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mia madre capiva che non le sarei stato a lungo vicino 13 ma sorrideva, mi indicava dalie e viole ciocche.

Suite americana

12. mia madre capiva che non le sarei stato a lungo vicino 13 ma sorrideva, mi indicava dalie e viole ciocche.

Manoscritto in biro nera corretto con la stessa penna. Carta fax: 22,5 x 16,5.

4. «costruiti dalla»] «in periferia», poi sostituito da «dopo i casermoni della», infine da «di una»

5. «cancelletti»] «porte sghembe» 6. «di bidoni»] cassato

7. «respiravo»] cassato 8. «pesante»] cassato

Già prossimo alla versione stampata, il manoscritto annovera un insieme di varianti omogenee, puntualmente espunte perché probabilmente considerate troppo connotanti (v. 3: «abusivi», v. 6: «poveri», v. 8: «pesante») od ovvie (v. 6: «di bidoni» > di latta; v. 7: «respiravo l’odore» > l’odore). I versi 12 e 13 contengono già tutti i gli addendi che andranno a comporre la conclusione del testo a stampa ma la completa ridisposizione dei singoli elementi in quattro righe diverse documenta l’interesse metrico con cui Erba deve aver rivisto l’insieme.

151 Commento a Quartiere Solari

Testo milanese par excellence, Quartiere Solari ha aperto la raccolta di saggi Quando l’Umanitaria era in via Solari, edita dall’Archivio Storico della Società Umanitaria (Colombo 2006, 4), ed è stato commentato dall’assessore allo Sviluppo del Territorio, Gianni Vergani, in occasione della tavola rotonda Elementi per un nuovo patto sociale per lo sviluppo sostenibile e l’abitare promossa dalla stessa Società, in occasione del centenario della realizzazione del progetto (Vergani 2006).

Edificati nella periferia ovest di Milano tra l’aprile del 1905 e il marzo del 1906, gli eponimi «casoni della “Umanitaria”» del verso 4 costituiscono un notevole esempio di edilizia popolare italiana: 249 appartamenti di uno, due o tre locali (atti ad alloggiare un migliaio di persone) muniti di latrina privata, condotto per le immondizie, acqua potabile ed elettricità. Alla direzione dell’Umanitaria «preme [infatti] che i quartieri sappiano esprimere una cultura dell’abitare che non deve esaurirsi nell’orizzonte privato, ma deve avvalorarsi nell’orizzonte collettivo della convivenza sociale» (Colombo 2006, 17). Il ruolo rivestito dai due lotti nella pianificazione urbana sembra dunque apparentato con il progetto di rinfoltire il verde umano nel testo VI.11, Il pubblico e il privato: «far più umana la grande città», analogia sottolineata del resto dalla paronomasia tra i «casoni» degli immobili e i «cassoni di cemento» installati sulla sopraelevata (VI.9), mentre l’«odore di […] caffè» al sesto verso tornerà nella forma «un vago sentore di caffè nell’aria» in un articolo pubblicato da Erba (1993s) su “AD”, dove si descrive una terrazza nella Milano Sud-Ovest come «una stanza di compensazione […] alle frontiere dell’io», ancora una volta uno spazio intermedio tra il pubblico e il privato, come i ballatoi del testo VI e come il progetto originario proposto all’Umanitaria dall’architetto Broglio, ben più ambizioso di quello effettivamente realizzato.

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Il quartiere doveva prevedere tutta una serie di servizi comuni, quali botteghe per lo spaccio delle derrate alimentari ed altri generi di prima necessità; uno o più locali per riunioni e sale di lettura; un asilo infantile; una cucina e ristorante; una lavanderia con locali per l’asciugamento; uno stabilimento, pubblico, per bagni e docce, nonché locali adatti per l’allattamento e la custodia di un certo numero di bambini inferiori ad un anno. In realtà, quasi la totalità di questi servizi vennero posti in essere solo qualche anno più tardi, dall’altra parte della città, nel quartiere alle Rottole (costruito nel 1908 alla Cascina Rossa Loreto, attuale Viale Lombardia, ed abitato dal novembre 1909), perché l’edificio che avrebbe dovuto ospitarli nel quartiere Solari non venne edificato mai. Il progetto originario di Broglio era ben più esteso rispetto a quello che si può visitare oggigiorno. (Colombo 2006, 18)

Sicché al fallimento del piano voluto dal «sindaco sociale» del testo VI.14 corrisponde adesso la mancata realizzazione dell’utopia filantropica d’inizio Novecento. Gli edifici in via Solari, opera pubblica ma a destinazione privata, ambiziosa ma incompleta, possono quindi considerarsi a pieno diritto uno di quegli «spazi intermedi» tipicamente erbiani in cui culminerà l’indeterminatezza spaziale del testo XLIII.1 (Altrove) e ai quali saranno intitolate ben due raccolte di fine millennio (Erba 2000 e soprattutto 1998). Il Quartiere di via Solari è uno spazio intermedio in quanto lunga serie di «tracciati per strade e viali / dove il verde dei platani è quasi grigio» (testo XLIII.5-6), mero «punto di vista» dove ci si ritrova smarriti tra i propositi iniziali e il mancato termine auspicato («senza traccia di tappa / di sosta, di partenza, di arrivo», Erba 1998, 15) e che pertanto, nella sua parziale incompiutezza, resta un posto «come un altro», un «chissà dove» (vv. 2 e 11). Jacottet (1992, 8) ritiene che quest’impressione di zona grigia e di città incompiuta si estenda indefinitamente, agli occhi di Erba, fino a coprire l’intera Milano «nebbiosa». Gavinelli (2016, 335-41) ha recentemente provato a confermare questa posizione, sostenendo che

[Erba’s] poetry evokes the mist and gray of Milan, and his lyricism has the muffled sound of skepticism, reserve, and abject modesty, the only one to define a period so disastrous. […] Erba portrays scenes of daily life, places and ordinary or shared events of common existence, with a slight irony. Thus, in the poem Tabula Rasa?, the poet proceeds within «una sera qualunque / traversata da tram semivuoti». [W]e see rental housing, an iron bridge, a hospice; we take the route by tram or by bike, in the train we follow streets and alleyways. His poetry defines the fragments of life in spatial forms, such as the traveler in the train following a prairie slightly out of town among objects in use or out of use, among houses without balconies; or of the lights of Milan, of its «tramonti rossi oro», of « gli orti di periferia dopo i casoni della “Umanitaria”» (Quartiere Solari). Sometimes the city is merely a space as in Altrove, whose verses successively evoke «spazi intermedi».

Studiata espressamente nel testo XLII, questa città piatta, sfumata e indefinita (Quale Milano?) assumerà le sembianze di un’arena dove il calcolo premeditato si misura con fallimentari azzardi come su un «biliardo» (v. 5). Proprio lo stesso anno dell’uscita dell’Ippopotamo, commentando la vita culturale del capoluogo lombardo, Erba stesso (1989s, 57-8) considererà tanto artificiali quanto sinistri i luoghi passibili di essere confusi con altri luoghi, giacché inducono una sensazione da «viaggio organizzato, del tipo “tutto compreso”, dove, si tratti di Canarie o Seichelles, ogni cosa risulta intercambiabile: palme

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camera d’albergo piscina aperitivi». «Il tema» degli spazi intermedi, ennesimi e sempre convertibili in altri, «si gioca», secondo Aymone (1984, 186-7), non solo «sullo scarto fra una presumibile città reale e una immaginaria, sibbene sullo scarto d’immagine interno a una medesima città, Milano, […] tra la parte moderna» e un’altra parte, «autentica», che sembra a Erba sempre sottratta o dissolta. Il presentimento della perdita e della separazione dalla madre adombrato nei versi 13-14 viene dunque scatenato dalla conformazione stessa del quartiere di via Solari, dalla provvisorietà che ispira il progetto incompiuto e pertanto inautentico, così da rendere Milano quello spazio intercambiabile con una qualsiasi città piemontese, francese o europea (vv. 11-12).

Il testo XII è congegnato in modo del tutto consimile al piano dell’architetto Brogli per i lotti di via Solari: è un corpo ben bilanciato benché non perfettamente simmetrico a causa delle piante che schermano l’insieme rompendo la simmetria metrica (v. 16), con un corpo centrale che alterna metri con più o meno sillabe, similmente a quanto succede coi diversi volumi degli immobili, e ravvivato qua e là (vv. 5 e 16) dalla ricorrenza di un motivo floreale, riservato, nell’edificio in muratura, alle finestre e agli elementi metallici, cioè a quegli stessi «uscioli / fatti di latta e di imposte sconnesse» ornati dal sambuco ai vv. 5-6.

Ma a dominare incipit ed explicit sono i colori caldissimi del vasto tramonto a Occidente, «rosso oro» come in un fulgido fondale che richiama il «ciel d’oro» del testo I tanto scopertamente da indurmi a credere che Quartiere Solari sia in effetti il tentativo di sostituire la rappresentazione del distacco dalla madre con una campitura cromatica sfumata,

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quasi che il resoconto autobiografico debba essere rimpiazzato dal fondale monocromo, in un esercizio meditativo che impone di fissare il colore da un «punto di vista come un altro». Il testo non è quindi la relazione dettagliata di un dolore ma lo spartito o forse il libretto di istruzioni che informa il lettore sulle condizioni grazie alle quali potrebbe rivivere una sensazione simile: osservare il fondo rosso oro da un punto qualsiasi degli «orti di periferia».

Già nel testo III, come nel testo I, persone e vissuto erano stati sostituiti per interno dall’emersione del colore del cielo, il cui studio sembra consentire una lettura del sentimento, cioè la sua messa a testo, la possibilità che siano trasmesse le condizioni per condividerlo come informazione e non come sfogo. Lo «sfondo» dapprima ingloba il sorriso della madre e infine lo silenzia portando Quartiere Solari a concludersi con un endecasillabo in viola; Folco Portinari ha acutamente definito il procedimento come una certa «nostalgia dell’astrattezza che si concreta e si raggruma nel privato parentale» (Portinari 1984, 13). La scelta della grafia «viole ciocche», invece di violacciocche, enfatizza infatti l’aspetto coloristico insito nel nome del fiore, stabilendo così un gradiente che procede dai colori più squillanti alla tinta più scura, dal «rosso fulvo al violaceo», colori già «cari ai miniaturisti» lombardi «della fine del XV secolo» (Toesca 1912, 538). L’occorrenza del viola nell’area conclusiva del testo assume quasi una valenza liturgico-funeraria, uno di quei «segnali non trascurabili di rimozione di natura cattolica» che Luzzi elencava nel 1989 (68), riferendosi ovviamente alla rimozione di un trauma e, più precisamente, al trauma del commiato (penultimo verso del testo VII.12, Congedo: «fazzoletto viola») o della perdita, dal momento che proprio il viola chiuderà anche il già citato testo XLII.9, Quale Milano? («un saluto guantato di viola»), e il testo VI.22 («color delle viole»). Con “rimozione” non voglio tuttavia indulgere in una lettura psicanalitica di Quartiere Solari, quanto nell’osservazione di una scelta che mi sembra invece consapevolmente letteraria: è il patetismo del congedo a essere rimosso dalla pagina, nella misura in cui il presentimento della distanza è appena sufficiente a rendere esplicito il dolore, la cui celebrazione in versi è del tutto evitata. Il tema, finanche un tema estremamente sentimentale come l’addio alla madre, non deve essere magnificato né simbolicamente alluso, bensì materializzarsi nell’organizzazione metrica e prosodica, prendere corpo sulla pagina tramite la disposizione dei versi il cui tracciato non descrive ma ricalca i lotti, il progetto e la decorazione di via Solari.

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XIII.

Studia la matematica!

La villetta era al capo opposto della città vi stagnava un afrore di soffritti

il fermacarte era un bossolo di granata andavo infatti a lezione di matematica. La vestaglia frusciava, un po’ si apriva succhiavo assorto una matita faber dal sotterraneo udivo il ronzio della fresa di un marito ingegnere capivo poco e non ricordo altro

sì, clacson nelle vie sotto cieli di piombo e l’acne giovanile di un ritornare a zonzo.

Il cerchio aperto, 1983, p. 35

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Nota prosodica

Lassa di undici versi irregolari, tra cui il primo e l’ultimo sono entrambi di quattordici sillabe, semi- assonanti con il secondo e il penultimo verso (piombo-zonzo, città-soffritto). Seguono simmetricamente, all’inizio e quindi in chiusura, versi di tredici sillabe (3-4, 10) a mo’ di cornice attorno a una serie centrale che è invece di misura più consueta rispetto all’uso del Cerchio: decasillabi (vv. 7, 9) ed endecasillabi (vv. 2, 5, 6, 8). In tal modo, le periferie del testo (vv. 1-4, 10-11) formano un telaio metrico attorno al cuore del componimento, visualizzando graficamente l’architettura delle città (v. 1, 10-11) che si estende intorno allo spazio domestico. In una sorta di matrioska grafica, appare quindi dentro la villetta il tavolo su cui si svolgono le lezioni provate (vv. 3-4) e, sotto il tavolo, la fenditura nella vestaglia (v. 5), in modo tale che alla contrazione dello spazio descritto corrisponda la riduzione del numero di sillabe (14, 13, 11), che torna ad alzarsi quando sono nuovamente i rumori del traffico cittadino a circondare la casa.

v.1: 14 sillabe Villetta in città

v. 2: 11 sillabe (odore)

vv. 3-4 13 sillabe Tavolo

vv. 5-9: 11/10 sillabe Vestaglia / sotterraneo

v. 10: 13 sillabe Vie sottostanti

v. 11: 14 sillabe A zonzo in città

Il fatto che il verso 2 sia un endecasillabo e indichi l’ «afrore» emesso dalla casa, permette un ulteriore affondo. Gli stimoli sensibili (olfatto, udito, gusto) che si sprigionano dall’interno della casa sono regolarmente espressi tramite endecasillabi e decasillabi (v. 2: «afrore», v. 5: «frusciava», v. 6: «succhiavo», v. 7: «ronzio»), mentre agli stimoli che provengono dall’esterno della villetta (udito) sono riservati i versi più lunghi nel limite inferiore del testo (v. 10: «clacson»).

Per rendere più esplicita l’iconizzazione sulla pagina, la «villetta [...] al capo opposto della città» è stampata anche al capo opposto del verso rispetto all’unica occorrenza della parola «città»; mentre il suono dei «clacson» nel quartiere è rimarcato, in posizione incipitaria, dalla consonanza dell’«acne» del verso seguente, così da formare un’anafora fonica (clacson-l’acne), in cui anche le lettere che compongono la parola «vie» (v. 10) tornano –nella stessa posizione e nello stesso ordine– al verso 11, però mascherate («giovanile»), quasi fossero smarrite dentro l’aggettivo come è andato perso l’orientamento andando «a zonzo». La grafia stessa dei cola clac-son/elac-ne rinforza visivamente l’eco del traffico e sembra quasi alludere a un bisticco etimologico relazionato appunto alla vista e all’udito (clacson da κλάζω?, sgradevole eruzione acustica; acne da ἀκμή?, sgradevole eruzione cutanea).

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La ricerca di assonanze e consonanze complesse si fa esplicita fin dalla coppia iniziale in –itt- (città- soffritti) e investe anche i versi immediatamente seguenti, con un’assonanza in –anata (granata- matematica). Addentrandosi nel recinto più interno della composizione, cioè sotto il tavolo, dove appare la vestaglia aperta e si sentono i rumori dal sotteraneo, risultano invece di più facile lettura le assonanze apriva-matita, matita-marito, udivo-marito, udivo-ronzio, ronzio-marito, marito-capivo, marito-ricordo (vv. 5- 9), che intessono uno sciame fonico atto a riprodurre, appunto, il «ronzio / delle fresa». L’enjambement relega, inoltre, lo strumento più in basso rispetto alla vestaglia, cioè nel «sotterraneo» (v. 7), autentico ombelico del componimento, posizionato nella metà inferiore della poesia come lo spazio interrato lo è nella casa. La struttura di Studia la matematica! può quindi essere ripartita in quattro perimetri concentrici, dentro o sotto i quali sono via via situati i diversi addendi.

Villetta (in città) Fermacarte (sul tavolo) Vestaglia (sotto il tavolo) Sotterraneo (sotto il pavimento) Traffico (nelle vie)

L’intero episodio è infine organizzato attorno alla spina dorsale dell’omofonia in doppia |o| contigua finale (v. 1: «opposto», v. 3: «bossolo», v. 6: «assorto», v. 9: «poco [...] ricordo», v. 19: «sotto»), enfatizzato dall’assonanza baciata finale (piombo-zonzo). In cui all’appesantirsi dei materialo (bossolo, piombo) corrisponde il calo (opposto, poco, sotto) dell’attenzione (assorto, ricordo) dello studente svagato (zonzo).

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Redazone 13a

1. La casa era a un piano in periferia