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a | grandi lettere è tutto intriso di pioggia.

1.| Sei rimasto il ragazzino che rovescia 2 la pietra affondata nell’erba

14. a | grandi lettere è tutto intriso di pioggia.

Dattiloscritto in inchiostro nero con correzioni in biro nera seguite da una mano in biro blu. Foglio da risma: 27,9 x 22 cm.

5. chiuso fra parentesi con «X» a margine come per eliderlo 9. spostato con una freccia sopra il verso 8

10. «oggi»] «anche oggi»

«ti senti tu stesso»] «mi sento io stesso» 13. «il»] «e il»

14. «a»] «a nere,»

Il titolo apparso precocemente alla seconda bozza si mantiene in questa e sarà stampato sulla pagina. L’impiego della barra verticale che indicava le zone del testo soggette a particolari revisioni e ai più alti investimenti si sposta adesso dal blocco di versi 1-9 all’ultimo. Lo slittamento segnala i due poli attorno ai quali si è costruito quindi il testo XIV: il discorso introflesso e il discorso metaletterario, o, su un piano linguistico, l’uso della seconda persona singolare e la qualificazione delle «lettere» dell’insegna. L’indecisione su questi punti sembra infatti riflettersi nelle varianti alle righe 10 (passaggio dalla seconda alla prima persona) e 14 (specificazione quasi tipografica del colore dello stampato). La progressiva contrazione del testo volge in direzione di una più stretta sutura fra il dialogo con se stesso e l’innesto metaletterario ipotizzato nella prima redazione con l’aggiunta proprio in biro nera, come «nere» sono le lettere del «nome dell’hotel».

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Commento a Fine delle vacanze

La vocazione eminentemente metaletteraria del testo XIV appartiene già alle righe 12-16 della primissima bozza (redazione 14a): «diventi tu stesso quella pietra / quando scrivi sul primo foglio che capita / “le nuvole sono basse sui campi di bocce / il nome dell’hotel scritto sul muro / a grandi lettere s’intride di pioggia”». L’origine del componimento deve essere quindi fatta risalire a una sorta di autoritratto alla seconda persona singolare, in cui l’io poetante si rappresenta nell’atto di appuntare una manciata di versi al volo. A enfatizzare ulteriormente il gioco metaletterario interviene anche il fatto che l’oggetto della poesia nella poesia sia l’insegna di un albergo: un primo testo dentro un secondo testo citato in un terzo.

Già in Casa nuova la dislocazione del lemma “nome” nel distico conclusivo serbava un intento metaletterario nella misura in cui il «nuovissimo nome» della «vecchissim[a]» spada risultava coincidere con l’ossimoro dal quale era espresso: era insomma una figura retorica tematizzata nella poesia come immagine della poesia stessa (la spada rompe il tavolo come l’ossimoro rompe il testo). Parimenti il «nome dell’hotel» della redazione 14a, enfatizzato dalla variatio (scrivi/scritto), sembra cruciale, al punto che la prima bozza si configura come una cornice costruita attorno ai versi virgolettati (14-16) e introdotti dal verbo “scrivere”, che scaturiscono a loro volta da un altro testo (il nome dell’hotel), il quale è però destinato a restare del tutto inespresso (benché sottolineato da una nuova occorrenza del verbo “scrivere”).

La progressiva contrazione del numero di versi in fase avantestuale determinerà la rimozione delle virgolette e l’affioramento dei versi (ora numerati 10-12) al livello del set principale. La scena fittizia della pioggia sull’hotel (una scena scritta dall’io poetante) viene immessa nello scenario reale (cioè quello vissuto dall’io poetante). Lo slittamento dal piano metaletterario al piano letterario si accompagna a un altro spostamento: la disposizione delle «ragazze in bicicletta» prima dei suddetti versi, in modo che la cerniera tra le due parti (la scomparsa delle ragazze/la pioggia sull’insegna) sia proprio figurata icasticamente dall’espressione «le sbarre del passaggio a livello» (v. 8). Le sbarre materializzano il passaggio del «nome dell’hotel» da un livello finzionale all’altro e separano il momento in cui le ragazze erano ancora presenti dal momento in cui non lo sono più. A loro volta, i decasillabi 10 e 12 non sono più versi composti dal personaggio in cui si ritrae l’io poetante, ma appaiono tracciati direttamente dalla mano dell’autore. La misura regolare di dieci sillabe resta tuttavia mascherata dall’aggiunta di due cola a- metrici («sui campi da tennis», «intriso di pioggia»), con un certo compiaciuto trobar clus.

Si è detto che il nome dell’hotel non verrà esplicitato in nessuno degli avantesti né nella stesura definitiva, nonostante sia proprio l’insegna a costituire il motore della prima bozza e il culmine della versione a stampa, in cui è l’unico dettaglio descritto con un’attenzione lenticolare, riconosciuta anche da Giovanna Vizzari (1985, 149) come una «recezion[e] insolit[a] per la [sua] intensità». Si tratta dunque

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di una sorta di matrice virtuale latente, Erba immagina cioè che il nome dell’hotel abbia ispirato i versi scritti «sul primo foglio che capita» della redazione 14a, ma non menziona quali siano le grandi lettere attorno alle quali si organizza tutto il componimento. Il nome resta negato al lettore come le coprotagoniste della poesia, le «ultime ragazze» che figurano al verso 5 della versione a stampa, sono presenze negate al poeta: sono «partite», definitivamente partite (come sembra suggerire la costruzione del verso nella forma, per così dire, di un ablativo assoluto), e persino quando ancora erano presenti, già apparivano sottratte e remote («nascoste da grandi foglie»). In un’intervista su “Poesia”, Luzzi (1989, 73) chiedeva a Erba se «l’universo femminile» delle sue poesie non gli sembrasse attraversato da «una corrente voyeuristica che sembra insediare l’oggetto del desiderio in una zona di irraggiungibilità»; Erba rispondeva: «è fuor di dubbio». Latente, come l’insegna alberghiera e le giovani donne, è infine il set: «il mondo di radicole bianche» celato sotto il sasso «affondat[o] tra la malva» (vv. 2-3).

Fine delle vacanze è un componimento sulla latenza tanto quanto sulla scrittura: un componimento che mette a fuoco come dalla perdita/dal vuoto della pagina scaturisca il testo/il “pieno” o, per ricorrere a una citazione letterale, dal bianco della carta affiorino le «nere grandi lettere» (v. 12), cioè come la poesia si vada formando per sottrazione. L’operazione di Erba si precisa quindi come un’arte che procede michelangiolescamente «per forza di levare» (Milanesi 1875, 522), scavando nella pietra una poesia che Raboni (1984, 6) non stenta a qualificare nell’«aridità minerale del segno», ottenuto per vuoti progressivi, sia mediante la riduzione del numero di versi (dapprima 21, poi 19, 14 e infine 12), sia mediante l’insistenza sull’atto di togliere/perdere/partire. L’incipit ritrae l’io poetante nell’atto di levare («uno che sollev[a] la pietra»), poiché è il gesto stesso della rimozione a innescare la visione («scoprendo un mondo», v. 3) e ad auspicare l’ingresso nello spazio dell’alterità: la «città color verde», quella che Aymone (1984, 186-7) situa «sullo scarto fra una presumibile città reale e una immaginaria»: la città altra. L’immagine è talmente radicata in Erba che il titolo Un’altra città apparteneva già alla sezione dei primissimi testi, risalenti agli anni Cinquanta, inclusi nella silloge del 1980 (23), dove l’«altra città» si svelava agli occhi del lettore rimuovendo la membrana sotto la quale era sempre rimasta sigillata («sempre sfuggita sotto la velina»), e l’avventore che approdava al centro urbano recentemente scoperto arrivava dall’«opposta riva del fiume», come il poeta stesso andava a lezioni di matematica dal «capo opposto della città» nel testo XIII.

La tendenza di Erba a rappresentare i luoghi del vissuto (la casa, il quartiere, la città) si esprime in Fine delle vacanze con gli stessi termini che informavano già i testi II, V e VI: la radice e le radicole, i piselli verdi e il bianco niveo. Nel bosco (testo II) inscenava il fallimento dell’io poetante, inutilmente impegnato a tracciare in poesia una figura che lo rappresentasse e gli somigliasse. Erba aveva infatti provato a «diventare [...] erba» (II.5-6), appoggiandosi «a gambe incrociate / alle radici sporgenti di un faggio» (II.2-3), e nondimeno aveva virato alla seconda persona singolare per ammonirsi («[ma] sei ancora tu») che il travaso di sé nei propri versi (Erba>erba) avrebbe subito uno scacco e un arresto. In

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Fine delle vacanze, il poeta si spinge oltre e scava «nell’erba tra la malva» (XIV.3), scende fino ai capillari ctoni per rintracciarvi il rimosso e l’inespresso.

Converrà evidenziare che il vettore dall’Erba all’erba affonda nello spazio del non-detto e del non-rappresentato attraverso l’icona di una città in miniatura. Già nel testo XIII l’epifania delle pulsioni sessuali e dell’istinto antagonistico era apparsa, come si è visto, dopo un viaggio interurbano «al capo opposto della città» (XIII.1), alludendo al fatto che, nell’arena metropolitana, debbano essere individuati due spazi: l’uno dove l’uomo vive e si relaziona coi suoi simili, all’interno del consorzio sociale, e l’altro dove prosperano l’impronunciabile e il rimosso potenzialmente dannosi per la comunità. Nei due lati della città, quello in cui abita Erba e quello in cui cresce l’erba, vengono ripartite le spinte sociali e quelle antisociali, ma non si tratta delle due facce opposte di una medaglia, di due superfici topologicamente distinte, bensì di un continuum pericolosamente privo di bordi: un nastro di Moebius. Nel testo eponimo della raccolta del 1980 (113), Il nastro di Moebius appunto, Erba optava già per le componenti che sarebbero tornate in Fine delle vacanze: la ferrovia («passaggio a livello», «binario»), il fogliame («grandi foglie», «foglie fresche»), la sparizione («partite», «svaniva»). «Sollev[ando] la pietra», l’io poetante finisce quindi per sollevare se stesso in un circuito nastriforme (v. 9: «ma sono io stesso quella pietra»): Erba scava nell’erba per trovarci proprio un altro Erba, quello che aveva rimosso. A Renato Turci e Gabriele Zani (1989, 45) «viene in mente» addirittura «Sisifo» immortalato nella pena del «rotolamento del masso», del «doverlo perpetuamente risollevare fino alla cima» che interpretano come un «richiamo alla ruota della vita, all’eterna ripetizione degli stati già vissuti», e trascorsi, ma pur sempre presenti nella nostalgia bruciante, come in Fine della vacanza. La pena dell’io poetante non è solo dover sollevare il sasso ma anche riconoscervisi: egli si dipinge a mo’ di città miniata in verde, sotto la pietra, in una città minuscola e occulta. Anche nel futuro Autoritratto posto a coronamento dell’Ippopotamo, si identificherà in modo antonomastico come «uomo vecchio in città» (XLV.1) situandosi ancora una volta nella faccia latente e anonima della città («disperso su tronchi secondari di ferrovia», XLV.2). Del resto notava già Lisa (2007, 169) che «non sono molti i luoghi elencati nella poesia di Erba» e che «il suo immaginario si rivolge verso la metropoli, tra marciapiedi, grand[i] città addormentat[e] e [persino quei] platani dei viali», che erano stati ipotizzati come titolo provvisorio per la raccolta Negli spazi intermedi (Erba 1998), in cui, oltretutto, Erba si identificava con un avvocato in piazzale Aquileia, pur osservandolo solo di spalle, cioè dall’altro lato, alla rovescia, e tuttavia riconoscendo se stesso nel verso della persona, nel retro della sagoma, l’anti-faccia non deputata alla comunicazione sociale vis-à-vis («lo vedo di spalle, è di quelli / che vedo sempre di spalle»).

Il gesto da cui si origina il testo, sia in Fine delle vacanze sia in Autoritratto, è comunque l’atto del levare, del rovesciare, dello scoperchiare, del rimuovere una pellicola (XIV.1: «ero uno che sollevava la pietra»; XLV: «rimani quello che [...] strappava al tronco [la] corteccia»), ma si è detto che lo spazio dell’alterità collima con il rovescio dell’identità in un continuum nastriforme (XLV.14: Erba strappa infatti

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«nastri di corteccia», memore di quel Nastro di Moebius che aveva agglomerato la sua produzione intera fino al 1980), sicché il cacciatore diventa preda e il soggetto della poesia ne diviene l’oggetto.

L’interruzione in corrispondenza del punto e virgola, in Fine delle vacanze (XIV.5), impiega la congiunzione avversativa “ma” che, come già rilevato da Frare (1983, 40), configura ancora una volta «il passaggio dal dominio dell’irreale a quello del reale», e, in questo testo specifico, il brusco ritorno alle condizioni psicologiche concrete in cui si trova il poeta nel momento in cui scrive (condizioni espresse solitamente dal presente indicativo, come al v. 9: «mi sento»): la nostalgia repressa che però torna a galla come la città plutonia sotto il sasso divelto nella malva. Questo “ma” funziona esattamente come l’omologo del testo X.15, in cui il verso «ma addio Montagne Rocciose» marcava il rifiuto nei confronti di un ricordo doloroso e di una situazione di disagio. Tali sensazioni derivavano anche nel testo X dal gesto di rimuovere un coperchio (concretamente: aprire il baule) che serbava un oggetto bianco (il berretto) come bianche sono le «radicole» sotto la pietra in Fine delle vacanze. Ecco che il testo della poesia, sia essa la numero X, XIV o LXV, sembra sgorgare dall’esigenza di rioccupare e colmare uno spazio apertosi rischiosamente nella superficie del rimosso o del latente. I versi di Erba non mirano a esprimere l’indicibile, ma a silenziarlo, velarlo e domarlo. Al quarto verso del testo XIV, «le ultime ragazze / ferme in bicicletta» non sono menzionate al fine di evocare un affettuoso flashback, bensì per essere celate nella pagina, per essere eclissate sul foglio di carta (XIV.6: «nascoste da grandi foglie», in paronomasia con «il foglio» della redazione 14a.13). Fine delle vacanze, così come Richiudendo un baule, è quindi un dispositivo di rifiuto, un congegno calibrato per respingere «le nostalgie brucianti del passato» che Guagnini (1986, 65) individua come fulcro occulto di questa poesia e, più ampiamente, di tutto il Cerchio, nelle varianti della «memoria [e del] ricordo, non classificabil[i però] in termini di pura nostalgia ma come momento di fissazione della propria condizione esistenziale […] che può tradursi facilmente in cifre diverse di scrittura». La missione metaletteraria del testo XIV consiste nella precisazione del ruolo dissimulatore della poesia di Erba, che mira

1) al dominio dell’indicibile anziché all’espressione di sé

2) alla riduzione a cosa (purché lampante e ipotipotica) delle istanze inconsce e perturbanti 3) alla riduzione del tempo vissuto a oggetto scritto.

In questo senso, lo zoom finale sul nome dell’albergo concretizza lo scorrimento quasi cinematografico dell’obiettivo dalle ragazze ormai partite al testo dell’insegna, dalla perdita alla scritta. Affine suona quindi la riflessione di Giampiero Neri, tacciato come Erba di milanese minimalismo (Linguaglossa 2015), quando mette a fuoco un’«insegna in stile novecento» (Neri 1986, 59) e una «tradizionale insegna dipinta in verde» risalente a un testo del ’76 (Neri 1998, 13), che si apriva proprio sui «piccoli segni neri» di un «albergo», curiosamente simmetrici alle «nere grandi lettere» dell’hotel di

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Erba. Nel commentare l’insegna dell’albergo di Neri, Paolo Giovannetti (2009, 7-8) sottolinea che «forse non [è] un caso» la scelta dello pseudonimo di Giampiero Pontiggia, quel “Neri” come il nero «disperatamente gutenberghiano» del testo. Giovannetti ritiene che enfatizzare la materialità dello stampato sia «una forma di desublimizzazione» della poesia, un’operazione che, in Neri, sembra imparentata con «Rimbaud», giacché anche «la “A” del sonetto delle vocali è nera». Ma il paragone potrebbe essere agilmente esteso al francesista Erba, il cui ultimo verso, in Fine delle vacanze, mima proprio l’attacco delle Voyelles («a nere» ≈ «A noir»), sicché tanto nel Cerchio aperto quanto in Rimbaud –e cito ancora Giovannetti– «l’alfabeto inizia dalla negazione del colore, le immagini nascono dal nero» (ibidem): la poesia sgorga dalla sottrazione. Dopo aver letto una tavola gotica senese (testo I), due diverse missive (II, VIII), i segnali di un paesaggio istriano (III) e l’etichetta di un cappello (X), Erba si dedica a un atto di decodificazione letterale, alfabetica, e si interroga sul ruolo giocato dall’oggetto-testo in qualità di sigillo e preclusione degli impulsi perturbanti. L’insegna dell’hotel riluce, «intris[a] di pioggia», come la quattordicesima poesia del Cerchio aperto è picchiettata dal suono |pi| in corrispondenza di tutti i segni d’interpunzione (pi-etra, pi-sello, pi-etra, pi-oggia), come se punti o punti e virgola iconizzassero sulla carta l’acquerugiola delle «nuvole basse» sull’orizzonte (v. 10), del tutto simili –una volta in più– al «cattivo tempo [...] che preme [sul] cortile» dell’albergo di Neri (1998, 13). Le gocce di pioggia sull’insegna, doppio ed eco delle gocce d’inchiostro sulla pagina, serberanno il ruolo di apparato epifanico o di messaggio cifrato fino all’inclusione di Resta ancora qualcosa nella prima sezione dell’Ipotesi circense (Erba 1995, 69) dove «resta ancora qualcosa da imparare / dalla pioggia che cade sopra i tetti».

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XV.

Niagara chic Arrendevole

finisco sempre per andare in posti sbagliati pittori ignoti, presunti perseguitati

più un sapientino che dice attention les brésiliens ne parlent pas l’espagnol il vino è buono, le donne sfiorite se una sera vale l’altra

me ne sto qui come in un guscio di noce come chi, avessi vent’anni di meno, si affidasse rinchiuso in una botte alla corrente che porta a una cascata.

Il cerchio aperto, 1983, p. 39

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Nota prosodica

Schema particolarmente mosso formato dall’impianto, non infrequente nel Cerchio, di un primo blocco al quale segue una coda di tre versi (come al testo XIV), innestata mediante un verso-cerniera. Alla misura prevalentemente endecasillabica (versi 4-6, 9-10), anche nella forma dissimulata da un colon extrametrico (v. 2: endecasillabo + «sbagliati»), si sposano versi di varia lunghezza (cinque, tredici, otto sillabe ai vv. 1, 3, 7) senza un ordine prevedibile. A questo insieme segue una quartina costituita da due versi di dodici sillabe (8 e 11) che incastonano due endecasillabi regolari quasi dentro una scorza, figurando così sulla pagina il guscio di noce dentro il quale l’io poetante cerca rifugio. Rime e assonanze non sono organizzate a sistema, bensì disposte in maniera del tutto casuale. La rima morfologica e baciata, quindi estremamente facile, ai versi 2-3, è preceduta dall’assonanza per l’occhio e a distanza, particolarmente difficile, tra il primo, l’ottavo e il decimo verso (arrendevole-noce-botte). La figura di suono ribatte gli snodi in cui si articola il testo: l’incipit del primo blocco (disagio in vacanza), quello della quartina finale (rifugio nel guscio di noce) e del distico conclusivo (rifugio nella botte).

v. 1: 5 sillabe («arrendevole») v. 2: endecas. + «sbagliati» v. 3: 13 sill. («perseguitati»)

vv. 4-6: endecasillabi v. 7: ottonario (cerniera)

v. 8: dodici sillabe («noce») vv.9-10: endecas. («botte»)

vv. 11: dodici sillabe

Nel parodiare amaramente la propria arrendevolezza, Erba riserva l’aggettivo «sbagliati» al colon extrametrico che dissimula l’endecasillabo del v. 2, così da materializzare in un verso per così dire erroneo l’errore commesso dal protagonista nel recarsi in luoghi in cui sa già di non volersi recare prima ancora di essere arrivato. Le misure irregolari del primo e del terzo verso riproducono questa incostanza e quasi la goffezza del cedevole protagonista. Negli ambienti falsamente eleganti che Erba ritrae come «chic», i «sapientin[i]» si esprimono sì in modo lambiccato (endecasillabi in francese ai vv. 4-5) eppure in modo non del tutto dissimile da quello in cui si esprime l’autore stesso (endecasillabo in italiano, subito seguente, al v. 6), così da provocare il moto d’insofferenza che si esprime nello stacco del v. 7, la cerniera in cui il protagonista si accorge con disillusione che purtroppo un atteggiamento «vale l’altro[o]» e che la sua arrendevolezza lo ha reso complice della serata chic. La presa di distanza dalla mondanità produce allora l’impulso di cercare ricovero (nella botte), mentre la poesia stessa (in forma di doppio endecasillabo) cerca asilo tra due versi irregolari, il primo che fa da barriera (il guscio di noce) e il secondo da via di fuga (la cascata). L’uso dei participi risulta particolarmente insistito: i due participi presenti sostantivati (sapientino/corrente) trascinano verso il gorgo del Niagara o verso l’abisso dell’arrendevolezza, e sono concretizzati da due participi passati sostantivati (nel primo caso, la «cascata»; nel secondo caso l’incontro coi «perseguitati»). Al secondo e al terzo verso figurano addirittura due participi passati in funzione aggettivale e due sostantivati in rima (posti sbagliati / presunti perseguitati).

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Redazione 15a

1. arrendevole

2. finisco sempre x andare in posti sbagliati