• Non ci sono risultati.

Figure della paternità nella narrativa italiana contemporanea

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Figure della paternità nella narrativa italiana contemporanea"

Copied!
132
0
0

Testo completo

(1)

DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN

ITALIANISTICA

TESI DI LAUREA

Figure della paternità nella narrativa italiana

contemporanea

CANDIDATO RELATORE

Mariapia Naghiero Prof. Raffaele Donnarumma

CORRELATORE

Prof.ssa Cristina Savettieri

(2)

But you must know, your father lost a father; That father lost, lost his, and the survivor bound In filial obligation for some term To do obsequious sorrow.

(3)

I

NDICE

I

NTRODUZIONE

...

5

Capitolo 1. M

ASCHILITÀ

:

STUDI ED EVOLUZIONE DI GENERE

...

9

1.1. Un primo approccio al maschile ... 10

1.2. Studi, ricerche e cambiamenti ... 11

1.2.1. Robert Connell ... 12

1.2.2. Pierre Bourdieu ... 14

1.2.3. Crisi o trasformazione? ... 17

1.3. Uomini e padri: verso il cambiamento ... 18

1.3.1. Paternità in crisi. ... 25

C

APITOLO

2. M

UTAZIONE ANTROPOLOGICA DEI PADRI

... 28

2.1. Costruzione storica e culturale della paternità ... 28

2.1.1. L’autorità minacciata: il Settecento ... 32

2.1.2. L’Ottocento ... 35

2.1.3. Il Novecento ... 38

2.1.4. Il Sessantotto: l’anno del parricidio ... 41

2.1.5 Il padre oggi ... 43

2.2. Uno sguardo alla psicoanalisi: il padre edipico e totemico in Freud ... 45

2.3. Il padre in Lacan ... 51

2.3.1. «L’evaporazione del padre» e il discorso del capitalista ... 54

2.3.2. Il Lacan di Recalcati: Cosa resta del padre e Il complesso di

Telemaco ... 57

2.3.3. Filiazione, eredità e testimonianza: Joyce, Roth e McCarthy .... 58

C

APITOLO

3.

A

LLA FINE DEL NOVECENTO

:

DALLA LOTTA COL PADRE VERSO LA SUA ECLISSI

... 64

3.1. La lotta col padre: Il male oscuro di Giuseppe Berto ... 64

3.2. Il rovescio edipico: Affabulazione di Pier Paolo Pasolini. ... 75

3.3. Una paternità mitizzata ... 84

(4)

3.3.2. Geologia di un padre di Valerio Magrelli ... 88

3.4. Cambiamenti nello statuto genitoriale: verso la scomparsa del padre ... 93

3.4.1. Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia... 94

3.4.2. Dove eravate tutti di Paolo Di Paolo ... 100

3.5. Gli effetti della scomparsa del padre ... 103

3.5.1. Alessandro Piperno: Con le peggiori intenzioni e

Dove la storia finisce ... 105

3.5.2. La nostalgia del padre ... 112

C

ONCLUSIONI

... 117

B

IBLIOGRAFIA

... 118

(5)

5

Introduzione

È stato Telemaco il primo figlio a rendersi conto quanto fondamentale fosse per l’uomo il ritorno del padre; infatti in nessun’altra opera arcaica o classica il legame che lega un figlio al padre è stato rappresentato con la stessa sensibilità1. Certo, Ulisse era un guerriero, celebre per il suo brillante ingegno e capace di trovare il modo per ritornare nella sua patria, Itaca. Oggi, invece, nella società ipermoderna il modello di paternità ha conosciuto delle inevitabili trasformazioni, non sempre positive, non sempre giustificabili. L’«evaporazione del padre», teorizzata negli anni Sessanta dallo psicanalista francese Jacques Lacan, implica un indebolimento della funzione paterna e una dissoluzione degli ideali regolativi: si struttura così un nuovo ordine del discorso, fondato su un’economia del godimento che è alla base del capitalismo contemporaneo2.

Mi sono avvicinata al tema della perdita dell’autorità e del tramonto della funzione paterna anche attraverso le recenti rappresentazioni teatrali di Enrico Castellani e Mauro Perrotta, che esibiscono l’immagine del padre sotto una nuova veste: più debole, inoffensiva e scardinata dal suo status di patriarca. Il primo, Castellani, è il fondatore insieme alla moglie Valeria Raimondi di Babilonia Teatri. Lo scorso 5 e 6 luglio, al festival Inequilibrio di Castiglioncello, ha presentato Padre nostro, in cui l’attore e i suoi figli interpretano sé stessi. In questo modo ritroviamo una famiglia vera, dei figli reali schierati uno accanto all’altro con il padre al centro, assediato da un martellante elenco di recriminazioni – «quando mio padre mi ha partorito è arrivato in ritardo / ha chiesto se potevo nascere un’altra volta / ci teneva molto ad esserci…Quando mio padre mi ha partorito / il battito del suo cuore rimbombava nella placenta / la prima canzone che ho ascoltato è stata la paura di mio padre»3. Da una parte c’è «il patriarca al tramonto del suo orgoglio paterno», dall’altra i figli che gli sono tanto legati, «ma pretendono di sfuggire alla sua influenza e alla sua protezione»4. Mario Perrotta, invece, ha scritto e diretto lo spettacolo In nome del padre, primo capitolo di una trilogia sulla famiglia (gli altri due sono Madre e Figli) la cui prima nazionale si è avuta nel dicembre del 2018 al Piccolo di Milano. Caratteristica di questo secondo spettacolo è la collaborazione di Massimo Recalcati, psicanalista che segue con forte interesse le attuali dinamiche familiari. Perrotta interpreta tre padri diversi che abitano nello stesso condominio ma in tre piani differenti. Uno è giornalista, il secondo operaio e il terzo imprenditore, ma tutti e tre convivono con lo stesso dramma: lo smarrimento davanti al silenzio dei propri figli. Non è un caso sia stato Massimo Recalcati a collaborare alla stesura di questo «flusso monologante»5 di circa una quarantina di minuti: difatti, è stato proprio lui ad accogliere la lezione lacaniana per dare una chiave di lettura al disagio dei giovani. Tuttavia, parlare della latitanza dei padri non significa provare nostalgia per il pater familias novecentesco, cosa che Recalcati ripete continuamente: significa semmai capire cosa resta del padre in questo particolare momento storico. Questa tesi intende perciò indagare come i romanzi della fine del Novecento e del nuovo millennio abbiano

1 PRIVITERA 2005 p. 64.

2 GODANI 2014, quarta di copertina. 3 Traggo la cit. da PALAZZI 2019. 4 PALAZZI 2019.

(6)

6

rappresentato la figura paterna nel tempo delle sue dimissioni e rilevare come questo cambiamento sia, in parte, da imputare ad una trasformazione del maschio occidentale.

Il I capitolo tratterrà rapidamente dei più importanti studi sul genere maschile che hanno trovato terreno fertile nel mondo anglosassone, dove una vera e propria rivoluzione epistemologica si è avuta negli anni Ottanta del secolo scorso grazie ai contributi del poststrutturalismo europeo, attraverso cui anche la categoria di «identità» ha smesso di essere interpretata attraverso mere opposizioni binarie e ha iniziato a postulare un complesso sistema di «discorsi plurimi»6. Lo sviluppo dei Men’s studies a partire dagli anni Settanta per opera di alcune studiose femministe ha rappresentato un punto di svolta per la ridefinizione del genere maschile. Queste ricerche hanno la finalità di superare «i concetti di dominio, superiorità, potere, virilità e patriarcato»7 e aprire la strada a un’idea di maschile plurale, dunque non più unitaria e monolitica. Partendo dai diversi approcci metodologici, il capitolo presenta i più importanti contributi sull’identità maschile realizzati da Robert W. Connell e Pierre Bourdieu, non solo per la natura multidisciplinare dei loro studi, che accolgono riflessioni di carattere socio-antropologico, etnografico e politico, ma soprattutto per il bilancio che hanno permesso di fare sulle conoscenze del maschile grazie all’intersezione di teorie scientifiche e sociologiche. Inoltre, saranno oggetto di studio le nozioni di “maschilità” e “mascolinità” per cui, come riconosce Isabella Crespi, «non sempre è facile operare una distinzione concettuale»8. Seguirà anche una più attenta riflessione sulla categoria di «crisi» della maschilità e del virilismo tradizionale: essa è oggetto di discussione da parte di studiosi che preferiscono utilizzare questa nozione con più cautela, specialmente quando sarebbe più opportuno parlare di «trasformazione» dell’uomo in ambito sociale e familiare e non, appunto, di crisi.

Nel II capitolo oggetto di interesse sono proprio la storia e la costruzione culturale della paternità, per cui bisogna fare necessariamente delle precisazioni: è quasi impossibile realizzare una mappatura esatta della paternità relativa a un’epoca e a un Paese, dal momento che essa dipende fortemente da «differenze sociali, ambientali, temporali, individuali»9. Tuttavia, ho cercato di ricostruire un quadro storico più preciso possibile che ha come fulcro i secoli della dissoluzione del potere paterno, a partire dal grande secolo delle rivoluzioni, il Settecento, sino ai giorni nostri. Fondamentale in questa rassegna è il XX sec., non solo per il significativo apporto culturale, ma anche per le drammatiche vicende in esso avvenute che hanno cambiato in modo irreversibile un sistema di tradizioni e conoscenze fino ad allora ben radicato. Con Freud vengono elaborati per la prima volta concetti fondamentali come quelli di inconscio e di complesso edipico, che hanno inciso profondamente sul pensiero moderno. In particolare, il complesso di Edipo permette di spiegare la relazione tra padre e figlio, in cui Freud verifica, anche in base al proprio vissuto autobiografico, quanto l’immagine

6 DE BIASIO 2010, p. 10. 7CRESPI 2008, p. 113. 8IVI, p. 104.

(7)

7

del padre formatasi nella mente del bambino nei primissimi anni di vita sia essenziale per tutto il suo processo di crescita. Lo scopo ultimo dell’Edipo è quello di introdurre il soggetto alla legge della castrazione e in questo risiede tutta la sua affascinante contraddittorietà: il padre diventa per il figlio sia il modello da imitare sia colui che deve essere ucciso per prenderne il posto. Freud era convinto fosse anzitutto il padre a generare nel figlio il Super-Io, ovvero quell’istanza psichica attraverso cui il bambino interiorizza «le proibizioni, le regole, i principi e i valori della società»10, assumendo di conseguenza il ruolo dell’autorità familiare e sociale. Altro testo che tematizza la figura paterna è Totem e tabù, in cui la prima organizzazione umana viene fatta risalire all’uccisione del padre dell’orda da parte di una comunità di fratelli al fine di usurpare il suo potere gerarchico e spartirlo fra loro.

Dal padre edipico e totemico di Freud si arriverà così alla categoria lacaniana di Nome-del-Padre, alla nozione di «padre del godimento» e alla distinzione fra padre reale e padre simbolico. Il merito di Lacan è quello di aver ripensato al complesso edipico dandone un’interpretazione inedita, vedendo sì il padre come l’agente della castrazione, ma soprattutto – e lo ripeteremo più volte – come colui «che sa unire (e non opporre) il desiderio alla Legge» [SS 828]. Con queste premesse lo psicanalista francese non può che verificare i danni che la società postsessantottina ha generato nell’individuo e nella funzione normativa dei padri.

Nei due poderosi volumi Desiderio, godimento e soggettivazione (2012) e La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto (2016), Massimo Recalcati ricostruisce fedelmente il pensiero lacaniano, confrontandosi più volte con la nozione di padre divenuta un paradigma necessario per riflettere non solo sull’attuale inconsistenza della figura paterna ma anche per effettuare un suo ripensamento dal basso, per correggere le storture che anni di rigido patriarcato gli hanno inferto. La riflessione di Recalcati vuole dimostrare come la civiltà ipermoderna dia luogo a una tendenziale soppressione dell’inconscio. Nell’Uomo senza inconscio (2010) oltre a valutare gli effetti patologici della sparizione del limite rappresentato dal padre, Recalcati intende dimostrare come l’universalismo attuale – o globalizzazione – non sia altro che l’unione tra il «discorso del capitalista», che incita al godimento, e il «discorso del sovversivo», che dopo il Sessantotto ha preteso la liberazione del desiderio spodestando la figura del padre11. Tenendo presente questi riferimenti culturali e storici, il III capitolo propone una serie di testi dell’ultimo Novecento e del nuovo millennio che descrivono figure di padri così intimamente diverse, ciascuno influenzato dal proprio tempo e dal proprio vissuto. Lettera al padre, La coscienza di Zeno o il più recente Patrimonio mi hanno portata a indagare il modo in cui la scrittura letteraria affronta la relazione padre-figlio ed è proprio da queste narrazioni che ho deciso di partire per poi spostarmi su autori nuovi, anche del più recente panorama letterario italiano.

Berto, Pasolini, Albinati, Magrelli, Lagioia, Di Paolo e Piperno: sono questi gli autori da me scelti per approfondire lo sviluppo diacronico della figura paterna. Non a

10 LYNN 1980, p. 129. 11 GODANI 2014, p. 25.

(8)

8

caso ho preferito partire proprio dai primi anni Sessanta, quando ancora vigeva una patria potestà capace di sopprimere la volontà dei figli e provocare un difficile rapporto col padre a cui seguiva una sua freudiana “uccisione”. Berto e Pasolini sono le due facce della stessa medaglia: il mito edipico e la psicanalisi freudiana vengono riprese e rovesciate secondo le preferenze dei rispettivi autori, ma già con il poeta bolognese possiamo intravedere lo scheletro di una figura destinata a perdere il suo potere. Il Sessantotto fa quindi da spartiacque tra padri molto differenti: il pater familias, i padri mitizzati di Albinati e Magrelli e quelli «evaporati» di Lagioia, Di Paolo e Piperno con gli effetti disastrosi che la mancanza del limite ha causato nella vita dei figli che nella maggior parte dei casi rivolgono ai rispettivi padri un legittimo j’accuse per il senso di abbandono e di perdita.

Quindi perché il padre?

Perché la cultura, la filosofia, ma anche la religione gli hanno da sempre riservato un posto privilegiato nella formazione del soggetto e nell’avventura umana nella sua pienezza12, ma soprattutto perché se è interessante notare cosa implichino la sua assenza e il suo indebolimento, ancora più interessante è capire «l’inedita e pressante domanda di padre»13 da parte dei figli. Tuttavia Recalcati ci spiega che dietro questa domanda di padre c’è il rischio di un’attesa infinita e melanconica ma, come fa Telemaco, potremmo sperare che dal mare faccia sempre ritorno qualcosa.

12 BRUNETTI 2003, p. 3. 131313RECALCATI 2013, p. 11.

(9)

9

(I)

Maschilità: studi ed evoluzione di genere

La storia è riuscita a limitare solo gli eccessi paterni, non gli eccessi maschili Luigi Zoja, Il gesto di Ettore

Gli anni Sessanta hanno comportato per il mondo accademico anglosassone un vero e proprio cambio di rotta per quanto riguarda il campo del sapere. Alcuni fenomeni socio-culturali quali la contestazione studentesca, l’opposizione alla Guerra in Vietnam, l’avvento del femminismo, i movimenti per i diritti civili e una nuova consapevolezza delle differenze di classe, genere e sessualità hanno garantito una revisione epistemologica che ha raggiunto il suo apice negli anni Ottanta, grazie soprattutto all’apporto del poststrutturalismo europeo in ambito filosofico (Derrida), psicoanalitico (Lacan) e politico-sociologico (Foucault) attraverso cui la Theory di influenza decostruzionista permette di ridefinire il concetto di identità. Quest’ultima non viene più vista in ottica essenzialistica, quindi su opposizioni binarie e gerarchicamente precostituite come uomo/donna, cultura/natura, anima/corpo, ma in ottica relazionale in un continuo di connessioni e intersezioni1. Per un certo verso la categoria del femminile ha goduto di un notevole apporto di studi e riflessioni ancor prima dell’esplosione del femminismo negli anni Sessanta e Settanta; basti citare alcuni testi pionieristici degli anni Quaranta come Maschio e femmina di Margaret Mead e Il secondo sesso di Simone De Beauvoir in cui emerge chiaramente un primissimo confronto tra genere come fattore biologico e genere come fattore sociale. Tuttavia il percorso di studi del maschile è stato decisamente più tortuoso e asimmetrico, poiché oggetto di continue revisioni e riformulazioni.

Gli anni ’90, però, sono stati testimoni di un crescente sviluppo di studi sulla maschilità, grazie anche a una maggiore partecipazione nell’ambito di ricerca dei Men’s studies da parte di sociologi e studiosi appartenenti a diversi ambiti del mondo universitario anglosassone. Studiare l’impronta che i Men’s studies ebbero a partire dagli anni Settanta ci permette di riconoscere il modo in cui la riflessione teorica ha affrontato le trasformazioni e le ridefinizioni del maschile soprattutto nei paesi anglo-americani. Nel 1970 a Berkeley venne fondato il primo Men’s Center, sede di riflessioni sulle questioni del maschile, ma l’interesse arrivò anche in Europa, in particolare importanti centri di studio furono Londra e Berlino. La finalità di questa tipologia di studi era quella di studiare «gli uomini come portavoce di uno specifico genere, quello maschile appunto»2. L’immediata conseguenza fu la pubblicazione di oltre cinquecento testi sull’argomento, nonché la fondazione di importanti riviste fra cui possiamo ricordare «Masculinities, Theory and Society» e «Gender and History». Oggi tra le riviste più importanti che si occupano dell’identità di genere abbiamo «Men and masculinities» (JMM), rivista accademica fondata nel 1998 e pubblicata da Sage

1 DE BIASIO 2010, pp. 9-10. 2 CRESPI 2008, p. 113.

(10)

10

Publications, i cui articoli esplorano prevalentemente i ruoli e la percezione degli uomini all’interno della società.

Partendo dal presupposto che la stessa storia della maschilità, o una sua vera e propria genealogia, non è mai qualcosa di lineare3, in questo capitolo vedremo gli apporti e le metodologie differenti con cui diversi studiosi, in particolare antropologi e sociologi del calibro di Robert Connell e Pierre Bourdieu, si sono inseriti in questo lungo dibattito servendosi di studi precedenti effettuati sul campo. Questa linea di pensiero non può fare a meno di considerare alcuni fatti storici significativi come lo sfaldamento del modello sociale borghese, il trionfo del capitalismo finanziario e l’avvento del mercato globale che hanno contribuito inesorabilmente a quella che viene definita “crisi” dell’uomo occidentale, provocando delle trasformazioni anche nel ruolo dei padri all’interno della famiglia.

1.1. Un primo approccio al maschile

Gli studi sulla mascolinità hanno una genesi piuttosto recente nel contesto accademico italiano. La maggior parte degli studi sul gender sono infatti di matrice anglosassone e devono il loro sviluppo ai contributi derivanti dalle discipline umanistiche, dalle scienze sociali, dalle scoperte in campo biologico e da altri settori più scientifici4. L’interesse verso questo tema nasce come contraccolpo al femminismo degli anni Sessanta e Settanta, ma soprattutto come volontà di dare una risposta sia alle questioni legate all’identità maschile sia alla messa in discussione dell’esistenza di un’unica forma di maschilità considerata come norma assoluta. Molti studi in ambito sociologico degli anni ’90 convergono proprio in questo senso: Gittins (1996) e altri suoi colleghi mostrano come la costruzione della maschilità, nel loro caso nella Gran Bretagna, sia basata sulla storia dell’impero; Nagel (1998) evidenzia il rapporto esistente tra la mascolinità e la costruzione della nazionalità, dando importanza alle dinamiche di guerra e violenza; Hooper (1998) mette in luce la connessione tra mascolinità e i processi di globalizzazione; Ouzgane e Coleman (1998) attribuiscono molta rilevanza agli studi postcoloniali per la comprensione della maschilità contemporanea5.

Prima di parlare di maschilità, virilità e crisi della virilità è necessario fare però una precisazione linguistica riprendendo quanto detto già da Anna de Biasio nel suo articolo Studiare il maschile: «perché “maschilità” e non “mascolinità” per ragionare su ciò che sta dentro, fuori e attraverso l’essere maschio?»6. Sicuramente bisogna considerare che il diffondersi dei Men’s Studies, inizialmente soprattutto nei Paesi di lingua inglese, ha comportato la diffusione di un lessico tecnico-scientifico che ha fatto insorgere dei dubbi soprattutto per la lingua italiana. ‘Mascolinità’, oltre ad essere più comune nel vocabolario italiano, ha anche delle forti assonanze con il termine anglofono di

3 CONNEL 1995, p. 148.

4 CONNEL – HEARN – KIMMEL 2004,p.1. 5 IVI. p. 72.

(11)

11

riferimento, appunto ‘masculinity’, che definisce un ambito di ricerca già ampiamente sviluppato, con cui gli studiosi italiani continuano a confrontarsi. Tuttavia la nostra lingua, a differenza dell’inglese che ha un unico aggettivo di riferimento (masculine), presenta uno sdoppiamento semantico: da una parte maschilità ha un’accezione più chiaramente denotativa e sottintende quei caratteri tradizionalmente e fisiologicamente propri dell’essere maschio, dall’altra parte mascolinità ha un significato più connotativo e si riferisce alla presenza di caratteri evidentemente maschili. Questa ambiguità semantica ha fatto sì che alcuni studiosi preferissero l’adozione del termine ‘maschilità’, altri invece il corrispondente termine anglofono. Bisogna però notare che ‘maschilità’ conserva un’accezione più neutrale, evitando in questo modo qualsiasi aprioristica attribuzione di genere come i tratti di forza, audacia e vigore7; ed è proprio per mantenere questa linea più obiettiva che la studiosa De Biasio – così come anch’io – preferisce servirsi del primo vocabolo per la sua indagine su un maschile che non deve essere visto come un dato di natura immutabile, ma come un prodotto continuamente aperto al cambiamento. A sostengo di questa scelta possiamo menzionare la traduzione italiana del titolo di uno dei testi più significativi riguardo il tema del ripensamento del maschile quale Masculinities di Robert Connell: esso infatti si trova nella versione italiana col titolo Maschilità e non con il termine corrispondente di ‘mascolinità’. Questo esempio ci fa pensare come non sia sempre facile scegliere tra termini apparentemente simili quali ‘maschilità’ e ‘mascolinità’; ma, almeno per quanto riguarda questa tesi e per le motivazioni prima illustrate, ho optato per la terminologia più neutrale possibile, nonché più comune e accettata presso gli studiosi.

1.2. Studi, ricerche e cambiamenti

Quando si entra nel campo di ricerca dei Men’s studies bisogna tener a mente almeno due degli approcci di studio in materia di maschilità, quello essenzialista e quello culturalista, quest’ultimo più largamente frequentato dagli studiosi e meno soggetto allo scetticismo. Il primo approccio, come ci ricorda Vinzia Fiorino, «ricerca i tratti specifici dell’identità maschile sulla base di teorie psicologiche e psicanalitiche»8, facendo pertanto risalire tratti caratteriali, inclinazioni e strutture mentali degli uomini e delle donne ad «un’essenza che preesiste all’esistenza e alla cultura»9. Secondo i sostenitori di questo approccio esisterebbero pertanto delle disposizioni biologiche intrinseche all’uomo, che lo porterebbero a sviluppare i caratteri imprescindibili del proprio genere10. Importanti contributi per questo filone sono stati dati dalla sociobiologia, una branca della sociologia che spiega lo studio dell’uomo e dei fenomeni sociali riconducendoli a principi biologici. Queste ricerche hanno dimostrato come l’indole maschile sia caratterizzata da una tendenza aggressiva e battagliera che per secoli ha determinato una superiorità della componente maschile su quella

7 IVI, p. 11.

8 FIORINO 2006, p. 384. 9 PICCONE STELLA 2000, p. 84. 10 CRESPI 2008, p. 116.

(12)

12

femminile. Attraverso i geni maschili, l’uomo eredita una predisposizione naturale alla competizione, alla gerarchia e al raggiungimento del potere. Su questa posizione essenzialista, ma comunque interessato alle implicazioni culturali, si colloca John Tosh, studioso dell’Inghilterra vittoriana. Lo storico inglese sostiene il concetto di «longue durée», mutuato da Braudel, secondo cui «i tratti fondamentali dell’identità maschile, anche se ridefiniti e adattati attraverso le epoche, siano rimasti indissolubilmente consolidati in ogni tipo di società»11. Per Tosh, come per i suoi sostenitori, questo non significa rifiutare completamente l’aspetto sociale dell’essere maschile, ma attribuire ad esso un ruolo secondario rispetto a quello biologico-psichico:

La mascolinità [...] è una identità sia psichica che sociale: è psichica perché è parte integrante della soggettività di ogni maschio che prende forma nella prima e nella seconda infanzia; è sociale perché la mascolinità non esiste senza il riconoscimento dei pari, che a sua volta dipende dalla prestazione nella sfera sociale12.

In alternativa all’approccio essenzialista, ritroviamo quello culturalista, o come preferisce definirlo Isabella Crespi, «pluralista»13. I pionieri di questo secondo filone hanno «insistito sul concetto di mascolinità come dato storico profondamente mutevole, ma anche come elemento fondamentale, presente cioè in tutti gli ambiti delle stratificazioni sociali e dunque imprescindibile per la ricerca storica»14. Il loro obiettivo era pertanto smantellare l’assioma essenzialista secondo cui l’identità maschile è «un’essenza monolitica e unitaria»15.

1.2.1. Robert Connell

Il capofila di questa seconda linea di pensiero è sicuramente il sociologo australiano Robert Connell: a lui infatti si deve un primissimo tentativo di distinguere tra le diverse forme di mascolinità, pluralizzandone e problematizzandone il concetto. In questo modo si ammette la possibilità di esprimere in diversi modi la propria identità di uomo:

L’idea che la maschilità sia semplicemente il ruolo sessuale maschile interiorizzato lascia spazio all’azione del mutamento sociale. Poiché le norme a cui si attiene un ruolo sono fatti sociali, esse possono essere cambiate in seguito a processi sociali. Ciò accadrà ogni volta che gli agenti della socializzazione – famiglia, scuola, mass media, eccetera – trasmettono nuove aspettative.16

Lo studioso esordisce nel 1987 con il volume Gender and Power: Society, the Person and Sexual Politics e raggiunge la notorietà accademica con Masculinities,

11 IVI, p. 117. 12 TOSH 1996, p. 93. 13 CRESPI 2008, p. 117. 14 FIORINO 2006, p. 382. 15 PICCONE STELLA 2000, p. 84. 16 CONNEL 1995, p. 30.

(13)

13

(1995) «un libro difficile da scrivere»17, come precisa l’autore, per via delle questioni trattate, suscettibili di alterazioni da parte degli intervistati. Questo libro venne tempestivamente tradotto da Feltrinelli nel 1995 con il titolo Maschilità. Identità e trasformazioni del maschio occidentale. In seguito l’autore ha cambiato sesso e si chiama ora Raewyn Connell, ma continuerò a far riferimento al primo nome, poiché il cambio di identità è stato successivo alla pubblicazione del libro.

L’autore parte dalla constatazione che parlare di “genere” è motivo di confusione da parte sia di chi studia, sia di chi legge, arrivando alla conclusione che il motivo di tale incomprensione risiede proprio nella mutevolezza intrinseca al genere stesso:

I concetti di “maschile” e di “femminile”, osserva Freud in una malinconica nota a piè di pagina “appartengono nella scienza ai concetti più confusi”. […] Perché? Nel corso di queste pagine arriverò a suggerire che il motivo di fondo è il carattere stesso dei generi, storicamente mutevole com’è, e inoltre denso di connotazioni politiche. La vita di tutti i giorni è un’arena di lotta politica sul tema dei generi, e non un’evasione da questa lotta18.

Tuttavia ciò che preme indagare all’autore, in seguito anche a ricerche condotte sul campo, è dimostrare l’esistenza di tipologie di maschilità differenti, in modo tale da scardinare l’idea semplicistica secondo cui la maschilità non sia soggetta a trasformazioni nel corso del tempo:

gli argomenti usati per dimostrare che la maschilità dovrebbe essere qualcosa di mutevole, e dovrebbe effettivamente cambiare spesso, non hanno mai molta efficacia; e non già sulla base di altri argomenti contrari alla riforma, ma sulla base della convinzione che gli uomini comunque non possono cambiare, e che dunque è futile e anche pericoloso provarci. In generale la cultura di massa dà per scontato che al di sotto delle varie correnti che agitano la vita degli uomini vi sia una maschilità fissa, quella vera: sentiamo così parlare di “veri uomini”, di “uomo naturale”, di “profondo maschile”19.

Contrariamente alla tendenza dominante, Connell distingue quattro tipi di identità maschili: la “maschilità egemonica”, la “maschilità subordinata”, la “maschilità marginale” e la “maschilità di protesta”. Queste categorizzazioni, per quanto non esauriscano del tutto lo spettro delle forme del maschile, permettono a Connell di fare diverse considerazioni. Innanzitutto l’idea secondo cui esiste un tipo di maschilità egemone che detiene la supremazia sulle altre e legittima l’esistenza del patriarcato, stabilendo una posizione di dominio per gli uomini e una posizione di subordinazione per le donne20. Connell individua nell’aristocrazia terriera gli esponenti che consentirono di creare un’immagine della maschilità egemone, almeno fino al XVIII sec.: erano questi ultimi, infatti, a fornire gli uomini da reclutare nell’esercito o nella marina o da impiegare come amministratori statali. Ben presto però, a partire dal XIX sec. l’aristocrazia terriera concesse il suo posto ad una nuova classe dominante, la borghesia, e fu proprio a questo ceto che vennero applicati nuovi canoni di maschilità,

17 IVI, p. 8. 18 IVI, p. 15. 19 IVI, p. 48. 20IVI, p. 68.

(14)

14

prima appannaggio del solo ceto nobiliare. Questa emergente classe borghese produsse un netto cambiamento nella gestione domestica, attraverso l’ideologia delle sfere separate: «una sfera domestica d’azione riservata alle donne» in opposizione a una «sfera d’azione economica e politica riservata agli uomini»21. Da questa maschilità egemonica è stato possibile poi sviluppare ulteriori forme di maschilità, che instaurano col modello dominante «relazioni di alleanza, subordinazione, contestazione»22. Esse, per quanto spesso irrelate, hanno in comune la caratteristica di rappresentare delle identità di secondo ordine e, per questo motivo, molto spesso sono respinte dalla società. La maschilità “subordinata” si ritrova nei gruppi che hanno un’identità sessuale atipica rispetto a quella convenzionale, come nel caso di omosessuali e bisessuali. L’identità “marginale” è invece quella che contraddistingue le minoranze etniche, religiose e culturali. Infine, Connell individua una maschilità “di protesta”, con cui fa riferimento a quei gruppi devianti e socialmente ritenuti pericolosi che mostrano comportamenti contrari alla tutela del proprio benessere, come coloro che mettono a repentaglio la vita dei componenti della propria famiglia o chi disprezza l’etica del lavoro23. Sono stati molti altri i contributi dati dallo studioso alle ricerche sull’identità maschile; ad esempio nel saggio Globalization, Imperialism, and Masculinities (2005), Connell mette in luce l’impatto che il processo di globalizzazione ha avuto nella ridefinizione del maschile, partendo da una visione più chiusa e monolitica per arrivare a una prospettiva sicuramente più larga e complessa. I punti su cui lo studioso insiste maggiormente sono in primo luogo verificare come la componente femminile si inserisca nella determinazione di una certa immagine della maschilità, ma soprattutto valutare come ogni ricostruzione non sia uniforme o culturalmente determinata24.

1.2.2. Pierre Bourdieu

Vicino all’approccio culturalista è il francese Pierre Bourdieu, uno dei più importanti sociologi del secondo Novecento. Autore della Distinzione (1979), testo che propone in modo del tutto inedito i rapporti che intercorrono tra estetica, arte e cultura, Bourdieu si inserisce a pieno titolo anche nel dibattito «sul carattere storicamente costruito, dunque arbitrario e niente affatto naturale, della divisione sociale dei ruoli di genere»25. A questo proposito un suo importante contributo è il testo Il dominio maschile (1998), in cui l’autore – così come Connell – parte da una domanda ben precisa a cui tenta di dare una risposta: «come mai il dominio di un sesso sull’altro si è mantenuto per secoli come una convenzione che tutti accettano malgrado la disuguaglianza che crea? Come dobbiamo esaminare questo fenomeno mutevole ma di lunga durata?26. Per quanto il testo sia stato accusato di prediligere una visione nel complesso schematica del maschile, inteso come un «blocco coeso, monolitico e

21 IVI, p. 145. 22 CONNELL 2002, p. 42. 23 CRESPI 2008, pp. 118-119. 24 CONNELL 2005, pp. 71-89. 25 FIORINO 2006, p. 383. 26 PICCONE STELLA 2001, p. 89.

(15)

15

coerente»27, esso spazia su temi differenti ma di grande portata quali la violenza, il significato simbolico dei corpi e la funzione degli organi riproduttivi. Il sociologo arriva in questo modo a delineare il concetto di dominio dell’uomo sulla donna, grazie soprattutto allo studio diretto di una società storica particolare, ovvero quella dei berberi di Cabilia. Prendendo spunto dalle strutture androcentriche dei cabili in Algeria, Bourdieu dimostra la persistenza della visione fallocentrica del mondo nell’inconscio degli uomini e delle donne che va a legittimare la «sottomissione paradossale»28 causata da quella che il sociologo definisce «violenza simbolica»29:

[…] non è mai venuto meno in me lo stupore di fronte a quello che si potrebbe chiamare il

paradosso della doxa, il fatto cioè che l’ordine del mondo così com’è, con i suoi sensi unici o

vietati, in senso proprio e figurato, i suoi obblighi e le sue sensazioni, venga più o meno rispettato […] o, cosa ancora più sorprendente, il fatto che l’ordine stabilito, con i suoi rapporti di dominio, i suoi diritti e i suoi abusi, i suoi privilegi e le sue ingiustizie, si perpetui in fondo abbastanza facilmente, se si escludono alcuni accidenti storici, e che le condizioni d’esistenza più intollerabili possano tanto spesso apparire accettabili e persino naturali30.

Infatti, come ricorda Sandro Bellassai – citando Harry Brod – «ogni forma di oppressione mantiene sé stessa al potere, in parte, mascherando il modo in cui opera, rendendo la sua struttura quanto più invisibile sia possibile»31.

Bourdieu prosegue spiegando che tali strutture di dominio vengono incorporate in seguito a un lavoro collettivo attraverso cui si cristallizzano l’identità maschile e quella femminile, intese come habitus. Alla base vi è la constatazione che la differenza anatomica dei due sessi diviene una «giustificazione naturale della differenza socialmente costruita tra i generi e in modo specifico della divisione sessuale del lavoro32». Strutture sociali come «istituzioni, famiglie, chiesa, scuola, stato»33 contribuiscono a consolidare queste differenze all’interno della società attraverso un incessante lavoro di riproduzione:

Il lavoro di riproduzione era assicurato, sino a un’epoca recente, da tre istanze principali, la famiglia, la chiesa e la scuola che, oggettivamente orchestrate, avevano il tratto comune di agire sulle strutture inconsce. […] è nella famiglia che si impone l’esperienza precoce della divisione sessuale del lavoro e della rappresentazione legittima di tale divisione, garantita dal diritto e inscritta nel linguaggio. Quanto alla chiesa […] essa inculca (o inculcava) esplicitamente una morale familiarista, interamente dominata dai valori patriarcali, in particolare con il dogma dell’inferiorità innata delle donne. […] Infine la scuola, anche quando è libera da ogni influenza da parte della chiesa, continua a trasmettere i presupposti della rappresentazione patriarcale […] e soprattutto, forse, quelli inscritti nelle sue strutture gerarchiche […].34

27 FIORINO 2006, p. 383. 28 BOURDIEU 1998, p. 7. 29 IBIDEM. 30 IBIDEM. 31 BELLASSAI 2014, p. 278. 32 IVI, p. 18. 33 IVI, p. 45. 34 IVI, pp. 101-102.

(16)

16

Pertanto gli uomini e le donne non possono non interiorizzare e rispettare le forme culturali prevalenti, di cui è sicuramente la donna a subire le conseguenze peggiori nella rappresentazione di sé nel mondo. Tuttavia – ed è questo il concetto che più ci interessa – anche gli uomini subiscono le aspettative imposte dalle identificazioni dominanti, rischiando di restarne prigionieri o, nel peggiore dei casi, vittime35. Alla base di questo c’è il concetto di virilità, «intesa come capacità riproduttiva, sessuale e sociale, ma anche come attitudine alla lotta e all’esercizio della violenza»36. All’uomo è infatti richiesto di dare continuamente prova della propria virilità, dal momento in cui la sua identità «è immessa in un binario prestabilito, dal quale non può sfuggire»37. Lo studio sul campo della società cabila fornisce a Bourdieu una dimostrazione concreta del fatto che il privilegio dell’essere uomo può trasformarsi talvolta in una vera e propria trappola: i cabili, infatti, fanno uso frequente di afrodisiaci per mantenere sempre alta la propria prestanza sessuale, in modo tale da non incorrere in fallimenti che disonorerebbero il loro nome. Ovviamente questo tipo di atteggiamento non è molto diverso da quello che avviene in modo ancora più evidente nel mondo occidentale: gli uomini sono soggetti a un eccesso di ansia, di tensione e di frustrazione dovuto alla necessità di mostrarsi sempre all’altezza delle aspettative che la società fa ricadere su di loro.

Prima di vedere cosa si intenda per crisi della maschilità e quali conseguenze questo declino abbia comportato nella definizione del genere, possiamo menzionare un’altra delle più importanti voci che si è inserita nel dibattitto sulla maschilità, George Mosse. A differenza di Bourdieu e Connell, impegnati su un versante più culturalista, quindi dediti allo smantellamento dell’assioma per cui la maschilità è qualcosa di unitario e monolitico, Mosse compie un’analisi storica che, per quanto sofisticata, «rinvia costantemente ad un’essenza maschile sottostante che non si eclissa mai»38. Mosse ha indagato prevalentemente due importanti nodi storiografici: l’emergere, a partire dalla fine del XVIII sec., di un ideale di mascolinità destinato a diventare uno stereotipo sociale e la connessione instauratasi tra nazionalismo e mascolinità39. A questo proposito, il testo che rappresenta un importante punto di riferimento per questi temi è Sessualità e nazionalismo (1984), in cui l’autore traccia una puntuale cronologia nell’evolversi dell’ideale virile che, secondo Mosse, è alla base della definizione della società borghese e dell’idea di nazione. Questo concetto si sviluppa e si consolida fino alla fine dell’Ottocento, per poi entrare irrimediabilmente in crisi fin dalle sue fondamenta40. 35IVI, p. 61. 36 IVI, p. 62. 37 PICCONE STELLA 2000, p. 93. 38IVI, p. 84. 39 FIORINO 2006, p. 385. 40 IBIDEM.

(17)

17

1.2.3. Crisi o trasformazione?

Penso semplicemente che, cioè, nella condizione maschile ci sia insita questa…questa…questo dovere di essere indipendenti, di essere autonomi […] E poi c’è questa impossibilità di farlo veramente, o di esserlo…di esserli completamente eccetera, e questo penso che sia avvertito con più senso di colpa rispetto…rispetto alle ragazze, che avvertono, immagino, gli stessi problemi o problemi simili…però per loro penso che sia più facile accettarlo, da noi c’è anche un senso, non so, di disonore…di non…di non potere insomma […] è la frustrazione del non potere. Intervista a Sandro Bellassai (2007)

Ma quali sono i fenomeni sociali che contribuiscono a sferrare l’attacco decisivo al modello maschile dominante e indiscusso?

Nella Mascolinità contemporanea (2004), Sandro Bellassai individua già nella fine dell’Ottocento gli attacchi alla supremazia maschile e all’identità dell’uomo, visibilmente più fragile se messa a confronto con quella delle generazioni precedenti. Come sostiene Vinzia Fiorino, il diffondersi sul finire del XIX sec. di concetti quali «degenerazione», «regressione», «nevrosi», ma anche di una maggiore visibilità di forme di maschile lontane da quelle tradizionali e l’affacciarsi sulla scena pubblica del femminismo provocarono un primo cedimento del vecchio virilismo, che venne poi riproposto con maggior vigore con i regimi autoritari e totalitari, di cui il fascismo italiano è sicuramente un esempio indicativo41. La domanda che molti studiosi si sono posti riguarda però l’utilizzo improprio del termine “crisi”, quando invece sarebbe preferibile parlare di un processo di radicale cambiamento o di conflitto tra modelli differenti.

Ma la crisi è una nozione inadatta a illustrare il processo in corso. […] come termine teorico la parola «crisi», osserva Connell, presuppone un sistema coerente e chiuso di qualche tipo che è stato distrutto o minato dall’aprirsi della crisi. La mascolinità tuttavia, non è un sistema in questo senso. È piuttosto una configurazione di pratiche […] all’interno di un sistema di relazioni di genere. Non possiamo parlare della crisi di una configurazione, possiamo piuttosto parlare della sua decostruzione o trasformazione: possiamo parlare della crisi di un certo ordinamento dei generi nel suo insieme, questo sì, o delle sue tendenze verso la crisi42.

La nozione di “crisi” si presenta, quindi, inadatta a mostrare quello che sta avvenendo da tempo. Il cambiamento e la trasformazione sono sicuramente concetti che fanno capire più facilmente quello che studiosi, sociologi e antropologici hanno cercato di dimostrare negli ultimi cinquant’anni. Lo stesso Mosse si interrogava sulle sorti della mascolinità moderna a seguito delle trasformazioni storico-sociali43, così come anche per Connell e Bourdieu i concetti di dominio maschile e di maschilità egemone iniziano a perdere la loro «evidenza immediata»44 a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso45, aprendo la strada ad una trasformazione nell’ambito dell’identità di genere.

41 IBIDEM.

42 STELLA PICCONE 2000, p. 95. 43 MOSSE 1997, pp. 252-254. 44 BOURDIEU 1998, p. 69. 45FIORINO 2006, p. 385.

(18)

18

1.3. Uomini e padri: verso il cambiamento

Il futuro della mascolinità moderna è materia di speculazione […] La battaglia è ancora in corso e l’interrogativo che rimarrà senza risposta non è se la vera virilità verrà o meno demolita, bensì fino a quale punto possa piegarsi. George Mosse, L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna

Come abbiamo accennato, parlare di cambiamento non sempre equivale a parlare di crisi. Tuttavia bisogna ricordare che una certa retorica della “crisi del maschio” inizia a emergere in diversi contesti, principalmente anglo-americani, già nella seconda metà dell’Ottocento, come reazione ai primi movimenti femministi e a una più visibile identità omosessuale. Già allora, come nel caso delle vicende della maschilità contemporanea, più di uno studioso aveva invitato ad usare con estrema cautela l’espressione “crisi”, per non sottovalutare la reale egemonia che gli uomini continuano a detenere in diversi contesti sociali46.

Quando ci si riferisce alla crisi dell’uomo o alla crisi della paternità, non si può trascurare l’idea di identità in trasformazione. Il volume curato da Isabella Crespi dal titolo Identità e trasformazioni sociali nella dopomodernità: tra personale e sociale, maschile e femminile (2008), ancor prima di analizzare quelli che sono i cambiamenti dell’identità di genere, cerca di cogliere in una prospettiva più generale gli elementi di continuità e divergenza dell’individuo tra la modernità e la postmodernità: mentre nella modernità prevaleva un soggetto forte all’interno di un sistema sociale ben definito che riusciva a garantire la coincidenza tra identità personale e sociale, nella dopo-modernità è possibile che il soggetto sia succube di un sistema di ruoli sociali più complesso e incoerente, in cui identità sociale e personale non coincidono mai perfettamente.

L’uomo ha rappresentato per secoli il modello predominante e, come sostiene Crespi, due sono le regole che hanno permesso restasse incontestato: la virilità e il patriarcato47. Il concetto di virilità ha subito una serie di riadattamenti nel corso della società da parte di sociologi, antropologi e letterati. In questa categoria, e lo vedremo a breve, si inserisce uno studio condotto da Sandro Bellassai nel testo L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea, in cui lo studioso evidenzia come la virilità o il virilismo, intesi come un’«esasperazione ideologica della mascolinità»48, siano stati concetti costruiti a seguito del temuto spodestamento dell’uomo a fine Ottocento, diventando così una giustificazione retorica delle culture nazionaliste, imperialiste, autoritarie e razziste49.

Il virilismo è stato un’“invenzione”: sul piano storico, esso ha coinciso con una formazione culturale […] che si è affacciata alla storia politica delle società occidentali nella seconda metà del secolo XIX. Il concetto di “virilità” non era certo nuovo nell’epoca; ma nel corso dell’Ottocento si avviò a rivestire un’importanza molto maggiore come ingrediente simbolico delle retoriche pubbliche – e in particolare patriottiche –, per poi diventare negli ultimi decenni

46 DE BIASIO 2010 p. 34. 47 CRESPI 2008, p. 104. 48 BELLASSAI 2011, p. 11. 49 IVI, p. 10.

(19)

19

del secolo, un concetto costantemente ricorrente nei discorsi intorno al passato, al presente e al futuro della società e della nazione50.

L’altra regola, quella del patriarcato, fa ovviamente riferimento all’ambito familiare che secondo Tosh rappresenta un importante tassello nello sviluppo dell’idea di mascolinità51. La strutturazione del patriarcato si è per secoli basata su un processo educativo che proiettava maschi e femmine in direzioni totalmente opposte: le femmine erano relegate in un ambiente più domestico sotto la tutela materna, mentre i maschi venivano preparati fin da subito al mondo decisamente più competitivo della società. È lo stesso Bourdieu a fornirci un’immagine di questa polarizzazione dei ruoli, prendendo come modello gli stili di vita della società cabila:

Spetta agli uomini, situati dalla parte dell’esterno, dell’ufficiale, del pubblico, del diritto, del secco, dell’alto, del discontinuo, compiere tutti gli atti insieme brevi, pericolosi e spettacolari che […] segnano una rottura nel corso ordinario della vita. Le donne invece, essendo situate dalla parte dell’interno, dell’umido, del basso, del curvo e del continuo, si vedono assegnare tutti i lavori domestici, cioè quelli privati e nascosti, se non invisibili o vergognosi, come la cura dei bambini e degli animali, nonché tutti i lavori esterni che vengono loro affidati dalla ragione mitica, quelli cioè legati all’acqua, all’erba, al verde […], al latte, alla legna, e in modo particolare i più sporchi, i più monotoni e i più umili52.

All’uomo erano affidati il peso culturale e la responsabilità legale dei membri della famiglia e, prima di ogni cosa, un lavoro capace di garantire il sostentamento della famiglia stessa: da sempre, infatti, la vocazione lavorativa è stata per l’uomo l’espressione autentica della sua individualità. Nel caso dell’identità sociale dell’uomo non è da trascurare l’importanza dell’associazionismo maschile, considerando le corporazioni artigianali, le camere di commercio, i corpi professionali e circoli culturali che, accanto all’ambiente domestico e lavorativo, rappresentano un ulteriore contesto per il consolidamento dell’identità maschile53.

In una rapida carrellata delle diverse epoche storiche vediamo come, per quanto l’uomo abbia sempre occupato un posto di supremazia nella distinzione dei generi, la sua identità dipendeva da stili di vita differenti. Ad esempio, nell’antichità la maschilità era equiparata alla vita dell’uomo capace di difendere le sue proprietà dagli attacchi esterni, mentre durante l’impero romano inizia a prevalere l’identità dell’uomo capace di condurre una vita elegante alla corte dell’imperatore, destreggiandosi tra donne e cultura. Ancora, nell’epoca medievale ritorna il modello dell’uomo valoroso e industrioso nell’ambito familiare e lavorativo. Il Rinascimento, invece, riabilita l’uomo all’interno dell’economia familiare. Con l’illuminismo l’uomo riscopre il piacere di esprimere il proprio sapere all’interno dei circoli, mentre nel diciannovesimo secolo l’uomo d’affari vittoriano e il colonialista americano incarnano l’ideale di coraggio, della determinazione e del rispetto dei doveri verso la famiglia. Il ventesimo secolo si presenta, invece, come il secolo delle grandi trasformazioni. Innanzitutto non possiamo

50 IVI, p. 17. 51 TOSH 2001, p. 48. 52 BOURDIEU 1998, p. 40. 53 CRESPI 2008, pp. 106-107.

(20)

20

non menzionare quello che Bellassai definisce «il virile ventennio»54, ovvero gli anni del fascismo antimodernista che, in modo diretto, riesce a restaurare una prospettiva virilista, in cui gli uomini videro la propria identità maschile solidamente affermata nello Stato, nella società e nella famiglia:

l’antimodernismo fascista fu così uno strumento della modernizzazione autoritaria fascista, il setaccio retorico che aveva il compito di purificare il futuro della nazione degli elementi inconciliabili con la riaffermazione di un ordine sociale rigidamente gerarchico. […] Per i fautori della mascolinità tradizionale, tale scenario costituiva un richiamo cui era difficile resistere: la rassicurazione che anche nel nuovo mondo moderno una mascolinità potente e dominante avrebbe avuto un ruolo insostituibile non poteva essere più chiara, e più energicamente perseguita.

[…] Per la grande maggioranza degli uomini italiani, fu questo un importante motivo che permetteva loro, dopo vari decenni angosciosi, di guardare al futuro con patriarcale serenità. […] Il virilismo non fu certamente l’unica risorsa cui il fascismo attinse per tentare di costruire un consenso di massa al regime; con il fascismo, tuttavia, il linguaggio misogino e virilista giocò un ruolo politico quale mai aveva e avrebbe avuto in altri momenti della storia italiana. Il virilismo divenne nel Ventennio un vero e proprio programma politico di eccezionale rilevanza. È da inquadrare in tale scenario il fatto che il termine “virilità” fosse non solo ossessivamente ricorrente nella retorica fascista, ma concepito dai fascisti medesimi come, in un certo senso, la cifra stessa della loro visione del mondo55.

La prima e la seconda guerra mondiale hanno perpetuato l’idea dell’uomo in quanto eroe-soldato («la guerra era un invito alla virilità»56, scrive Mosse), e sarà solo con il secondo dopoguerra che l’uomo si sgancia dall’immagine tradizionale della virilità, del senso del dovere e del rispetto autoritario andando verso una nuova definizione che ancora oggi presenta più di un problema57.

È lo studioso Sandro Bellassai a fornirci un valido compendio della storia del virilismo come ideale politico, dove questo aggettivo non deve essere inteso nel senso letterale di “sistema politico”, ma in riferimento «a dinamiche sociali e culturali che definiscono limiti e possibilità della libertà e del potere nelle relazioni fra uomini e donne»58. L’autore precisa però che nella sua ricerca non verranno presi in considerazione gli ambiti del privato, bensì una dimensione più collettiva, pubblica e normativa; ciò significa che le dinamiche del virilismo da lui affrontate non riguardano tutti gli uomini ma più precisamente quella componente che Connell ha definito mascolinità egemone59 e che, quindi, è capace di emanare «norme, modelli, valori e comportamenti “ortodossi”» al fine «di influenzare maggiormente […] il senso comune della parte politicamente decisiva della popolazione»60.

Bellassai parte da una distinzione linguistica fra “virilismo” e “virile” ripresa dal Grande Dizionario della Lingua Italiana, dove col primo termine si intende

54 BELLASSAI 2011, p. 63. 55 IVI, pp. 64-65. 56 MOSSE 1984, p.129. 57 CRESPI 2008, pp. 107-108. 58 BELLASSAI 2011, p.9. 59 IVI, p. 10. 60IVI, p. 9.

(21)

21

un’«esasperazione di qualità, comportamento virili o tradizionalmente ritenuti tali», mentre col secondo ciò che si addice «all’uomo, alla forza, alla fermezza, all’autorità che gli sono tradizionalmente attribuite […]»61. In questo modo, spiega che per secoli la posizione di supremazia dell’uomo è stata ritenuta di discendenza divina o naturale. Questa eredità preziosissima era affidata ai padri e per lungo tempo non è mai stata messa in discussione, come poi avviene nella modernità, in cui si avverte un indebolimento del dominio maschile e dunque della virilità stessa. Per questo l’uomo sente la necessità di rilanciare il concetto di virilità, attribuendogli una forte valenza ideologica e mitologica e impregnando di virilismo ogni ambito sociale, con l’egoistica convinzione di poter così salvaguardare l’umanità, il mondo e la stessa civiltà umana nella sua interezza62.

Il venir meno del dominio maschile è messo da sempre a confronto con la questione femminile. Nelle società occidentali degli ultimi decenni dell’Ottocento, infatti, inizia ad essere criticata la logica contraddittoria dell’uguaglianza che per quanto sostenitrice di una parità fra i due sessi, continua a guardare il femminile come l’elemento debole da emarginare. Già negli anni ’60 dell’Ottocento si sono diffusi in vari paesi diversi movimenti femministi che propugnano l’istruzione delle donne, la possibilità di accesso ad un lavoro retribuito, una riforma che togliesse le donne dallo status di persone giuridicamente incapaci e subordinate agli uomini. Questo ha ovviamente investito il genere femminile di nuove e importanti responsabilità, ma è solo nella seconda metà del ventesimo secolo che le rivendicazioni femministe hanno determinato una rivoluzione culturale senza precedenti. Da allora, le donne hanno avuto una maggiore libertà, per esempio, nelle decisioni matrimoniali, nella propria vita sessuale e nelle scelte procreative. Crolla così irreversibilmente quel sistema di valori, norme e certezze che sono stati per molto tempo un monito per uomini e donne.

Ma cosa comporta il declino del virilismo a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso?

Innanzitutto la «giusta distanza gerarchica»63 tra i due sessi non è più attualizzabile, dal momento in cui i processi di modernizzazione hanno reso anacronistico ogni comportamento tirannicamente patriarcale e hanno ridotto le disuguaglianze in campo sociale, culturale, economico e giuridico. Cosa ancora più importante, con il crollo del sistema di potere fascista e le conseguenti disillusioni della guerra mondiale viene meno l’immagine di una mascolinità legata ad atteggiamenti di forza, aggressività, autorità e dominio assoluto. Non c’è pertanto da stupirsi delle reazioni più varie della controparte maschile. Coloro che possiedono una visione più tradizionale della vita «hanno vissuto questi cambiamenti con un senso di smarrimento e di abbandono […], all’improvviso le aspettative di genere che gli uomini avevano da sempre dato per scontate sono state disattese dalle donne, lasciando gli uomini confusi, arrabbiati, angosciati e insicuri»64. Proprio per questo senso di smarrimento, una parte notevole del genere maschile non ha rinunciato a continui tentativi di riaffermazione di una concezione tradizionalmente

61 IVI, p. 17. 62 IVI, p. 18. 63 IVI, p. 98

(22)

22

virilista, cercando o di riproporre il dislivello gerarchico fra uomini e donne o di riaffermare una mascolinità competitiva. Tuttavia, se fino a quel momento il processo di svirilizzazione viene letto come un sacrilegio nei confronti del dominio maschile, negli anni del boom economico si sviluppa anche una controparte che valuta gli effetti positivi di tale fenomeno: c’è chi, come il pedagogista Luigi Volpicelli, inizia a parlare di “ingentilimento” del genere maschile, proposta che, solo qualche anno prima, sarebbe suonata come un affronto:

E non si vorrà riconoscere nel diffondersi dello studio femminile, un arricchimento spirituale della famiglia contemporanea, un maggiore prestigio della madre educatrice, la premessa fondamentale perché si potesse rinnovare l’allevamento e l’educazione dei ragazzi,

ingentilire e affinare la vita dell’uomo? [Corsivo mio]65

Proposte di questo tipo iniziano a moltiplicarsi segnalando un progressivo distacco di un’identità maschile caratterizzata, fino a quel momento, esclusivamente da tradizionalismo, austerità e rigidità morale. Ora sono altri gli scenari a cui il sesso forte si apre. A questo proposito possiamo citare, seguendo il suggerimento di Bellassai, il film inchiesta di Pier Paolo Pasolini Comizi d’amore (1964), in cui ricordiamo alcuni ragazzi siciliani entusiasti di ribadire che anche dalle loro parti è arrivato il progresso e, di conseguenza, un rinnovamento dei costumi; ma ancora più importante è la testimonianza di un soldato di leva per il quale la retorica del dongiovanni non rappresenta assolutamente un modello esemplare, bensì un ideale imposto dalla società per mantenere alta una supposta dignità di uomo.

I titoli di articoli apparsi sull’«Europeo» nel 1958, come La donna conquista il potere oppure Il sesso forte depone le armi, sono già un segno, seppur ancora marginale, di un’iniziale e irreversibile trasformazione di quel pluridecennale sistema culturale maschile. Questa nuova epoca, in cui il virilismo tradizionale diventa una della varie possibilità che caratterizzano l’identità maschile e l’uomo sente di perdere il monopolio che fino a quel momento gli spetta di diritto, determina atteggiamenti differenti nei confronti della controparte femminile: alcuni uomini decidono di lasciare spazio alle donne e alla loro capacità di determinazione, abbandonando l’interiorizzazione di un ruolo predominante; altri sviluppano un atteggiamento concorrenziale con le donne per cercare di riemergere da un periodo di forte confusione identitaria; altri ancora accolgono questi cambiamenti aprendosi alle donne e collaborando con loro. Questo mutamento ha di certo incrementato un’ampia riflessione sulla condizione maschile che gradualmente è andata a consolidarsi nei già citati Men’s studies66.

Nonostante questa radicale trasformazione, la modernità non esprime alcuna nostalgia per il virilismo tradizionale, mentre non manca di mettere in luce una trasformazione dell’uomo moderno in quanto maschio. Infatti, proprio negli anni del miracolo economico vengono realizzate in campo cinematografico e letterario opere che denunciano «quel progresso che dietro l’invitante facciata nascondeva in realtà

65 VOLPICELLI 1976, p. 24. 66 CRESPI 2008, p. 110.

(23)

23

spaesamento, disgregazione, alienazione»67. Fra gli esempi che Bellassai riporta, possiamo ricordare, in campo cinematografico, l’episodio Latin Lovers (amanti latini) tratto dal film I mostri (1963) diretto da Dino Risi, che fin dal titolo ha come obiettivo quello di ridicolizzare il mito virile italiano per eccellenza: i due protagonisti, Tognazzi e Gassman, sono sdraiati al sole di una spiaggia romana insieme ad una ragazza; quando quest’ultima si alza entrambi la cercano con le braccia, ma le loro mani si incontrano e si stringono inaspettatamente, rivelando la vera natura del loro rapporto.

Esempio di carattere letterario è invece il romanzo di Goffredo Parise con cui nel 1964 l’autore interruppe cinque anni di silenzio letterario, Il padrone. Il protagonista è costretto dal padrone della sua azienda a sposare una ragazza demente, dalla quale avrà un figlio; le parole con cui il padre si riferirà al bambino sono molto più che amare e rivelano i pregiudizi che alimentavano ancora le distanze di genere e la caratterizzazione degli uomini:

Mio figlio sarà, come lei, un demente, io lo spero con tutto il cuore […]. Ognuno desidera trasmettere nel figlio che lo continuerà immorale i propri caratteri individuali. Spero dunque che non sia come me, uomo con qualche barlume di ragione, ma felice come sua madre nella beatitudine pura dell’esistenza. Egli non userà la parola ma nemmeno saprà mai cosa è morale e cosa. Gli auguro una simile a quella del barattolo che in questo momento sua madre ha in mano, solo così nessuno potrà fargli del male. [IPA 234]

La crisi della prospettiva virilista tocca il suo apice negli anni ’70. Un anno fondamentale per le dinamiche familiari fu il 1974, in cui il referendum sul divorzio promosso dal fronte cattolico e conservatore avrebbe dimostrato a tutti che la società italiana, e quindi anche gli uomini italiani, non si indentifica più nel rigido sistema patriarcale e tradizionale. All’indomani del referendum, Pasolini interpreta questo risultato come la vittoria della cultura di massa, che «non può essere una cultura ecclesiastica, moralistica e patriottica: essa è infatti direttamente legata al consumo, che ha delle sue leggi interne e una sua autosufficienza ideologica». Pertanto, continua il poeta, siamo davanti a «un Potere che non sa più che farsene di Chiesa, Patria, Famiglia e altre ubbìe affini» [SC 41]; anche in questo modo la secolarizzazione della mascolinità giunge pienamente a compimento.

Inoltre, agli inizi degli anni Novanta avviene un’altra novità nella rappresentazione mediatica dell’uomo, questa volta da un punto di vista del “corpo maschile”. Se tradizionalmente l’immagine dell’uomo, a differenza di quella della donna, è strettamente legata a un ruolo professionale e al lavoro, nell’ultimo decennio si assiste a un’inedita mitologia del corpo maschile in ambito pubblicitario che ha accettato e inglobato anche il nudo virile fino alla provocazione68. In questo modo il corpo maschile diventa oggetto di quell’investimento erotico, con evidenti implicazioni pornografiche, che prima riguardava esclusivamente il corpo femminile.

Basti pensare a questo proposito all’epopea dei corpi gloriosi di Scuola di nudo (1994) di Walter Siti che successivamente, assieme a Un dolore normale (1999) e

67 BELLASSAI 2011, p. 119. 68 IVI, p. 142.

(24)

24

Troppi paradisi (2006), costituirà la trilogia Il dio impossibile (2014). Nel romanzo il narratore racconta di essere stato da sempre attratto dai corpi dei culturisti, arrivando a elaborare una personalissima teoria estetica nei confronti del corpo maschile, oggetto di desideri ossessivi e di elucubrazioni.

Altrettanto emblematico da questo punto di vista, sempre dello stesso autore, è La magnifica merce (2004) che raccoglie quattro racconti sul corpo maschile dei culturisti – come il titolo lascia intuire – esclusivamente come merce di lusso: il corpo iper-muscoloso degli uomini viene osservato da un uomo anziano che vede in loro una assoluta testimonianza della mercificazione a cui è soggetto il corpo maschile contemporaneo. Già nella Magnifica merce viene immortalato in una serie di foto quello che due anni dopo, nell’ultimo capitolo della trilogia, sarà Marcello Moriconi, un culturista borgataro che incarna lo spirito dei tempi e di cui il protagonista Walter si innamora.

Un altro romanzo interessante per quanto riguarda il confronto tra il corpo maschile e il genere femminile alla ribalta è A perdifiato (2003) di Mauro Covacich in cui il protagonista, Dario Rensich, un ex-maratoneta che vanta un grande titolo nella sua carriera, ovvero quello di essere arrivato sesto alla maratona di New York, è diventato un allenatore della federazione di atletica che lo invia in Ungheria ad allenare un gruppo di giovanissime mezzofondiste, con il compito di trasformarle in una squadra di maratonete.

Nell’ottica di un’ascesa femminile nelle gerarchie sociali, Bellassai menziona un film commedia del 1997, Full Monty, che testimonia a tutti gli effetti la sconsacrazione della virilità. In esso, gli ex dipendenti di una gloriosa acciaieria britannica assistono passivamente alla propria disintegrazione virile anche nella loro vita familiare e sociale. Emblematica è una scena in cui Gaz, il personaggio principale, racconta di aver intravisto dal buco della serratura del bagno tre donne che non solo si divertivano molto a parlare di uomini, ma usavano anche i gabinetti come i maschi, quindi stando in piedi. La sua riflessione successiva è tristemente veritiera: «Siamo finiti, Dave. Estinti […] Qualche anno ancora e gli uomini non esisteranno più. Tranne che in qualche zoo o parco nazionale. Insomma, non serviamo più a niente, capisci? Siamo antichi… dinosauri»69.

In una situazione di smarrimento identitario, l’uomo cerca di ritrovare un nuovo ruolo, considerato nella reciprocità e nell’incontro con l’universo femminile, in cui gli uomini e le donne condividono i medesimi spazi. «La virilità diventa simbolo di espansione, di apertura al mondo, direzione e significato della propria vita di maschio»70: non è più legata, come nei secoli precedenti, all’esclusiva supremazia del maschio, bensì alla capacità di unire «amore e potere, sensibilità e coraggio, femminile e maschile»71.

69 Traggo la cit. da BELLASSAI 2011, pp. 144-145. 70 FUSCO GIUSTI 2002, p. 78.

(25)

25

1.3.1. Paternità in crisi

Queste constatazioni hanno portato, a livello europeo e internazionale, a riflettere sulle conseguenze psico-sociali che una morfogenesi del maschile ha avuto sulla paternità e sulle relazioni di cura dei figli.

Crespi menziona ricerche che mostrano i padri delle nuove generazioni più orientati a cercare un modello di riferimento verso il gruppo dei pari o in un panorama più ampio, non completamente legato all’ambito familiare, piuttosto che verso le vecchie generazioni. Il tema della paternità è sicuramente molto attinente alle questioni relative all’identità di genere, ma anche molto complesso, soprattutto se riferito ai nuovi prototipi maschili. Se la persistenza del patriarcato si sposava con l’ideale di un padre autoritario che deteneva con forza il suo dominio sulle donne e in particolare sui figli, oggi questa retorica appare non solo anacronistica, ma anche deleteria. Le trasformazioni che hanno riguardato l’uomo a partire dalla fine dell’Ottocento e ancor più nell’ultimo scorcio del secolo precedente hanno inevitabilmente disatteso tutto quel sistema di credenze su cui il patriarcato stesso si fondava. E il padre, come più volte ricorda Zoja, è un essere complesso, soggetto ad un addomesticamento culturale, pertanto aperto a continue reinvenzioni.

Le difficoltà che i nuovi padri incontrano riguardano soprattutto la gestione dei figli. In Essere uomini (2002) Claudio Risè identifica un percorso di formazione utile per il padre di oggi: il suo atteggiamento non deve essere né autoritario come una volta, né tantomeno debole e rinunciatario. Il padre ha il compito di iniziare il figlio alla vita e di inserirlo nel sistema sociale. Eppure, i cambiamenti, le paure e i dubbi dei padri sono ben più problematici. Se è vero che con l’avvicinamento al femminile i nuovi padri non rifiutano più quei caratteri di tenerezza che prima erano appannaggio solo del femminile, è anche vero che un altro scenario, non del tutto positivo, cala come un cono d’ombra sull’identità paterna: quello della sua accertata evaporazione.

La perdita di supremazia sembra in molti casi legittimare questa assenza di padri di cui negli ultimi anni si sente parlare sempre più spesso. Assenza non equivale però a perdita di dominio sui propri figli, ma a incapacità di rappresentare per loro un orientamento stabile, una bussola e un porto sicuro.

Di evaporazione del padre parla, come vedremo nel II capitolo, Jacques Lacan per spiegare come le contestazioni giovanili del ’68 avessero ridimensionato l’autorità simbolica del padre all’interno della famiglia e nella società. La sua assenza, precisa lo psicanalista, sarebbe poi stata colmata dall’oggetto di consumo, dal feticismo delle merci, e questa, come possiamo intuire, è una constatazione drammaticamente vera72. Da questa categoria lacaniana sono partite una serie di riflessioni sulla natura della nuova figura di padre e sulle conseguenze nella crescita dei figli. Massimo Recalcati è sicuramente colui che più di tutti in Italia è riuscito a tradurre e rendere più fruibile l’insegnamento dello psicanalista francese, presentando lo scenario ipermoderno come il segno tangibile della mancanza di un padre-bussola. Nei suoi testi di maggior rilievo come Cosa resta del padre? (2011) e Il complesso di Telemaco (2013) viene indagato il

Riferimenti

Documenti correlati

In altre parole, l’integrale della somma ` e uguale alla somma degli integrali... Osserviamo che le dimostrazioni riguardano leggere semplificazioni dei

no, spesso spregiativamente, considerati “contro-rivoluzionari”. Ma se questo è vero, non è meno vero che i primi “contro-rivoluzionari” della storia moderna possano e deb-

Non dobbiamo tuttavia esagerare la distanza fra storia e memoria, come a volte si tende a fare, sia pure con le migliori intenzioni: dare cioè alla memoria culturale uno

Questi risultati enfatizzano il ruolo delle sigarette nel determinare un aumento della CCdS così come riportato in altri lavori (11, 32, 37, 48, 67) e rimarcano che l’abitudine

Il tema del lavoro negli ultimi anni, di più rispetto a quando ho scritto Il dipendente, è un tema centralissimo dell’avventura esistenziale di ciascuno di noi: o perché non c’è

A questo riguardo, le storielle che introducono il tema, come sono curiose e per un certo verso stimolanti, così individuano un’aporia fondamentale che sta a fondo della faccenda: la

q Visualizzare e Confrontare figure simili. • Date o costruite due figure simili determinare la omotetia che applica l’una nell’altra. • Dopo aver trasformato