• Non ci sono risultati.

Mentre passa un corteo di 1 abito a trenta metri da suolo

20. da un barone di Munchhausen

Dattiloscritto in inchiostro nero con correzioni in biro blu (con cui è aggiunto anche il titolo provvisorio) seguite da una seconda mano in penna stilografica nera. Ritaglio di foglio da risma pinzato al precedente: 20,9 x 14,7 cm.

10. «che è alloggio, più alloggi»] cassato 18. «qualche»] «un vecchio»

189

Testo già prossimo alla versione definitiva, la redazione è caratterizzata dall’inserzione di un finale fantastico che sostituisce interamente la precedente opzione recuperata, in fase di revisione, nel titolo apposto in penna biro blu così da recuperare in posizione-chiave i puntini di sospensione su cui si chiudeva l’ultimo verso della redazione 16a e il verbo “passare”, che tornava ben tre volte nella precedente bozza. L’intromissione del re pescatore e del barone deve, però, aver fatto slittare il baricentro della poesia verso una nuova risignificazione a ritroso, poiché il cuore del componimento scivola dalla transitorietà del mondo fenomenico (le tre occorrenze del verbo “passare”) all’irruzione del sacro sotto mentite spoglie (il re pescatore). L’indecisione su come qualificare il barone era tanto radicata da indurre l’autore a tentare eccezionalmente cinque diverse varianti, il cui numero di sillabe (due o tre) conferma che la lunghezza del verso doveva comunque restare deca-endecasillabica, confermando l’ipotesi che si è avanzata nella Nota prosodica sull’equivalenza di questi due versi nel ricoprire il ruolo di tronco o nocciolo duro del testo XVI.

190

Commento ad Abito a trenta metri dal suolo

Sull’“Almanacco di Bellinzona” (Bonalumi 1983, 90) il componimento apriva l’antologia di inediti –insieme con Studia la matematica! e Il pubblico e il privato– pubblicati poco prima della silloge Scheiwiller, di cui non rispetta l’ordine d’apparizione per istituirne, invece, un altro (invertito rispetto al Cerchio aperto) scelto forse dallo stesso curatore, che imponeva proprio il testo XVI in posizione d’apertura, quindi principale, per poi chiosare:

Le tre inedite, freschissime prove qui proposte attestano […] il felice perdurare in Erba d’una vena ironico- fantasiosa, che lo porta a coinvolgere il tessuto delle molte cose evocate […], il proprio nome («magari degli Erba») accanto a quello dei «Torriani» dentro una giocosa «visione», che per un lampo ricorda il mondo di Folgòre («Di maggio sì vi do molti cavagli»). L’incanto tuttavia, qui, come altrove, non si esaurisce in se stesso. Basta una domanda a far scattare l’allarme: «L’aria è la stessa: è la stessa? / sopravvivere: vivere sopra?» (ivi, 91)

Anche Gigi Cavalli si è concentrato sul quindicesimo verso («sopravvivere: vivere sopra?»), in un commento divulgativo pubblicato sul sito ufficiale dell’Istituto Treccani senza data ma plausibilmente redatto nel biennio 2000-2001 poiché cita la bibliografia d’autore solo fino a Nella terra di mezzo (Erba 2000) omettendo Poesie (Erba 2002). Le poche righe di Cavalli sollevano gli stessi punti sfiorati dalle brevi annotazioni di Bonalumi.

La materia di Luciano Erba, uno dei maggiori poeti italiani del secondo Novecento, è costituita da oggetti e luoghi privati sui quali l’occhio si posa con una leggerezza un po’ malinconica e a poco a poco si fa più indagatore: come dice lui stesso in una sorta di confessione, «sempre con la speranza che dietro il nulla si nasconda qualcosa». In questi versi, la casa di periferia, «con un terrazzo e doppi ascensori», sorge dove un tempo c’erano aironi, cavalli, acquitrini, famiglie gentilizie, o la sua. Il cielo e l’aria, però, non sono più gli stessi, «sopravvivere» non è «vivere sopra»; ma uno, nella luce serale, si sente trasportato in su, in una verità diversa, quella del «re pescatore» della leggenda del Graal o dei voli mirabolanti del barone di Münchhausen. (Cavalli 2000)

A una prima parafrasi riassuntiva segue un affondo esegetico, minimo ma puntuale, che interpreta come un’implicita negazione le interrogative ai versi 14-15, similmente a quanto già ipotizzava l’“Almanacco di Bellinzona” parlando di «allarm[ismo]» scatenato dalle domande che dovrebbero essere quindi intese come retoriche, allusioni cioè a una risposta che al lettore risulterebbe lampante. Proprio su questo punto mi trovo del tutto discorde. Ho l’impressione che Abito a trenta metri dal suolo sia un testo cardine del Cerchio aperto (giacché si tratta dell’unico componimento in cui l’autore trova finalmente il modo di stampare il proprio nome senza ricorrere al senhal “erba”) e, in quanto tale, non debba essere liquidato come «visione ironico-fantasiosa» volta a dimostrare che «sopravvivere non è vivere sopra», bensì inteso a inaugurare una fitta serie di interrogazioni storiche e metafisiche che non ammettono una risposta univoca ma cercano, al contrario, di incrinare le convinzioni acquisite, di complicare quel «sottofondo malinconico e chiaroscurale» già notato da Nicoletta Bortolotti (1994, 87) nella seconda stagione dell’opera erbiana, quella che segue il 1980 e resta difficilmente spianabile mediante parafrasi.

191

Alle domande del testo XVI seguiranno infatti altre interrogative senza replica nel Cerchio aperto (XVIII.8, XX.10, XXII.1, XXIV.9 e XXIV.13, XXV.9 e XXV.13-15), tutt’altro che retoriche dal momento che corrispondono all’infittirsi di voci tratte dal campo semantico del dubbio («principium erroris», «dubbio», «turbano […] la mia fede», «non ho capito niente», «chissà», «forse»), e contrapposte a proposizioni interrogative retoriche, queste sì, immediatamente seguite da versi esplicativi di risposta (XXVI.10 e XXVI.15, XXVII.5-6). Se dunque Abito a trenta metri dal suolo non vuole indurre nel lettore un responso certo, la scomposizione etimologica al quindicesimo verso (sopra-vivere) non è un gioco di parole ma uno scrupolo autentico. Erba si chiede se «sopravvivere» significhi «vivere sopra», cioè se il fatto di non essere ancora scomparsi, di essere scampati a un qualche pericolo inespresso, di essere ancora vivi, significhi imporre la propria presenza su (o magari a discapito di) qualcosa/qualcun altro. La prima stesura del verso 8 (redazione 16a.11) contrapponeva i Visconti ai Torriani, cioè i vincitori ai vinti, i sopravvissuti ai soppiantati, nella lotta per la signoria sul Milanese. E in questo verso Erba situava persino il proprio nome, quasi a suggellare la catena di eventi storici lombardi (la trafila di sopravvivenze e soppressioni) che lo avrebbe portato a trovarsi «a trenta metri dal suolo», una sera qualsiasi degli anni Ottanta, quasi sospeso su una fitta stratificazione archeologica. L’allusione storica avrebbe quindi puntato in direzione contraria rispetto all’esegesi di Cavalli, giacché di primo acchito il «sopravvivere» dei Visconti (o degli Erba) significava l’imposizione della propria presenza su una miriade di altre possibilità andate in fumo; ma l’elisione del riferimento ai Visconti, già all’altezza della prima bozza, credo dimostri che Erba abbia optato fin da subito per l’epoché: quella che sembrava essere una sospensione abitativa sulla stratificazione della storia («a trenta metri dal suolo», «mi sento agganciato», «qui in alto») diviene invece una sospensione del giudizio.

L’aggiunta dei versi 16-20 all’altezza del primo dattiloscritto pervenutoci (redazione 16b) ricontestualizza l’intera questione su un asse schiettamente verticale (agganciato/in alto), istituendo una concatenazione perpendicolare: gli aironi «con sotto tutta la falconeria» e più «in alto» il «re pescatore». Sulla verticalità come cifra teologica insisterà esplicitamente L’ipotesi circense (Erba 1995, 22: Verticale, appunto), ma già l’intrusione del «re pescatore» al verso 18 vira dalla parte di un’interrogazione metafisica che parrebbe prendere a carico l’eredità di Eliot (1922) e Montale (1973) sul re pescatore. Ciononostante l’ambientazione urbana appena accennata dai tratti che Erba disegna ai versi 1-3 e 10-11 ha pochissimo da spartire con la «unreal city» eliotiana, dove non appaiono stagni né aironi, né falchi né cavalli, né libri né stoviglie. Ricorda piuttosto l’architettura milanese che negli stessi anni si stagliava, neutra nelle forme e tuttavia ostile alle persone, nelle prime raccolte di Fiori, risalenti al 1986 (Case) e al 1992 (Esempi), dove ricorrono balconi e ascensori (Fiori 2014, 50 e 30) che salgono a circa trenta metri dal suolo, cioè «al quinto» o «al quarto piano» (Fiori 2014, 36 e 47); o nelle prime raccolte dialettali di Consonni (1983 e 1987), le cui campagne padane risultano minacciate proprio da quelle periferie (squisitamente erbiane) dell’area metropolitana di Milano. Alice Martignoni (2016, 61) ha scritto che «l’adozione del dialetto come

192

lingua poetica è per Consonni l'esito immediato e spontaneo della volontà di narrare e descrivere micro- realtà locali che, assimilate nell'orbita cittadina, vivono una disgregazione rapida e irreversibile». A una simile frangia padana, assediata dalla dilatazione della città, Erba aveva dedicato i versi di Quartiere Solari posizionando anche in quel caso la parola “periferia” in rima (XII.3: «erano gli orti di periferia»), cioè sul bordo esterno del verso, quasi a visualizzarne la marginalità rispetto al centro urbano, e già allora in relazione fonica con le «fonderie», che consuonano adesso con la «falconeria» del testo XVI. Tutti e tre i testi inviati a Bonalumi per l’“Almanacco” mettono a fuoco spazi abitativi tipicamente milanesi come ballatoi e terrazzi, «cason[i]» e «villett[e]» situati puntualmente nel lembo esterno della «grande città» (VI), «al capo opposto della città» (testo XIII), poiché negli hinterland sfumati tra città e fuori-città Erba situa di preferenza le manifestazioni immaginarie di un passato che torna fantasmaticamente a sostituire la contemporaneità, come avviene evidentemente in Dintorni di Milano (Erba 2002, 352), che assume l’hinterland ambrosiano a palcoscenico principale di un’epifania non dissimile da quella di Abito a trenta metri dal suolo.

Non avete che uscire fuori città per trovarvi tra campi e casali dove un tempo stavano accampati arcieri svizzeri lanzi alabardati zingari magnani mercenari lancieri di Suvarov, i peggiori.

Le concomitanze lessicali e figurative più marcate di Abito a trenta metri dal suolo sono da rintracciarsi, comunque, nel testo di un altro lombardo, il milanese Nelo Risi: nel suo Dalle regioni dell’aria (Risi 1970, 58-9) appaiono i lemmi “alto”, “azzurro”, “aria”, “uccelli” e “acque” («le acque blu? / l’azzurro stemperato?»), tre anafore di «questo», due delle quali all’interno di una misura di otto sillabe come in Erba («Questo l’antico fogliame?», «Questo l’idioma di quiete?»), il panorama della città vista dall’alto («Visionando dall’alto») che sembra esprimere la propria contingenza e transitorietà («non fa che esprimere maggiormente il vuoto») e un passato ipotetico, obnubilato ma non reciso («il mutato non sembra poi mutato», «le città / merlate di storia?»). Oltre ai volatili sugli acquitrini («dove l’acqua è scolo / dove gli uccelli vanno altrove»), Risi si sofferma sull’immagine aerea di un personaggio «in orbita» di stampo del tutto diverso dal re pescatore erbiano («una ninfetta nuda […] nel suo perielio pubblicitario»): quella di Risi è un’apocalissi consumistica di stampo diversissimo dal fantasismo di Erba e tuttavia sembra condividere l’immagine di una Milano azzurrata, irreale e già prossima a evaporare.

Se l’ambientazione di Abito a trenta metri dal suolo dovesse essere cercata nel versante sud- occidentale di Milano, dove Erba ha già situato Il pubblico e il privato nonché l’eponimo Quartiere Solari dell’Umanitaria, si potrebbe azzardare un’identificazione tra il condominio descritto nel testo XVI e l’indirizzo della famiglia Erba in via Giasone del Maino 16, nell’edificio appartenente al Pio Istituto dei

193

Sordi, dotato di scala destra e sinistra (quindi con «doppi ascensori») e di un terrazzo privato al piano: «una grande casa luminosa e piena di libri […] anche se [durante le] giornate di sole settembrino, [Erba] preferisce l’enorme terrazzo, dove tra piante e fiori si aggirano il vecchio cane Cirillo e i tre gatti neri, Martina, Cagliostro e Lilli, che am[a] per la perfetta corrispondenza tra la loro pigrizia e il [su]o egoismo […] schivo, ironico, elegante da lombardo cosmopolita» (Chiappori 2003). Cicala (2016, 87) ha dedicato al terrazzo di Luciano e Mimia Erba un ricordo («itinerari esistenziali che spesso, per gli amici, fanno tappa sul terrazzo di via Giason del Maino: qui sono legati molti ricordi, con un bicchiere di bianco sempre fresco, e confidenze di attese e delusioni, di un uomo riservato e curioso»); un altro, glielo ha dedicato Guido Oldani (1989, 13), ricordando che «lì, oltre alla sua buona poesia, Erba sa far crescere pianticelle di agrumi dai frutti sorprendentemente dimensionati»; e Costanza Lunardi (1999) un intero articolo per la rubrica Genius Loci della rivista “Gardenia”, traendo evidentemente spunto da Abito a trenta metri dal suolo, che verrà citata in chiusura del pezzo benché le coincidenze lessicali siano fittissime lungo tutto l’articolo (tornano ben otto lemmi: abitare, cielo, terrazzo, spazio, aria, nuvole, sopra, qui).

Appendice dell’abitazione? Nostalgia di un’assenza, mancanza d’altro? Fortuna di un pezzo di cielo o malinconia della vita in città? […] Che cosa significa coltivare piante non nel libero terreno ma al terzo, quarto piano, sospese tra aria e nuvole? […] Lì, sul terrazzo, non ci sono i vegetali ad alto fusto a schermare quelli piccoli dal sole né la libertà […] di vagare nel buio spazio della terra. / Da dove vengono le specie che abitano il terrazzo, che cosa le ha portate fin qua sopra? […] Il terrazzo degli Erba (cioè di Luciano e la moglie Mimia) è un microcosmo […], custode della memoria biografica. (ivi 8)

Un breve aneddoto personale sembra aver stimolato in Erba l’associazione tra l’area del terrazzo e l’idea di sopravvivenza del verso 15 («agosto del ’43, durante il bombardamento, Erba rimasto solo nel suo caseggiato, trovò l’appartamento in fiamme e, mancando l’acqua, si servì della terra dei vasi per spegnere il fuoco»), ma Lunardi soprassiede e tenta invece una comparazione tra l’arredo del terrazzo e la scrittura del poeta («il gusto della composizione e dell’armonia, il criterio dell’invenzione e non del calcolo»), definendo «il terrazzo come scacchiere compositivo, dal piccolo al grande» (ivi 9). Nella breve poesia che Erba (1998, 27) aveva dedicato al

194

terrazzo l’anno prima dell’intervista con “Gardenia”, la balconata di casa non assumeva il ruolo di un belvedere bensì quello di un motore di ricerca informatica.

Dal terrazzo

Prima che appaia la luna sullo schermo del cielo, navigare sull’internet dei tetti scoprire alberi e antenne a Milano, d’agosto.

Lunardi (1999, 9) glossa quindi il proprio articolo specificando che «pur protetto da parapetti e stuoie cinesi, il terrazzo è un osservatorio sul molteplice, sulla vita fuori di sé, alle frontiere dell’io. […] Un paesaggio di tetti, che prima della ricostruzione delle basse case bombardate, nelle giornate di vento, consentiva di vedere le montagne, Grigne e Resegone». Il terrazzo, continua la giornalista, è «esposto a oriente» e i «fiori semplici, petunie, campanelle, astri, [vi] sono preferiti dal poeta perché legati alla memoria delle fioriture nelle piccole stazioni Milano-Genova, tra Voghera e Tortona, dove si fermava il treno delle vacanze», aprendo quindi uno squarcio in direzione del testo XIV (Fine delle vacanze: «grandi foglie di settembre / alle sbarre del passaggio a livello»).

Nell’inforcatura tra i due tracciati ferroviari, davanti alla sua casa, [c’era] un terreno anch’esso intermedio, di prati e detriti, di nomadi e ortaglie, sambuchi e robinie –referenti fondamentali nel suo immaginario poetico–. […] Durante il tragitto ferroviario, tempo e spazio si annullano per diventare metaforicamente, l’eterno e l’infinito. Come sul terrazzo, spazio intermedio e sospeso, stanza di compensazione che si carica di riflessione filosofica e di attese metafisiche. (Lunardi 1999, 9).

L’introduzione del re pescatore nel dattiloscritto 16b sembra rispondere proprio all’esigenza di rendere vivida l’ansia metafisica che pervade «la sera» sempre «più blu» del diciassettesimo verso di Abito a trenta metri dal suolo. Daniela La Penna (2008, 19) evidenzia che tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni Ottanta, mentre Erba lavorava alla composizione del Cerchio aperto, c’erano diversi poeti impegnati nella traduzione di versi inglesi, a Milano. A quelli che cita vorrei aggiungere Camillo Pennati che traduce Hughes nel 1973, Sanesi che ripubblica Poeti metafisici inglesi del Seicento nel 1976 e Poemi anglosassoni nel 1975, Giudici che licenzia l’antologia della poesia angloamericana Addio, proibito piangere e altri versi tradotti (1955-1980) nel 1982 e lo stesso Erba che lavora su Thom Gunn nel ’79. L’influenza della poesia di lingua inglese e, nello specifico, di Eliot (tradotto da Montale sotto l’insegna del Pesce d’oro nel decennio precedente) non mi sembra tuttavia un’ipotesi persuasiva quanto allo stimolo che deve aver indotto Erba a inserire il personaggio del re pescatore cambiando drasticamente il finale della prima stesura manoscritta. Nel Sermone del fuoco, la terza sezione della Terra desolata, il re pescatore di Eliot è l’unico sopravvissuto dopo la morte del padre e del fratello, i sovrani che lo hanno preceduto sul trono, e cerca inutilmente di prendere all’amo qualcosa di vivo dal canale invaso di detriti e spazzatura dell’«unreal city». In Abito a trenta metri dal suolo, anziché i canali, figurano fantasmatici stagni padani, integri

195

prima dell’espansione metropolitana, ai quali non si approssima nemmeno il re pescatore intento in tutt’altra occupazione: «aggancia[re]» l’io poetante.

Il profilo del personaggio ricorda piuttosto il protagonista del Re Pescatore di Montale, col quale condivide, in un paesaggio palustre (acquitrini/gore) la scelta di mirare alle persone anziché alle creature subacquee, l’intensificazione dell’azzurro nel momento dell’epifania («la sera ha tempo di farsi più blu» /«lampi di lapislazzulo»), la metafora venatoria (la falconeria/la freccia) e il preciso rilevamento metrico («a trenta metri dal suolo»/«a misura di millimetro»).

Si ritiene

che il Re dei pescatori non cerchi altro che anime.

Io ne ho visto più d'uno portare sulla melma delle gore lampi di lapislazzulo.

Il suo regno è a misura di millimetro, la sua freccia imprendibile

dai flash.

Solo il Re pescatore ha una giusta misura,

gli altri hanno appena un’anima e la paura

di perderla.

Paolo Zanotti (1995) ha persuasivamente dimostrato che nel testo montaliano «la sovrapposizione con il Cristo è perfettamente avvertibile, e anzi privilegiata» in riferimento ai «pescatori di uomini […] di Matteo 4, 19 e 13, 47-48» nonché all’«episodio della pesca miracolosa» (Lc 5, 1-11). L’ipotesi che Erba abbia quindi filtrato la lettura di Montale attraverso un sottotesto evangelico mi sembra plausibilissima, considerate le citazioni esplicite cui Erba stesso ricorre in altre raccolte (Erba 1995, 28: «come spiegò Giovanni 1/1»; Erba 2007, 5: «vedi 2 Cor 1, 17-20»). Inoltre una delle varianti montaliane commentate da Zanotti (1995, 141) prevede il sintagma «il volo» anziché «la freccia», confermando che sia Montale sia Erba immaginavano un re pescatore che plana dall’alto. Secondo l’interpretazione psicanalitica di Giusi Baldissone (1979), invece, il pescatore sarebbe portatore di un’alterità salvifica che estrae dalle acque portando alla vita, un tramite che preleva l’individuo dalla regressione amniotica, dandolo alla luce. In entrambi i casi, comunque, non rappresenterebbe solo il sovrano ferito del ciclo arturiano ma anche il delatore di un intervento salvifico. La variante «vecchio» della redazione 16b di Erba sembrava insistere sul ruolo del re pescatore come monarca decrepito e ferito a causa del quale la terra insterilisce, cioè l’«azzurro [e lo] spazio / luogo di nuvole e uccelli» e di «bei cavalli in riva agli acquitrini» si converte in un «casone di periferia». L’opzione a stampa («pallido re pescatore») è la terza variante ed è quindi evidentemente stata cercata a lungo. Si tratta di una citazione tratta dal passo culminante del Parzival (9:

196

478-484) di Wolfram von Eschenbach («come il re fu giunto da noi, pallido»), dove il cereo monarca cede il Graal ai cavalieri che lo hanno visitato per liberarlo dalla malattia. La congiunzione disgiuntiva al ventesimo verso di Erba avverte però che il sovrano di Abito a trenta metri dal suolo non è che una marionetta, un esempio fra i molti possibili, una maschera, insomma, atta a indicare la manifestazione di un salvatore sotto mentite spoglie. Certo, potrebbe essere il re pescatore (un «qualche re pescatore», recitava il dattiloscritto 16b) oppure potrebbe essere, «di passaggio qui in alto, [i]l vero barone di Münchhausen». Anche in questo secondo caso la qualificazione stampata («vero») risulta frutto di un eccessivo lavorio variantistico (sono ipotizzati cinque aggettivi differenti) che dimostra lo scrupolo con cui Erba sceglie l’opzione definitiva. Se il barone è «vero», il re pescatore dev’essere stato una finzione, al punto da indurre l’ipotesi che nemmeno il barone sospeso in volo sul terrazzo sia il protagonista di Rudolf Erich Raspe, ma ancora una volta un soccorritore travestito, qualcuno che sia vero ma sotto camuffamento.

Anche la fonte del barone di Münchhausen potrebbe essere stata latamente connessa con un testo eliotiano che verrà poi contraffatto e rivisto da Erba. Penso alla Conversation galante in cui Eliot si riferisce al «Prester John’s balloon», oscura allusione sciolta da Ricks e McCue (2015, 448) che spiegano come il misterioso prete africano invii un «uccello Wauwau» a Londra tramite un «balloon» nelle Avventure del barone di Münchhausen di Raspe. Del resto a uno studioso dei viaggi interstellari di Cyrano come Erba non dovevano essere sconosciuti i voli settecenteschi del barone di Münchhausen, che proprio negli stessi anni (1985-1988) Calvino paragonava a Cyrano durante la lezione sulla leggerezza, citata poi da Arbasino nei Ritratti italiani. Le due sagome in volo sopra il terrazzo sono quindi promotrici di un doppio moto ascensionale, di una doppia chiamata all’elevazione, già allusa dai «doppi ascensori» del condominio. La vocazione ultraterrena che l’io poetante percepisce inaspettatamente («non so come» v. 16) è una chiamata e, pertanto, l’ottavo verso chiama apertamente Erba per nome. L’autore di questo appello alla salvezza celato dietro le acrobazie celesti del cristologico re pescatore e del «vero» barone deve plausibilmente coincidere con il «Funambolo» dell’Ipotesi circense (Erba 1995, 31), altro personaggio sospeso in alto, che Elena Sbrojovacca (2012) e Monica Mondo (1995) affermano essere il travestimento di Dio