualcuno addirittura la definì “un’autentica rivoluzione copernicana”, poiché i principi fondamentali che da sempre avevano regolato i criteri per la soddisfazione dei creditori, nel rispetto dei diritti di prelazione e della par condicio creditorum venivano sovvertiti: venivano infatti privilegiati, i creditori che l’amministratore giudiziario ed il giudice penale avrebbero ritenuto in

buona fede e, come tali meritevoli di tutela55. Impedire inoltre la dichiarazione di fallimento consentiva al debitore dissestato di disfarsi di quei beni che non fossero stati sequestrati ma costituivano anch’essi patrimonio responsabile del prevenuto, destinato esclusivamente alla soddisfazione dei suoi creditori. L’ultima pronuncia della Cassazione Penale, prima dell’emanazione del Decreto Legislativo 6 settembre 2011, n. 59, risale al marzo dello stesso anno, ancora una volta la Suprema Corte ribadì la regola secondo la quale la procedura di prevenzione patrimoniale diretta alla confisca di beni prevale su quella fallimentare, sia quando il fallimento fosse stato dichiarato prima del sequestro preventivo, sia quando fosse stato dichiarato successivamente, dovendo essere privilegiato l’interesse pubblico perseguito dalla normativa antimafia rispetto all’interesse meramente privatistico della par condicio creditorum perseguito dalla normativa fallimentare56, preme sottolineare inoltre che sempre la Cassazione Penale nel 2007 aveva ribadito il principio che nel momento in cui si dava luogo al sequestro e alla successiva confisca di beni, ai sensi dell’ art. 2-ter della Legge n.575/1965, il fatto che dopo il sequestro ma prima della confisca, il prevenuto fosse stato dichiarato fallito, non

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v. MOLINARI, Rapporti ed interferenze tramisure di prevenzione patrimoniale e

fallimento. Un caso analogo di conflitt?, nota a sent. Cass. Penale 23 marzo 1998 n. 1947, in Cass. pen., fasc. 3, 2000, pag. 748

55

BONGIORNO, Tecniche di tutela dei creditori nel sistema delle leggi antimafia, cit.

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Cassazione Penale sezione I, sentenza 22 marzo-2 maggio 2011, n. 16797, ric. Tanzarella ed altri.

53 implicava che il curatore del fallimento dovesse essere invitato ad intervenire nel procedimento, ai sensi del comma V del citato art. 2-

ter, atteso che i beni in questione, per il fatto di essere già sottoposti a

sequestro non potessero dirsi appartenenti alla massa fallimentare, ovviamente come già aveva ribadito nelle precedenti pronunce, il curatore poteva promuovere incidente di esecuzione per rivendicare la titolarità dei beni, mediante dimostrazione della loro legittima provenienza. Nella giurisprudenza di merito va richiamato l’orientamento espresso dal Tribunale di Roma che, dopo aver dichiarato che ritenere ostativo al sequestro di prevenzione lo status di fallito, significava vanificare le finalità del provvedimento, mise in evidenza che il fallito perdeva la disponibilità e l’amministrazione dei beni, ma non la titolarità degli stessi, e ritenne quindi ammissibile il sequestro di prevenzione57.

La decisione subì critiche in dottrina, poiché si evidenziò che, essendo impedito sui beni ogni potere di amministrazione da parte del fallito e realizzato il vincolo di indisponibilità, per ciò stesso doveva rimanere esclusa la possibilità della misura patrimoniale antimafia che presupponeva proprio la disponibilità del bene da parte del proposto. Inoltre, la figura e la presenza del curatore, pubblico ufficiale, avrebbe dovuto costituire motivo di garanzia per lo Stato e per i terzi. Infine non andava dimenticato che il sequestro non potesse riguardare indiscriminatamente tutti i beni del fallito, ma solo quelli di cui il soggetto avesse potere dispositivo di amministrazione e di gestione e fossero risultati di provenienza illecita58.

I principi finora elencati, pronunciati soprattutto dalle sezioni penali della Cassazione, non furono ovviamente condivisi da parecchi tribunali fallimentari. In particolare il tribunale fallimentare di Palermo con una sentenza resa nel 1998 ritenne innanzitutto che il sequestro di

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Tribunale di Roma, 25 marzo 1985, Pazienza, in Giur. It., 1985, II, p. 397.

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GAITO, Fallimento, sequestro in funzione di confisca e tutela dei terzi nella

54 un complesso di beni appartenenti ad un soggetto sottoposto a procedimento per misure di prevenzione non fosse ostativo alla successiva dichiarazione di fallimento. Inoltre, con riguardo alla preoccupazione che più volte la Suprema Corte aveva manifestato, in relazione alla possibilità del fallito tornato in bonis, di acquistare la piena disponibilità dei beni eventualmente residuati dal riparto fallimentare, anche se di provenienza illecita, fu osservato che la tesi non fosse affatto convincente e andasse disattesa, in quanto una volta intervenuta la confisca dei beni, il residuo della ripartizione dell’attivo fallimentare, non fosse tornato nel potere del fallito, ma sarebbe stato introitato nel patrimonio dello Stato per effetto dell’intervenuta confisca59. Si specificò inoltre che l’esigenza di sottrarre la disponibilità dei beni al mafioso avrebbe potuto essere assolta egualmente bene dagli organi fallimentari, la cui attività era disciplinata dalla legge, con la previsione di una fase endoprocedimentale di accertamento del passivo, retta dal principio inquisitorio, mentre nella legge n. 575/1965 non vi era nessuna disposizione regolatrice dell’attività dell’ amministratore giudiziario analoga a quella contenuta nella normativa fallimentare.