• Non ci sono risultati.

Suite americana

26. merlo d’oltremare

143

27. perché mi inviti a tornare?

Dattiloscritto in inchiostro nero, correzioni in biro nera. Carta fax 22,5 x 16, 5 cm pinzata con la precedente.

4. «unti per un piatto»] «bisunti di salsicce» 5. «di birra»] «inondati di birra»

«di salsiccie»] cassato

6. «e lastre verticali»] cassato

7. «che fiancheggiano»] «fiancheggiato da dilavati roccioni o si va verso sud» «la strada verso l’ovest»] «su l [sic] strada»

8. spostato con una freccia in posizione incipitaria 12. «ricordando»] «conosciuto»

12-14. spostati tramite freccia verso il basso dopo il verso 19 15-19. spostati tramite freccia verso l’alto dopo il verso 8 24. «ma»] «infine»

27. «mi inviti»] «invitarmi»

Se non fosse per l’uso invalso di comporre la prima stesura a mano e solo le seguenti a macchina, verrebbe quasi da pensare che il dattiloscritto preceda la redazione 11a. I numerosissimi interventi, infatti, documentano un’evidente insoddisfazione nei confronti della precedente redazione che viene stravolta mediante frecce ascendenti e discendenti volte a spostare interi blocchi e a ridefinire l’inicipit (per altro in senso conservativo). Gli elementi paesaggistici che formano due pareti semi-parallele (righe 6 e 7) saranno rimossi e sostituiti da una serie consistente di falsi parallelismi (correlative, endiadi, simmetrie). Per facilitarne la lettura, propongo di seguito l’ipotesi ordinamento elaborata con l’inserzione dei diversi blocchi di versi in un ordine differente:

Forte negli esodi, negli esilii, quando tra i pesci delle nuvole più alte l’azzurro è di pianure attraversate da lontani cicloni,

tra tavoli unti per un piatto

di birra e di salsiccie (sic) sopra il ferry

fiancheggiato da dilavati roccioni o si va verso ovest / su l (sic) strada quanto a te bambina biondo oro

tra i palmizi di un grande magazzino e balconate di ferro battuto

che danno su una hall piena di luce in pericolo sull’ammezzato

le figlie non andranno la vecchia pista nel bosco cancellata dai pruni e dai tronchi

di betulla caduti di traverso ricordando l’hardware di N. B che mi dava chiodi di diversa misura sta a vedere perché, con le sue rughe c’è da dire

che eravamo felici

del nostro nuovo cappello di pelo sulla diagonale

ma tu merlo dei tre colori infine

saluto del mattino merlo d’oltremare

144

Commento a Suite americana

Come già nel testo VI (per altro coevo), l’avvio di Suite americana è attraversato da una raffica di vento in città, identificato dal participio «spazzata» (testo VI.15 e testo XI.3), per poi zoomare sulla stessa presenza para-angelica: l’arrivo del merlo delatore di un messaggio. Il pubblico e il privato rifletteva sulla difficoltà di rendere abitabile uno spazio condiviso, di negoziare un interno (domestico e urbano –sui ballatoi o le sopraelevate– e persino botanico –nelle aiuole–) che sia autentico asilo. Veniva problematizzato lo scarto fra interno e interiorità, fra architettura e umanità. E in questo senso, il merlo incipitario, entrando in casa, superava una soglia, come il vento in città e come il lettore nel testo, così da stabilire una continuità con l’esterno e travasarlo dentro (in casa, in città, nel testo).

Il merlo che chiude Suite americana compare invece sul margine inferiore della pagina e segnala, semmai, una via d’uscita: invita a compiere un viaggio, a regredire. Entrambi i volatili aprono una possibilità dove era difficile scorgerne una: se infatti nel testo VI la sfida era trovare una via d’accesso alla casa, alla città e alla pagina (l’interiore), nel testo XI la difficoltà consiste nel tracciare una via d’uscita. I versi iniziali disegnano espressamente una «diagonale», che la nota d’autore ci conferma essere un’arteria stradale (Broadway) e che immette i personaggi «entusiasti» sulla traiettoria della folata d’aria. Ma la «pista» nel bosco ai versi 14-15 risulta invece cancellata dai tronchi di betulla caduti, poiché tra il cammino iniziale, spalancato, e il cammino finale, bloccato, sono intercorsi due episodi debilitanti: la pericolosa «corsa sull’ammezzato / rischiosamente vicino a balconate di ferro battuto» (vv. 9-10) e la perdita dell’orientamento nelle acque del verso 7 («che si andasse all’ovest o verso est»). L’indifferenza in materia di direzione risale alla bozza 11b, con la variante sud/ovest al rigo 7, e verrà tematizzata pienamente nel testo XII, dove le coordinate spaziali risultano indifferenti e pertanto scatenano il presentimento di essersi persi e di aver perso qualcuno. Lo svagato protagonista che passa, nel testo XI, da Manhattan al ferry e dallo shopping mall all’escursione nel bosco rappresenta già in nuce (ma sarebbe più corretto dire: in azione) il personaggio dell’Homo viator (Erba 2006, 46), quel «turista che ha sbagliato biglietto» e si ritrova «per labirinti impossibili / tra corridoi […] varchi […] passaggi invisibili [e] guard rail». La patina vagamente turistica degli scenari di Suite americana potrebbe persino indurre a ipotizzare una lettura anfibologica della “suite” del titolo, sosta alberghiera tra i vari spostamenti oltre che infilzata di quadretti distinti in un unico testo poetico.

Alla perdita dei riferimenti spaziali risponde la perdita di coerenza tra i diversi tempi verbali. Al momento presente, in cui l’io poetante ammette la felicità passata («C’è da dire / che eravamo entusiasti»), seguono regolarmente alcuni imperfetti relativi alla permanenza statunitense, interrotti però dal presente storico (l’inconsapevolezza della bambina che «non sa») e da un futuro che vorrebbe indicare l’incoscienza a venire («non ricorderà»). Così facendo, Erba rende difficile stabilire se il «mattino» in cui arriva il merlo al verso 19 sia narrato al presente semplice (e quindi il merlo inviti a tornare in America dall’Italia) o al

145

presente storico (e quindi il merlo invitasse a tornare in Europa dagli Stati Uniti). L’incertissimo indizio del merlo a «tre colori» non può nemmeno essere interpretato come allusione al tricolore italiano, ovviamente, perché nel poco plausibile caso in cui Erba avesse voluto riferirsi alla bandiera nazionale (cosa che ritengo improbabile, anche se già nel testo VI la raffica di vento che arriva col merlo agita proprio le bandiere alla Fiera Internazionale), sarebbe rimasto comunque abbastanza ambiguo dal momento che anche la bandiera statunitense è di tre colori. Considero tuttavia più probabile che l’uccello tricolore richiami il «gusto di colori» del testo VIII.14, in cui appare nuovamente un «uccellino» avvicinato per via empatica come il merlo d’oltremare, secondo un paragone rilevato da Giovanna Vizzari (1985, 150). L’«equilibrio» cromatico verde-giallo-nero del testo VIII era talmente forte da sopire le spinte anticlericali e imporre un cattolicesimo di stampo estetico che risponde a un’esigenza armonica anziché fideistica, così come il melange cromatico del merlo di Suite americana sopisce l’ansia delle possibili dimenticanze e induce invece al viaggio. L’unico colore presente nel testo, però, l’unica tinta sopravvissuta nei ricordi è l’«oro» dei capelli al verso 8, lo stesso tono su cui si stagliavano i capelli di Mimia nel testo I e su cui si staglieranno il sole e il profilo della madre nel testo XII. La bambina incosciente è dunque l’unica apportatrice di colore in una poesia che alla sequenza di spazi e tempi non fa conseguire variazioni cromatiche. Merlo e bambina appaiono repentinamente, l’uno «un mattino», l’altra «in corsa», portando i colori «d’oltremare» e il ricordo del passato, benché il primo non sia in grado di specificare oltre quale mare inviti a tornare né la seconda sia in grado di ricordare il passato dal quale pur proviene in forma memoriale, sicché anche stavolta l’oro sembra scaturire dall’esigenza di imporre un fondale di tipo bizantino (cioè fuori dal tempo) anziché fornire un dato descrittivo.

Suite americana può essere considerato un testo senza uscita poiché mira espressamente a disorientare il lettore per metterlo nella stessa condizione dei personaggi che porta sulla scena –l’io poetante e la bambina–. Si tratta di sagome che non sono evidentemente in grado di stabilire dove si trovino esattamente né cosa tratterranno dei momenti vissuti. Ecco che, allora, il «cappello di pelo» al verso 2 entra in cortocircuito col «berrettuccio» del testo X, precedente a questo, poiché entrambi gli oggetti, in qualità di souvenir di viaggio, sono antonomasticamente memoria in re. Secondo stilemi considerati precipuamente “lombardi”, Erba agisce come «Sereni, esprime[ndo] le intermittenze del cuore nella trascrizione della natura frammentaria dell’esperienza individuale, con le sue implicazioni nell’ordine dei contenuti percettivi» (Lisa 2007, 44). Il berretto rinvenuto nel baule del testo X e quello indossato a Broadway appartengono al novero degli oggetti che Erba attiva in senso strumentale poiché in essi materializza la portata memoriale e tramite essi misura la gittata del ricordo, la sua capacità di rintracciare un’informazione: tali oggetti sono pertanto documenti che vengono reperiti e sistemati in una teca immacolata (cioè nella pagina) per trarne una testimonianza. A proposito di questo profilo documentale della poesia lombarda, Sereni stesso (1996, 34) dirà: «Sono io che vado in cerca degli oggetti, non gli oggetti che cadono e si raccolgono spontaneamente in me». Rinunciando al «meccanismo epifanico»

146

(Simonetti 2002, 220) di sapore ermetico, i poeti lombardi «lo rettifica[no], invece, sovraccaricandolo genialmente delle proprie insicurezze; l’io è incapace di prescindere dalle risorse della realtà», ma resta incapace anche quando la labilità del ricordo rende quasi impossibile ristabilire connessioni precise e informazioni indubbie, come appunto in Suite americana, sicché si smarrisce in un catalogo di episodi in cui gli istanti sono tanto transitori come i luoghi. Erba sembra catalogare il poco che è rimasto nel ricordo, il vissuto superstite, per renderlo lampante sulla pagina stampata, quasi che quivi possa essere inchiodato. Il quadretto del poeta che compra chiodi al ferramenta sembra confermare l’immagine di Erba micro- costruttore, di Erba che rinchiude i souvenir nel baule e i ricordi in poesia, giacché i chiodi sono specificamente «di diverse misure» (v. 16) e proprio in un componimento con la più grande varietà di misure metriche nell’Ippopotamo. I chiodi di cui necessita Erba sembrano quindi gli strumenti per trattenere il ricordo: i versi «di diverse misure». È del resto Erba stesso a ritrarsi come patito del gioco del meccano nel testo XXII e a riproporlo in fotografia come illustrazione dell’articolo uscito su “AD” nel 1993 (Erba 1993s, 22).

Una poesia-catalogo di oggetti ed episodi sarebbe quindi una poesia atta a trattenere quel che si è perduto e che invita a tornare in tempi e luoghi «cancellat[i] dalle betulle cadute di traverso» (vv. 14-15). Anche Sereni si era espresso sulla provvisorietà e labilità dei luoghi, commentando la poesia montaliana e post-montaliana: «possiamo dirlo chiedendo soccorso a Proust, “i luoghi che abbiamo conosciuto non appartengono solo al mondo dello spazio, sul quale li situiamo per maggior facilità. E così non sono che uno spicchio sottile fra le impressioni contigue che costituiscono la nostra vita di allora, il ricordo di una immagine che non è che il rimpianto di un certo minuto e le case, le strade, i viali, sono fuggitivi, ahimè, come gli anni”» (Sereni 1977, 194). Suite americana risponde a questa fuga con un «catalogo di oggetti» (Pappalardo La Rosa 1997, 103), come del resto avveniva fin dalle origini della poesia erbiana: un catalogo che «tende ad inalvearsi in un discorso versico di più distesa e media narratività strappando luci, colori e suoni ai frammenti del reale e restituendoli, impressionisticamente, quali momenti di un autobiografismo disarmato, stralunato, tutto teso a rinvenire e a definire […] la propria posizione in un mondo di cui il significato […] continua a sfuggire» (ivi 103-4), un mondo abitato da «silhouettes sul bilico del vuoto, surreali viaggiatrici» (ivi 105), come la bambina che bordeggia il balcone del centro commerciale.

147

XII.

Quartiere Solari

Milano ha tramonti rosso oro. Un punto di vista come un altro erano gli orti di periferia

dopo i casoni della «Umanitaria». Tra siepi di sambuco e alcuni uscioli fatti di latta e di imposte sconnesse, l’odore di una fabbrica di caffè

si univa al lontano sentore delle fonderie. Per quella ruggine che regnava invisibile per quel sole che scendeva più vasto in Piemonte in Francia chissà dove mi pareva di essere in Europa; mia madre sapeva benissimo

che non le sarei stato a lungo vicino eppure sorrideva

su uno sfondo di dalie e di viole ciocche.

(1978)

Il cerchio aperto, 1983, p. 33

148

Nota prosodica

Compatta serie di endecasillabi e decasillabi (vv. 2-6, 9-12), il testo XII è incorniciato da quattro novenari disposti all’inizio e alla fine del componimeto (v. 1 e vv. 13-15) con dissimulata simmetria. Se il primo e il quattordicesimo verso sono infatti scopertamente regolari e risultano isolati mediante punto fermo o punto e virgola; i versi 14 e 15 sono stati invece impaginati in modo tale che il novenario «che non le sarei stato a lungo» sia visibile solo a patto di saldare l’ultima parola del verso, «vicino», al verso seguente («eppure sorrideva») così da generare un nuovo novenario en enjambement («vicino / eppure sorrideva»). Il guizzo metrico è particolarmente significativo perché rende necessario rimuovere dal verso 14 proprio l’avverbio “vicino”, che subisce un rapido allontanamento, similmente all’io poetante, prossimo al distacco, quando afferma che «non [sarebbe] stato a lungo vicino» alla madre.

Il caso dell’avverbio che visualizza la separazione del protagonista è, del resto, accomunato allo schema del verso 9, in cui un decasillabo è reso invisibile dall’aggiunta di una parola a fine riga, parola che –ironicamente– è proprio «invisibile», sicché l’impercettibile ruggine che si addensa nel quartiere milanese opera proprio come l’impercettibile metrica in Quartiere Solari.

L’alternanza tra versi di nove, dieci e undici sillabe non segue uno schema prestabilito ma si conforma piuttosto agli snodi tematici del testo:

a) la fase declinnate del giorno così come la fase declinante della vita della madre sono espresse con novenari (vv. 1, 13-5: «Milano ha tramonti rosso oro»; «mia madre sapeva benissimo /che non le sarei stato a lungo vicino / eppure sorrideva»); b) l’indefinibilità di spazi che appaiono intercambiabili, indecidibili, ineffabili è

rappresentata mediante decasillabi (vv. 2, 9, 11-2: «Un punto di vista come un altro», «Per quella ruggine che regnava invisibie», «in Piemonte in Francia chissà dove / mi pareva di essere in Europa»);

c) l’apertura sugli scorci paesaggistici, l’allargamento dell’inquadratura alla vastità del sole e della città o ai fiori nel quartiere raggiungono invece la misura dell’endecasillabo (vv. 3-6, 10 e 16: «erano gli orti di periferia / dopo i casoni dell’“Umanitaria”. / Tra siepi di sambuco e alcuni uscioli / fatti di latta e di imposte sconnesse», «per quel sole che scendeva più vasto», «su uno sfondo di dalie e di viole ciocche»).

149

Incuneati al centro della serie di decasillabi ed endecasillabi, due versi irregolari interrompono la descrizione dello spazio ineffabile/indeterminabile del quartiere, quel «punto come un altro[,] in Piemonte [o] in Francia» su cui sembravano insistere solo le inquadrature a campo lungo degli endecasillabi: nei versi 7-8, alla percezione visiva si sostituisce l’olfattiva. L’odore di caffè che impregna la scena sembra offuscare la nitidezza della ripresa, incrinando il tessuto metrico e mischiandosi col «sentore delle fonderie» espanso in un lunghissimo verso di quindici sillabe, giacché arriva da «lontano». Per un fortuito caso, la costruzione metrica del verso 8 e soprattutto la lontananza delle fabbriche suonano come una premonizione della distanza che intercorrerà a separare madre e figlio: a seconda di come vengano contate le sillabe, è infatti possibile estrarre un novenario o un endecasillabo dal verso di quindici sillabe, quasi che, per registrare il presentimento della fine del giorno/della vita insieme alla madre (normalmente espressa nei novenari), il campo lungo (cioè l’endecasillabo «si univa al lontano sentore delle») non fosse più sufficiente e si dovesse quindi ricorrere a un campo lunghissimo: un verso di quindi sillabe, appunto.

A chiusura del componimento, il verso 16 coincide con lo sforzo esplicito di riportate l’intero dramma della separazione alla superficie bidimensionale dello «sfondo», quasi a sopire il dolore presentito prima ancora che si manifesti. Dallo zoom sul sorriso rassegnato della madre (v. 15: «eppure sorrideva»), l’inquadratura si allarga all’area coltivata a fiori su cui si staglia il personaggio femminile, come già Mimia contro la doratura della tavola senese nel testo I.

Verso 1 Novenario tramonto/separazione

Verso 2 Decasillabo spazio inqualificabile

Versi 3-6 endecasillabi campo lungo sul quartiere

Versi 7-8 - odori

Verso 9 Decasillabo spazio inqualificabile

Verso 10 endecasillabo campo lungo sul quartiere

Versi 11-12 Decasillabo spazio inqualificabile

Versi 13-15 Novenari tramonto/separazione

150

Redazione 12a

Quartiere Solari

1. Milano ha tramonti rosso oro.