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Geologia di un padre di Valerio Magrelli

Capitolo 1. M ASCHILITÀ : STUDI ED EVOLUZIONE DI GENERE

3.3. Una paternità mitizzata

3.3.2. Geologia di un padre di Valerio Magrelli

Con Geologia di un padre Magrelli si pone sulla stessa scia solcata da Albinati, ossia di dare una struttura letteraria al cumulo di memorie legate al padre Giacinto.

Innanzitutto possiamo dare alcune liminari considerazioni su questo libro, tratte dalla nota che lo stesso autore pone in chiusura. Scopriamo così che esso costituisce l’ultimo capitolo – «l’ultimo pennello» – di una tetralogia avviata con Il condominio di carne (2003) e proseguita con La vicevita. Treni e viaggi in treno (2009) e Addio al calcio (2010). Sono testi in cui l’autore ha già modo di sperimentare forme narrative come l’autobiografia e l’autobiologia in cui tessere un mirabile gioco di rimandi a opere precedenti, appartenenti alla tetralogia oppure no, inserendo ogni prelievo letterario in un tronco narrativo sempre diverso e tutto da sviluppare. Nello stesso modo è costituito quest’ultimo libro Infatti subito dopo la nota, l’autore avverte delle diverse citazioni e auto-citazioni disseminate all’interno del testo: Francesco Petrarca, Novalis, James Joyce, Guillaume Apollinaire, Arthur Schopenhauer sono solo alcune delle fonti menzionate da Magrelli considerati dei veri e propri “padri letterari”; mentre nell’ appendice finale dal titolo Cronache del Pleistocene, Magrelli inserisce dei versi propri tratti da Nero sonetto solubile. Per quanto riguarda l’appartenenza ad un genere letterario, se nella trilogia possiamo intuire una relazione ambigua con l’autobiografismo, ma è da escludere l’appartenenza all’autobiografia, in Geologia di un padre questo limite è molto più sottile dal momento in cui la materia trattata «comporta un maggior coinvolgimento autobiografico, una carica simbolica più potente, una più alta e immediata trasfigurazione mitica»30.

Torniamo però alla figura di Giacinto Magrelli, protagonista di quest’ opera fin dalle primissime pagine. Infatti la prefazione del libro non porta la firma – come comunemente viene fatto – dell’autore o di una terza persona che avverte la necessità di presentare, elogiare o sintetizzare la materia del libro. Al contrario, in questa muta prefazione vengono semplicemente esposti i disegni dell’uomo di Pofi – ossia di Giacinto – di cui si parlerà più volte nel corso del testo. È una prefazione occupata da disegni di edifici, templi romani, fari, strutture che tradiscono un gusto neoclassico e che occupano quello spazio testuale di solito destinato a dire qualcosa sulle pagine seguenti e che in questo caso trasmette un senso di lapidario silenzio, nonché di doveroso omaggio.

La materia ambigua di questo testo si avverte fin dal titolo su cui occorre brevemente indugiare. Innanzitutto – come giustamente ha osservato Federico Francucci nel suo saggio31 – l’ambivalenza consiste nell’utilizzo dell’indeterminazione: Magrelli non parla di «mio» padre ma di «un» padre, come a volersi svincolare da eccessive compromissioni autobiografiche. Il lettore, però, ben presto si accorgerà che è

30 DONNARUMMA 2016, p. 236. 31 FRANCUCCI 2013, p. 74.

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proprio di suo padre, dell’uomo più significativo della sua vita, che l’autore sta parlando. Inoltre, attraverso un abile gioco paronomastico l’autore ci avverte che del padre verrà raccontata non la genealogia – come sarebbe stato lecito aspettarsi – bensì la geologia, ovvero qualcosa che, al di là delle origini paterne, vuole interrogarsi sulla sua stratificazione. Ritroviamo questo meticoloso lavorio nel corpus centrale del libro costituito da ottantatré capitoli che solo nella quarta di copertina scopriamo essere corrispondenti agli anni vissuti da Giacinto. Ottantatré, non una in più non una in meno, sono pertanto le possibilità che l’autore ha per restituire ai lettori e a sé stesso un ossequio alla vita del padre a cui il Parkinson ha posto inesorabilmente fine. L’obiettivo di questa raffigurazione consiste nella volontà dell’autore di approdare in sé stesso e di comprendere fino in fondo cosa significhi essere figlio e padre.

La tecnica attraverso cui Magrelli assembla questa ottantina di quadri che spezzano la consequenzialità di una trama è quella di accostare i capitoli per lo più attraverso una corrispondenza lessicale, ovvero per l’insistenza su determinate parole legate a particolari episodi della vita del padre. Ad esempio i primi quattro capitoli ruotano attorno alla parola «caffè» che innesca nell’autore una serie di riflessioni sulla precarietà della vita.

Mio padre sta versando caffè nelle tazzine degli ospiti. Sono un bambino e non bevo caffè, ma oggi questa scena mi incuriosisce, perché mio padre è ferito. [GP 5. Corsivo mio]

Gli era sempre piaciuto il caffè, per questo, alla fine, non mi sono sorpreso più di tanto quando ho capito che lo sarebbe diventato. [GP 6. Corsivo mio]

Le rese sono i morti torrefatti, i morti torrefatti e neri, trasformati in caffè. Saremo tutti cotti nello zinco, per diventare tutti polvere di caffè. [GP 10. Corsivo mio]

Quanto al caffè, però, Jean Cocteau non sarebbe stato d’accordo. A suo parere l’immagine della morte andava piuttosto associata a quella del tabacco. [GP 11. Corsivo mio]

La narrazione procede in avanti e indietro, con continui salti fra passato remoto, passato prossimo e presente della narrazione e attraverso l’accostamento di momenti di vita diversi e distanti, l’autore cerca di dare ordine a un materiale altrimenti caotico e silente:

Il mucchio di biglietti e bigliettini dove ho trascritto i miei appunti per quasi dieci anni, sembra una cesta piena di pulcini: che pigolio sale da quel paniere, in cui ho raccolto e conservato tanti foglietti! Sapevo che ogni voce era una gola che domandava cibo. Sapevo che ogni richiamo era come un filo, il bandolo canoro di un’infinita matassa di storie. [GP 90]

Così come Albinati, anche in Magrelli ritroviamo l’esercizio del «prendere appunti» di una vita – quella paterna – sempre sfuggente e discordante. E anche qui è la morte del capofamiglia a destare la curiosità del figlio nei confronti di un padre fatto più di ombre che di luce.

Anche Giacinto Magrelli è sottoposto a quel processo di mitizzazione che abbiamo già avuto modo di verificare in Vita e morte di un ingegnere. Valerio è un figlio che scava nella sua memoria, non desume informazioni dagli archivi o dalle agende del

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padre verso le quali prova un profondo odio. L’unico documento fidato è lui stesso. E questa memoria ritrae l’incongruenza del padre mitico, contraddistinto da un «lato splendido e insensato, fantastico, brutale e leggendario». [GP 18]. Ritroviamo, quindi, un realismo di carattere memoriale che trova la sua genesi nell’io, non nella realtà storica. Con questo modo di procedere Magrelli si dichiara ostile a quelle narrazioni documentarie tanto diffuse nella letteratura ipermoderna32.

La descrizione mitica del padre avviene anche al momento della morte, quando il padre ha ormai perso tutta la sua energia vitale e diventerà pressoché muto e trincerato in sé stesso. Il figlio seduto sul letto non può fare altro che contemplare gli ultimi momenti di vita dell’uomo e memorizzare ogni minimo e insignificante aspetto:

Io continuavo a guardarlo come un cane che divori ogni particolare di un osso. La sua immagine era il mio osso, e i miei occhi-denti (piraña, allora) andavano rosicchiando, mio malgrado, minutissimi dettagli. Un neo sul braccio sinistro mai visto fino a allora, la zona sotto il mento mal rasata, i bottoni, i bottoni del pigiama. Il respiro diventava sempre più difficoltoso. […] La cosa che più mi commosse, e mi commuove ancora, è il modo in cui si faceva forza con un braccio, seduto sul lettino, spingendo con la mano sinistra come per tirarsi su. […] Pian piano è uscito tutto dalla vita, sgusciando via, alla fine, fino in fondo. Il braccio, poi, non gli è servito più, e ha smesso di far leva. L’ho visto sparire sotto i miei occhi. Sarà sbucato dall’altra parte del mondo [GP 29-30]

A differenza di quanto accade in Svevo dopo l’estremo gesto del padre e in Berto, assente al capezzale paterno, Magrelli e Albinati condividono la medesima sofferenza di aver visto il padre-eroe morire. Per loro raccontare del padre acquisisce una motivazione differente: non è espiazione del senso di colpa, ma necessità di dare forma ad un serie di indiscriminate tracce raccolte per anni.

Magrelli è consapevole della duplicità che investe la figura paterna in questo perpetuo avvicinamento e allontanamento: se da un lato egli rappresenta un essere del tutto estraneo al figlio, un essere in tutto e per tutto simile ai personaggi dei miti e delle leggende, è anche vero che il padre è garante di un lascito simbolico per il figlio. Questa eredità ha origine innanzitutto con la piena identificazione, nella commovente sovrapposizione della propria immagine a quella paterna, in quel “riflesso genetico” in cui guardarsi e riconoscersi.

È come se soffrissi per la mia morte. Infatti, ai suoi occhi, il morto sono io. Io l’ho perso, nella stessa maniera in cui lui ha perso me. È come se avessi perso, per un lutto riflesso, una parte di me. E dunque mi compiango, molto più di quanto mi compianga lui. Mi guardo attraverso i suoi occhi: ci siamo morti entrambi, reciprocamente. [GP 51]

Non è un caso infatti che una delle frasi che Magrelli pone in esergo al suo testo sia tratta proprio da Totem e tabù di Freud – «morto, il padre divenne più forte di quanto fosse stato da vivo» – in cui lo psicanalista teorizza l’uccisone del padre primordiale come gesto fondativo della civiltà e riflette sul processo di interiorizzazione e di assimilazione del padre da parte del figlio. Pertanto la discesa agli inferi nella città di Pofi significa per Magrelli fare i conti con il luogo d’appartenenza di quel padre

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assimilato. Significa ripercorrere quella terra ancestrale che Valerio conosceva solo attraverso i disegni:

Cosa fare con Pofi, per esempio, il suo paesetto natale? Non ci sono mai stato, ho solo qualche immagine che lui schizzò a matita, da giovane. Stradine assolate. Cortili. Un asinello. I suoi disegni. [GP cap. 78]

Mettere piede nella città di Pofi significa innanzitutto compiere un viaggio reale verso le origini paterne, ma anche avere il coraggio di sfidare la distanza geologica che divide il figlio dal padre. Significa porsi nel cammino del giusto erede, ovvero di colui che non si limita a ricevere passivamente un’eredità già preconfezionata, ma che avverte la necessità di un movimento soggettivo di riconquista33. Magrelli non sbaglia nel definirsi un «orfano ad honorem» [GP 55] infatti come ricorda Massimo Cacciari «heres latino ha la stessa radice del greco kheros, che significa deserto, spoglio, mancante. Può ereditare, dunque, solo chi si scopre orbus, orphanos»34. Il movimento dell’ereditare, quindi, presuppone necessariamente l’esperienza del lutto, della separazione, del trauma dell’abbandono del padre, del riconoscersi degli orfani. Ed è proprio quello che Magrelli decide di fare attraverso questa opera: attraversare l’esperienza del lutto per conoscere fino in fondo l’essenza vera dell’essere figlio e, di conseguenza, di diventare padri.

Se mi accanisco sulla ricostruzione della sua decostruzione, non è, ritengo, per morbosità. Piuttosto, mi pare che simili modifiche mi abbiano svelato qualcosa della sua personalità che prima non era mai emerso. Di solito è il contrario […]. Nel suo caso, invece, il male costituì una breccia grazie alla quale penetrare nelle difese che per tutta la vita lo avevano protetto.

Approfittare delle debolezze altrui, potrà sembrare vile, ma io me ne servivo per avvicinarmi alla persona. L’unico motivo per cui intendevo sfruttare la situazione, consisteva nell’intento (questo sì probabilmente sadico) di conoscerlo meglio. Tale desiderio, cioè, rappresentava la mia terapia, come se la malattia dell’infermo avesse potuto costituire la guarigione dell’infermiere. [GP 71]

Questa lunga testimonianza sul padre permette all’autore anche di assolvere appieno al proprio ruolo di padre e capire in cosa consista la complessa faccenda dell’ereditare. Si ripropone qui un simile meccanismo presente in Patrimonio di Phillip Roth, in cui si narra la storia della malattia e della morte del padre dello scrittore. Nel caso del padre di Roth si trattò della paralisi di un lato del viso causata da un tumore in stadio avanzato. Per tutto il romanzo il figlio cerca di comprendere di cosa fosse costituito quel patrimonio che egli esigeva come parte di eredità da suo padre Hermann. Se inizialmente tale eredità è costituita da una tazza per la barba che il padre decide di lasciare al proprio figlio, solo successivamente Roth comprende quale sia la vera natura del patrimonio: ripulire le feci del malato sparse per tutto il bagno, a seguito di una crisi intestinale.

33 RECALCATI 2013, p. 121. 34 CACCIARI 2011.

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La merda era dappertutto, spalmata sul tappetino del bagno, incrostata sull’orlo del water e, ai piedi del water, in un mucchio sul pavimento. Era schizzato sul vetro della cabina della doccia […]. Era sull’angolo dell’asciugamano con cui aveva cominciato ad asciugarsi […]. Vidi che era perfino finita sulle setole del mio spazzolino da denti appeso nel contenitore sopra il lavabo. [P 134-135]

Recalcati prende proprio l’esempio di Roth per spiegare come il patrimonio di un padre per il proprio figlio non consisterebbe mai in una testimonianza ideale o in un lascito nobile. Al contrario, dovremmo pensare l’eredità come strutturalmente antagonista dell’ideale, svincolata da qualsiasi pretesa di esemplarità e intenzione pedagogica35.

Questo, dunque, era il mio patrimonio. E non perché pulire fosse il simbolo di qualche altra

cosa, ma proprio perché non lo era, perché non era altro, né più né meno, della realtà vissuta che era.

Ecco il mio patrimonio: non il denaro, non i tefillin, non la tazza per farsi la barba, ma la merda. [P 137]

Episodio molto simile avviene anche in Geologia di un padre, nel momento in cui Magrelli, anni dopo la morte del padre, decide di donare al figlio il rasoio elettrico del nonno che da padre a padre sancisce una continuità, una filiazione affettiva. Anche in questo caso il tempo mostra come «la trasmissione non avviene per la via delle grandi opere ma si realizza sullo scarto, sull’impossibile da ripulire sul resto di corpo, di carne, sul residui della vita»36:

Dopo la morte di mio padre, pensai bene di regalare a mio figlio il suo rasoio elettrico: una specie di staffetta generazionale, per proseguire nella linea maschile della famiglia. Ma non avevo fatto i conti con il tempo. Poiché quell’apparecchio, come se fosse stato una clessidra, aveva trattenuto i granelli dei giorni, e barba dopo barba si era andato riempiendo di una polvere bianca. Così, quando mio figlio mi venne a domandare perché la macchinetta non funzionasse più, aprendola trovai il tesoro nascosto, una cipria vivente, una reliquia, cenere e cenere di un roso consumato. [GP 106]

In Albinati e in Magrelli è quasi completamente assente il tema del rimpianto, perché la scrittura consente a entrambi di ricostruire l’immagine di un padre conosciuto troppo poco e di conseguenza di recuperare quel legame delicato che li univa. Si fa spazio qui il desiderio profondo di accogliere pacificamente in sé la figura tanto evasiva come quella paterna, nella consapevolezza che solo attraverso questa riconciliazione è possibile diventare uomini. Il bisogno di raccontare e di capire è per entrambi gli autori il motore che dà avvio alla scrittura.

I due romanzi rappresentano uno spartiacque tra due momenti storici molto differenti. Un primo momento in cui all’imago paterna corrispondeva la tradizionale figura del padre autoritario, repressivo e refrattario a quotidiani gesti d’affetto verso il figlio e un secondo momento in cui il padre despota lascia il posto ad una figura più debole, quasi sempre incapace di gestire dei figli che prendono il sopravvento. Tra

35 RECALCATI 2011, pp. 109-111. 36 IVI, p. 108.

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questi due momenti vi è il ’68, apoteosi del parricidio, che si batte contro ogni forma di autorità e repressione: il padre-padrone diventa un nemico comune da sconfiggere, la tradizione viene respinta come conformismo e la vecchiaia perde il suo carattere di saggezza e viene emarginata dalla società.

Un modo differente di vivere la morte del padre è descritto in Troppi Paradisi (2006) di Walter Siti, romanzo poi incluso come ultimo elemento nella trilogia Il dio impossibile. Qui l’episodio è commentato dall’autore con un «cinismo autentico»37 a tratti sprezzante. Anche in questo caso l’autore non ha avuto modo durante la propria vita di conoscere più intimamente il padre, ma non sembra voler narrare la sua morte al fine di conoscerlo nella sua alterità; il padre rimane distante, schernito nella sua debolezza senile. Siti in questo modo scardina le categorie freudiane e si prende gioco di quell’esperienza archetipa che l’edipico ha sempre desiderato; la morte si rivela come un’esperienza «fiacca» priva di rimpianti e di veri slanci emotivi.

Povero papà, il meglio di sé lo ha dato nella renitenza alla morte. […] Io sono arrivato a sessant’anni, lui quasi a ottantacinque, e non ci siamo detti mai una sola parola: una parola che contasse, voglio dire, che riguardasse noi. Negli ultimi tempi sarebbe bastato poco, un accenno avrebbe fatto precipitare la crisi; ho pensato di farlo come esperimento, ma la paura è stata più forte della crudeltà – fatemi a pezzi ma io l’iniziativa non la prendo, e comunque è troppo tardi, quel che non è venuto da vivi che senso avrebbe provocarlo ora, tra un vecchio e un quasi cadavere? […] Sta famosa esperienza archetipa, nel complesso, si è rivelata fiacca, niente di che. Tutti versavano fiumi di lacrime alla saldatura della cassa, io fissavo gli operai. Solo dopo, in treno, il martelletto rituale ha prodotto qualche effetto e mi ha strappato un paio di singhiozzi; dolore vero no, sarebbe troppo dire: logorio dei nervi accumulati in tre giorni.

Anche stavolta, che era quella definitiva, ci siamo evitati: la grande preterizione della mia vita. [TP 194-195; 197]

3.4. Cambiamenti nello statuto genitoriale: verso la scomparsa del padre