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cassato e sostituito a margine da «e poi/più un sapientino che ci dice attention» 8 cassato

1.Niagara 2 Arrendevole

6. cassato e sostituito a margine da «e poi/più un sapientino che ci dice attention» 8 cassato

9. spostato con una freccia dopo il verso 10 e una seconda volta dopo il verso 11 12. «avessi»] «come chi, ma»

13. «mi affiderei»] «si affidasse»

L’insoddisfazione verso la prima bozza si esprime in questa nuova redazione mediante la soppressione di tre versi, di cui uno interamente riscritto, seguito da un altro la cui posizione resta fortemente indecisa. Erba mira a sfoltire le coppie quasi endiadiche che si erano rilevato in 15a e mira a una compattezza più pregnante, al punto da sciogliere il nesso «cascata del Niagara» e assumere il nome proprio a titolo così da serrare l’intero componimento in una composizione ad anello che si apre e si chiude con la cascata senza la ripetizione di 15a.14 (corrente/rapide).

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Commento a Niagara chic

Il singolare spunto storico dal quale sembra tratto il testo XV è l’impresa della statunitense Annie Edson Taylor che, nel 1901, si fece chiudere in un barile di metallo imbottito con un materasso per essere la prima persona a farsi gettare giù dalle cascate del Niagara sopravvivendo alla caduta (Parish 1987, 47). Il riferimento esplicito a un record tuttavia piuttosto oscuro ha l’aria di un ghigno autoironico che si attaglia perfettamente al clima della conversazione superficiale nell’ambiente mondano non meglio identificato di Niagara chic. Com’è evidente, infatti, le cascate non sono il set nel quale è ambientato l’evento salottiero, bensì il luogo dal quale l’io poetante immagina di tuffarsi se «avess[e] vent’anni di meno», specificazione ulteriormente autoironica poiché, quando Erba pubblica Il cerchio aperto, è in effetti coetaneo (61 anni) di Annie Edson Taylor (63 anni) quando «si affid[ò] rinchius[a] in una botte / alla corrente che porta a[lla] cascata». Già Mario Forti (1989, 56) commentava il fatto che «Erba si apr[a]» talora «in una serie di movimenti, di paesaggi europei o persino americani, che sovrappone alla precedente ambientazione intimistica e demodé, fino a ottenere una novità in cui gli accade di specchiarsi, come […] in Niagara chic, con la sua perigliosa ironia».

L’organizzazione delle membra del testo è invertita rispetto al consueto ordine con cui Erba dispone un quadretto fattuale (la situazione concreta) dopo una fantasticheria (un’alternativa virtuale ma irrealizzata), normalmente separati dall’avversativa “ma”. Qui, infatti, non solo la possibilità immaginaria segue la descrizione del contesto, ma addirittura dà il titolo all’intero componimento e non viene disgiunta mediante l’avversativa. La scelta è stata indubbiamente consapevole poiché la redazione 15a prevedeva lo schema usuale, con un «ma» incipitario al quinto rigo («ma se una sera vale l’altra»), seguito da una costruzione del tutto consimile a quella del quinto verso nel testo precedente (XIV.5-9: «ma […] / mi sento»; XV.5-6: «ma […] / mi sento»). La prossimità delle due poesie deve aver fatto propendere Erba per una nuova soluzione che elimina radicalmente tutte le avversative –non solo il “ma” in italiano ma

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anche il «mais» esclamativo in 15a.7 e in 15b.6. Il settimo verso della stesura definitiva, dunque, conserva la protasi di un periodo ipotetico, sopprime il «ma» e puntualizza che, nel caso in cui si supponga che «una sera val[ga] l’altra», non faccia poi alcuna differenza trovarsi «in posti sbagliati» (v. 2) o nel gorgo del Niagara. In breve: nella poesia (cioè in una finzione letteraria) il confine tra una situazione narrata come vera (il ricevimento chic) e una situazione immaginata come virtuale (sigillarsi in una botte) è del tutto sfumato. Niagara chic prosegue, dunque, il discorso metaletterario inaugurato da Fine delle vacanze, tematizzando apertamente l’intercambiabilità dei livelli di realtà nel testo letterario. In Fine delle vacanze si simulava, infatti, che l’insegna descritta all’interno della poesia fosse l’occasione generatrice della poesia scritta dall’autore; lo stimolo del testo XV è viceversa un fatto storico così singolare da sembrare fasullo ed essere impiegato come ipotesi fantastica da opporsi a una situazione reale (la serata chic), mentre è proprio tale situazione a essere fittizia (cioè letteraria), al contrario della botte precipitata nella corrente del Niagara che è un fatto autentico (cioè storico).

Niagara chic è un testo scettico, costruito su una sorta di indifferenza epistemologica, o meglio di agnosticismo, cioè sul disinteresse rispetto alla gerarchia ontologica delle informazioni che trasmette. Il titolo, innanzitutto, confonde il lettore con un sintagma unico (il nome della cascata e l’aggettivo riferito alla serata) che fonde insieme i due sets slegati e distinti ai versi 1-6 (la degustazione di vino) e 8-11 (la corrente del fiume). Il primo verso, poi, è l’unico di cinque sillabe come il titolo ed è, ancora come il titolo, l’unico a iniziare con la maiuscola, quasi dovesse essere inteso come un’intestazione alternativa, un secondo titolo ipotetico giacché, in quanto tale, sarebbe più calzante dal momento che arriverebbe a descrivere l’atteggiamento con cui l’io poetante si lascia trascinare tanto «in posti sbagliati» quanto dalla «corrente».

Con un ulteriore guizzo autoironico, inoltre, sembra che per Erba «una sera val[ga] l’altra», ma un idioma, no, non sia equivalente all’altro, poiché uno degli ospiti precisa che «les brésiliens ne parlent pas l’espagnol» esprimendosi in una lingua che non è quella dei brasiliani né degli spagnoli. Tuttavia il sarcasmo con cui Erba sembra censurare il personaggio («un sapientino» v. 4) è a ben vedere un sarcasmo autoinflitto poiché anche l’autore stesso si è espresso in francese qualificando il fiume Niagara come chic. La mancanza dei corsivi che rilevino i lemmi francesi («chic», «attention» e tutto il quinto verso, stampati in tondo) cagiona quindi una serie di puns irriverenti in cui l’io «arrendevole» dimostra di non essere migliore degli invitati dai quali avrebbe voluto prendere le distanze: se infatti anche altre parole stampate in tondo potrebbero essere francesi anziché italiane, la via di fuga nel guscio di «noce» potrebbe essere un ricevimento nuziale (noce=nozze) rallegrato dal «vino buono» ma sciupato dalle «donne sfiorite» del sesto verso, mentre l’auto-sepoltura nella «botte» potrebbe indicare un ritorno via fiume a sud delle Alpi, giacché fin dal XVIII secolo la penisola del Bel Paese viene notoriamente paragonata a uno stivale (=botte): «la plus grande partie de l’Italie forme une longue presqu’île qui s’avance dans la Méditerranée, en forme de botte» (Mentelle 1781, 339).

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L’arrendevolezza sotto la cui stella si apre Niagara chic moltiplica e scredita contemporaneamente il proliferare di letture concorrenti e tuttavia indifferenti, al punto da concretizzare un labirinto di specchi linguistici (un testo in italiano che, nello sciorinare i luoghi comuni di una conversazione mondana, cita un commento francese riguardo all’idioma che i brasiliani non parlano, senza specificare però in quale lingua si esprimano).

La repulsione e l’autolesionismo con cui Erba tratteggia l’evento chic riflette «l’orrore istintivo per i riti di una società di massa» studiati «con una intensa attrazione voyeuristica, così che il ripudio per le forme socializzate del desiderio si esprima attraverso la delega» (Luzzi 1993, 455), cioè attraverso una presenza per procura, una presenza/assenza, o una presenza camuffata dall’interno della botte, poiché «in queste condizioni il male minore è l’esilio, cioè l’assolutizzazione della propria estraneità, l’ignoranza attiva» (ibidem), il seppellirsi nel guscio di noce. Commentando un proprio testo giovanile, Erba (2005s, 101) illustra nel dettaglio il proprio ribrezzo per i luoghi dello chic rituale come «Vichy [o] Montecatini […] insomma [le] stazion[i] termal[i], in qualche modo una regione neutrale, extraterritoriale, un’enclave dei Campi Elisi, forse del nulla». Questi spazi dell’arrendevolezza e dell’indifferenza, in cui tutto è intercambiabile, la conversazione risulta talmente ininfluente da potersi convertire in un’immersione subacquea, nella «corrente che porta alla cascata» o «nelle fontane» dove «si mettono i piedi e le scarpe di tela» in una delle Stazioni climatiche (Erba 1960, 14) della Svizzera extrabellica degli anni Quaranta.

Fine delle vacanze costituisce un pendant del seguente Niagara chic poiché entrambi studiano i meccanismi di rimozione (nel primo caso) e di auto-rimozione (nel secondo), che, facendo riferimento proprio all’immagine della corrente fluviale, Aymone delinea non come «viaggio» ma come un «lasciarsi viaggiare dai luoghi toccati» in forme simili all’arrendevolezza incipitaria con cui Erba si autostigmatizza: l’«abbandonato girovagare tra la folla [per poi] immergersi passivamente con lo sguardo in un circolo di insignificanti […] epifanie» come il fatto che i brasiliani parlino portoghese.

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XVI.

Abito a trenta metri dal suolo Abito a trenta metri dal suolo in un casone di periferia

con un terrazzo e doppi ascensori. Questo era cielo, mi dico

attraversato secoli fa forse da una fila di aironi con sotto tutta la falconeria dei Torriani, magari degli Erba e bei cavalli in riva agli acquitrini. Questo mio alloggio e altri alloggi libri stoviglie inquilini

questo era azzurro, era spazio luogo di nuvole e uccelli. L’aria è la stessa: è la stessa? sopravvivere: vivere sopra?

Non so come mi sento agganciato la sera ha tempo di farsi più blu da un pallido re pescatore o, di passaggio qui in alto,

dal vero barone di Münchhausen.

Il cerchio aperto, 1983, p. 41

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Nota prosodica

Paradigmatico della maniera adottata da Erba negli anni ottanta, il testo XVI è un agglomerato di venti versi a prevalenza decasillabica (vv. 1, 3, 5, 8, 15, 16, 20) ed endecasillabica (2, 7, 9), in cui sono innestate misure più corte come novenari (vv. 6, 18) e soprattutto ottonari (vv. 4, 19) che si saldano in un nucleo compatto al centro del componimento (vv. 10-14). Come è consuetudine nel Cerchio (e si veda in proposito la nota prosodica ai testi VI, VIII, IX, XII) agli endecasillabi e ai decasillabi è affidato l’adagio descrittivo (come nell’incipit: «Abito a trenta metri da suolo / in un casone di periferia / con un terrazzo e doppi ascensori») o la veduta d’insieme («la sera ha tempo di farsi più blu» v. 17), mentre già dal quarto verso l’introduzione dell’ottonario configura una rottura nell’andamento metrico, una frizione atta a riflettere una seconda rottura, quella tra la Milano odierna (la periferia) e una Milano scomparsa (gli «acquitrini»). Sono infatti espressi negli ottonari tutti gli elementi che intervengono a infrangere la descrizione della città presente per introdurre l’immagine fantasmatica di un luogo possibile che è stato insidiato e poi cancellato dall’espansione urbana. Si tratta, nello specifico, dell’introduzione di oggetti e personaggi celesti accomunati dal dono del volo (nuvole, uccelli e il barone di Münchhausen ai vv. 4, 10- 14, 19), che sciamano verso il terrazzo di casa quasi ronzando nella zona incipitaria del testo, marcata dall’allitterazione di |t|, |r| e |tr| ai vv. 1, 3, 5, 7.

La sostituzione del «casone di periferia» al secondo verso con il «cielo» e l’«azzurro» dei versi 4 e 12 corrisponde allo scambio tra uno spazio architettonico abitato e uno spazio immaginario descritto, la cui intromissione nel tessuto metropolitano avviene mediante l’anafora dei tre deittici «questo» tutti posti a inizio di un ottonario (vv. 4, 12, 14). L’ipotesi del «cielo» come alternativa virtuale del condominio sfrutta anche alcune rime fortemente ironiche che agli elementi urbani del secondo, terzo e undicesimo verso («periferia», «ascensori», «inquilini») associano gli elementi paesaggistici del sesto, settimo e nono verso («falconeria», «aironi», «acquitrini»). Il sesto verso, poi, insinua nello schema compositivo una quarta misura: il novenario, che tornerà solo in fase conclusiva (v. 18) e in assonanza (aironi -ascensori-pescatore), evidenziando le apparizioni (la «fila di aironi» e il «pallido re pescatore» ai vv. 6 e 18) di cui Erba stesso sembra dubitare («forse», v. 6; «non so come», v. 16).

Merita un cenno, infine, la scelta di concludere il quinto e il diciassettesimo verso con due monosillabi tronchi («fa», «blu») che (pur appartenendo entrambi allo scheletro endeca-decasillabico del componimento) non rimano poiché esprimono le coordinate temporali del presente (stasera, nel momento in cui sta avanzando l’oscurità: «la sera ha tempo di farsi più blu») e del passato (un tempo fantastico e imprecisato: «secoli fa»).

La distribuzione delle misure segue quindi il seguente schema metrico riassuntivo: vv. 1-3: endecasillabi e decasillabi descrittivi

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v. 5: decasillabo

v. 6: novenario dubitativo

vv. 7-9: endecasillabi e decasillabi descrittivi vv. 10-14: ottonario (anafore di «questo») vv. 15-17: endecasillabi e decasillabi v. 18: novenario dubitativo

v. 19: ottonario v. 20: decasillabo

La ripetizione al decimo verso («questo mio alloggio e altri alloggi») avvia inoltre un processo di esplicito sdoppiamento che riecheggia la frattura presente/passato e condominio/cielo, e si concretizza nell’incredulità del verso 14 (stessa aria?/aria differente?), fino a deflagrare nella parcellizzazione del condominio in unità “molecolari” («libri stoviglie inquilini», v. 11) e delle parole in unità etimologiche («sopravvivere: vivere sopra?» v. 15).

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Redazione 16a