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La lotta col padre: Il male oscuro di Giuseppe Berto

Capitolo 1. M ASCHILITÀ : STUDI ED EVOLUZIONE DI GENERE

3.1. La lotta col padre: Il male oscuro di Giuseppe Berto

Nel 1964 Giuseppe Berto pubblica Il male oscuro che divenne fin da subito un caso letterario, vincendo sia il premio Viareggio sia il premio Campiello. L’opera rappresentò da subito una vera e propria svolta per la carriera letteraria dell’autore che

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con il testo Il cielo è rosso (1946) venne fin da subito considerato un neorealista. Il male oscuro è il risultato di una complessa «testimonianza di ricerca, un percorrimento dell’identità»2, un viaggio graduale nell’inconscio che l’autore fa nel suo isolamento presso Capo Vaticano, dove la scrittura letteraria diverrà premessa per un migliore conoscenza di sé nonché − in termini orlandiani − sede del ritorno del rimosso.

Nel romanzo il narratore racconta alcuni episodi della sua vita, in particolare soffermandosi sul difficile rapporto col padre, la cui morte scatenerà in lui una serie di sensi di colpa per non essergli stato vicino nei suoi ultimi momenti di vita. Il protagonista cercherà anche di risolvere la sua particolare forma di depressione che lo costringe a girovagare per medici talvolta incompetenti, fin quando incontra uno psicanalista di scuola freudiana che, attraverso l’analisi di sogni più complessi, lo solleciterà a fare i conti con sé stesso e con il defunto padre.

Fin dalle primissime pagine del testo si pone il problema riguardo il genere letterario di appartenenza, nonché sulla veridicità dei fatti narrati. È l’autore stesso a chiarirci questi dilemmi definendo la sua opera un «romanzo» e specificando che ogni autore nel momento in cui scrive un’autobiografia interviene sui fatti e sulle persone con un atto di deformazione. In questo testo la disamina della «lunga lotta col padre», consente all’autore di evidenziare dinamiche interiori come la memoria, la costruzione del sé, la personalità e l’autoanalisi.

Una riflessione di questo tipo venne realizzata dall’autore in due racconti risalenti agli anni Sessanta, Esaurimento nervoso e Uno del giro confluiti poi nella raccolta Un po’ di successo3 (1963), in cui l’analisi psicologica ha già modo di incontrare la confessione autobiografica. Nel primo racconto Berto si interroga sulle fasi della nevrosi e cerca di dar forma al caos interiore creando così i presupposti che verranno sviluppati più nel dettaglio nel Male oscuro. Il secondo racconto, invece, mette in scena una morbosa relazione di coppia e la patologica gelosia della moglie del protagonista facendo luce sul tema dell’infedeltà femminile che si ritroverà, seppur con esiti differenti, nell’opus magnum4.

All’interno del romanzo l’evento che più di tutti risulta centrale è il percorso di psicanalisi del protagonista. Effettivamente Giuseppe Berto nel 1958 viene preso in cura, a causa della sua già aggravata forma di nevrosi, da un uno psicanalista freudiano, Nicola Perrotti, annoverato tra i principali fondatori della Società Psicoanalitica Italiana. Lo psicanalista che nel testo viene apostrofato come «il vecchietto» è stato l’unico in grado di aiutare l’autore di Mogliano Veneto, permettendogli dapprima di fare chiarezza sull’origine della sua nevrosi e poi di superare il blocco nella scrittura, a cui seguirà una prima grezza stesura dell’opera in questione.

Attraverso una prosa definita dall’autore stesso «discorso associativo»5, contraddistinto da una punteggiatura ridotta all’osso, da un flusso di coscienza di memoria joyciana e dal dialogo in absentia col padre, simile a quello che Kafka

2 PIANCASTELLI 1989, p. 148.

3 Oggi li ritroviamo anche nell’ed. Tutti i racconti. 4 RENZI 2017-18, pp. 80-87.

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propone nella Lettera al padre (1919), Berto ripercorre le tre fasi cruciali della sua esistenza facendo emergere l’indagine condotta sul proprio inconscio.

La mia lotta col padre mi sembra quanto basta varia e lunga da poter essere argomento di una storia, e a questo scopo […] si può dividerla, grosso modo, si capisce, in tre periodi o fasi, […] la prima essendo quella che va dalla nascita o al diciottesimo anno di età, quando mi venne la bella idea, ma in fondo necessaria, di partir soldato, ed è fase caratterizzata, almeno sul principio, da una massiccia prevalenza paterna, esercitata sia simbolicamente che fisicamente, e con svariati mezzi come ad esempio l’alta statura, o il peso che superava il quintale, o il tabarro fors’anco grigioverde, o la calvizie che io […] ho sempre considerato segno di potenza, […] riuscii gradatamente a liberarmi della sua strapotenza e a passare, con l’alzata di testa dell’arruolamento volontario, alla seconda fase, quando, francamente, questo padre arrivai a metterlo sotto i piedi, tanto da poterne avere addirittura pietà qualche volta, […] cosa che più o meno durò fino al mio trentottesimo anno di età, quand’egli ebbe la disavventura di morire, provocando in questo modo l’inizio della terza fase che va appunto dalla sua morte in poi, e qui le cose si sono messe di nuovo male per me, molto male. [MO 9]

Già in questo stralcio è evidente quale sia il filo conduttore dell’intera narrazione. Lo scrittore non ha un mero intento cronachistico riguardo il suo legame col padre o in generale con gli altri personaggi appartenenti al nucleo familiare, ma vuole mettere in luce quell’evento che ha scatenato la nevrosi, ovvero la morte del padre e il conseguente complesso di colpa dovuto alla propria assenza al capezzale, da cui il narratore farà dipendere la vendetta postuma del defunto sulla propria salute mentale e sulla mancata gloria letteraria.

Vorrei essere chiaro su questo punto che è un punto capitale della vicenda inquantoché segna l’inizio del passaggio dalla seconda alla terza fase della lotta col padre e in altre parole il ritorno alla sua strapotenza, e non è detto che non segni anche l’inizio benché ancora lontano e recondito dell’oscura malattia che mi venne nell’anima, anzi diciamo senz’altro che è nata da lì questa brutta malattia, dato che la constatazione di una colpa oggettiva qual era in realtà l’assenza provocò la scossa provvisoriamente inavvertita che mise in moto tuti gli altri sentimenti di colpa rimossi e tenuti in deposito nell’inconscio, in attesa di nuocermi. [MO 15]

Si può notare come l’autobiografismo e lo psicologismo di Berto traggano suggestione da un precedente letterario illustre quale La coscienza di Zeno (1923), da cui viene ripreso il retroterra psicoanalitico e il taglio volutamente ironico teso a smorzare i toni più drammatici. Anche Zeno si ritrova paralizzato a causa della scomparsa del padre, e nel capitolo intitolato La morte di mio padre tenta di esorcizzare l’angoscia provata dopo lo schiaffo ricevuto dal padre prima della sua morte. Come Zeno, al quale quell’evento impone di fare i conti con l’autorevolezza paterna, anche Berto viene turbato da un altro tipo di gesto accusatorio, ossia quello sguardo con cui il padre implicitamente colpevolizza il figlio per la sua lontananza:

e poi mi stupì anche il suo modo di guardarmi, senza grande interesse a dire il vero, però scommetto che il suo pensiero era perché mai sarebbe qui costui se io non mi trovassi più di là che di qua, certo questa cosa poteva pensarla anche in una diversa forma, ma la sostanza doveva essere eguale, io suppongo che già sapeva che sarebbe morto, o forse non lo sapeva ancora, però aveva nello sguardo lo stesso sgomento appena appena recalcitrante che hanno buoi e vacche quando li conducono al macello comunale […], epperciò in complesso questo incontro col padre moribondo era un avvenimento poco riuscito per non dire penoso… [MO 18]

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È tuttavia doveroso ricordare che Zeno è un narratore inattendibile. Il suo racconto non solo non segue l’andamento cronologico su cui è impostata la struttura tradizionale del romanzo, ma presenta diverse oscillazioni tra verità e bugie che il narratore stesso non nasconde al lettore. D’altronde, Niccolò Scaffai nota che «se Zeno avesse voluto e potuto raccontare la verità, avrebbe scritto qualcosa di simile al Male Oscuro»6. La dipendenza di Berto dall’inattendibile Zeno è testimoniata dal narratore stesso nel momento in cui ammette che le sue poche conoscenze in materia di psicoanalisi risalgono alla lettura della Coscienza.

Sull’argomento conosco solo quel poco che mi è giunto attraverso Svevo e se ho ben capito il risultato terapeutico della faccenda viene descritto come scarso nel divertente romanzo che parla di Zeno […] ma poi con improvvisa scontrosità e brusca voglia di mettere subito le cose in piazza gli confido che siccome mio padre per prima cosa sembra che mi abbia trasmesso il piacere dell’onestà sento il dovere di dirgli che io alla psicoanalisi non credo gran che, non più di quanto ci credesse Svevo ai suoi tempi in ogni caso, e che se mi vedeva lì davanti a lui era più per disperazione che per convinzione. [MO 284-285]

Al suo psicoanalista Berto-narratore confida di non nutrire grandi speranze nella buona riuscita della terapia ma ben presto l’effetto positivo del transfert gli consente di cambiare opinione. Infatti quei sentimenti ambivalenti provati nei confronti del padre vengono trasferiti sulla figura dello psicoanalista, attraverso cui il paziente soddisfa quel sentimento di amore filiale tanto represso durante la giovinezza, iniziando a considerare lo psicanalista stesso come un nuovo padre.

Sia per Zeno sia per Berto la psicanalisi ha la funzione di recuperare un periodo dell’esistenza difficoltoso, ma anche di riesumare quei traumi che hanno agito sotterraneamente sulla loro vita psichica. Se Zeno però, su consiglio del dottor S., affida alla scrittura il compito di sondare la sua coscienza e di approdare alla definitiva salute per Berto, al contrario, superare il blocco che lo paralizza è già sintomo della guarigione. Bisogna comunque ricordare che nonostante nel 1964 la psicanalisi non venisse praticata come oggi, Berto è in grado di servirsene per la sua prosa narrativa, mostrando molteplici possibilità e implicazioni. La psicoanalisi diventa in questo modo il presupposto per la guarigione, il ritorno alla scrittura ne è l’esito positivo e il Male oscuro la necessaria conseguenza.

L’immagine del padre che più volte viene riproposta nel romanzo è quella di uno statuario maresciallo dei carabinieri a cui il figlio guarda, fin da piccolo, con sentimenti ambivalenti di ammirazione e paura. Questa autorità super-egotica viene introiettata nel Berto bambino e lo costringerà per tutta la vita a vani tentativi di essere stimato dal padre. Fin dall’età di nove anni Berto vive con l’ansia di voler soddisfare le alte ambizioni che il padre-maresciallo ripone in lui con la sola conseguenza di avvertire un profondo senso di inferiorità nei suoi confronti:

il padre mio era proprio ammalto di queste ambizioni almeno nei riguardi del primogenito, e invero fece molti sacrifici per farmi studiare, molti penosi sacrifici, ma qui il medico

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interveniva a dire con fermezza che non era vero, o meglio che io dovevo smetterla una buona volta di pensare a quei molti penosi sacrifici, però io da quella faccenda ero rimasto come si dice traumatizzato, ossia dal fatto che quando decise di mettermi in collegio mio padre mi disse che dovevo studiare perché lui faceva molti sacrifici per mantenermi in collegio, sicché io che non avevo ancora nove anni mi trovai davanti alla mostruosa necessità di farmi onore e di essere sempre bravo per ripagare almeno in quel modo i sacrifici del padre mio, lo pensavo che lavorava per me tutto il giorno e magari nemmeno mangiava abbastanza […], e immaginate un po’ di quanta responsabilità aveva caricato le mie deboli spalle, tutto per la soddisfazione che lui voleva un figlio istruito, pensava di farmi diventare ragioniere a quei tempi e io per amore di mio padre e della mia famiglia che pativa la fame studiavo come un matto, volevo sempre essere il primo della classe per quanto non sempre riuscissi a esserlo. [MO 69-70]

La lucida analisi portata avanti dallo psicanalista consente a Berto di capire che molte delle sue decisioni di vita non erano fatte per contrastare il padre, ma per ottenere il consenso paterno e sentirsi apprezzato come figlio.

queste circostanze secondo il mio medico gettano un po’ di luce su molti aspetti della mia vita altrimenti inesplicabili, chiariscono ad esempio come mai un individuo come me, pigro e pavido in fondo e alieno dalla violenza come lo sono quasi tutte le persone parsimoniose, sia andato a fare ogni guerra che gli fu possibile fare, perdendo sciaguratamente molti anni, e perdendo anche la stima dei radicali che giustamente non ammettono queste cose, e da un altro punto di vista chiariscono inoltre il puntiglio che mettevo nell’essere sempre tra i primi della classe […]. [MO 72]

In Berto è assente una netta contrapposizione alla figura paterna – come avviene in Zeno – bensì per l’autore il padre rappresenterà sempre un’autorità da cui cercare riconoscimento e ammirazione. Proprio l’ambiguità con cui Berto si accosta al padre, in questo continuo gioco di scontro e incontro, disprezzo e ammirazione, è evidente il rimando alla Lettera al padre di Kafka, in cui il figlio riconosce gli inevitabili pregi dello strapotere paterno:

Ma l’ostacolo maggiore al matrimonio è la convinzione ormai profondissima che per mantenere una famiglia e poterla guidare occorre necessariamente tutto ciò che io ho individuato in te, e tutto insieme, buono e cattivo, come è fisiologicamente riunito in te, quindi forza e disprezzo del prossimo, buona saluta e una certa smodatezza, talento oratorio e inadeguatezza, fiducia in sé e insoddisfazione verso gli altri, senso del dominio e tirannia, conoscenza degli uomini e diffidenza verso la maggior parte di essi, e infine anche qualità prive di difetti come la solerzia, tenacia, presenza di spirito, imperturbabilità. [LP 67]

La conseguenza di aver introiettato un padre così intransigente danno vita ad una lotta che non rappresenta la ribellione del figlio nei confronti di un padre ingombrante, ma la necessità del protagonista di avvicinarsi il più possibile all’ideale di figlio che un maresciallo dei carabinieri avrebbe voluto avere. Pertanto ogni sua decisione di vita, dalla scelta lavorativa al reclutamento nell’esercito, sono prese unicamente per compiacere il padre.

Immagino la fierezza davanti alla lapide dei caduti col nome del primogenito scolpito nel marmo, vedi non è che proprio non lo volessi non mi è capitato ecco tutto, e così basta mi pare sebbene ci sia da dire anche della mia riluttanza di fronte agli impieghi statali, tuo padre ha dato la vita dicevi per farti studiare e tu rifiuti il posto alla scuola media, ricordati le parole di tuo

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padre dicevi perché ti pentirai, e così Signore Iddio eccomi pentito, quanto sarebbe stato meglio lo stipendio fisso e le vacanze pagate e alla fine la dignitosa pensione, lo confesso a sconto della mia superbia poiché ora è chiaro che io volevo la gloria per farti vedere che avevi torto, come se fosse possibile per te così saggio e prudente avere torto, ecco la mia stoltezza ma ora rinuncio alla gloria e tu non infierire su di me […]. [MO 225]

Tuttavia, il padre non è immune a quel processo di smitizzazione che lo renderà più simile a una figura umana con i suoi limiti e fragilità:

però bisogna anche riconoscere che per ciò che riguarda strettamente la lotta tra me e il padre mio egli con questa storia dei sacrifici per farmi studiare fece un bello sbalzo in giù nella scala dei valori diciamo pure mitologici, poiché dalla posizione di assoluta grandezza e potenza che bene o male aveva fino allora conservata decadde non dico a rango di povero diavolo ché questa fu una conquista successiva, ma insomma non era né più né meno di uno dei tanti che faticavano per campare, però ecco che questa particolarità lo avvicinava un poco a me che non ero nessuno. [MO 71]

Il padre maresciallo, incarnazione del bene che sconfigge il male, sempre lontano da casa per adempiere ai suoi obblighi, perde tutto il suo impeccabile eroismo nel momento in cui il figlio comprende la sua limitatezza fatta di sacrifici e costrizioni. Tutto ciò genererà ancor di più nel figlio un senso del dovere che non verrà mai apprezzato dal padre ma sarà causa dell’eterna lotta fra i due. Infatti questa dipendenza dal consenso paterno non svanirà con la morte di quest’ultimo, ma si protrarrà anche successivamente, diventando per Berto un’ossessione costante:

[…] in quei tempi calamitosi dovevo accontentarmi di lavori bassi purché rapidamente remunerativi, cercando per di più di prenderli sottogamba sebbene non tanto altrimenti saltava fuori l’ombra del padre carabiniere con tutto il suo carico di rettitudine trasmissibile e diceva sta’ attento alle mie parole si comincia così e si finisce in galera, sempre diceva che sarei finito in galera e a me sarebbe proprio dispiaciuto dargli pure questa soddisfazione finale dopo le tante che gli stavo dando dalla sua morte in poi, ad ogni modo sotto la vigilanza paterna lavoravo meglio che potevo allo scopo di guadagnare denaro […]. [MO 168]

Quando Freud perse suo padre nell’ottobre 1896, oltre a realizzare un’analisi della propria storia personale in rapporto al padre, capì che per sanare quel lutto significativo avrebbe dovuto lavorare sul proprio inconscio. Da questo momento in poi i sogni iniziarono a rappresentare per lo psicanalista una vera e propria «chiave» per mezzo del quale era possibile penetrare nell’inconscio ed estrarne quel materiale simbolico, informe ed enigmatico che vi era accumulato.

La nostra concezione dell’elemento onirico afferma che esso è qualcosa di inautentico, un sostituto di qualcos’altro che al sognatore è sconosciuto (simile in ciò alla tendenza dell’atto mancato), un sostituto di qualcosa la cui conoscenza è presente nel sognatore ma gli è inaccessibile. [IP 104]

Ed è esattamente questa la proposta che il «vecchietto» fa al paziente Berto, ovvero quella di raccontare i suoi sogni e di fornirne una propria interpretazione.

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Comunque piuttosto che niente andavano anche sogni come questi sui quali bene o male si poteva discutere, io con le mie interpretazioni e il medico con le sue che qualche volta concordavano con le mie e qualche volta no, e allora io restavo del mio parere poiché non è da dire che le interpretazioni freudiane mi convincessero molto, finché un giorno non mi capitò di andare dal medico col sogno detto della libreria Rossetti, che io ritenevo un sogno miserello […] mentre il medico ne fece un’interpretazione diversa, originale e persuasiva […] e la psicoanalisi è proprio una bellissima cosa quando si raggiunge questo stato per dir così fermentativo. [MO p. 63]

Nel Male oscuro il racconto del sogno diventa un atto di verità, mentre nella Coscienza di Zeno anche i sogni risultano inattendibili «dando corpo a un’autobiografia immaginaria […] a un ritratto clandestino che deforma quello ufficiale»7. La storia del sogno della libreria Rossetti è anticipata dal racconto di altri sogni «miserelli», in modo tale da segnalare la natura psicanalitica del sogno «radicale». Nel sogno, ambientato nella libreria Rossetti di Via Veneto, il narratore afferma di aver visto un uomo «col tabarro» che aveva tra le mani una riproduzione eseguita da lui stesso. A differenza delle altre persone presenti nel sogno, che «potevano benissimo essere radicali, scrittori, giornalisti, commediografi, saggisti, esegeti», al narratore non era concesso toccare né guardare la riproduzione. Il medico, compresa la forte ingerenza edipica presente nel materiale onirico, insiste nel voler sapere chi fosse l’uomo col tabarro e cosa rappresentasse la misteriosa riproduzione. La tecnica proposta dallo psicoterapeuta è quella delle libere associazioni con cui Freud era convinto di poter fare emergere formazioni sostitutive attraverso cui scoprire ciò che rimaneva nascosto. Anche Recalcati ricorda l’importanza di questa prassi nell’esperienza psicanalitica per far emergere la nostra idea dell’altro e aiutarci a capire la sua influenza nella nostra vita:

l’esperienza dell’analisi rivela come, applicando la regola dell’associazione libera, invitando cioè il paziente a dire tutto ciò che gli passa per la mente, le figure familiari del padre, della madre, dei fratelli e delle sorelle appaiono immancabilmente come protagoniste del