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Per un’edizione genetica e commentata dell’Ippopotamo di Luciano Erba

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Academic year: 2021

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Università degli Studi di Genova Scuola di Scienze Umanistiche

Dottorato di ricerca in Letterature e Culture classiche e moderne Ciclo XXIX

Tesi di dottorato

Per un’edizione genetica e commentata

dell’Ippopotamo di Luciano Erba

Candidato: Samuele Fioravanti Tutor: Prof. Stefano Verdino

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Premessa

Risale al 2006 la donazione delle carte e dell’archivio personale (saggi, critiche e recensioni ricevute) di Luciano Erba al Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università degli Studi di Pavia, un insieme variegato e straordinariamente completo che alla considerevolissima mole di avantesti e giri di bozze, la preistoria delle singole pubblicazioni, associa anche i diversi plichi meticolosamente ordinati delle liste degli invii di copie omaggio, delle recensioni e delle occasionali menzioni da parte di amici, critici e persino studenti meritevoli.

In seguito all’approfondita panoramica condotta sui materiali, Federico Milano (2016b, 101-115) parla di un «archivio in chiaroscuro» raccolto nel corso degli anni da un poeta tutt’altro che «narcissico», il quale evita di «espo[rsi] in bella vista». Ebbene, mi risulta difficile estendere un simile giudizio alle carte relative alla produzione erbiana degli anni ottanta, ai fascicoli puntigliosamente organizzati e scrupolosamente conservati per decenni, anche nel caso di un solo distico fermato al volo sul foglio rigato di un bloc-notes (redazione 45d, capitolo XLV) o del testo schizzato sulla veste esterna di una busta ricevuta dalla Galleria d’Arte San Marco dei Giustiani di Genova nel giugno 1984, dove verrà appuntato il testo (redazione 29a, capitolo XXIX) che sarà pubblicato solo tre anni dopo col titolo Nuvole. Una tale scrupolosità potrebbe forse richiamare la velenosa impressione che ebbe Sbarbaro (1921) nello studio di Soffici («Tutto intorno mi parlava della “preparazione della gloria”»), ma è grazie al lascito così meticolosamente ordinato da Erba, «coadiuvato dai suoi familiari» (Milone 2016b, 101), che la ricognizione sulle carte poi confluite nelle singole raccolte consente affondi di insperata ricchezza.

La stagione più diffusamente documentata è quella che segue la pubblicazione della prima grande summa Mondadori dell’opera erbiana, Il nastro di Moebius (Erba 1980), dunque il quindicennio che dal Cerchio aperto Scheiwiller (Erba 1983) giunge a un altro titolo, l’ennesimo di un sodalizio durato una vita, dello stesso editore, Negli spazi intermedi (Erba 1998). La presenta trattazione mira a estrarre da questo fitto nucleo di documentazione le carte preparatorie dell’Ippopotamo (Erba 1989) per tentare un primo affondo nel ricchissimo rigoglio variantistico degli avantesti conservati e proporre un vaglio della ricezione critica coeva all’uscita della due raccolte (Erba 1983, 1987) destinate a convergere nel pur esile volume Einaudi, che sfiora appena le sessanta pagine secondo un inveterato costume erbiano di attenersi sempre al minimo. Saranno quindi riportate e discusse tutte le redazioni autografe conservate del Cerchio aperto, radunate dall’autore stesso, prima della donazione a Pavia, in un dossier graffettato sul margine sinistro e intitolato Autografo, in cui le singole carte riferite all’evoluzione di ciascun testo sono sistemate in ordine anti-cronologico (dall’ultima alla prima redazione) e numerate in matita rossa secondo la sequenza con cui appaiono nel volume pubblicato da Scheiwiller nel 1983. Si procederà poi alla presentazione e all’analisi delle redazioni autografe del Tranviere metafisico, licenziato sempre da Scheiwiller

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nel 1987, suddivise stavolta in piccoli plichi trattenuti da graffette in plastica colorata, ognuno di quali riassetta, stavolta in ordine cronologico (dalla prima all’ultima redazione conservata) gli avantesti dei vari componimenti. Lo studio preliminare dei due blocchi ha permesso non solo di proporre un primo approccio per l’edizione genetica dell’Ippopotamo, ma ha anche fornito l’occasione di compiere ampie verifiche sull’organizzazione dei diversi patterns metrici su cui ha lavorato Erba, passando da un uso liberissimo di misure tradizionali (soprattutto endecasillabi e decasillabi), spesso camuffate dall’aggiunta di cola extra-metro aggiunti in punta di verso così da dissimulare la trama ritmica, alla rivisitazione della forma chiusa par excellence, il sonetto, in chiave minimalista, mirando cioè alla rarefazione delle marche prosodiche tradizionali (le undici sillabe per verso, il sistema rimico, la punteggiatura). L’esame delle strategie metrico-prosodiche e delle scelte grafico-lessicali di volta in volta adottate ha inoltre consentito una verifica finalmente circostanziata sull’applicabilità della designazione così frequentemente impiegata per la definizione di un’area milanese in cui Erba si troverebbe accanto ai pur diversi Neri, Fiori, Cucchi o Lamarque, quella di minimalismo, appunto. Si è infine svolta un’indagine iconografica volta a determinare quali siano i rapporti di somiglianza che Erba ha sempre negato con la Minimal Art statunitense (Piccini 2003) e quali referenti figurativi esplicitamente citati (il Liberty e Frank Hornby, Picasso e De Chirico) interagiscano con tale immaginario, avanzando alcune ipotesi sulla possibile interferenza di modelli risalenti alla pittura lombarda (Bernardino Luini) e all’astrattismo italiano (Fausto Melotti, il Movimento Arte Concreta). Nel tentativo di organizzare i risultati di una ricerca che si è quindi espansa su tre fronti, i capitoli che compongono questa trattazione, numerati da I a XLV come i testi confluiti nell’Ippopotamo, sono accomunati da un impianto tripartito:

a) innanzitutto una nota prosodica deputata a inquadrare la struttura metrica e le specificità retoriche di ciascun componimento,

b) quindi l’ordinamento delle carte preparatorie (tutte siglate dal numero del capitolo, in cifre arabe, seguito da una diversa lettera in ordine alfabetico) con le relative varianti ripartite nelle successive campagne correttorie –e, dove necessario, un commento filologico, soprattutto per i primi titoli del Cerchio aperto (capitoli I-XX), i più complessi in fase avantestuale–; i testi sono riprodotti con assoluto rispetto delle peculiarità grafiche, delle sviste e delle oscurità degli originali, di cui si riporta in apparato la correzione o lo scioglimento, laddove si sia reputato indispensabile;

c) infine una serie di annotazioni esegetiche in cui si richiamano gli interventi critici, le recensioni e i contributi relativi al Cerchio aperto, al Tranviere metafisico e all’Ippopotamo, con particolare attenzione a quelli che documentano la ricezione erbiana coeva alla pubblicazione delle tre sillogi (Erba 1983, 1987, 1989) e con l’identificazione dei riferimenti visuali che paiono sottesi ai singoli testi o intersecanti le più conclamate allusioni figurative (il gotico senese e Arcimboldo).

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Introduzione.

Il decennio 1980-1989 è senza dubbio il più premiato della lunga benché esile carriera poetica di Erba. Dopo il Viareggio conferito al Nastro di Moebius (Erba 1980), prima grande sintesi dell’intera attività versificatoria di Erba dall’esordio del 1951 al 1980, risale al 1984 (l’anno che segue la pubblicazione del Cerchio aperto) la vittoria del Premio Joppolo-Piccolo, conferito il 28 aprile dal comune siciliano di Sinagra per celebrare «la ricerca sui segni del presente e sugli spessori della memoria» (Marchese 1985, 5; S. N. 1984). Nel 1988 «la nuova raccolta di Erba, Il tranviere metafisico […], librino esile ma calibratissimo, […] il libro più sofferto, più vero, più malinconico di Erba come hanno fatto notare anche i molti giurati» (Tedeschi 1988), riceve il Bagutta, «glorioso e antichissimo premio» che glorifica versi ormai «più riflessivi, più esistenziali, più ontologici» di quelli inclusi nel Nastro di Moebius. Erba stesso si sorprenderà: «il Bagutta è il vecchio ristorante milanese dove è nato l’omonimo premio. È frequentato da giornalisti, romanzieri, artisti ma certamente non da poeti. Pensavo che fossimo due mondi separati e invece, almeno in questo caso, no» (Palumbo 1989, 3). Per ultimo, l’illustre Librex-Guggenheim-Montale viene conferito all’Ippopotamo da una giuria presieduta da Carlo Bo e formata da Giulio Abbiezzi, Giorgio Barberi Squarotti, Gian Luigi Beccaria, Franco Contorbia, Elio Gioanola, Silvio Guarnieri, Marziano Guglielminetti, Angelo Jacomuzzi, Bianca e Paolo Montale, Giulio Nascimbeni, Folco Portinari, Stephen Spender, Giorgio Zampa e con Giovanna Ioli come segretaria. L’alloro, precedentemente accordato a Caproni, Zanzotto, Betocchi, Fortini, Luzi, Giudici e Bigongiari, è stato accordato durante una cerimonia di premiazione al teatro Angelicum di Milano, il 2 ottobre 1989, dopo una serie di letture tratte dall’opera di Montale e di Erba stesso per opera dell’attore Giancarlo Sbragia, prima della chiusura con il concerto –musiche di Beethoven, Schumann e Chopin– del pianista milanese Maurizio Zanini (Borri 1989b).

La critica registra tempestivamente la postura che Erba è andato assumendo negli anni Ottanta: «nell’Ippopotamo l’ironia è più sottesa perché il libro è percorso da inquietudine religiosa, da domande leopardiane e pascoliane» (Vicentini 1989), la cui ascendenza viene rispettivamente rilevata anche da Brusasco (1989) e Orelli (1989). Acutissima è soprattutto la lettura di Stefano Lecchini che sulla “Gazzetta di Parma” sottolinea il «processo di designificazione» che attraversa la raccolta einaudina: «ad apertura di libello, l’innamorato che “ama senza” non rinuncia a rintracciare nell’azzurro la grafia dell’amata in una lettera d’addio, […] ma quanto più ci si inoltra nella pagina, si capisce che questa capacità di lettura viene meno. La consistenza delle cose […] vacilla ed evapora nel dubbio» (Lecchini 1989).

Alcuni, come Giancarlo Pandini, continuano ad applicare le categorie anceschiane risalenti all’antologia del ’52, Linea lombarda, l’attenzione tattile alle res e il mondo sensibile come crittogramma, rintracciando nell’Ippopotamo «un’ironia malinconica come quella che nasce sempre dai versi dell’autore insieme a riflessioni che portano lontano: un baule chiuso basta per scavare dentro una sequenza di

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oggetti inanimati […] che ricordano al tatto montagne e prati» (Pandini 1989). Altri, come Esposito e Brevini, focalizzano invece «il gusto intellettuale del controllo dei propri sentimenti con la capacità di scherzarci sopra» (Esposito 1990), sottolineando il ruolo dell’ironia come schermatura alzata contro un senso di vuoto e persino l’originalità della raccolta «che registra un viaggio tonale, una cospicua novità nel profilo dell’opera erbiana» (Brevini 1989).

Propendo decisamente per questa seconda ipotesi che individua nella silloge Einaudi una volontaria rottura nei modi, nell’immaginario e nello sviluppo argomentativo rispetto al Nastro di Moebius, rottura che vorrei far risalire alla prima cellula che comporrà L’ippopotamo, cioè Il cerchio aperto del 1983. Silvio Ramat scriveva infatti: «è ormai costume di Luciano Erba – forse il più comunicativo dei “piccoli maestri” della generazione che annovera, fra gli altri, Zanzotto e Pasolini– predisporsi per assaggi quantitativamente esigui a quello che sarà poi il libro vero e proprio. […] Ecco una stagione ulteriore prospettarsi con Il cerchio aperto» che «procede con gli undici inediti del Tranviere metafisico cui fanno da contraltare inconsueto otto versioni da poeti francesi (tutti tranne Thom Gunn) e moderni» (Ramat 1987, 34). L’intuizione è precoce ma corretta: due anni prima della pubblicazione Einaudi, Ramat prevede non solo che i due titoli usciti presso Scheiwiller sarebbero prossimamente andati a costituire un unico volume, ma avverte anche l’estraneità delle traduzioni nell’organismo cui Erba sta lavorando e che saranno infatti espunte in seguito allo spostamento dell’Autoritratto (testo XLV) da ultimo componimento del Tranviere edito nel 1987 a testo centrale del Tranviere nella prima ristampa Scheiwiller del 1988 (si vedano in proposito i commenti ai testi XLIV e, soprattutto, XLV).

Il presentimento di Ramat sembra motivato dall’impressione del progressivo ispessirsi dei testi relativi alla distanza di Dio, sempre più nitidamente interpellato come il «grend[e] assent[e]» (cft testo XXXIV) la cui lontananza depriva il mondo sensibile di significato. «Rispetto al Cerchio aperto dove sembrava saltuario, nel Tranviere il tema incalza e si dimostra cospicuo. Ma, poiché il disadattato protagonista non poteva cedere il passo nemmeno qui al filosofo organicamente disposto» (Ramat 1987, 34), sarà poi l’incunearsi di un’intera terza sezione tra i due ultimi testi a espandere definitivamente il corpo della silloge Einaudi, che credo segni uno snodo ormai chiaramente discernibile tra un primo Erba di ascendenza anceschiana e continiana (Poli 2012b; Azzarone 2016) o di ascrizione decisamente lombarda, a un secondo Erba il cui minimalismo si proverà a circostanziare nelle conclusioni del presente lavoro.

Liana De Luca stenta a riconoscere subito la svolta: «Il cerchio aperto vuole segnare una rottura […]? Non si direbbe, perché le caratteristiche espressive del poeta restano costanti con semmai, in più, un tendersi dell’introspezione» (De Luuca 1985, 4), tuttavia deve ammettere che «le composizioni del Cerchio, a differenza di quelle del Nastro di Moebius, offrono un panorama meno ricco e vario di figure e figurine, nel quale domina il personaggio dell’io» (ibidem). Baudino rincara su “Tuttolibri”: «la sua poesia si sviluppa sempre più in direzione di una sofferta apertura di paesaggi, ma i paesaggi di Erba, di poesia in poesia, di

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verso in verso, accentuano il loro essere, in fondo, squarci dell’anima. Sono il risultato di una storia, un momento d’una narrazione tutta interiore “fissata” nell’instabile equilibrio di uno scorcio o di uno sguardo lanciato verso l’assenza di una figura umana» (Baudino 1984, 4). Ecco che si inizia quindi a focalizzare, addirittura prematuramente rispetto alla dichiarata propensione al tema dell’assenza nel Tranviere, un versante che andrà precisandosi solo nel biennio 1987-89: la riflessione sul vuoto concepito dapprima come assenza di persone concrete –da sostituirsi con simulacri, oggetti o animali (cfr. testi III o IX)–, poi come assenza di un significato nel mondo fenomenico –da colmarsi con il ricordo o il sogno (cfr. XXXV e XLII)–. Ma il più lungimirante è ancora Ramat:

Fra l’otium del giovane erba di Linea K o, per dirla approssimativamente, di tutto l’Erba sino agli anni cinquanta, e quello di oggi passa un divario acuto. Questo Cerchio aperto pare di fatti una figura tracciata interamente al di là di quella sottile elegantissima indolenza nel cui segno qualche lettore avrebbe potuto riassumere, senza oltraggio per il pota, la fisionomia dell’Erba prima […] maniera. Il classico, eticamente parlando, di questa odierna sua condizione viene garantito, corteggiato o alluso dall’essere il Cerchio aperto abitato dal dolore, un dolore rintracciato nella memoria o pungolante il futuro, appunto al modo di quegli scrittori che suppongo Erba prediliga, intenti a scavarsi una zona mediana fra i ricordi e le previsioni. (Ramat 1984)

A favore della tesi che vedrebbe la raccolta del 1983 come giuntura tra una prima stagione più schiettamente lombarda e un secondo tempo che potrà chiamarsi minimalista solo dopo un riscontro puntuale sui testi, si esprimeva già cautamente anche Alberto Bevilacqua, descrivendo l’edizione erbiana «all’insegna del pesce d’oro» come «un dossier segreto: complemento della pr[ecedente] stagione di poeta e insieme dissonanza con essa, revisione dei conti, rottura di una stretta osservanza personale che apre a un futuro in cui il primato dell’intelligenza e dell’ironia sembra inaugurare un nuovo sodalizio con l’elegia» (Bevilacqua 1984, 14). L’elegia viene comunque rivista all’insegna di un «declino del nesso sentimentale che, collegando tradizionalmente soggetto a soggetto, crea[va] le categorie dell’amore e dell’idillio» ma produce adesso un vuoto interpersonale (ibidem).

Certamente restava chi ritenesse che la poesia di Erba «non [fosse] cambia[ta]» (Nogara 1984b) sostenendo che piuttosto «rinnova[sse] il suo sempreverde» e fosse «sempre l’amabile leggero frizzare che può ricordarti una bavetta d’aria odorosa tra collina e monte», lettura riduttiva e quasi sminuente, destinata a essere fragorosamente contraddetta dalla luce tutt’altro che idillica proiettata da Quale pianeta? (testo XLI) sul paesaggio eridanio dell’Italia settentrionale. Prudente era invece Crespi che arrivava al punto di rileggersi a distanza di anni e sentire di doversi apertamente correggere, all’uscita dell’Ippopotamo, sostenendo di vergognarsi della prima lettura, evidentemente insoddisfacente perché solo con l’uscita della silloge Einaudi le due raccolte Scheiwiller precedenti hanno acquisito un profilo definitivamente chiaro.

È difficile parlare della poesia di Luciano Erba. Demandata a edizioni aristocratiche, introvabili, che ognuno di noi, in modi occasionali ma infallibili, scopre e conserva con un amore un po’ geloso. Anche per Erba la prima suggestione rimane legata al paesaggio stilizzato di Linea lombarda di Anceschi, alle vaghe e assorte malinconie che popolano la geografia lirica del lakes district italiano. Oppure in un piccolo memorabile saggio di Pasolini, Implicazioni di

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una linea lombarda, il senso di questa poesia […], i frammenti fortuiti, marginali, immersi in un’aria di stranito idillio, di

grazia scontrosa, non rappresentano la profezia o montalianamente il destino di un’epoca, vivono in una zona volutamente minore fatta di lievi accensioni, stupori dolenti, ironie prevertiane, soprassalti del cuore. Il magico degli oggetti montaliani è quindi prosciugato, rastremato. (Crespi 1987, 15)

Rileggendo la nota uscita nel 1987 provo un senso di disagio, tanto quell’approccio mi sembra oggi inavvertitamente legato all’apparenza della poesia di Erba nel ribadire tipologie di grazia o di scelta di una zona volutamente minore. […] Ora il senso complessivo è di una poesia che si stacca dal portato di impressione allusiva ed elegante, di stilizzazione che resiste nella lirica geografia della Linea lombarda per riportarsi a una dimensione di originarietà, di essenzialità, a una sorta di fermata mentale nel luogo estremo e quindi anonimo della coscienza. C’è una sempre più rigorosa selezione degli elementi poetici accanto a un aspetto sempre più intransigentemente meditativo. (Crespi 1989)

I più attenti avevano già distintamente percepito il profilarsi di una nuova articolazione dell’immaginario di Erba all’altezza del Tranviere metafisico, una «vena attuale» inedita, che Cesare Cavalleri (1987, 11) sintetizza nelle «due poesie più rappresentative» della raccolta: «L’ippopotamo e l’Autoritratto. L’ippopotamo si affaccia al dubbio (sì, metafisico) sull’insussistenza dell’essere, e nella poesia che dà il titolo alla raccolta l’aldilà (Montale direbbe “l’oltrevita”) è auspicato come continuità del presente». Cavalleri riesce persino a presagire la centralità che assumeranno di lì a breve i testi XXXVI e XLV, l’uno diverrà infatti eponimo della summa del 1989, l’altro sarà promosso a testo conclusivo e pertanto culminante di un’architettura che Erba è andato pianificando per sei anni.

Al confronto con intuizioni tanto smaccate, stride il giudizio minimizzante di Paolo Ruffini che riduce Il tranviere metafisico al solo «accentuarsi della condizione autunnale dell’autobiografismo determinatasi nella produzione dopo il 1960 […], a mancare tuttavia è una diversificazione col passato (almeno più remoto)» (Ruffini 1987), come se non fosse avvenuta una drastica riduzione delle componenti diegetica e una soppressione pressoché totale, accompagnata dal declassamento a mere comparse, dei personaggi estranei al nucleo familiare del poeta, come risulta esplicitamente dal confronto fra le Viaggiatrici del Prato più verde (Erba 1977) e i Viaggiatori del 1987 (per il commento delle quali si rimanda al capitolo XXX). A una lettura in chiave conservatrice si oppone anche Vico Faggi che vede nell’edizione Scheiwiller 1987 –mille copie numerate– un «libricino che intona con una novità riflessiva, meno giocosa e più malinconica, meno divertita rispetto ai canoni erbiani consolidati. Riflessione che implica il ripiegamento, pesi nuovi e perciò nuove pulsioni. […] Un libro chiave nella storia di questo poeta. L’annuncio di una svolta già preannunciata» (Faggi 1987).

All’altezza del 1989, con la premiazione del Librex-Guggenheim-Montale, non si registrano più considerazioni sulla presunta immobilità di un Erba lacustre e padano ancora legato ai modi di Quarta generazione (Erba 1954s), anzi Palumbo è ormai convinto che le due posizioni abbiano potuto convergere in una. «L’ippopotamo costituisc[a] un caso aperto, nel senso che potrebbe essere definita un’opera autonoma del tutto e per tutto rispetto alle precedenti, un nuovo capitolo insomma della poesia» di Erba «oppure la continuazione, sia pure con forti elementi di novità, di un discorso vecchio che nasce sin dalle

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prime raccolte giovanili» (Palumbo 1989). In questo senso, la silloge Einaudi consiste evidentemente in una deviazione rispetto alla prima maniera, deviazione raccordata però e persino radicata nella consapevolezza di un percorso che si è esteso ormai per un quarantennio. L’Erba dell’Ippopotamo è infatti un poeta maturo che sembra divertirsi a complicare le coordinate critiche ormai assestatesi e allude apertamente a una certa «tendenza alla fuga, a giocare a nasconder[si]. […] Questo signore, vale a dire, il sottoscritto ha posto in essere il suo canzoniere che di volta in volta si arricchisce di testi che tuttavia confluiscono poi nel libro con la L maiuscola, oppure ha un suo sviluppo per cui si può parlare di un libro che chiude un’esperienza, una vita cui fa seguito un libro successivo che inaugura un nuovo ciclo e una nuova vita? […] Non lo so.» (ibidem).

Struttura dell’Ippopotamo

È stato Lento Goffi il primo a ipotizzare una filigrana dantesca nella ripartizione dell’Ippopotamo in tre tempi, o tre “cantiche” se si vuole insistere su una simile lettura: Il cerchio aperto dovrebbe quindi rappresentare l’istanza di stile basso-elegiaco, Il tranviere metafisico quella medio-comica e L’altrove il culmine alto-tragico. L’ipotesi sarebbe corroborata dal fatto che, «com’è noto, il 3 per Dante è numero sacro, simbolo della trinità. Le tre parti del libro» di Erba «sono composte da ventisette poesie, la prima, e di nove ciascuna, la seconda e la terza. Il 9, che ricorre nella Vita nuova, e il 27 solo multipli di 3, ma se del 27 sommiamo le due cifre che lo formano otteniamo di nuovo il 9 e ancora: le poesie sono in tutto 45, ripetendo l’operazione compiuta con il 27, otteniamo di nuovo il 9. Causale?» (Goffi 1989). Casuale certamente no, tuttavia troppo vago per confermare una risoluta ripresa della Commedia, contraddetta del resto dall’anticipazione delle Madonna già sulla soglia della prima sezione e dalla mancanza di una netta differenziazione lessicale e stilistica tra quelli che dovrebbero essere il purgatorio e il paradiso.

Propendo a credere, piuttosto, per un ribaltamento: L’ippopotamo come inversione della Commedia, dunque non più un itinerarium ad Deum quanto un’approssimazione al nulla (Nada è infatti la variante del titolo eponimo della raccolta Einaudi nella redazione 36f), una perlustrazione attorno all’ipotesi che il mondo sia vuoto, cioè privo di significato. In questa direzione schiettamente contro-dantesca potrebbe essere letta non solo la «selva» che pur appare nel testo I ma anche le possibili allusioni purgatoriali del testo XXXVI, elementi per i quali si rimanda ovviamente al commento dei rispettivi capitoli.

La distribuzione dei materiali in tre unità sembra rispondere all’inveterata inclinazione erbiana per l’istituzione di prismi numerologici, di costruzioni geometriche, testimoniate anche dalla scelta di titoli come Il nastro di Moebius e Il cerchio aperto. Già Frare aveva notato nel 1984 che il Cerchio «è un canzoniere organico e carico di significati strutturali per la disposizione delle ventisette liriche –tre volte nove–» a conferma dell’«amore per il numero 9 evidente anche nel Nastro e apertamente confessato nella

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postfazione dell’autore a Francoise, silloge di racconti edita nel 1982» e montata in «simmetrica sequenza 1+4+12+6+4» rispetto alla raccolta del 1983 (Frare 1984).

Le carte del Cerchio aperto sono radunate, come si è detto, in un plico unico, graffettato a sinistra e siglato in numero romano (I) con la stessa matita rossa con cui sono poi numerati in ordine crescente e in cifre arabe i singoli testi secondo l’ordine in cui appaiono nella sede a stampa; tra queste, figura anche il dattiloscritto fittamente corretto in cui il poeta studia l’indice su un lacerto di carta bianca di 210x215 mm. Il foglio è stato oggetto di un ottimo studio condotto ancora da Federico Milone (2016, 105-107), al quale si rimanda; converrà comunque sintetizzare qui che si tratta di un dattiloscritto (corretto dapprima in matita rossa, poi in biro nera e infine in penna a sfera blu, a testimonianza della calibrazione esatta cui mira evidentemente l’autore lungamente insoddisfatto), in cui le quattro sezioni che ripartiranno la raccolta del 1983 sono suddivise e raggruppate mediante altrettante parentesi graffe segnate a matita rossa, pennarello verde, matita blu e di nuovo matita rossa, accanto alle quali sono riportati i titoli-citazione ipotizzati per ciascuna delle parti.

Prima ipotesi di indice Indice definitivo

-dedica: a M.

-epigrafe: «…dans un mois, dans un an…» (Racine, Bérénice, atto III, sc V) oppure «Espère en ton courage, espère en ta promesse… laisse faire le temps…» (Corneille, le Cid, atto V, sc. VII)

-dedica: a M.

1) Titolo ipotizzato: laisse faire le temps - ouverture (madonna senese) - nel bosco

- grafologia di un addio - … (aggiunto a penna: istria) - … (aggiunto a penna: casa nuova)

laisse faire le coeur

-se mai ti ricorderò come una madonna senese - Nel bosco

- Grafologia di un addio - Istria

- Casa nuova 2) Titolo ipotizzato: sempre più semplice, sempre più

vicino

- ho mai trovato

- implosion (poi sostituito da: congedo) - studia la matematica!

- il pubblico e il privato - abito a trenta metri dal suolo - fine delle vacanze

- 2 novembre (oggi intitolata: Visita a Caleppio, poi sostituita da: richiudendo un baule)

- il roccolo - niagara chic semper eadem - Il pubblico e il privato - Congedo - Il roccolo

- Tristi giochi di parole - Richiudendo un baule - Suite americana - Quartiere Solari - Studia la matematica! - Fine della vacanza - Niagara chic

- Abito a trenta metri dal suolo - Ho mai trovato

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10

3) Titolo ipotizzato: lasciatemi divertire! - se non fosse

- in romagna - se è tutto qui

- lettori sovietici (oggi intitolata: Un dubbio) - san martino

- l’io e il non io

- tassonomia (poi sostituito da Rileggendo Foscolo) - la vita es

- rileggendo il foscolo oppure il circo oppure eros

lasciate divertire anche me! - Se non fosse - In Romagna - Un dubbio - Se è tutto qui... -San Martino -L’io e il non io

4) Titolo ipotizzato: lasciatemi amare, poi sostituito da «citazione Villon: icy…»

- richiudendo un baule (poi sostituita da 2 novembre/cimitero di campagna, cioè Una visita a Caleppio)

- implosion - giunco di palude - tristi giochi di parorole

Icy n’a pas de mocquerie - Un giunco di palude

- Quando penso a mia madre - Visita a Caleppio

- Implosion

A questa disposizione fa seguito una seconda carta dattiloscritta in cui si riporta in pulito una nuova sequenza.

Seconda ipotesi di indice Indice definitivo

-dedica: a M. -dedica: a M.

- Se ti ricorderò come una madonna senese - Nel bosco

- Grafologia di un addio - Istria

- Casa nuova

laisse faire le coeur

-se mai ti ricorderò come una madonna senese - Nel bosco

- Grafologia di un addio - Istria

- Casa nuova

-Il pubblico e il privato -Richiudendo un baule -Congedo

-Ho mai trovato -Studia la matematica!

-Abito a trenta metri dal suolo -Il roccolo

-Fine della vacanza -Niagara chic -Eros -Rileggendo il Foscolo semper eadem - Il pubblico e il privato - Congedo - Il roccolo

- Tristi giochi di parole - Richiudendo un baule - Suite americana - Quartiere Solari - Studia la matematica! - Fine della vacanza - Niagara chic

- Abito a trenta metri dal suolo - Ho mai trovato

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11 - La vida es… - Se non fosse - In Romagna - Un dubbio - Se è tutto qui - San Martino - L’io e il non io - Se non fosse - In Romagna - Un dubbio - Se è tutto qui... -San Martino -L’io e il non io - Un giunco di palude - Tristi giochi di parole - Una visita a Caleppio - Implosion

Icy n’a pas de mocquerie - Un giunco di palude

- Quando penso a mia madre - Visita a Caleppio

- Implosion

Erba pianifica quattro raggruppamenti sia nel primo sia nel secondo indice autografo e serberà la stessa organizzazione anche nell’edizione a stampa: ciascuna sezione è individuata da una citazione mascherata mediante lievi modifiche così da fungere da titolo. Racine passa da laisse faire le temps a laisse faire le coeur con enfasi sul versante sentimentale che innerva i primi testi; l’epigrafe in latino nella seconda sezione sembra invece allude al ripresentarsi dei consueti temi e delle usuali micro-ironie e micro-nostalgie erbiane mediate dalla presenza di oggetti smaglianti (Luzzi 1987, 55-121); la terza è una lampante ripresa palazzeschiana che evidenza le impennate autoironiche cui si presta l’io poetante; mentre l’ultima cambia completamente di segno l’andamento ascendente dell’esclamativa sezione che la precedeva, ripiegando su una meditazione che include dapprima le vittime dei campi di sterminio nazisti, quindi i familiari più intimi ormai defunti. Il Cerchio ne esce organizzato secondo un ordine serrato, sì, ma destinato a essere del tutto annullato dall’immissione dei ventisette testi in un’infilzata unica nell’Ippopotamo. L’edizione Scheiwiller del 1983, dedicato alla moglie Mimia, aveva evidentemente una statura sufficiente, agli occhi di Erba, da essere considerata meritevole di una progettazione accuratissima che ponderasse novità e recuperi, sorrisi e riflessioni. Pubblicata con il numero 135 all’interno della collana “Acquario”, stampata a Milano dalla tipografia Allegretti in mille copie, il 7 dicembre 1983, «giorno di S. Ambrogio» come specifica il colophon, mirava plausibilmente a imporsi come organismo strutturato e autonomo così da non essere confuso con una prosecuzione diretta o, peggio, una semplice espansione del Nastro di Moebius Mondadori uscito tre soli anni prima. Una volta accolta nell’Ippopotamo, l’autore reputa la silloge distintamente altra rispetto ai nuovi testi che si sono assestati su altre strategie retoriche nel biennio 1987-1989, e che vengono ripartiti in due sezioni a parte, Il tranviere metafisico e L’altrove. Il criterio di divisione non deve essere stato, quindi, tematico o di “intonazione”, come nell’edizione del 1983, poiché altrimenti Erba avrebbe conservato la distribuzione in quattro gruppi così caldamente cercata. Ritengo che la differenza tra i testi del Cerchio e quelli del Tranviere, una differenza tanto marcata da richiedere una frontiera netta fra i titoli del 1983 e i seguenti, che sono invece travasati gli uni nella sezione degli altri con più scioltezza, debba essere rintracciata in uno sviluppo sopravvenuto sul piano argomentativo.

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Nel Cerchio aperto Erba tendeva ancora regolarmente al recupero memoriale mediato da oggetti concreti e lampanti –la matita «faber» (testo XIII), il gioco del Meccano (XXII), gli zoccoli olandesi (testo VII)– che documentano il tempo passato in qualità di vivide testimonianze (per una più diffusa analisi si rimanda al commento al testo XXVII). Nel Tranviere metafisico, invece, il serbatoio del ricordo coincide ormai prevalentemente con l’attività onirica, si è insomma smaterializzato (cfr capitolo XXXV) in vista di un’auspicata traslazione nell’Altrove, l’aldilà che intitola l’ultima sezione dove sono raccolti gli inediti del 1989 (cfr soprattutto il capitolo XLIII).

Gli undici testi del Tranviere metafisico seguito dal Quadernetto di traduzioni componevano il numero 11 della collana “Poesia”, recentemente inaugurata da Scheiwiller con una copertina di cartoncino azzurro. L’agile volumetto era stato impresso nella stamperia Valdonega di Verona in mille copie numerate nel 1987 e, in una pronta ristampa di milletrecento esemplari, nel 1988. Vi si raccoglievano anche versioni da De Sponde, Cendrars, Reverdy, Michaux, Ponge, Frénaud e Gunn, poi confluite in Dei cristalli naturali (Erba 1991), florilegio delle traduzioni erbiane, a riprova dell’estraneità percepita dall’autore rispetto al nucleo che andrà a comporre l’Ippopotamo (cfr in proposito il commento al testo XLV). Alberico Scala (1987, 19) dava così l’annuncio dell’uscita del nuovo titolo erbiano licenziato sotto l’insegna del pesce d’oro: «Ai fedelissimi della sua poesia, limpidamente lombarda, Luciano Erba dona un altro volumetto azzurro, presso Scheiwiller. All’affettuosa, stupefatta mitologia dei nonni, dei preti, delle gite in collegio, s’aggiunge Il tranviere metafisico, seguito da un quadernetto di traduzioni. Una decina di liriche, una voce fra le più pure e suggerenti della nostra poesia, sottilmente critica, che suscita echi […] fra apparizioni fantastiche, sgomento, dubbi, atti d’amore». I testi vi appaiono nello stesso ordine in cui saranno aggregati ai ventisette del Cerchio nel 1989 con due cambi considerevoli.

Alla sua prima apparizione, nel Tranviere metafisico del 1987, l’Autoritratto (XLV) era relegato in fondo all’intero corpo del volume, un corsivo stampato a pagina 76 dopo il Quadernetto di traduzioni che seguiva i pochi testi inediti della raccolta, quasi esulasse dall’organizzazione architettonica di cui costituiva una mera nota biografica in versi. Franco Tomaso (1987, 3), recensendo la pubblicazione, scriveva a riguardo: «alla fine, addirittura dopo i riferimenti bibliografici quando il lettore crederebbe concluso il messaggio del libro, appare stampato in corsivo l’undicesima poesia, furi campo, interrogativa. È come una dimenticanza di parole importanti che si ha appena il tempo di recuperare. È l’annuncio di un séguito dopo un corpo già deciso, insomma trasforma in una sola poesia con il suo» lascito «d’incertezza tutto l’armomico volumetto».

La soluzione deve essere però parsa debole all’autore che già nella seconda ristampa Scheiwiller del 1988 spostava l’Autoritratto al centro del volume, a pagina 31. L’undicesimo titolo veniva quindi a chiudere la sequela dei dieci testi originali che si trovavano improvvisamente disgiunti dal Quadernetto di traduzioni, come se si fosse trattato di due blocchi a sé stanti. L’ippopotamo Einaudi includerà infatti i soli testi originali erbiani, espungendo del tutto le traduzioni, e lo farà evidentemente secondo un preciso disegno d’insieme

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poiché l’imitazione pariniana (XXXVIII) delle edizioni Scheiwiller non solo viene reinclusa –al contrario degli altri testi per così dire spuri poiché tradotti o riscritti a partire da altri autori– ma addirittura rinforzata dall’accostamento con un’altra imitazione (Rileggendo Foscolo, XXXVII).

L’ippopotamo del 1989, numero 209 della collana “bianca”, stampato a Torino dalle Industrie Grafiche Zappegno raduna quindi i trentotto testi editi nelle due raccolti Scheiwiller e sette inediti (XXXVII, XXXIX-XLIV) raggruppandoli in tre sezioni ordinate da numeri romani. La prima, dedicata a Mimia (ora mascherata dalla sola iniziale «M.») include tutti i testi del Cerchio e si intitola appunto Il cerchio aperto; nella seconda convergono solo i primi nove testi che comparivano nella raccolta del 1987, di cui conserva il titolo, Il tranviere metafisico; la terza parte, intitolata L’altrove, accoglie gli ultimi due testi del 1987 (traduzioni escluse), cioè il XXXVIII e il XLV, incuneando fra questi sei inediti (XXXIX-XLIV) e aprendo tutto l’insieme con una foscoliana dedica al lettore (XXXVII) che risale al Cerchio aperto dove non era poi stata accolta, come si apprende dal dattiloscritto del primo indice provvisorio dove appare sotto la dicitura minuscola «rileggendo il foscolo». Costruita sulle potenze di 3, la successione Einaudi si struttura quindi in tre gruppi: ventisette testi, poi nove e ancora nove.

Il laboratorio dell’Ippopotamo

Non è dei più ricchi il bestiario di Luciano Erba. Se si tralascia infatti una certa predilezione per i gatti (Erba 1989, 11; 1995, 70; 2004, 29; 2005, 13), nei testi più noti si incrociano solo sporadicamente mosche (1995, 73), scoiattoli (1989, 27; 2008) e altri animali di piccola taglia che non invadono la scena. Persino l’orso timidamente apparso nei versi del ’98 non è che un orsacchiotto di pezza, un fantoccio nel quale Erba (1998, 41) non stenta a riconoscersi. Gli animali, dunque, non troppo vari e servizievoli, sono sfruttati come pretesto d’analogia o invito alla meditazione. Lo conferma esplicitamente anche la nota d’autore ad Altro gatto (Erba 1995, 81): «Litera mihi videtur humanae condicionis esse similis», o il protagonista di Container, quel monsignor Francesco Olgiati, «neoscolastico filosofo lombardo» che spartiva l’alloggio con «gatti e perpetua» (Erba 1995, 71). Tra il poeta e l’animale persiste sì una prossimità, ma una prossimità fondamentalmente visiva e tutt’altro che empatica. Erba non vede l’animale fino in fondo, piuttosto, mediante l’animale, si osserva guardarlo:

Il moscerino che si agitava nel bicchiere […]

non andrà così lontano questa sera: tra noi vi è diversità di durata eppure mi sento come riunito con l’insetto osservato. (Erba 2004, 35)

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La creatura di volta in volta scrutata è viva e senziente e, tuttavia, animata da una coscienza diversa dalla coscienza umana, sicché potrebbe forse esprimere un’alternativa epistemica. Potrebbe vedere dove il poeta, distratto, non vede (Forni 1998) e potrebbe abitare un altrove inattingibile agli esseri umani eppure contiguo al loro mondo di altra «durata». Erba guarda il moscerino e, nel farlo, cerca non solo di vederlo per come appare prima che svanisca («l’insetto osservato») ma anche di comprenderlo (l’insetto «studiato a lungo»). Già Jacomuzzi (1979, 30) postulava la compresenza dei due diversi aspetti alla radice della poesia di Luciano Erba, una poesia che richiederebbe sistematicamente la capacità di leggere su due livelli: un primo piano (nel quale il moscerino si agita nel bicchiere) di carattere «irrimediabilmente idillico-elegiaco» e un secondo piano «in direzione critica e tragica» (nel quale il poeta si riconosce nel moscerino). Anche Roberto Cicala (2005) sottolineava che «Erba da sempre predilige una poesia di piccole cose quotidiane», per poi «parlare dei grandi interrogativi dell’esistenza e anche della vita civile»: una poesia tanto idillica quanto critica, dunque. Al livello a, l’insetto nel bicchiere sarebbe descritto nella sua vivida autonomia di microscopica immagine: un εἰδύλλιον, appunto, ma non l’«idillio borghese» sul quale ha fatto il punto anche Pappalardo La Rosa (1997, 106), piuttosto l’«idillio impossibile» rilevato da Cicala (2002), «il frammento di un idillio perduto» che informa l’opera intera di Erba. L’idillio cercato e mancato scatenerebbe puntualmente la riflessione critica (il livello b) proprio in quanto traguardo fallito, o meglio: esperienza del fallimento vissuta tramite l’animale (Puccetti 1993).

L’insetto conferma i limiti e la parzialità che viziano il punto d’osservazione, denuncia il fatto che l’osservatore (carico di preconcetti e pregiudizi: Erba 2000, 23) sia sempre parte preponderante nell’osservazione (Hartsock 1983) e, a conti fatti, non sappia stabilire altro che una tautologia mediante questo procedimento: guardo me stesso che guardo («mi sento come riunito / con l’insetto osservato» vv. 8-9). Il moscerino di Luciano Erba provoca insomma considerazioni d’ordine generale sul piano cognitivo, non diversamente dai «moscherini» del Folletto leopardiano, i quali confidano fermamente nel fatto che il mondo esista a vantaggio loro e non d’altri. Gilberto Finzi riscontrava infatti una patina «leopardiana» nei versi di Erba, non tanto «nell’infinitezza cosmica», quanto nell’«ironica avversione alle totalità» (Finzi 2006, 43) nell’avversione a un mondo fatto compiutamente a uso e profitto degli uomini o dei moscerini.

Senonché gli animali di Luciano Erba non sono delatori di un annuncio o di una rivelazione, insomma «non sono angeli», come nota Giovanna Ioli (2010 ,7-8), «non sono avvolti dai riverberi dell’Altro; sono cani, cavalli e soprattutto gatti, che non abbaiano, non scalpitano». Sono poco più che mute silhouette e, continua Ioli, non sono affatto «messaggeri di un altrove» né fruttuose occasioni epistemiche. Contribuiscono unicamente alla costruzione di un’«esperienza-limite che può rivelare il poeta a se stesso» (Limone 2005, 170). La «diversità di durata», al settimo verso della poesia Il moscerino, coincide con una diversità di scala tra l’uomo e l’insetto, poiché Luciano Erba finisce per vedere nell’animale una miniatura di sé. Giuseppe Limone (ibidem) ha parlato di «proiezione geometrica», tale da ingenerare il sospetto che il poeta osservatore sia a sua volta esaminato da un occhio estraneo, d’altra

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durata e d’altra scala, come già confermava la poesia Verticale. In questo secondo testo la proiezione corre in senso contrario alla precedente: corre cioè dal microscopico dell’uomo al macroscopico dell’Eternità, dove il «gran Ricercatore» è intento a studiare «come si comportano / le sue creature messe in situazioni / imprevedibili persino per lui / che sa tutto per definizione» (Erba 2000, 22). Eppure le proiezioni geometriche non ci dicono poi molto né sul moscerino né sul gran Ricercatore, giacché Luciano Erba confessa di non capire affatto e, nuovamente spinto dagli animali, lo confessa sotto l’influenza dei colombi (Erba 2006, 12). L’osservatore riesce solo a osservarsi. Un ulteriore esempio: si consideri lo «scoiattolo, vissuto con [Erba] per qualche tempo, su un albero di Natale, diventato la sua casa, [che viene] richiamato a tratti nell’opera di Luciano come un alter ego che ama nascondersi nel folto per mostrarsi inatteso come un “folletto”» (Ioli 2010, 8). Si tratta del sibillino «codafolta» guizzante ne L’io e il non-io (testo XXIII), che cito per intero.

diagonalmente abeti verso il cielo mentre sopra l’abisso d’aria viola il codafolta va di ramo in ramo ed io con lui verso rupi rosate mentalmente

saltellando tra me di palo in frasca.

Lo scoiattolo funziona ancora come stimolo cognitivo: resta sospeso sulla traiettoria diagonale del balzo come l’osservatore «con lui» tra «l’io e il non-io». D’altro canto la diagonale del salto tra le frasche è del tutto simile alla «diagonale spazzata dal vento» a Broadway (testo XI): una nuova proiezione geometrica accrescitiva, dal ramo alla città, sulla quale resta sospesa la famiglia ritratta nell’Ippopotamo tra l’entusiasmo e l’incoscienza. Gli animali attivano una proiezione e stimolano un interrogativo, ma non lo soddisfano. Come i cavalli dipinti dall’amico Giovanola incentivano ragionamenti sulle possibilità del linguaggio («Siamo adesso alla fondazione di un alfabeto / se i cavalli vorranno, se i cavalli…», Erba 1998, 51), non stupirà scoprire una sollecitazione teorica anche nell’animale più esotico nella gamma zoologica di Luciano Erba: l’ippopotamo eponimo della raccolta pubblicata nella “bianca” Einaudi nel 1989. Al contrario dei cavalli di Giovanola che «d’improvviso sono un’altra cosa», l’ippopotamo è una di quelle rare creature in grado di produrre «soltanto un segno che segna se stesso» (testo XXXVI).

Una lettura a due livelli, sul modello di Jacomuzzi, potrebbe facilmente identificare un piano idillico e un piano critico anche nella poesia L’ippopotamo, il primo piano coincidente con la descrizione dei «curvi pascoli / di foglie nate a forma di cuore», il secondo con l’ultimo endecasillabo centrato sulla semiosi. Anche in questo caso non sarebbe difficile individuare una proiezione geometrica (Limone), nei termini di una rappresentazione in scala, poiché la «galleria» scavata nel «folto della giungla» riproduce «qualsiasi tracciato»: dalla Neully-Vincennes al canale su Marte; tuttavia la regolarità di queste costanti non deve indurre a credere che sia possibile tracciare una linea netta di demarcazione fra le diverse istanze

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operanti nel testo. L’anafora dei tre «forse» a inizio strofa vela di scetticismo la descrizione stessa del «varco tra alberi e liane», così da produrre subito un effetto di indecisione anche all’interno dello sfondo paesaggistico. L’idillio è certamente un idillio mancato ma risulta inficiato già alla radice. D’altro canto, la progressione geometrica, che trasforma il solco dell’ippopotamo nel canale marziano, salda perfettamente l’iniziale idillio fallito a una sorta di agnosticismo semiotico del distico conclusivo senza soluzione di continuità. Il riferimento alla diagonale parigina della Neuilly-Vincennes, infine, non è incidentale poiché fornisce le coordinate intertestuali necessarie a richiamare la diagonale di Broadway e il salto dello scoiattolo (nelle già citate Suite americana, XI, e L’io e io non-io, XXIII). In definitiva la componente idillica non si accontenta di scatenare in un secondo momento la riflessione teorica, bensì la presuppone sin dal principio. La poesia cosiddetta lombarda, proprio perché si vorrebbe situata in re, raddoppia l’incredulità: Erba, dubitando delle res, dubita a maggior ragione che la letteratura riesca plausibilmente a penetrarle e ancorarsi (Pacini 2014). «Non sembrano esserci certezze nella poesia di Luciano Erba», rimarca Franco Loi (2007), ma solo lo scandaglio incessante dei limiti cognitivi, quasi una misurazione ai confini del rapporto fra la conoscenza e l’ignoranza delle cose. Loi precisa: «una disperazione e una speranza sempre immersa tra le cose, sempre suggerita e contrastata dal rapporto concreto con le cose». La verifica sugli autografi ha permesso di ipotizzare che, in un discreto numero di casi almeno, la sfumatura elegiaca e l’emersione dei dati paesaggistici non costituiscano necessariamente il punto di avvio attorno al quale si organizzerà in seguito il singolo testo poetico. I fattori idilliaco-elegiaci mi sembrano senza dubbio operativi ma in concomitanza con l’elemento critico-teorico, non in precedenza o a un altro livello di lettura. Si tratta di spinte contrastanti: l’idillio sfuma proprio a causa delle riflessioni che interrogano il paesaggio e lo screditano nel momento stesso in cui la visione sembra farsi largo a strappi. Credo che la propulsione iniziale per i testi del Cerchio aperto sia piuttosto di natura linguistica: un tic retorico o una figura di suono, un pun o una citazione funzionano come nuclei originari. Attorno a questi nuclei si dispongono quindi le allusioni al paesaggio e le sollecitazioni critiche, ma considero più probabile che l’occasione di partenza sia fondamentalmente poetico-compositiva e che i testi dell’Ippopotamo traggano origine dalle facoltà retoriche insite nella lingua italiana. Insomma il poeta scrive dello scrivere come il segno segna se stesso. Si considerino gli avantesti di Tristi giochi di parole (IX), Richiudendo un baule (X) e Ho mai trovato (XVII), che cito di seguito.

cercando bacche e raddrizzando torti da questa parte nevosa delle alpi accompagnato solo dai miei passi accompagnato solo dai miei morti ho mai trovato

ho mai trovato un esercito spagnolo che per stolido scambio di persone mi lasciasse a me stesso in fondovalle tra spine e infiorescenze azzurre e gialle

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Tutte le redazioni che precedono questa versione, la definitiva, sono organizzate in due variabili blocchi di versi che comprendono un riferimento alle falde del monte (il «lato nevoso delle alpi») o un riferimento all’esercito spagnolo. Nelle varie stesure questi fasci di versi sono ripetutamente connessi o disgregati in due unità, ma come cerniere restano puntualmente le due ripetizioni su cui tutto il componimento è centrato: l’anafora «accompagnato solo» (talora nelle forma della variatio «accompagnato solo / accompagnato a volte») e la geminazione di «ho mai trovato» (talora ripreso una terza volta). Sono i due perni retorici attorno ai quali ruota la materia testuale, sia idillica sia critica. L’elemento paesaggistico, pur presente fin dai primissimi schizzi (la neve, le bacche, le Alpi), è duttile, in evoluzione, e progressivamente aggiornato da altri cola (le infiorescenze azzurre e gialle, le spine, le nuvole basse che spariranno in seguito). I tratti dello scenario si confonderanno subito con l’elemento critico (lo scambio di persona, l’autoanalisi del poeta lasciato a se stesso) senza alcuna distinzione precisa di livello; certo, i due piani possono essere artificiosamente contrassegnati ma costituiscono un unico impasto sintattico. L’idillio della camminata montana apre e chiude la versione definitiva del testo con le allusioni alla vegetazione, eppure sono l’anafora e la geminazione («ho mai trovato») a intitolare l’intero testo e finiscono per occuparne il centro avendo distribuito tutt’attorno, bozza dopo bozza, gli altri elementi in lasse o in aggregati vari. La scena rappresentata sembra prendere forma a partire da un espediente retorico e precisamente dalla ripetizione.

Gli avantesti di Richiudendo un baule (X) consentono di seguire da vicino l’emersione del dato paesaggistico, apparso non prima della quarta redazione manoscritta, dove è isolato fra parentesi come segue:

(e dire che aveva sorriso accarezzato la cavalla e che il sole tra gli alberi stampava dei riquadri gialli)

La quartina compare immediatamente dopo il verso «povero hand…», i cui punti di sospensione alludono evidentemente alla dicitura «hand knitted original indian artcraft» (testo prelevato dall’etichetta di un berretto) che torna, con varianti, in tutte le redazioni e sarà poi stampato nella forma «hand knitted original article!» in un punto focale quale è la chiusura dell’intero componimento. Il paesaggio descritto nella poesia viene inserito solo in un secondo momento e risulta in sede compositiva meno urgente della citazione dall’etichetta di un articolo di abbigliamento. Il souvenir è stato acquistato nella riserva indiana sulle Montagne Rocciose che a loro volta generano un pun. L’aspetto grigiomarrone del cappello lo assimila, agli occhi di Erba, al passato di castagne e al dessert Mont Blanc. Ebbene, anche in questo caso lo scenario montano non è specificato nella prima redazione del testo, che riporta solo il colloquiale «rockies», mentre nella redazione seguente la toponomastica si precisa quando Erba istituisce il gioco di parole Mont Blanc/Montagne con il «berrettuccio di lana vergine» che «sembra un passato di

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castagne / un Mont Blanc afflosciato, altro che Montagne Rocciose». Il paesaggio si fa più nitido in corrispondenza dei giochi verbali o di precisi spunti linguistici.

Dìcasi lo stesso per gli espliciti Tristi giochi di parole (IX), il cui documento più antico in preparazione del Cerchio aperto consiste in un dattiloscritto privo di correzioni e intitolato Tassonomia. L’intero componimento è giocato sull’ambivalenza dei lemmi tassi/tasso; sebbene la scena inquadri un momento luttuoso nella cornice di un ospizio, le modifiche che Luciano Erba apporta si muovono unicamente in direzione della sottolineatura del pun fra l’arbusto e l’animale: i tassi in giardino e i peli di tasso. Ancora un volta, infatti, il nucleo retorico chiude l’ultimo verso (qui la parola «tasso» come l’«hand knitted original article» concludeva Richiudendo un baule) mentre il titolo (come in Ho mai trovato) riprende palesemente il motivo centrale, dapprima mettendo in cortocircuito i vari tassi con Tassonomie, poi stampando Tristi giochi di parole nella versione definitiva, il tutto dopo aver aggiunto una «lettera tassata» al settimo verso. Anche nei Tristi giochi di parole, la descrizione dei «cespi di tegetes» e della forma delle foglie richiama l’ambientazione dei pascoli nell’Ippopotamo, ma si struttura solo a partire da un’impalcatura linguistica: la serie tassonomia-tassi-lettera tassata-peli di tasso. Il testo non si interroga tanto sul cordoglio quanto sulla possibilità di ironizzare in un momento di cordoglio; il poeta scrive delle possibilità ammesse dalla scrittura.

L’ippopotamo che traccia il solco rappresenta l’occorrenza più manifesta in cui l’animale funziona come vettore di una questione linguistica, tuttavia lo anticipano il tasso dei Tristi giochi di parole e il cavallo di Richiudendo un baule, attori di una meditazione metapoetica che sfocerà proprio nel Moscerino. Nella raccolta del 2004, infatti, l’insetto ronza a vuoto come «i miei versi: rincorrono le cose / ma alla fine incontrano se stessi». Quando Erba dubita di sé, dubita principalmente delle proprie facoltà di significazione, sicché anche il «codafolta» dell’Io e il non-io (XXIII), l’alter-ego proclamato da Giovanna Ioli, dovrà certamente tornare in sede metapoetica e tornerà appunto in Poesia sei come uno scoiattolo, compreso in Remi in barca (Erba 2006, 33) ma selezionato come testo autonomo per la tiratura limitatissima delle Edizioni PulcinoElefante (Erba 2008). La prima redazione manoscritta dell’Io e il non-io conservata nel Fondo Erba parrebbe confermare l’ipotesi sull’origine retorica delle poesie dell’Ippopotamo, poiché il primo schizzo manoscritto recita:

diagonalmente abeti verso il cielo mentre sopra l’abisso d’aria viola il codafolta va di ramo in ramo ed io con lui verso rupi rosate

mentalmente (sempre meglio di niente) saltellando tra me di palo in frasca, Ah, sì, e il paesaggio.

In questa versione il riferimento inequivocabile allo scenario viene recuperato all’ultimo verso, attivando un circuito efficace col primo distico che provava a rappresentare proprio quello scenario. Erba

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diventa cosciente di se stesso («saltellando tra me») e del panorama («il paesaggio») solo dopo essersi mosso sul piano poetico-compositivo, come risulta esplicito dal fittissimo tessuto retorico dei primi versi. Consuonano gli abeti e l’abisso, il cielo e il viola, allitterano i rami e le rupi rosate, rimano a inizio verso diagonalmente/mentre e al mezzo mentalmente/niente in una palese sovrabbondanza di figure foniche. A ribadire l’elaborazione formale dei primi sei versi concorre la metrica: tutti i versi sono endecasillabi, mentre l’ultimo, in cui il paesaggio finalmente si impone all’attenzione del poeta, non lo è. La scoperta patina letteraria si esprime nei fitti motivi di suono e colore (viola e rosa) nonché nell’epiteto che invoca lo scoiattolo senza nominarlo, quasi uno scongiuro. Il fattore idillico-paesaggistico e il fattore autocritico («tra me») affiorano in coda al testo, apertamente associati dalla scelta delle stesse vocali nella successione a-e-a-o (saltellando/paesaggio) che sottolineano l’unità dell’insieme, la simultaneità dei due livelli individuati da Jacomuzzi.

Vedere / Leggere

Il testo poetico originato da uno stimolo fonico-retorico cresce sul versante paesaggistico e sul versante teorico assumendo, di volta in volta, le sfumature idilliache ed elegiache o critiche e autocritiche di cui si è detto finora. Ma la possibilità di leggere il panorama deriva direttamente dal fatto che tale panorama sia scritto, scaturisce cioè dalla collisione del paesaggio osservato con la partitura retorica che fonda e sottostà alle successive evoluzioni. In questa collisione si realizza il segno (Prandi 2000). L’idillio e l’autocritica, prima ancora di essere descrizioni o argomentazioni, sono atti scrittorî che si imprimono sulla visione del panorama, poiché le esigenze retoriche precedono ogni successivo lavorio. A tal proposito potranno essere letti i versi aggiunti in biro blu al manoscritto di Istria (IV), che stabiliscono un attrito.

se il poeta fosse davvero profeta avrei potuto leggere il destino in questi scorci di un paese assonnato

La paronomasia poeta/profeta si basa su una successione vocalica identica come già saltellando/paesaggio nell’Io e il non-io, entrambe in chiusura di testo, tuttavia nessuna delle due espressioni sopravvive nell’edizione a stampa. Si potrà quindi supporre che tali versi costituiscano uno stadio necessario all’elaborazione del testo ma non alla sua riuscita: uno stadio che rivela le impalcature speculative dalle quali sgorgano i singoli componimenti, o almeno gli strumenti dei quali Erba si libera appena ha ottenuto una versione più compatta e convincente. La distinzione fra poeta e profeta concerne infatti le facoltà di leggere i «segni di questa terra assonnata» (IV): il poeta fallisce dove riuscirebbe il profeta, giacché il poeta guarda senza riuscire a decifrare. L’osservazione del poeta corrisponde ancora

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una volta a un’auto-osservazione nella misura in cui registra i limiti cognitivi e, direi quasi, i limiti ermeneutici della propria visione. Ma non sarà forse irrilevante considerare che, se il bisticcio fonico consente una postilla etimologica, il poeta è colui che fa e il profeta colui che dice, sicché la distribuzione dei ruoli imporrebbe all’uno di produrre una visione e solo al secondo di interpretarla. Enrico Testa notava appunto che la poesia di Erba somiglia più alla visione che alla profezia, poiché la «serie d’immagini dall’evidenza visiva quasi pungente» non genera alcun effetto di chiarificazione; le singole figure dimostrano al contrario «la loro assoluta autonomia da ogni precostituito quadro della significazione come da ogni gioco di rimandi simbolici» (Testa 2005, 117-118) sono colme di sé (Goffi 1982) ma sono solo segni che segnano se stessi. La vividezza formale dei segni, la loro icasticità si rafforza laddove il poeta dubita più intensamente di se stesso (Agosti 2012, 23).

Ai tre versi citati dal manoscritto di Istria seguiva, nella prima redazione, l’elenco «cerchio mantide pietra erba polvere attesa». Il breve inventario riassume l’inizio del componimento, in cui tali elementi erano rappresentati più diffusamente: si tratta della stessa costruzione che ho già cercato di rimarcare nel manoscritto dell’Io e il non-io il cui verso finale («Ah sì, e il paesaggio») recuperava all’attenzione del poeta il panorama poeticamente descritto in apertura. Suppongo dunque che l’elaborazione dei testi che confluiranno nell’Ippopotamo si sviluppi secondo quest’ordine: innanzitutto uno spunto retorico preciso (per esempio la geminazione) plasma una partitura compositiva coerente (ripetizioni, anafore, epifore); all’intero della partitura sono quindi dislocati dettagli paesaggistici e stimoli teorici distribuiti per successive aggregazioni (in Istria sono le pietre, le mani, i colori e l’uscio), salvo poi essere snelliti in modo tale che il testo definitivo conservi solo i momenti di fusione completa fra lo spartito retorico di base e i dati posteriori. Sono mantenute unicamente le porzioni di verso in cui le intuizioni critiche e gli squarci idillici siano direttamente sostenuti dalla partitura sottostante e in qualche modo la ricalchino. Scompaiono perciò sia il verso «Ah sì, e il paesaggio» nell’Io e il non io, sia l’elenco finale nel manoscritto di Istria, poiché entrambe sono emersioni superflue (e, per così dire, tarde) del panorama all’interno della poesia: sono entrambi recuperi privi di aderenza con la tessitura retorica dei rispettivi componimenti. Anche in Istria Luciano Erba aveva infatti riservato l’inizio all’effusione dei propri strumenti retorici: geminazione («pietra su pietra», «mani in mano»), variatio («color delle foglie / color dell’amore») la metafora dell’uscio (nel testo definitivo diverrà «porta» in consonanza con l’incipit «pietra»), ed è in questa zona testuale che lo spartito retorico e le spinte idilliche e critiche cercano di amalgamarsi.

Un ultimo esempio. Fra gli schizzi preparatori al Cerchio aperto il titolo Grafologia di un addio (III) si profila all’altezza della terza redazione. Le prime due ipotesi, il leopardiano Alla sua donna e Per una lettera di addio, non focalizzavano l’esigenza di un’interpretazione grafologica, ma tale esigenza guadagna spazio man mano che il testo cresce secondo lo sviluppo che ho cercato di illustrare. Lo spunto retorico di partenza (fase 1) è, in questo caso, una similitudine cromatica: nella prima carta degli avantesti

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conservati al Fondo si legge: «Passano i neri rondoni / hanno le stesso colore delle antenne». Il distico viene quindi cassato e riscritto affinché la similitudine originaria si evolva e si espanda. Dapprima Erba istituisce un contrasto cromatico nero-azzurro (fase 2), quindi aggiunge due versi occupati interamente da nuove similitudini e la partitura è pronta.

questo azzurro di luglio senza te è attraversato oggi da neri rondoni che hanno il colore delle antenne il taglio e il guizzo della tua scrittura come una lettera di addio

Non può passare inosservato che ancora una volta sia l’animale (i rondoni) a funzionare come catalizzatore del componimento e a porsi in sede metapoetica («il guizzo della tua scrittura»). Dall’elegiaca allusione all’assenza («senza te») germinano infine i complementi idillici e teorici (fase 3), che si saldano al tronco centrale occupando l’ultima terzina. Le allusioni allo scenario (i tetti e il cielo) e le criticità (lo smarrimento) costituiscono a quest’altezza ancora un corpo estraneo che non si è fuso del tutto con lo spartito retorico fondato sulla similitudine. Gli ultimi versi recitano semplicemente: «Si va dal cielo alla terra / si va dai tetti alle nuvole / Ma dove si va?». Il testo definitivo, per di più stampato in copertina all’Ippopotamo, rimescolerà invece l’insieme, mosso dall’esigenza di ulteriori similitudini che incorporino il livello idillico e il livello critico nello spartito retorico, stabilendo l’analogia tra l’impaginazione di una lettera e la corsa delle nuvole sui tetti.

Si va dal «caro» alla firma dal cielo alla terra dalla prima all’ultima riga dai tetti alle nuvole.

L’impossibilità di assorbire quel «Ma dove si va?» in una similitudine decreta la sparizione di questo verso. Il testo così ottenuto è stato generato in principio dal raffronto rondoni/antenne, dopodiché si è strutturato ed espanso attorno a una serie nutritissime di analogie: il volo degli uccelli e la grafia, il foglio di una lettera e uno squarcio di cielo, l’impaginazione della lettera e il panorama dei tetti. Il paesaggio si è trasformato inequivocabilmente in un segno/una scrittura e tale segno pretende di essere interpretato, ma richiede competenze che il poeta non può vantare. Sicché, una volta ancora, Grafologia di un addio, come già l’Ippopotamo, è una poesia sulla poesia che rincorre la traiettoria dei rondoni ma ritrova solo il guizzo della scrittura. Certo, l’ipotesi tautologica non è isolata nell’immaginario di Erba: la galleria scavata dall’ippopotamo non significa altro e non sa attingere altrove proprio come la «lunga pista argentata» della lumaca «si arresta» sulla «soglia di un tempio di marmo» (La lumaca, XXXIX), ma anche questo ennesimo animale prescrive innanzitutto uno scrupolo linguistico. Il pachiderma nei «curvi pascoli» e l’invertebrato, «tra i fili d’erba e le foglie più fresche», avanzano senza giungere a un approdo.

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La differenza di scala non accorda esiti diversi; nonostante «gli ostacoli divelti, le improvvise / irruzioni d’azzurro nelle tenebre» (L’ippopotamo), o le «mura e [i] bastioni / [le] alte inferriate» da scalare (La lumaca), la meta – ma direi: una qualsiasi meta – resta inaccessibile. Nove anni più tardi, nel 1998, Luciano Erba si imbatterà in uno «stento girasole selvatico / […] non meno diverso da un segno // di ruota nel fango riarso» (Erba 1998, 15). Anche il fiore spontaneo compare durante un itinerario, come le orchidee travolte della corsa dell’ippopotamo: entrambi i testi, L’ippopotamo e Verso Santiago, sono testi eponimi delle rispettive raccolte e richiamano la forma del sonetto. E sfiorando il girasole selvatico, il traguardo mancato a Santiago è un santuario del tutto simile al precedente tempio marmoreo negato alla lumaca, in una fitta rete intertestuale. Nell’Ipotesi circense, Erba (1992) si era già espresso in questo senso, raggruppando in un trittico le poesie uscite nella plaquette Soltanto segni?, dove l’inchiesta sul significato assume la forma esplicita della domanda: «Segni? Parole? Oppure res?», «Se quello che esiste è preverbale / luci linee colori senza nome / […] In principio era il Verbo?» (Erba 1995, 26-28)

L’ippopotamo si situa pertanto al centro di un’estesa indagine sul ruolo e il valore del segno, sulla sua capacità di rappresentazione o, all’opposto, sul pericolo della sua inefficacia. La galleria scavata «nel folto della giungla» spalanca uno squarcio nell’illusione che tout se tient e che la lumaca o il moscerino possano essere dotati di significato tramite la scrittura.

«Se il guscio del gambero / altro non fosse che un’unghia dell’Aurora /dalle dita di rosa / e se l’acqua di perla tra le secche […] fosse il mar della China» (Erba 1980, 82),se insomma le cose stessero per altre cose, lo scoiattolo, i rondoni e i merli potrebbero forse recapitare il messaggio di un altrove, ma «tra poco una gialla calata / sarà qui di panciuti architetti / [...] e cresceranno palazzi imperiali / dove salta la pulce di mare». Il mistero resterà sigillato: il moscerino o la pulce di mare sono stati schiacciati prima dell’eventuale consegna di un lascito e l’attesa di un altrove deve misurarsi con la paralisi della tautologia.

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I.

«se mai ti ricorderò come una madonna senese» se mai ti ricorderò come una madonna senese tu così bruna, poco ovale, assai illirica

sarà che a volte nel segreto degli occhi passò una luce d’immensa dolcezza

e tanto bastò perché apparisse un ciel d’oro di pietà, di letizia sulla selva dei tuoi capelli

Il cerchio aperto, 1983, p. 7

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Nota prosodica

Lassa di sei versi liberi non rimati, tra cui un endecasillabo al quarto verso e un endecasillabo + quinario al sesto verso. La tessitura fonica è sistematicamente distribuita nel primo emistichio di ogni rigo, con il posizionamento di parole tronche ad altezze regolari, in corrispondenza della seconda, della terza o della settima sillaba. Sul piano sintattico, l’inclusione di due parole tronche in chiusura di componimento isola il distico finale, evidenziando la sutura della congiunzione («e») che si salda al corpo principale del periodo ipotetico, nella prima quartina. Gli accenti tronchi sono ripartiti secondo uno schema di perfetta rispondenza simmetrica, per cui l’asse centrale (la coppia di versi 3 e 4, accentati sulla seconda sillaba) separa due distici accentati sulla settima e poi sulla terza sillaba, secondo la sequenza 7-3/2-2/7-3. Anche la ripartizione sintattica si compone di un’ordinata serie di distici, con la protasi del periodo ipotetico (vv. 1-2) e il gruppo apodosi + completiva (vv. 3-4) nella prima quartina mentre il gruppo coordinata + completiva appare in coda al componimento (vv. 5-6), secondo lo schema che segue. Protasi: v. 1: (settima sillaba tronca) «se mai ti ricorderò…»

v. 2: (terza sillaba tronca) «tu così…»

Apodosi: v. 3: (seconda sillaba tronca) «sarà…» v. 4: (seconda sillaba tronca) «passò…»

Coordinata: v. 5: (settima sillaba tronca ribattuta dalla quinta) «e tanto bastò perché…» v. 6: (terza sillaba tronca) «di pietà…»

A questa suddivisione se ne sovrascrive un’altra: la distribuzione dei soggetti espliciti nella prima parte del testo e le due proposizioni impersonali negli ultimi versi. I soggetti grammaticali compaiono a testo secondo l’ordine di coniugazione verbale: io, tu, egli. Sebbene le righe siano sei come i pronomi personali (singolari e plurali), in corrispondenza della terza persona singolare il componimento si blocca e vira verso una nuova architettura: due proposizioni impersonali seguite da completiva e dislocate in due distici. La simmetria ottenuta prevede quindi la successione di due versi personali e coppie di versi impersonali. Si forma una sequenza di quattro cola: prima i soggetti espressi («[io] ti ricorderò», «tu [che sei] così bruna»), poi il costrutto impersonale: «sarà che una luce passò» e «tanto bastò perché apparisse un ciel d’oro». Nella progressiva spersonalizzazione, la campitura cromatica aurea costituisce quindi l’acme dell’arco sintattico: è l’ultimo soggetto grammaticale all’interno dei due distici di impianto impersonale.

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