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Dove eravate tutti di Paolo Di Paolo

Capitolo 1. M ASCHILITÀ : STUDI ED EVOLUZIONE DI GENERE

3.4. Cambiamenti nello statuto genitoriale: verso la scomparsa del padre

3.4.2. Dove eravate tutti di Paolo Di Paolo

Diverso è il caso di Dove eravate tutti (2011) di Paolo Di Paolo. In questo romanzo, l’autore racconta la storia di Italo Tramontana, classe 1983, uno studente di Storia contemporanea in ritardo nella conclusione del suo percorso universitario e che, nonostante l’età, vive ancora sotto lo stesso tetto dei genitori, senza aver riportato significative esperienze dal punto di vista lavorativo, intellettuale e sentimentale. L’opera – che Giulio Ferroni definisce «romanzo non romanzo»55– si presenta come un memoriale degli ultimi vent’anni della storia d’Italia e anche del mondo, attraverso il ricordo di alcuni eventi significativi come la morte di Paolo Borsellino, il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, l’attentato alle Torri Gemelle, la vittoria di Barack Obama, l’ascesa di Silvio Berlusconi sotto il cui segno vive un’intera generazione.

Mi sento costretto a concludere che niente di decisivo nella mia vita fin qui è accaduto senza che ci fosse da qualche parte, Silvio Berlusconi. Questa non è una cosa bella, né brutta. È una cosa vera. Potrà sembrare strano, ma l’Italia prima di lui, o senza di lui, per me non è mai

53 RECALCATI 2010 p. 7. 54 VITELLO 2013, p. 47.

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esistita. La giovinezza di una generazione ha coinciso con lui. E non c’è più tempo. [DET 27- 28]

Ma il romanzo è anche una storia privata, più intima che segue le vicende della famiglia Tramontana a partire dall’ictus che uccise il nonno di Italo nel 1993, sino ai difficili anni dell’università del protagonista. In particolar modo il narratore si sofferma sul racconto di un incidente in cui il padre di Italo, professore di lettere e storia neo- pensionato, investe con l’auto un suo ex studente all’uscita da scuola. Ed è proprio quest’ultimo avvenimento che sgretola la serenità famigliare – un padre che rischia la reclusione da tre mesi a tre anni, una madre in fuga verso Berlino, una sorella su cui non poter fare affidamento – di cui lo studente tenta di rimettere ogni pezzo al proprio posto.

Questi singoli avvenimenti sono tenuti assieme da un io narrante da identificare con una coscienza generazionale che esige un’emancipazione dalla società contemporanea e dall’indolenza dei padri. Quelli che ci riporta Di Paolo sono spesso dialoghi interrotti o mai pronunciati, monologhi interiori di Italo («papà – papà gli direi se sapessi parlagli»

[DET 36]) che appaiono come una dichiarazione di aiuto. Italo fa un passo in avanti rispetto ai personaggi di Riportando tutto a casa: non ha un atteggiamento di passiva accettazione di una situazione famigliare alla deriva, bensì cerca di restaurare un canale comunicativo con il padre, cercando il momento da cui si è generata la rottura:

fino a questi eventi inattesi, oltretutto, il legame con mio padre non si era mai presentato come un vero problema. Solo adesso cominciavo a domandarmi se invece lo fosse stato, e a mia insaputa.

Avevo mai guardato negli occhi mio padre per un tempo superiore a venti secondi?

Mettiamo le cose in chiaro. Non è possibile stabilire, neanche tramite indagine storica, l’istante in cui si è interrotto tra noi il contatto fisico.

[…] Soprattutto c’era il suo sguardo scuro, che invadeva i viali e mi seguiva lontano da casa. Senza avere mai davvero alzato la voce, e mai le mani, deve avermi educato a forza di questo sguardo severo, in grado di estendersi fino a coprire distanze notevoli. [DET 45]

L’educazione si svolge nel segno dell’autoritarismo non della comunicazione. È lo sguardo intransigente – come del resto accade in Berto – ad ammonire le azioni del figlio non la testimonianza della parola. Come fa notare Dacia Maraini nel romanzo la relazione tra il padre e il figlio sconfina nei silenzi paterni che Italo fin da bambino ha imparato a decifrare:

Già da bambino, sapevo riconoscere i silenzi di mio padre. C’erano quelli della concentrazione, quando passava ore a riempire di segni rossi i compiti dei suoi studenti. C’erano quelli della lettura e della scrittura, erano silenzi che sembravano quieti e sereni, ma era comunque pericoloso interromperli […] C’erano i silenzi di quando era arrabbiato con me e allora tremavano i vetri anche se tutto taceva. Sono nuovi, questi silenzi della pensione. E i silenzi di quando Anita esce, torna tardi e non si sa mai con chi è uscita. [DET 67-68]

La scrittrice toscana si chiede come sia possibile in un’epoca come la nostra, così improntata alla feticizzazione della parola attraverso i vari canali comunicativi, che le

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relazioni umane siano contrassegnate dall’incomunicabilità, quasi come se la tecnologia arrestasse quella che è la vera comunicazione56.

Italo – direbbe Massimo Recalcati – è il perfetto esempio di Telemaco omerico. Egli incarna la figura del giusto erede, colui che ricerca disperatamente il padre e lo fa ricercando il momento esatto in cui non ha più avvertito quella testimonianza, quella parola che umanizza la vita: «e con te, no, non dico che mi è mancato il contatto fisico, che importa, però sentirti parlare di più, questo sì, mi è mancato» [DET 76].

Così Italo, carico di domande, compie la sua telemachia. Ma è una telemachia un po’ diversa: parte per Berlino, non alla ricerca del padre, ma della madre fuggita dai drammi familiari. Berlino diventa il luogo in cui provare a ristabilire l’antica serenità familiare, è il luogo in cui poter cercare, cercarsi e rispondere alle proprie domande. Berlino diventa anche il luogo in cui comprendere come la storia universale incroci quella personale. Italo si chiede dove siano segnati tutti i confini, le frontiere, i ponti, i muri, si chiede dove siano segnate le cose che non si vedono e non esistono più.

Ma qui Italo-Telemaco torna in patria senza alcuna risposta, solo con dubbi e silenzi. Non può fare altro che storicizzare gli ultimi avvenimenti del Paese, del mondo e della propria famiglia.

Sull’aereo che ci stava riportando in Italia sembrava possibile prendere le distanze da tutto. Storicizzare. Ma era un attimo, poi tutto tornava a confondersi. Guardavo di continuo fuori dal finestrino, non sapendo più cosa dire a mia madre. Avrei voluto dirle: mamma, ma insomma chi è Anita? […] E papà, chi è papà? Papà- tuo marito. Papà-mio padre, Papà-professore. Papà- pensionato. […] E poi io, chi sono? Quando non mi vedi. E tu, chi sei? Quando l’aereo toccherà terra, ripiomberemo dentro la nostra vita di prima? Con tutte le abitudini, gli errori, i silenzi? [DET 196]

Italo – come scrive Antonio Tabucchi – «è una specie di Giovane Holden all’incontrario, sempre smanioso di essere amato, che vorrebbe dare ordine a un mondo che ordine non ha

»

57. Questo ordine però non riesce a stabilirlo, neanche nel finale. I pezzi non si incastrano più. Il finale è un finale d’inerzia – «allora niente, nessun gioco di prestigio era riuscito. Perciò, a questo punto, l’unica piccola cosa confortante a cui pensare era che mamma e papà, in linea di massima, avrebbero continuato a vivere insieme. Si poteva buttare al vento un tale patrimonio di anni?» [DET 197]

In questo romanzo il catasto di ritagli di giornali, fotografie, immagini e cronologie universali servono a Italo – nonché all’autore – per recuperare quello Zeitgeist che sembra sfuggirgli dalle mani. Attraversando il ventennio berlusconiano, Italo scandaglia non tanto quello che sono stati gli anni dello strapotere del premier milanese, ma quello che ha lasciato la fine di questo regime, ossia un inesorabile vuoto. Il titolo Dove eravate tutti può essere inteso come una domanda-esclamazione rivolta ai genitori, ai padri e alla loro indolenza. Il giovane si chiede dove fosse la generazione degli adulti mentre tutto questo accadeva. Italo-Telemaco è alla ricerca di una parola-testimonianza, ma le sue sono domande destinate a non ricevere risposta.

56 DI PAOLO - FERRONI -MARAINI 2011 57 TABUCCHI 2011.

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Se nel romanzo di Lagioia i personaggi e i padri sono ben lontani dall’attuare un processo di crescita e di formazione, in Di Paolo Italo ha il desiderio di emanciparsi dalla pigrizia degli adulti, ma appare comunque incapace di colmare le sue mancanze. In un mondo disgregato dall’incomunicabilità anche il gesto più semplice come abbracciare il padre sembra impossibile.

Gli occhi sono assenti, vuoti. Ma è la bocca – la sua linea sghemba, una specie di ferita storia – a colpirmi, a farmi male. Come un segno di disarmo e di resa incondizionata. Sono qui, sono un padre quasi vecchio, dice la maschera mogia. Poi non so, ma pare che riassuma, che dica, anche senza parole, tutta una somma di preoccupazioni e sforzi. Tutto ciò che comunque, negli anni aveva fatto: per noi. Allora capita che venga in mente il gesto più impraticabile e assurdo.

Abbracciarlo.

Ma sono istanti. Per il resto torna, come uno strappo, la volontà di recriminare. Di alzarsi in piedi, e dare inizio all’assalto. Per esempio, così. Ma è soltanto un’ipotesi. [DET 74-75]

Il narratore, che non a caso si chiama Italo, ritrae un desolante panorama della più recente storia italiana, rintracciando la causa del declino del Paese nella pigrizia e nel tacito assenso di chi ha vissuto prima di noi. Così come scrisse il Pasolini luterano, anche in questo romanzo è evidente come la negligenza dei padri condanni i figli a scontare colpe non proprie; e la conseguenza più immediata di queste colpe risiede nell’infelicità dei giovani.