Capitolo 1. M ASCHILITÀ : STUDI ED EVOLUZIONE DI GENERE
3.2. Il rovescio edipico: Affabulazione di Pier Paolo Pasolini
Come abbiamo visto Freud si serve del complesso edipico per spiegare il dramma che ogni bambino vive all’interno del triangolo padre-madre-figlio, sentendosi escluso dalla loro intimità e innescando in questo modo una conflittualità con la figura paterna. L’interpretazione freudiana conferisce al mito edipico un ruolo fondante nella formazione dell’uomo occidentale, destinato a sperimentare fin dall’infanzia il desiderio totale verso la madre e allo stesso tempo indotto a considerare quel primo impulso come una colpa da nascondere. Sarà poi Carl Gustav Jung a declinare questo complesso anche al femminile, utilizzando la definizione di «complesso di Elettra», di certo non privo di importanti differenze psicosessuali. La classicità greca diventa così una fucina da cui attingere modelli archetipici; se non altro già nel teatro greco possiamo ritrovare rappresentati alcuni dei drammi familiari su cui si basa la società occidentale.
Non è un caso, infatti, che il giovane Pasolini scopra ben presto il teatro come mezzo di educazione. Il suo primo testo teatrale, I turcs tal Frìul, scritto nel 1944 e pubblicato solo nel 1976, è un dramma corale ambientato nel 1499 a Casarsa – dove Pasolini si trasferisce nel 1943 – in una comunità friulana in attesa di un’invasione turca. Con i Turcs lo scrittore scrive un tributo alla Resistenza, in cui l’eroe-martire sarà suo fratello Guido, partigiano ucciso da altri partigiani. Già da questo primo testo nasce l’idea che il teatro pasoliniano abbia forti connessioni con gli aspetti biografici dell’autore, seppur «sempre indiretti, visti nella lontananza e nel simbolo»15. Il teatro di Pasolini da lui stesso definito nel Manifesto per un nuovo teatro (1968) un «teatro di parola» – in polemica con le due tendenze teatrali tipiche del suo tempo quali il teatro della Chiacchiera e il teatro del Gesto o dell’Urlo – risulta più difficile da fruire, in quanto il poeta è molto più interessato alla componente “mentale” del testo, piuttosto che a una vera e propria messa in scena16.
Le sei tragedie – Calderón, Affabulazione, Pilade, Porcile, Orgia, Bestia da stile – scritte leggendariamente di getto nel 1966 riproducono alcune delle tematiche dell’autore. In particolare Affabulazione, Porcile e Pilade ripropongono diversamente l’Edipo Re di Sofocle e l’Orestea di Eschilo. Definire «tragedie» le opere teatrali di
15ANGELINI 1996, p. 845. 16 EAD., p 843.
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Pasolini serve soprattutto per mostrare sia la base di partenza dell’autore, ma anche la loro materia fortemente drammatica e ricca di pathos. Tuttavia, Luca Ronconi chiarisce il limite di questa definizione, notando che nessuno dei drammi pasoliniani arriva davvero ad essere una tragedia. Secondo il regista, il tipo di teatro che Pasolini metteva in scena era intrinsecamente polemico e i suoi testi erano sempre “contro” qualcosa; pertanto il suo teatro non assolveva a quella funziona apologetica e celebrativa tipica della tragedia classica [T XXV].
Pasolini nella stesura dei suoi drammi effettua una parodia dei suoi modelli ma non per ottenere un semplice effetto comico-burlesco, bensì per far evincere la sostanza tragica e misteriosa del mito di partenza. I materiali su cui Pasolini studia e da cui è suggestionato afferiscono a diversi campi del sapere: da Platone e i tragici greci a studiosi più contemporanei (Lucien Lévy-Bruhl, Mircea Eliade, Ernesto De Martino ecc.) e in particolar modo l’antropologia psicanalitica di Freud e Jung17.
Inserire qui un’analisi della tragedia pasoliniana mi permette di verificare come l’autore, attraverso il tema del conflitto tra padri e figli, faccia riferimento a quegli sconvolgimenti che un anno profondamente parricida come il ’68 ha causato a livello sociale e familiare.
Affabulazione, che riprende dalla tragedia greca anche l’uso del verso, si svolge in otto episodi più un prologo e un epilogo ed è ambientata in un mondo borghese, all’interno di una villa in Brianza, in cui assistiamo allo sgretolamento del rapporto che lega un padre al giovane figlio. Gli atti che scandiscono la tradizionale commedia o tragedia lasciano qui il posto a molteplici episodi in cui l’adulto ha modo di compiere il suo «affabulare solitario» [T 549]. Nella stesura definitiva verranno eliminati circa cinquecento versi, molti dei quali riferiti all’esplicito desiderio del padre di avere un rapporto carnale col figlio18.
Fin dal prologo Pasolini dichiara l’ipotesto principale da lui utilizzato: l’ombra di Sofocle – che nell’opera ha la funzione sostitutiva del coro greco – inaugura «le vicende un po’ indecenti» [T 471] contraddistinte da «un linguaggio troppo difficile e troppo facile» [T 471] che ripropone fin da subito il drammatico destino di Edipo. Questo tema viene ripreso poco dopo anche nella produzione cinematografica di Pasolini che con l’Edipo Re (1967) ritorna sul materiale tragico con una certa «ansia autobiografica»19, riproponendo aspetti della sua vita per molti versi ancora irrisolti.
Protagonista della tragedia è un industriale lombardo, al risveglio da un sogno misterioso e terribile, rivelatore del suo desiderio incestuoso: l’attrazione verso il figlio e la volontà di sostituirsi a lui per recuperare quello stato edenico proprio di una giovinezza ormai perduta. Percorrendo le tappe di una vera e propria degenerazione, il padre tenta prima di far sì che il figlio lo sorprenda mentre consuma un rapporto sessuale con la madre – quella che la psicanalisi chiama “scena primaria”, cioè l’accoppiamento padre-madre – e poi si fa vedere nel suo studio nell’atto di masturbarsi, per dimostrare la propria sessualità ancora viva. Nell’ultimo episodio il padre, disperato
17ANGELINI 1996,p.843. 18 PRECHT p. 259. 19 MURRI,p. 81.
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per le continue sottrazioni e fughe del figlio, si reca nell’appartamento in cui il giovane si è rifugiato con la propria ragazza e lo uccide durante un loro amplesso servendosi di un coltello.
Nel testo non è soltanto la tragedia greca ad essere ripresa e riscritta, ma anche Freud subisce dei riadattamenti. Dell’uso psicanalitico freudiano, infatti, resta solo la condizione del sogno da cui anche Freud era partito per parlare del mito edipico. Qui il sogno è fondamentale per lo sviluppo del dramma: è allo stesso tempo causa dell’angoscia del padre e inizio della tragedia personale.
PADRE
Ah! Aiuto!
Aaaaaaah! No…Voglio toccarti le ginocchia… Dietro il ginocchio…sui tendini!
Aaaaah…Nei giardini… Dove vai…ragazzo, padre mio!
La stazione, laggiù, la stazione… Aaaaaah, ho i piedi qui, piedini di un bambino di tre anni. Ragazzo che giochi, ragazzo grande!
Che viso hai? Lasciami vedere il viso! Aiuto!
Non c’è più! Se n’è andato!
Voglio inseguirlo, mamma… Non c’è più… Dov’è andato… Non posso
Stare senza di lui…Mamma, mamma, aaaaah! [T 472]
Come nota Franca Angelini la tragedia del padre consiste nel suo essere allo stesso tempo Edipo – i «piedini» rimandano ad un bambino – e Laio. Questo sogno è anche premonitore perché anticipa quell’ultimo luogo, la stazione, in cui dopo la morte del figlio, dopo la prigionia e il suicidio della moglie, il padre non potrà fare altro che constatare la fine del proprio eroismo:
PADRE C’è sempre, nell’eroe di una tragedia,
l’ora in cui egli è un po’ridicolo e perciò fa pietà. Io… ho guardato attraverso il buco di una serratura: ecco la mia azione ridicola… [T 545]
L’angoscia provata è quella di non ricordare il contenuto del sogno, di cercare ma non trovare una risposta al suo tormento, solo la successiva apparizione del figlio chiarifica i suoi dubbi.
78 PADRE […]
Aaaaaaaaaaaaah! Sì… Ho capito, è in mio figlio che il mio sogno continua! Sì!
Ma che cosa ho sognato?
Devo ricordarmelo, Dio mio, per rivelarmi… per rivelare…
qualcosa, che, gioioso o spaventoso che sia,
deve comunque accadere… [T 478]
I tratti di carisma e potere che contraddistinguevano il pater familias sfumano irrimediabilmente. Nel dramma pasoliniano si perde quel rapporto di dipendenza che legava il figlio al padre, ma è quest’ultimo a richiedere la presenza del figlio, a desiderare il suo corpo e la spensieratezza giovanile. Se di regola sarebbero i padri a non stimare i figli che non riescono a compiere il salto definitivo verso la vita adulta20, in questo caso è il figlio a biasimare il padre per il suo comportamento stravagante e immaturo. La forza normativa del padre, la sua autorità, la superiorità fisica e morale vengono meno davanti ad una nuova generazione sempre più ribelle e contraddistinta da «orgoglio» e «leggerezza» di cui il figlio è portavoce.
PADRE Ma tu non sai che la più grande gioia dei padri è vedere i figli uguali a loro?
FIGLIO Lo so, pare che i padri
non chiedano altro alla vita.
Bene, se proprio vuoi che siamo uguali, diventa tu come me!
PADRE Non abbiamo scherzato abbastanza?
FIGLIO Perché? Papà renditi conto
che più sono paterni i torti
più la ragione è figliale: più tu mi perseguiti più io sento l’orgoglio e la leggerezza
di fregarmene di te, di essere libero. [T 479. Corsivo mio]
Nella tragedia la figura materna è quasi del tutto assente: il suo ruolo consiste nel mediare il rapporto tra padre e figlio e nel tentativo di compensare l’atteggiamento imprevedibilmente infantile del marito a seguito del sogno. È infatti il sogno a perturbare il padre e a generare in lui la necessità di comprendere le azioni del ragazzo.
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«Mistero» ed «enigma» diventano in questo modo due concetti chiave nel dramma e
alludono alla vicenda di Edipo: l’eroe solo dopo la risoluzione dell’enigma della Sfinge può attuare il proprio destino, conquistando il regno di Tebe e consumando l’incesto. L’errore del padre è proprio quello di considerare il figlio al pari di un enigma; se così fosse basterebbe la ragione per scioglierlo, ma essendo un mistero, esso può essere solo conosciuto o patito, come in questo caso. Per il padre diventa inspiegabile perfino il colore dei capelli del ragazzo: un biondo che non sente di sua proprietà, simbolo di una giovinezza ormai perduta.
PADRE Perché – mi chiedo – mio figlio è così biondo? Ecco, devo pensare a lui: a questo fenomeno, intanto: lo strano fenomeno della biondezza. […]
Ma cosa cerco, in lui?
E in che cosa consiste il cercare? Intanto, nel guardare:
anche se nessuno sguardo ha mai dato fondo a nessun oggetto. [T 477]
In tutta la tragedia il padre è in continua contemplazione del figlio: dal sogno che è già di per sé una visione, fino al conclusivo atto di spiare il ragazzo dal buco della serratura mentre è in intimità con la propria ragazza. Guardare è già per il padre un vano tentativo di possedere e comprendere il figlio, ma ben presto l’ombra di Sofocle cerca di dissuaderlo dal suo proposito.
OMBRA DI SOFOCLE Bene: tu cerchi di sciogliere l’enigma
di tuo figlio. Ma egli non è un enigma. Questo è il problema.
[…]
Non si tratta, purtroppo, di una verità della ragione: la ragione serve, infatti, a risolvere gli enigmi…
Ma tuo figlio – ecco il punto, ti ripeto – non è un enigma.
Egli è un mistero. [T 514-515-516]
Nel cruciale VI episodio, in cui avviene la presa di coscienza da parte del padre del proprio desiderio, l’ombra di Sofocle preannuncia le future azioni del padre, mostrandogli che la causa del suo tormento consiste nel vano desiderio di possedere il figlio.
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OMBRA DI SOFOCLE […]
Ma tu anziché contemplarlo, lo insegui per prenderlo. Ah, vecchia, maledetta abitudine al possesso!
[…] PADRE […]
mio figlio è dunque la realtà, la realtà che mi sfugge:
una realtà concreta però, che non è tale se non si rappresenta
in tutta la sua insostenibile violenza […]
E io non devo risolverla perché non è un enigma: ma conoscerla – cioè toccarla, vederla, sentirla – perché è un mistero… [T 521]
Pasolini attua una parodia dei suoi modelli, primo fra tutti del mito edipico; in questa tragedia è il padre che cerca di competere con la giovinezza e il vigore sessuale del figlio, cercando prima di assomigliargli e uccidendolo alla fine. Più che il complesso di Edipo, Pasolini riscrive e drammatizza il complesso di Laio recuperando anche il mito di Crono, che dopo aver evirato il padre, divorò i propri figli per continuare a regnare indisturbato sugli dei e gli uomini. Giovanni Greco si sofferma su un’altra tragedia sofoclea che Pasolini ripensa durante la stesura della sua opera: le Trachinie. Per quanto l’opera non abbia goduto della stessa fortuna di altre tragedie del drammaturgo greco – almeno fino al Novecento – come, appunto, l’Edipo Re o l’Antigone, il racconto della fine straziante di Eracle che attraverso l’utilizzo di un vocabolario definito del body in pain21 ordina al figlio di essere ucciso su un rogo suggestiona Pasolini tanto da indurlo alla (ri)scrittura. Come si può leggere nell’epilogo-confessione:
PADRE […]
Ebbene io, anziché
voler uccidere mio figlio… volevo esserne ucciso!! Non ti pare strano?
E lui, anziché voler uccidermi – o lasciarsi uccidere
Volenteroso e rassegnato
come i suoi coetanei obbedienti –
non voleva né uccidermi né lasciarsi uccidere!! [T 548]
Nel ripensare e riproporre i drammi di Laio, Eracle e Crono, Pasolini mette in scena sé stesso nel ruolo di padre in una relazione omoerotica col figlio, alla luce degli sconvolgimenti della fine degli anni Sessanta. Quell’antagonismo che leggiamo nelle
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pagine di Affabulazione tra le due figure principali deve essere necessariamente riletto nel rapporto tra Pasolini, ormai sulla soglia dei cinquant’anni, e gli studenti del Movimento Studentesco. Non nascondendo mai la sua condanna verso i giovani contestatori, ritenuti figli della civiltà consumistica – si pensi alla poesia Il Pci ai giovani (1968) – Pasolini legge questi eventi storici come una delle principali cause della frattura generazionale. L’autore abdica alla sua funzione paterna nei confronti dei giovani contestatori e tale rinuncia emerge in modo inequivocabile nell’articolo intitolato significativamente La volontà di non essere padre che vale la pena citare almeno in parte:
Quando osservo, con amore o con avversione, con complicità o con rabbia ecc. ecc. gli studenti del Movimento Studentesco, un sentimento è continuo e certo: la volontà a non volermi considerare loro padre.
Le ragioni di questo sono molte. C’è certamente, in me, una generale volontà a non essere padre (a non assimilarmi cioè a mio padre e ai padri in genere) ecc. E forse c’è anche una rivalità di padre (padre suo malgrado) contro i figli: che cerca di negare la propria qualità di padre per poter negare i loro diritti di figli […] Ma ci sono anche delle ragioni oggettive: ne espongo due: 1) la precocità umana e culturale dei giovani dell’ultima generazione (che certamente leggeranno con ironia «adulta» queste mie righe ingenue): per cui essi non hanno affatto l’aria di figli […]; 2) il fatto che la nova generazione è nata e si è formata in un’altra epoca, con interessi e forme di vita così diversi […]. [VNP 61]
Verso le nuove generazioni Pasolini non ha un sentimento di compassione: non si può infatti non tenere conto della celebre lettera luterana sui Giovani infelici, nella quale il poeta descrive il destino tragico delle nuove generazioni, costrette a pagare le conseguenze della colpa dei padri – come avveniva nella tragedia classica – per essere stati complici del fascismo prima, e della società dei consumi dopo:
Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare la colpa dei padri.
Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti […] Ma poiché, forse, condanna è una parola sbagliata (dettata, forse, dal riferimento iniziale al contesto linguistico del teatro greco), dovrò precisarla: più che una condanna, infatti il mio sentimento è una «cessazione di amore»: cessazione di amore che, appunto, non dà luogo a «odio» ma a «condanna».
Ebbene, non esito neanche un momento ad ammetterlo: ad accettare cioè personalmente tale colpa. Se io condanno i figli (a causa di una cessazione di amore verso di essi) e quindi presuppongo una loro punizione, non ho il minimo dubbio che tutto ciò accada per colpa mia. In quanto padre. In quanto uno dei padri. Uno dei padri che si son resi responsabili, prima, del fascismo, poi di un regime clerico-fascista, fintamente democratico, e, infine hanno accettato la nuova forma del potere, il potere dei consumi, ultima delle rovine, rovina delle rovine. [LL 5- 6-7]
Il testo ad un certo punto si trasforma in una polemica contro un secolo atroce che ha messo a dura prova i rapporti tra gli uomini, dal microcosmo familiare al macrocosmo socio-politico. L’appello del padre – e questo è l’unico momento del testo in cui la voce del personaggio e quella dell’autore coincidono con evidenza – è rivolto ai padri degeneri in cui si riflette la memoria di quegli uomini terribili della prima metà del Novecento che hanno dato vita ai regimi totalitaristi:
82 PADRE Migliaia di figli sono uccisi dai padri: mentre, ogni tanto, un padre è ucciso dal figlio – ciò è noto. Ma come avviene l’assassinio di figli da parte dei padri? Per mezzo di prigioni, di trincee, di campi di concentramento, di città bombardate.
Come avviene invece l’assassinio dei padri da parte dei figli? Per mezzo della crescita di un corpo innocente, che è lì, nuovo, venuto nella vecchia città, e, in fondo, non chiederebbe altro che d’esservi ammesso.
Egli, il figlio, getta nella lotta contro il padre – che è sempre il padre a cominciare –
il suo corpo, nient’altro che il suo corpo. [T 542]
Come nota Gabriele Vitello22, Affabulazione è una delle opere più attuali del corpus pasoliniano, dove è necessario un ripensamento del modello edipico per interpretare la cesura generazione causata dalle contestazioni. Pertanto «le rivolte giovanili degli anni Sessanta e Settanta non devono essere viste tanto come l’espressione di una pulsione edipica, quanto come una conseguenza di una degenerazione della figura paterna»23:
PADRE […]
La sinossi del rapporto tra padre e figlio con cui ho concluso il mio affabulare solitario vale proprio per il presente reale;
e il futuro imprevedibile che mi ha armato la mano è proprio questo, del decennio che viviamo.
Esso ha fatto decadere il passato, e, prematuramente, domina gli uomini. Gli uomini lo vivono con inconsapevolezza, sentendolo in realtà piuttosto come morte di valori passati che come nascita di nuovi. Ciò li umilia, e li fa regredire a empietà infantile. È questo che, in realtà, mi ha reso assassino di un figlio abulico, anacronisticamente innocente (a meno che non si tratti
di una innocenza umanamente nuova). [T 549]
Se il paradigma edipico era sufficiente per interpretare le opere degli autori modernisti come Kafka, Pirandello, Tozzi o Svevo, il venir meno della figura dispotica del padre ha esaurito totalmente questa chiave di interpretazione24. L’antagonismo fra padre e figlio non può più essere letto in senso edipico, ma è necessaria una risemantizzazione della nuova figura del padre – non più forza castrante – che ha la sua
22 VITELLO 2013, pp. 59-60. 23 ID. p. 47.
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genesi nel ventennio ’60 -’70. Per questo motivo nel dialogo tra il padre e la negromante presente nel VII episodio, Pasolini non può non mettere in bocca ad una figura dotata di chiaroveggenza proprio questa idea di insufficienza edipica, invitando il padre a chiedersi cosa ci sia oltre la rivalità padre-figlio, freudianamente intesa:
NEGROMANTE Eh, si conosce ben poco dei rapporti tra questi padri e coloro per cui sono veramente padri, cioè,
scusi la banalità, i loro figli maschi. Si è sempre steso un velo su questo, con la pretesa che si tratti soltanto di un rapporto di rivalsa o di rivalità.
E la causa della rivalsa sarebbe l’odio per il nonno, mentre quella della rivalità, sarebbe l’amore per la moglie, o, in generale, il sesso femminile. È tutto qui?
Non c’è proprio altro?
In ogni rapporto c’è sempre qualcos’altro. In questo no? [T 527]
Nel dramma non si narra mai «la storia di un solo padre» [T 550] o di Pasolini stesso, ma viene messa in scena la crisi dei padri che già negli anni in cui la tragedia venne composta iniziava ad essere evidente.
Affabulazione può essere intesa come una metafora o un «lunghissimo monologo» [T XXI] – come disse Ronconi – sul mancato dialogo fra due generazioni che comportarono conflitti drammaticamente irreversibili nel nostro Paese. Pubblicata solo nel ’69 nella rivista «Nuovi Argomenti», questa tragedia concentra al suo interno tutta quella «mutazione antropologica» che l’istituzione familiare stava subendo: