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nascosta sopra il lago tra gli abeti 4 So che mi mancherai quando più vuot

Il Pubblico e il Privato

3. nascosta sopra il lago tra gli abeti 4 So che mi mancherai quando più vuot

5. volgono i cieli ma non torna stagione

6. e nel piombo dell’aria anche è silenzio

7. il tuo lungo fruscio sui tappeti.

8. Poi piove piove e sotto la grondaia

9. l’acqua scende a formare un rivoletto

10. che corre via sulle lastre di ardesia.

11. Passa una ragazzina col fazzoletto

12. viola annodato al collo, vai d’accordo

13. col suono dei suoi zoccoli olandesi.

Dattiloscritto in inchiostro nero con correzioni in lapis. Velina copiativa della stessa risma del foglio precedente 28 x 21,5 cm.

* a margine «da un gattino» 6. «silenzio»] «un silenzio» 12. «vai»] «tu vai»

La copia pressoché in pulito riporta il titolo definitivo e si assesta sulla forma che apparirà nella versione a stampa. Nessuna delle correzioni apportate in lapis, infatti, sarà accolta nel testo definitivo a eccezione dell’articolo al verso 6 che, per altro, risulta ininfluente sul piano metrico e recupera una lezione già tentata nel dattiloscritto precedente.

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Commento a Congedo

Inviato a Pontiggia (1982), a febbraio, l’anno prima dell’uscita del Cerchio aperto, Congedo è apparso come inedito nel numero di “Incognita” uscito a marzo, accanto a poesie di Bertolucci, Pagliarani e Sereni, in un clima schiettamente italo-settentrionale che ben si confà all’ambientazione evidentemente nordica del componimento.

Il paesaggio viene presentato a cerchi concentrici (vv. 2-3): è una casa (primo perimetro), alta sulla riva di un lago (secondo perimetro), immerso nel folto dell’abetaia (terzo perimetro). La costruzione semi-invisibile tra gli alberi sembra quasi una miniatura fiamminga, secondo quanto affermava anche Raboni (1984, 6) parlando «dei quadri di un antico maestro fiammingo» per tutto Il cerchio aperto («olandesi» è, del resto, l’aggettivo che chiude il testo VII, in posizione di rima) e secondo il gusto lenticolare di un «viaggio poetico nelle Fiandre» che Erba stesso (1991, 10) racconta di aver tentato anche nelle versione dal francese di Georges Rodenbach.

La specificazione materica («in pietra serena») rimanda piuttosto a un rilievo appena accennato, di ambito toscano (Bartolomei 2002, 33), e sembra figurare una superficie («lastre di ardesia») dall’inconfondibile colorazione grigia (pietra serena/piombo/ardesia) e dalla quale emergono solo rilievi millimetrici (due dodecasillabi da una serie di undici endecasillabi). L’analogia più calzante richiama quindi lo stiacciato fiorentino (in risposta alla «madonna senese» del testo I?) e propone una collezione di piani microscopicamente sbalzati, affiancati l’uno all’altro come formelle distinte (mediante punti fermi) ma aggregati in un’unica composizione:

1) la casa nel bosco (vv. 1-3), 2) il silenzio sul tappeto (vv. 4-7), 3) la pioggia che scroscia (vv. 8-10), 4) la ragazza con gli zoccoli (vv. 11-13).

I versi così ripartiti formano episodi indipendenti eppure interrelati, poiché sono significativamente legati da un timbro di «voce volubile e sofisticata[,] sottilmente percossa da un soffio di malinconia eppure impigliata e implicata nel gioco dei fonemi a scoprire rare e deliziose assonanze (piombo/zonzo, ardesia/olandesi)» (Faggi 1993, 109). L’accostamento di «incredibili spicchi di paesaggio [e di] inconsuete figure» (ibidem), come lo yeti nell’abetaia o sul tappeto di casa, procede per designazioni nude, cioè prive di

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esplicazioni o di glosse che ne illustrino i rapporti. «[D]i nonchalance parla Tiziano Rossi, Fenga di svagatezza, [ma ad ogni modo] la rappresentazione del reale [condotta da Luciano Erba] è una recensione nomenclatoria» (ivi, 108). Vico Faggi evidenzia come le poesie del Cerchio aperto risalenti agli anni Settanta (Congedo, appunto, o il testo XIX) ricorrano preferibilmente a questa strategia «oggettiva, mutuando le tecniche dell’allusione, del distacco, del nitido prelievo/isolamento delle cose» (ibidem). Nondimeno la lettura che mi sembra più efficace pone l’accento tanto sulla disposizione degli oggetti (serie A), quanto sulla successione delle scene (serie B) e sull’architettura metrico-sintattica (serie C). Alla prima serie appartengono infatti la casa, il tappeto, la grondaia e le lastre, il fazzoletto e gli zoccoli: due oggetti nei primi due blocchi (separati dal punto) e quattro oggetti equamente ripartiti negli ultimi due. Le scene, dal canto loro (serie B), alternano episodi di transito (l’acqua e la ragazza che filano via) negli ultimi due blocchi ma focalizzano l’opposizione verbi di moto/oggetto statico nei primi due («andrai»/«casa»; «volgono i cieli»/«tappeto»). La successione dei tempi verbali, infine (serie C), contempla sia le premonizioni al futuro nella prima metà del componimento, sia l’uso esclusivo del presente nella seconda metà, mentre i due dodecasillabi sono distribuiti in entrambi i tronconi.

Le parti del testo, quindi, scorrono l’una sull’altra apparentemente isolate ma a uno sguardo attento si riflettono l’una sull’altra nello stesso modo in cui l’acqua piovana defluisce sull’ardesia al verso 10. Per una sorta di reticenza e quasi di pudore, il congedo dal «tenerissimo yeti» non si consuma espressivamente, bensì viene manifestato allineando inquadrature diverse e cose variamente assortite in una scrittura che abdica a favore della significazione mediante oggetti non verbali, grosso modo come proponeva Jurgis Mačiūnas nel kit del 1977, Spell your name with these objects.

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Erba, tuttavia, resta ovviamente estraneo a tutte le sollecitazioni più schiettamente sovversive del clima Fluxus e si limita a rappresentare il distacco dallo yeti nel modo più letterale possibile, cioè «distacc[andosi]» a sua volta «in una lontananza che in un certo senso devitalizza [il congedo], trasportandol[o] in una zona neutra dove […] le cose e le persone sono poi ulteriormente oggettualizzate dal presentarsi solo per qualche dettaglio» (Gioanola 1992, 328). E tali dettagli spiccano a malapena a causa del prevalente colore grigio dei materiali e dei debolissimi cenni uditivi (silenzio, fruscio, suono ai vv. 6, 7 e 13), in una sorta di stiacciato, come si è visto, appena percepibile.

Il fattore più interessante consiste a mio parere nella risemantizzazione che il testo – scritto otto anni prima della pubblicazione del Cerchio– subisce a causa della posizione in cui è situato. In Grafologia di un addio, il poeta aveva ricevuto una lettera di congedo scritta dal moto dei rondoni sulla partitura dei tetti, in Istria si era esercitato a «leggere i segni» tracciati da una «terra assonnata» e in Casa nuova ammoniva il lettore a decifrare il «nome» della spada mediante un’operazione di close reading delle strategie retoriche messe in campo. Ora, per la prima volta, è lui stesso a produrre un testo, a scrivere una lettere d’addio, ma per farlo non compone un inedito da inviare a Pontiggia e includere poi nella nuova raccolta del 1983, bensì recupera una serie di versi degli anni Settanta. Erba ricorre insomma a un testo già pronto come l’io poetante ricorre agli oggetti disponibili nelle varie scene per realizzare un quadro unico, sì, ma prodotto da elementi e tempi diversi.

Nell’economia dell’Ippopotamo, la decifrazione del bosco, del cielo e delle pietre d’Istria torna utile adesso, acquista senso con l’inserzione del testo VII nella prima sezione: i segnali del paesaggio sono stati una palestra per imparare a disporre nella pagina del proprio Congedo l’abetaia, i cieli vuoti e la pietra serena in modo tale che l’apparente disparità e disconnessione dei vari addendi generi un insieme di segni sotterraneamente attinenti gli uni con gli altri. Luciano Erba svilupperà una riflessione a riguardo in occasione di un convegno del 2001 (Erba 2001s, 101), scrivendo che «il conflitto tra tema e fuori tema, il deprecato hors sujet! del [suo] professore di francese,» include «intrusion[i], parentesi, ambiguità o pres[e] di distanza» che «sembr[ano] non aver nulla a che fare col tema di fondo pur conferendo a questo, alla fin fine, una maggiore, una riassuntiva, forse totale e unica portata di senso». Ecco, dunque, che la pregnanza avidamente perseguita si materializza nel corpo e nella disposizione degli oggetti sulla superficie della pagina, nel rumore inavvertibile che fanno le cose appoggiate tra i versi come le zampette dello yeti- gatto sul tappeto. La menzione stessa del mostro «tenerissimo» conferma l’attitudine da

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«surrealista “vocato”[,] ironico e fantastico, elegantissimo e pur semplice, sempre raffinato», che Leonardo Mancino (1994, 145) captava su “Hortus” recensendo Variar del verde. Il gatto, identificato per sineddoche nella redazione 7a («zampe») e poi esplicitamente chiamato in causa dall’intervento in lapis ipotizzato nel dattiloscritto 7b, scompare del tutto dietro la maschera surreale dello yeti nel testo a stampa. Il processo di camuffamento, così tipico di Erba sul piano metrico, viene quindi messo al centro della riflessione tematica: il gatto dissimulato appare infatti al verso 1 che è a sua volta un endecasillabo dissimulato e, inoltre, lascia un’unica traccia sonora al verso 7, quel fruscio individuato dallo iato. Prendere congedo dal gatto non significa scrivere riguardo alla separazione ma attuarla mediante le strategie retoriche nel momento stesso in cui viene espressa. Mimia passava a M. e poi ad assumere le fattezze della «madonna» su fondo oro nel testo I, Erba tenta invano di indossare la veste verde dell’«erba» e il gatto passa attraverso lo stesso meccanismo di allontanamento. Gioanola (1992, 328) descrive il processo come un «ironico distacco» che «significa, sul piano esistenziale, difesa contro le possibili irruzioni del “perturbante”, contro la vita che allarma e angoscia», un distacco operato «fissando ossessivamente un dettaglio» (qui, il colore grigio) «fino a fargli perdere ogni significato». La mia opinione è invece che Erba si accanisca su un singolo dettaglio proprio per ottenere il risultato opposto, per spremerne fuori tutto il significato possibile, per atomizzare il paesaggio nelle particelle anche minime di significato che a malapena sporgono fuori dalla patina grigia e apparentemente senza senso. E mi sembra infatti che l’emersione del colore viola alla fine del Congedo così come alla fine del testo VI (e soprattutto del testo XIX) vada proprio in questa direzione, sia cioè la secrezione ottenuta dalla pressione che lo sguardo ha esercitato sulle «lastre d’ardesia» della pagina.

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VIII. Il roccolo

Su uno sperone di monte cresceva un’erba né gialla né nera

un casotto neppure si vedeva verde tra faggi e betulle né lontani né troppo vicini

finché da una feritoia partì un colpo e apparve un lungo essere nero

a raccogliere un uccellino caduto da un ramo secco

un essere come quei magri che nei western portano un cilindro e fabbricano casse da morto sulla main street:

ma questo era bergamasco e coadiutore e se vado ancora per preti

è più che mai per una questione di equilibri direi qui per un gusto di colori

di verde di polenta e di nero. Che se poi volete saperne di più

andate a trovare il Pfarrer Johann Hämmerle che in una certa valle delle Alpi

coltiva fiori di altissimo stelo di petali azzurri e stellati:

devo dire che il miele delle sue api ha un sapore sui generis Pare che questi fiori

(ma chi si fida poi dei preti)

siano stati trapiantati da non so qual pianoro dell’Asia Centrale.

Il cerchio aperto, 1983, p. 25

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Nota prosodica

Formato da due porzioni di testo differenti nel registro (diegetico l’uno, colloquiale l’altro) e nel tema (caccia, apicultura), il componimento può essere ripartito in due tronconi (vv. 1-15 e 16-24) separai dalla maiuscola al verso 16. L’espressione che apre il verso, «che se poi», contiene –oltre a un refuso Einaudi assente nella versione Scheiwiller («che sei poi»)– il marcatore colloquiale «se poi» affine all’incipit dell’intera raccolta (testo I: «se mai») ma trasferisce il ruolo dell’interlocutore dalla seconda persona singolare («tu così bruna») alla seconda plurale, indicando anche uno slittamento tematico: la separazione, il congedo e la perdita che avevano caratterizzato i testi I, II, III e VII non assumono più la funzione di perno del componimento. La morte del volatile colpito dallo sparo viene adombrata dall’eufemismo «caduto da un ramo» ma il cardine sarà invece l’asse incredulità-fede. L’immissione di un discorso ancora inedito nell’architettura del Cerchio aperto (che si è finora concentrato sulla lettura dei segnali della remota lontananza o della prossimità domestica) richiede anche una formulazione prosodica inedita. Anziché ricorrere alla consueta partitura metrica che alterna versi regolari (tra la misura dell’ottonario e dell’endecasillabo), puntualmente dissimulati da cola debordanti, Il roccolo introduce versi esasperatamente lunghi (17 sillabe al verso 8, 19 al verso 9, 18 al 21, 21 al 24) di struttura e di sapore prosastico: ammissioni («devo dire che», «da non so qual»), costruzioni stereotipate («uccellino caduto da un ramo», », «nei western portano un cilindro») e aggettivi in funzione nominale al posto dei più corretti pronomi («quei magri» < «quelli magri»).

Il solido impianto metrico-retorico che era stato appena accennato nei primi cinque versi (rima ai vv. 1-3, parallelismo ai vv. 2-5, successione di endecasillabo-novenario- endecasillabo-ottonario ai vv. 1-4) viene subitamente interrotto dallo sparo alla sesta riga. Con l’apparizione del «lungo essere nero», anche i versi si fanno più lunghi. Le componenti sorvegliate e ben organizzate in apertura di componimento perdono coesione: la rima compatta (vv. 1-3), ribattuta dall’assonanza al secondo verso, si disintegra adesso in una serie di rime al mezzo, distanti e disposte ad altezze diverse all’interno dei singoli versi (11, 14, 21, 22 e 24: coadiutore-colori-sapore-fiori-pianoro); il preciso lessico cromatico si fa improprio («verde»-«gialla […] nera» > «di verde di polenta di nero»); l’uso della litote («né giallo né nero» per “non del tutto verde” o «né lontani né troppo vicini» per “abbastanza vicini”) si converte nell’uso di attenuazioni vaghe ed eufemismi («colpo» per “sparo”, «caduto» per “morto”, «quei magri che nei western portano un cilindro / e fabbricano casse da morto» per “becchino”) e in reticenze («una certa valle», «un sapore sui generis», «non

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so»). I versi tendono insomma a farsi meno densi, il vocabolario meno appropriato, le costruzioni meno ricercate: è un testo che, dopo il «colpo» dell’adiutore si slega, al punto che le parole in posizione di rima nella prima metà del componimento precipitano nella seconda metà, ripresentandosi nella stessa posizione («nero» vv. 7, 15; «preti» vv. 12, 23) ma senza imporre alcuna architettura metrico-retorica rilevante: cadono, come cade la preda del cacciatore. Per riscattare il disfacimento della gabbia retorica del testo, i versi 19 e 20 reintroducono la successione endecasillabo-novenario rimati (stelo-stellati) che era apparsa già ai versi 1 e 2, legati da assonanza, proprio nel momento in cui un nuovo religioso contrappone all’attività venatoria del primo la cura dei fiori dai «petali azzurri», ristabilendo, per giunta, una continuità cromatica coi testi II e III.

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Redazione 8a

1. Su uno sperone di monte ovattato d’un prato