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La nostalgia del padre

Capitolo 1. M ASCHILITÀ : STUDI ED EVOLUZIONE DI GENERE

3.5. Gli effetti della scomparsa del padre

3.5.2. La nostalgia del padre

Recalcati, riproponendo uno studio che Freud condusse sulla vita di Leonardo da Vinci, fa notare come l’assenza del padre possa anche garantire l’apertura a nuove possibilità. Il presupposto per questa nuova invenzione è che la scomparsa del padre non si tramuti in rifiuto assoluto, ma nel saper rinunciare alla sua assenza, così come fa

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il figlio Giorgio nell’ultimo romanzo di Piperno, dandosi lui stesso la possibilità di diventare un padre migliore. L’erede giusto infatti è colui che non viene mai meno alle sue responsabilità e al suo rapporto con l’Altro. L’esempio è ripreso proprio da Freud che, nel ricostruire la vita del genio del Rinascimento italiano, insiste nel ricordare che Leonardo non venne inizialmente riconosciuto da suo padre e venne allevato da due donne, la madre e la nonna materna. L’impulso creativo e di ricerca non sarebbe stato possibile se Leonardo non avesse imparato a rinunciare a suo padre quindi a vivere la sua condizione di “orfano”:

ma se l’imitazione del padre gli nocque come artista, la ribellione contro il padre fu la condizione che determinò nella sua infanzia la sua opera di ricercatore, forse altrettanti grandiosa […]. Mentre nella maggior parte delle altre creature umane – ancor oggi come in epoche remote – il bisogno di appoggiarsi a qualche autorità è così imperioso che ai loro occhi il mondo vacilla se questa autorità è minacciata, Leonardo riuscì a fare a meno di questi puntelli; non vi sarebbe riuscito se nei primi anni della sua vita non avesse imparato a rinunciare al padre. [RLV 261-262]

Nel tempo ipermoderno in cui vengono meno le figure del figlio-Edipo e del figlio- Narciso – il primo caratterizzato dalla lotta col padre, il secondo dallo sterile attaccamento alla propria immagine – è la figura del figlio-Telemaco che appare del tutto nuova e originale71. Il suo desiderio è desiderio del ritorno del padre. Per questo la teoria freudiana del complesso edipico da cui siamo partiti risulta superabile. Non vi è più la lotta contro il padre. Le nuove generazioni, come vediamo con i protagonisti dei romanzi di Albinati, Magrelli, Lagioia, Di Paolo e Piperno, assomigliano più a Telemaco che a Edipo. Esse richiedono che qualcosa faccia ritorno dal mare, fanno richiesta di una Legge che possa stabilire un nuovo ordine e un nuovo orizzonte nel proprio mondo. Perfino nell’ultimo romanzo di Piperno, il figlio Giorgio nasconde, dietro all’ostilità nei confronti del padre, la necessità del suo ritorno come figura rassicurante. Così come il Telemaco omerico, se avesse possibilità di scelta, vorrebbe il ritorno del padre, allo stesso modo il nostro tempo, segnato inesorabilmente dall’evaporazione della figura paterna, vede la nascita di una nuova figura di figlio. Quest’ultimo non si ribella più alla funzione autoritaria del padre, ma esige la sua testimonianza. Se gli anni ’60 hanno rappresentato una debilitazione di quel padre tiranno così come venne terribilmente descritto da Gavino Ledda in Padre padrone (1975), ora quel diritto al ritorno si trasforma in un dovere. Ciò che è richiesto non è però il ritorno di una Legge castrante, ma di un padre che sia testimonianza di umanità e di vita, come nel romanzo di McCarthy.

Se gli esempi letterari trattati fino a questo momento fanno emergere una figura di padre disonesta, fuggitiva e irriverente, è anche vero che il panorama italiano contemporaneo fornisce, seppur più raramente, l’altra faccia della medaglia, quella di padri così vicini ai propri figli da apparire deboli, tormentati dalla paura che il figlio li abbandoni o che possano perdersi nel mare magnum degli imprevisti della vita. Penso in particolare a due romanzi che affrontano in maniera più intima e lucida questo tema: Le cose fondamentali (2010) di Tiziano Scarpa e Gli sdraiati (2013) di Michele Serra. Nel primo Scarpa racconta la storia di un padre, un certo Leonardo Scarpa – senza tuttavia

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implicazioni autobiografiche – che decide di scrivere una lunga lettera al figlio, Mario, nato da poco, in modo tale che quest’ultimo possa leggerla al compimento dei quattordici anni. Leonardo è l’esempio di tutte quelle paure che possono affliggere un padre durante la crescita del figlio. Per questo il protagonista decide di scrivere al figlio, per scusarsi già in anticipo di tutti gli errori che commetterà:

(Devo smettere di pensare al peggio. Di prevedere sempre che tu mi rinfaccerai il mio comportamento. E di prevedere che tu mi rinfaccerai di averlo previsto. Ti sto sottraendo tutto il terreno. Attento, Mario, tuo padre ti sta fottendo! Ti sto chiedendo scusa in anticipo non solo di come mi comporterò, ma anche del mio chiederti scusa. Devi inventarti qualcosa che esca fuori, che sfondi questa logica). [LCF 98]

Il romanzo di Michele Serra, invece, assume un tono più ironico e descrive la terribile sensazione di vuoto di un padre abbandonato dal figlio72. Nell’accurata analisi che Marco Belpoliti fa di questo romanzo73, servendosi delle riflessioni di Luigi Zoja e quelle più recenti di Massimo Recalcati, egli mette in evidenza l’incapacità di un padre di trasmettere l’eredità a un figlio indifferente, un nativo digitale, uno “sdraiato”, come appunto lo definisce l’autore. Il padre del romanzo di Serra appare indifeso e senza corazza, in un continuo stato di tensione nei confronti del figlio che da parte sua non mostra alcun tipo di interesse, facendo sentire il padre esattamente come il tappeto del soggiorno della propria casa, continuamente calpestato e consunto dalle scarpe del figlio:

L’unica certezza è che sei passato da questa casa. Le tracce della tua presenza sono inconfondibili. Il tappeto kilim davanti all’ingresso è una piccola cordigliera di pieghe e avvallamenti. La sua onesta forma rettangolare, quando entri o esci di casa, non ha scampo: è stravolta dal calco delle tue enormi scarpe, a ogni transito corrisponde un’alterazione della forma originaria. Secoli di manualità di decine di popoli, caucasici maghrebini persiani indostani, sono rivoltati da ogni tuo singolo passo. Almeno tre dei quattro angoli sono rivoltati all’insù, e un paio di grosse pieghe ondulate, non parallele tra loro, alterano l’orizzontalità del tappeto fino a conferirgli il profilo naturalmente casuale della crosta terrestre. In inverno tracce di fanghiglia e foglie secche aggiungono avventurose varianti di Land Art alle austere decorazioni geometriche del kilim. D’estate il disastro è più lindo, meno suggestivo rispetto al trionfo invernale. Ma la scarpa che imprime e svelle è sempre la stessa: tu e la tua tribù avete abolito sandali e mocassini in favore di quegli scafi di gomma imbottita che vi ingoiano i piedi per tutto l’anno, nella neve fradicia come nella sabbia arroventata. [S 12]

Il tappeto diventa un simbolo dell’ereditarietà paterna che il figlio continua a rigettare, rifiutando di conseguenza il passaggio di testimone, quella sacra ritualità che lega per sempre un padre al figlio. Ed è qui che diventa fondamentale una delle scene più significative di questo romanzo, una passeggiata che i due protagonisti si concedono sul Colle della Nasca e a cui, stranamente, il figlio non rifiuta di partecipare. La faticosa salita diventa una metafora del passaggio tra generazioni, dell’anziano padre che viene

72 BARBETTA 2014. 73 BELPOLITI 2013.

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superato dalla giovinezza del figlio. Il padre perde per un attimo di vista il figlio, ma quando pensa di doverlo soccorrere sente il suo richiamo. La parola «papà» appare qui per la prima volta, nel momento in cui il padre sente che il passaggio generazionale è definitivamente concluso e pensa di poter diventare finalmente vecchio.

Anni dopo il saggio di Zoja, la letteratura contemporanea ci mostra come una certa nostalgia verso la figura paterna stia emergendo con evidenza. Romanzi come quelli di Tiziano Scarpa e di Michele Serra ci pongono dinanzi a questioni differenti ed urgenti: non più padri anaffettivi e figli incoscienti, bensì la necessità di ricostruire un nuovo legame fra generazioni.

L’attesa di Telemaco sembra in questo modo non priva di una speranza di ritorno del padre.

Mi ero fermato un paio di volte ad aspettarti. Ero dispiaciuto per te, per la fatica inutile che ti avevo inflitto, come se fosse obbligatorio amare la montagna, salire e tacere, inzupparsi di sudore, ricalcare le orme degli altri.

Riflettevo che il mio mondo sentimentale e culturale è in fin dei conti il lascito di un pugno di generazioni, un paio di secoli al massimo, il mondo borghese con le sue promenades e i suoi knickerbocker è appena un piccolo segmento della lunga retta della Storia. In un montaggio neanche troppo fantasioso di miei ricordi diretti, e di vecchie fotografie, vedevo le generazioni precedenti salire quello stesso sentiero, i miei genitori, i nonni, gli zii, la categoria delle

marraines e dei parraines che radunava le parentele imprecisate e gli amici di famiglia...

Quanto mi sono sentito obbligato, lungo quella traccia tra tante? Quanto l’ho voluto? Quanto ho dovuto? Ed è poi così necessario saperlo?

Salivo a testa bassa, con il fiato corto ma regolare, era un camminare introverso, ormai disattento al cielo e al paesaggio per quanto ero sprofondato nei miei pensieri. E tu? E tu, di colpo, senza che ne avessi avuto percezione, non eri più alle mie spalle. Mi sono voltato con qualche ansia, non sentendoti più camminare, e non ti ho visto. Capendo che mi ero distratto, che ero riemerso da chissà quanti minuti rimuginanti, solitari, mi sono spaventato, e ti ho chiamato ad alta voce. Un paio di volte. Nessuna risposta. In ansia, ho fatto qualche passo in discesa, per tornare a cercarti. Poi ho sentito la tua risposta – Sono quiiiii! – rimbalzare tra i sassi, arrivando da lontano. Cercavo la tua sagoma più in basso, voltato verso il percorso già consumato, percorrendo con lo sguardo i lastroni di ardesia in mezzo ai quali l’esile traccia del sentiero si perdeva. Ti ho sentito ancora: Sono quiiiii! Papààààà!

Udire il nome del padre nella sua forma infantile fece lievitare la mia ansia fino a mutarsi in spavento. Sentirmi chiamare papà, e da lontano, e in quella esposta porzione del mondo, in quella incerta dimensione del tempo dove la mia infanzia ancora galleggiava, quasi mi atterrì. Come un’accusa. Un richiamo all’ordine. Io – non altri – sono quelle due sillabe. Io sono quello che deve. Forse non vuole, forse non può, comunque deve. Confuso, e sentendomi ingannato dalla quota e dalla vastità, ruotavo lo sguardo ovunque, perlustrando tutti i trecentosessanta gradi dei quali ero lo sperduto centro. E finalmente ti ho visto. Eri in alto. Molto più in alto di me, quasi un chilometro avanti, appena sotto alla sommità del colle. Mi avevi sorpassato e seminato senza che me ne rendessi conto, immerso com’ero nei miei complessi rendiconti con i massimi sistemi. Sentii il fiatone, all’improvviso, opprimermi, e le gambe pesanti, come se tutti i miei anni, tutti i miei passi, reclamassero udienza. Tutti insieme. Sopra di te solo il cielo limpido rarefatto dei tremila metri, un blu cobalto che contiene il nero cosmico, ma quando è acceso dal sole diventa pura luce. Mi fermai a guardarti, meravigliato, infine emozionato. Salivi veloce, con un passo elastico, che esprimeva destrezza, sicurezza, forse felicità, quella felicità che solo a dirla, in relazione a te e agli altri della tua tribù, le lacrime mi velano gli occhi. Mentre non ti guardavo ti eri assestato le brache alla vita, stringendo la cintura. E a vederti da sotto quasi volavi, con le tue gambe lunghe e le tue scarpe assurde, magro, alto, padrone del percorso. Molto più in alto di me. Sei salito in pochi passi fino al colle. Quando la tua sagoma è arrivata a stagliarsi contro il cielo, al colmo, ti sei voltato, hai levato il berretto da rapper e l’hai

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sventolato verso di me. Eri troppo lontano perché potessi vederti in faccia, ma so che sorridevi. Poi mi hai dato le spalle, ti sei calcato di nuovo il berretto in testa e in pochi passi sei scomparso dietro il ciglio grigio della montagna. Ti ho chiamato – Aspettami! – ma non hai risposto. Non mi sentivi più.

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Conclusioni

Parlare dell’assenza dei padri e del depotenziamento del loro ruolo sociale e familiare mi ha messo più volte nella condizione di guardare dalla parte dei figli. Infatti, come ho detto fin dall’introduzione, da quando Telemaco compare nei primi canti dell’Odissea la ricerca del padre diventa un tema centrale per la letteratura dell’Occidente1. Tuttavia, questa tesi non adotta un semplice sguardo psicologico rivolto alle giovani generazioni che sempre più spesso si sentono mancanti di un centro e di un punto di riferimento; questo tipo di analisi spettano agli psicanalisti che hanno il compito di indagare più approfonditamente i risvolti psicologici che la latitanza dei padri può provocare. Gli anni Zero sono infatti costellati da studi di natura sociologica, psicologica, storica e giuridica che mettono in primo piano l’inconsistenza reale del padre e le trasformazioni da lui adottate per sopravvivere a questa crisi2; ed è anche da questa saggistica che la recente letteratura ha tratto le sue fonti.

Più precisamente, il mio interesse era sondare come la letteratura riuscisse ad essere una testimonianza di questo evento, tenendo conto di quei fenomeni di carattere storico e sociale che li hanno ampliamente determinati. Così, nello scenario contemporaneo ho scelto di indagare quei testi che a mio parere fossero più sensibili al tema della paternità e al rapporto padre-figlio. Ne è emerso un vasto panorama da poter interrogare e scandagliare; e ne è emerso, in modo più o meno esplicito, quanto questi testi dialogassero con opere della tradizione letteraria che hanno al centro il conflitto col padre: l’Edipo Re, l’Amleto, la letteratura modernista rappresentata dalla Lettera al padre e dalla Coscienza di Zeno, fino alla letteratura a noi più vicina, con Patrimonio e La strada. Se il tema del conflitto è un topos che sfida i tempi, quello della perdita dell’autorità, dell’assenza del padre e della sua ricerca è tornato con vigore negli ultimi decenni, proprio quando la mancanza del padre iniziava ad avere effetti non trascurabili. In questo modo la scrittura letteraria diventa il luogo in cui dare pluralità alla figura paterna, mostrando le diverse maschere: non solo padre castratore da uccidere freudianamente, ma anche padre dimissionario. Non è infatti la perdita dell’autorità a spaventarci, poiché questo ha posto fine ad anni di sudditanza di generazioni di figli: è semmai il venir meno dell’autorevolezza e del suo apporto simbolico che attira l’attenzione. Tuttavia la nostalgia del padre non va verso un padre generico, ma verso quel padre in grado di umanizzare la vita, come direbbe Recalcati: è di questa figura che la società sente quel bisogno di cui la recente letteratura dà chiara testimonianza.

1 ZOJA 2000, pp. 286-287. 2 ZUCCHI 2017, p. 7.

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I testi elencati di seguito sono citati da queste edizioni e con queste sigle, seguite dal numero di pagina:

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