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da non so quale pianoro dell’Asia Centrale

23 (ma chi si fida poi dei preti) 24 siano stati trapiantat

25. da non so quale pianoro dell’Asia Centrale

Prandi (2002, XXVI): «Vi sono alcuni interventi d’autore coevi all’allestimento della presente edizione, che segnalo: p. 127 (Il roccolo): “siano stati trapiantati da non so quale pianoro dell’Asia Centrale” > “siano stati trapiantati / da non so quale pianoro dell’Asia Centrale”»

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Commento a Il roccolo

Benché tradotta in inglese (Snodgrass 2003; Robinson 2006) e più recentemente persino in svedese –in un’antologia sulla poesia italiana contemporanea (Smedberg Bondesson 2008) a causa della quale è stata curiosamente citata in un blog scandinavo (Zalesky 2008)–, Il roccolo è una delle poesie meno commentate del Cerchio aperto e, a parer mio, una delle meno riuscite sul piano formale.

Il titolo si riferisce a una costruzione lignea, composta da una lunga palizzata dissimulata da un rampicante, che costituisce una postazione di caccia tipica dell’Italia settentrionale e, in particolare, della provincia di Bergamo, deputata alla cattura di avifauna migratoria viva. Lo spunto iniziale deriva da un trafiletto giornalistico ritagliato, conservato inizialmente fra le carte relative all’Ippopotamo e infine perduto. Una fotocopia era stata allegata dall’autore agli avantesti del Cerchio aperto, in fase di consegna del plico al Centro Manoscritti di Pavia, ma non è stato possibile rintracciare la testata di provenienza poiché l’articolo risulta di difficile lettura a causa della pessima qualità della copia, alla quale una seconda fotocopiatura più nitida, acclusa alla prima sempre dall’autore, non ha comunque rimediato. Potrebbe plausibilmente trattarsi della sezione locale del “Corriere della Sera” bergamasco o su “L’eco di Bergamo”.

Prete arrestato cacciava i pettirossi senza licenza

Bergamo – La passione per la caccia ereditata dal padre ha giocato un brutto scherzo a don Faustino Suardi, 58 anni, un sacerdote senza incarichi di parrocchia che abita a [?] Terme. Tutto si è risolto con una giornata in cella ma dovrà subire il processo per alcuni addebiti che fanno riferimento alla detenzione abusiva di un fucile, alla pratica della caccia senza licenza e all’abbattimento di alcuni pettirossi che rientrano fra le specie protette. Ieri nel primo pomeriggio nel corso degli interrogatori, don Suardi ha spiegato il suo comportamento con l’hobby dello sport venatorio: quanto all’arma la cui detenzione aveva fatto scattare mercoledì l’arresto immediato, è risultato un fucile calibro 24 a una canna di fabbricazione artigianale. Sono stati proprio gli spari a mettere sul chi vive una pattuglia di guardie venatorie dell’amministrazione provinciale.

Nonostante la testimonianza d’autore sull’origine cronachistica dello spunto, il testo finale non documenta alcuna filiazione diretta né sul piano lessicale né sul piano sintattico- retorico. È pur vero che Il roccolo è il primo componimento del Cerchio aperto a rinunciare del tutto a uno schema metrico-prosodico ben congegnato, ma i versi lunghissimi e l’abbandono di un’architettura studiata non sembrano derivare da nessuno stimolo particolare assimilato dal modello iniziale. Si potrebbe quasi individuare nel trafiletto un modello fantasma che si intravede appena dietro i versi, un modello che li ha incentivati benché essi restino del tutto autonomi nell’organizzazione dei materiali. In questo senso

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l’articolo di giornale ricoprirebbe la stessa funzione della «lettera tassata» nel testo IX, l’antologia sovietica del testo XX o il tema scolastico del testo XXII: la funzione di testo- motore, senza che siano comunque raggiunti i virtuosismi dei testi III e X che citano apertamente le proprie fonti ancorché si tratti, in entrambi i casi, di fonti fantastiche.

L’attacco del Roccolo, che alterna due endecasillabi e due versi poco più brevi, riecheggia un uso abbastanza tipico nelle poesie che lo precedono e inquadra uno spazio generico («su uno sperone di monte»), uno di quei dati paesaggistici che Frare (1983, 43) chiama «informazione di indifferenza topologica» e che, invece di descrivere il panorama, lo visualizza sullo specchio della pagina sfruttando concretamente la posizione tipografica del verso in relazione agli altri versi. Commentando La seconda casa (Erba 1980, 134), Frare nota infatti che il verso 16, «in questo emisfero o nell’altro», si situa esattamente dove dice: a cavallo delle due metà che compongono la poesia. Parimenti la cima del monte, nel Roccolo, compare in cima al lungo testo, nel verso incipitario, come già altrove (testo II) entrare nel bosco significava per il lettore addentrarsi nel testo.

Con un violento cambio di registro, la pagina giornalistica viene filtrata attraverso le maglie di una riscrittura fiabesca; l’operazione (cronaca>fiaba) rimodella l’arresto del sacerdote nel quadro di un nuovo genere che rappresenta la società secondo parametri differenti, «radicat[i] nell’indeterminato, nell’inverosimile, nell’atteggiamento ludico» (Cambi Landi Rossi 2008, 169). Concretamente: il pettirosso passa a un più vago «uccellino», la vegetazione lombarda diventa indefinibile («né gialla né nera […] né vicini né troppo lontani») mentre rime (all’imperfetto indicativo) e metro (ottonario) scimmiottano la filastrocca. Uno stacco netto avrebbe quindi dovuto marcare lo sparo nel coadiutore e l’irruzione della morte nel quadretto montano. L’aggiunta del verso 12 nella redazione 8a introduce infatti l’avversativa «ma» prima dell’ingresso del cacciatore, congiunzione che rimarrà anche nella stesura a stampa e che, nota ancora Frare (1983, 40), Erba usa anche altrove per sottolineare «il passaggio dal dominio dell’irreale a quello del reale», e che ricorre soprattutto nei testi situati in posizione cardine come La seconda casa, ultima poesia inclusa nel Nastro (Erba 1980, 134) o, secondo la lettura di Stipi (1983), in Super flumina, ultimo testo del Male minore (Erba 1960, 73).

Il procedimento si verifica regolarmente anche in Natura naturans («Ma allora…?» v. 18), ultima poesia prima degli acrostici degli Spazi intermedi (Erba 1998, 51), in Soltanto segni («ma che cosa?» v. 4), ancora nella stessa posizione all’interno di Come quando in Crimea (Erba 1992, s. p.) e, tra le raccolte più tarde, nell’ultima poesia delle Contraddizione (Erba 2007, s. p.), che oltretutto si intitola proprio A caccia d’immagini benché non serbi nulla del

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dramma venatorio del Roccolo, fuorché l’uso conclusivo della congiunzione “ma” («ma non tra i fiori» v. 11). Certamente l’avversativa non è l’unico segnale di scarto: nella redazione 8a «ma» al verso 12 sostituisce un «poi» in funzione oppositiva che appare anche nell’ultimo componimento dell’Altra metà (Erba 2004, 38), nella forma: «se poi taglio a quarti la mia mela», accompagnato dall’ipotetico «se» che ricorda tanto l’attacco del corsivo nel Cerchio aperto («se mai»), quanto l’attacco del corsivo («è già tanto se») in Remi in barca (Erba 2006, 7). Ciononostante, alla correzione (poi>ma) della redazione 8a è seguita l’aggiunta di una nuova incursione in un genere diverso (il «western» del verso 9), che riambienta momentaneamente l’intera scena alpina «sulla main street» di una qualsiasi città nordamericana. La sola congiunzione avversativa “ma” non deve essere parsa sufficiente a contrastare le due deviazioni fantastiche (nei territori della fiaba e del cinema) presenti nella prima metà del componimento, sicché il «ma» al verso 11 viene doppiato da un «e se» al verso 12. La biforcazione fiaba/western, sconfessata dal subitaneo ritorno alla cronaca («ma questo era bergamasco»), sembra rispondere a un’esigenza di negazione che investe i primi sei versi: l’erba non è gialla ma non è nera, i faggi non sono lontani ma nemmeno vicini, non si vede nessuno ma parte un colpo, la poesia non è dunque né fiaba né film americano. «Erba […] travolge la realtà piccolo-borghese e vetero-cattolica in cui è condannato a vivere col fervore quasi settecentesco dell’immaginazione, della fantasia» (Forti 1989, 56) o, più precisamente, con l’immissione di registri estranei/fantastici che, nel caso del Roccolo, travolgono e fanno saltare la tenuta metrico-prosodica del testo così come rischia di saltare la fede clericale dell’io poetante (redazione 8b).

La versione finale dei versi 13-15 non riesce tuttavia a mascherare la fatica che documentano gli avantesti nel formulare degnamente la ragione per cui la battuta anticlericale non ha la meglio sul reverendo Pfarrer. La virata sul piano estetico tenta di compensare l’ironia («ma chi si fida poi dei preti») rimediando sull’asse gusto/sapore («e se vado ancora per preti […] è più che mai […] per un gusto di colori»; «il miele delle sue api ha un sapore sui generis»). I due fattori (gusto cromatico e sapore del miele) erano, però, estranei alle prime stesure e credo risultino rattoppati. La menzione dei colori (verde, giallo e nero) che contrastano la battuta anticlericale appare infatti solo all’altezza della quarta redazione e, oltretutto, in fase di revisione del verso 5, dove inizialmente mancava l’aggettivo «verde». Il sapore del miele, infine, è talmente estraneo al motivo iniziale che Erba si trova costretto a saldare tutto un altro quadro alpino, non documentato dalle bozze, in cui un nuovo sacerdote si contrapponga al primo. Così facendo, però, si introduce nello

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spettro cromatico anche l’azzurro (verso 20) rompendo l’equilibrio di rispondenze artificialmente costruite in 8d (verde-giallo-nero / verde-polenta-nero).

Riassumo. Erba prova a dirottare lo stimolo linguistico-retorico iniziale, cioè la negazione (in forma di litote, dismisura metrica, indeterminatezza, incredulità), verso aspetti cromatici che continuano a suonare accessori perché slegati (il «verde» al verso 4 non è esplicitamente negato come il giallo e il nero) e contraddittori (l’azzurro non appare nella prima metà del testo con gli altri tre colori che sono invece simmetricamente disposti in entrambe le parti). Nicoletta Bortolotti (1994, 88) rimarca che proprio «il verde», il colore aggiunto in fase di bozze al verso 4, sarà centrale in «Variar del verde, a pagina 32», poiché segnalerà un «atteggiamento incerto e perplesso», dal momento che «il verde […] è» non solo «il colore della campagna, degli alberi da frutto, dei sambuchi», così frequenti nella poesia di Erba, ma anche il nome generico di una vasta gamma di gradazioni che «po[ssono] variare ma dev[ono] rimanere uguali a se stess[e], altrimenti smarrisc[ono] la propria essenza per assumere quella di un altro colore» (ibidem). In altri termini: nel sofisticato sistema cromatico di Erba il verde e l’azzurro sono considerati segnali differenti, se d’un tratto si confondono viene a mancare proprio quell’equilibrio che Il roccolo chiama in causa («se vado ancora per preti / è più che mai per una questione di equilibri»).

Ho l’impressione che il testo VIII convochi troppe istanze e tenti di comprimerle in una sola pagina senza aver limato, come Erba è solito fare, il materiale in eccesso. La perplessità ironicamente anticlericale trovava un’estrinsecazione sul piano linguistico con la serie iniziale di correlative negative, messe in ombra poi dall’inserzione dello spaccato western, a sua volta contraddetto dallo snodo dell’avversativa “ma”, vanificato infine dalla contraddizione che incrina l’equilibrio cromatico dell’insieme. Eppure la lettura condotta da Cicala (1990, 163) sul dittico Verticale-Orizzonatale (Erba 1995, 22-3) riscontra il fatto che lo stesso paesaggio del coadiutore bergamasco e del reverendo Pfarrer, copè le valli alpine e gli speroni di montagna, è proprio «il profilo geografico […] indicativ[o] di una trascendenza», che costituisce quindi un altro stimolo immesso nel già sovrabbondante Roccolo, insieme all’«erba» che qui, come sarà nel Tranviere metafisico, «pare autoironico per l’omonimia con il cognome» (Cicala 1989, 227), mentre finora, nel Cerchio aperto, era frutto di una ponderata elaborazione. Suppongo che il dettaglio più riuscito sia l’impiego del latinismo colloquiale «sui generis» in posizione di rima nel lunghissimo verso 21, giacché, come nota Luzzi (1989, 68), «l’uso particolare d[el] latino» sembra «immesso in funzione iconoclastica e caricaturale» nella misura in cui entra in cortocircuito con «taluni segnali non trascurabili di rimozione di natura cattolica» (ibidem).

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IX.

Tristi giochi di parole

su uno sfondo di muri giallini cespi di tagetes e fogliuzze rotonde che spuntano da minimi cerchi di terra attorno ai giovani tassi di un ospizio: il sole non fu mai così mite

su queste bianche sedie di vecchi. Un giorno arriva una lettera tassata invita a ritirare gli «effetti personali», un pastrano, qualche calza spaiata

un numero incredibile di lamette di rasoio uno splendido pennello di tasso

Il cerchio aperto, 1983, p. 27

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Nota prosodica

L’architettura perfettamente compiuta del testo IX è tanto curata quanto il giardino che descrive. La struttura contempla infatti due dodecasillabi ritmicamente intercalati nella serie di sei decasillabi, tre dei quali ancora una volta dissimulati dall’aggiunta di una parola che tracima dalla misura esatta del metro. La prima parte, che raffigura le aiuole circolari e le foglie rotonde nel giardino (vv. 1-8), è organizzata appunto secondo lo schema della composizione ad anello: si apre e si chiude con un decasillabo. Quello dissimulato (v. 8: decasillabo + «personali») segue due decasillabi canonici, mentre il metro regolare di dieci sillabe al primo verso è asimmetricamente seguito da due metri pari ma dissimulati (vv. 2-3: decasillabo + «rotonde» / decasillabo + «di terra»). Isolando il primo e l’ultimo verso, invece, si ottiene una costruzione perfettamente equilibrata 2 decasillabi + 1 dodecasillabo con l’asse di simmetria posto tra i quarto e il quinto verso.

Verso 1: decasillabo

Verso 2: decasillabo + «rotonde» Verso 3: decasillabo + «di terra» Verso 4: dodecasillabo

--- Verso 5: decasillabo

Verso 6: decasillabo Verso 7: dodecasillabo

Verso 8: decasillabo + «personali»

Le parole che eccedono la misura del verso (le «fogliuzze rotonde» e i «minimi cerchi di terra») sono ancora una volta le spie che rivelano la costruzione del testo. Gli «effetti personali» che eccedono invece al verso 8 saranno elencati nelle tre righe finali: due endecasillabi (vv. 9 e 11) e un verso eccezionale di sedici sillabe che aumenta tanto proprio per visualizzare il «numero incredibile di lamette di rasoio» depositato nell’ospizio. L’impianto retorico replica al struttura metrica sviluppando prima una composizione circolare con l’anafora della preposizione «su» e la ripetizione delle cromie chiare (giallini/bianche) ai versi 1 e 6, poi segue una coda con l’anafora dell’articolo «un/uno» negli ultimi tre versi. Le uniche rime (vv. 7-9: tassata-spaiata, vv. 7-11: tassato-tasso) enfatizzano il gioco di parole che dà il titola al componimento e che si basa sulla paronomasia tasso-tassi-tassato.

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Redazione 9a

Tassonomia

1. Su questo sfondo di muri giallini