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hand knitted original indian article!

Richiudendo un baule

16. hand knitted original indian article!

Copia carbone di un dattiloscritto corretto in penna stilografica nera, con la quale è stato anche redatto il sottotiolo Richiudendo un baule e poi ulteriormente rivisto in LAPIS ROSSO. Il componimento è redatto sul retro di un foglio (29,7 x 20,9 cm) dattiloscritto: «Anna Maria LASSERRA / La Candidata non presenta titoli sufficientemente qualificanti ai fini del concorso in oggetto. / Luciano Erba»

6. «che»] CASSATO 7. «lo»] «me lo»

11. «quasi»] «ecco, quasi» 14. «...»] cassati e poi reinseriti 15. «addio»] «Ma addio»

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Commento a Richiudendo un baule

Un’annotazione d’autore a fondo pagina, nella redazione 10g, recita: «Spedito a Franco Pappalardo il 21-11-1981 per Forum». Richiudendo un baule sarà infatti stampata su “Forum Italicum” (nn. 1-2, a. XVI) l’anno prima dell’uscita del Cerchio, anticipando la raccolta che verrà menzionata sulla stessa testata, nel 1984, in un commento relativo all’erronea traduzione effettuata da Smith di alcune poesie precedenti il Cerchio (Klopp 1984, 193-4). “Forum Italicum” sembra seguire da vicino la vicenda compositiva dell’Ippopotamo annunciando la vittoria del Premio Bagutta assegnato al precedente Tranviere metafisico (S. N. 1989, 155) l’anno d’uscita del volume Einaudi in cui tale raccolta confluisce.

Nel commento a firma di Pappalardo La Rosa (1982) stampato a continuazione dell’ancora inedita Richiudendo un baule, si legge:

Quest’inedito, recentissimo, fa parte di un gruppo di nuovi componimenti, che Erba ha “strappato” al proprio, neghittoso silenzio. In esso si rinvengono gli oggetti della memoria (lo stesso baule non è che una metaforizzazione della memoria), il gioco dei colori, il riferimento a luoghi lontani, esotici, e agli affetti teneri (la «seconda bambina», una delle figlie, «dal taglio d’occhi un po’ samoiedi»). C’è, soprattutto, la nitida rappresentazione del non cedimento della volontà del poeta alla vis attractiva del buco nero-tempo e della sua orrida notte che tutto trasforma, deforma (il berrettuccio ritrovato appare ormai un «passato di castagne / quasi un mont-blanc ma seduto», distrugge, nullifica. Si noti come, tuttavia, sulle sequenze delle immagini memoriali (il sorriso dell’indiana, il di lei gesto dell’accarezzare il cavallo, ecc.) agisca da dissolvente l’ironia quell’«articolo originale confezionato a mano» dell’ultimo verso […]: l’oggetto, che aveva originato l’impulso inventivo, per effetto dell’ironia, s’è tradotto in “altro”, s’è ridotto a un’etichetta, a un dettaglio: all’insignificante emblema di un altrettanto arido e insignificante reale.

I sedici versi del testo X appartengono al novero dei componimenti (insieme con i testi VI, VII, XI, XII, XVIII, XIX e XXV) scritti nel decennio che precede l’uscita del Cerchio aperto e che sono stati puntualmente ridatati agli anni Settanta da parte dell’autore stesso nella versione a stampa; ciononostante, Erba farà risalire Richiudendo il baule al 1975, ma la prima carta degli avantesti è stata redatta su un foglio datato 1979 dall’Ufficio del Rettore dell’Università di Padova. Eppure la redazione 10a sembra essere plausibilmente la prima giacché, in conformità con le abitudini di Erba, riporta numerosi interventi con inchiostri diversi, abbreviazioni e commenti/note, nonché una conclusione del tutto diversa dalla definitiva. Si può quindi supporre che una primissima bozza risalente al ’75 sia andata smarrita o che l’autore abbia retrodatato per errore. Rilevo infine che, nonostante siano singolarmente segnalate come antecedenti al corpo dei testi più recenti, le poesie degli anni Settanta non formano un gruppo coeso né presentano caratteristiche proprie, ma sono ridistribuite nell’architettura della nuova raccolta secondo un ordine che risponde piuttosto

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a criteri di coerenza interna al Cerchio e di continuità rispetto ai nuovi testi composti negli anni Ottanta.

La posizione del Baule subito dopo i Tristi giochi di parole permette al lettore il reimpiego delle strategie esegetiche messe in opera per il testo precedente: la ricerca di un pun che innervi il componimento (mont-Montagne, come già tasso-tassato-tasso) e che contempli uno degli elementi in rima (Montagne-castagne-campagna), nonché la ricerca di una citazione testuale inglobata nel verso (nel testo IX gli «effetti personali»; nel testo X l’«hand knitted original article») e di una Ringkomposition (qui abeti-alberi). Il gioco di parole di Richiudendo il baule non si esprime solo mediante la similitudine del berretto col «mont blanc» (verso 11) sullo sfondo delle «Montagne Rocciose» (verso 15), ma anche mediante un uso anfibologico di quel «passato» (verso 10) che vale tanto come dessert («passato di castagne») quanto come spia del tema centrale: il rifiuto del tempo trascorso che tornerà a manifestarsi. Risalta immediatamente che entrambi i puns (mont-blanc, passato di castagne) trasferiscono sul piano gastronomico un’impressione visiva ribattuta dalla rima. Un procedimento simile, rarissimo nell’Ippopotamo, tonerà solo nel testo XXVII, Implosion, dove sarà una sensazione tattile (il freddo pungente) a tradursi in rima mediante una similitudine gastronomica (guance-arance) che cela ancora una volta un gioco di parole (la pelle a buccia d’arancia). Anche nel caso del testo XXVII.4, la prima nota cromatica sarà il bianco, come accade nel testo X.2, e al titolo Richiudendo un baule farà da contraltare l’incipit con la «finestra [...] dischiusa» a sottolineare, in entrambi i casi, l’emersione del ricordo in concomitanza col gesto di spalancare un’arca memoriale, il cui contenuto viene subito rimesso a tacere e sembra destinato al rifiuto.

Anche nel testo XI.5-6, il ricordo gastronomico delle «salsicce / inondat[e] di birra» sfocerà nella constatazione che chiunque abbia vissuto il momento «non ne sa niente, non [se ne] ricorderà» (v. 13) giacché, nel Cerchio aperto, la memoria non favorisce la riacquisizione del passato, bensì scatena lo sforzo di deglutirlo e respingerlo (vd. la rievocazione della madre nel testo XXV.10-11: «è vero, non riapro i tuoi cassetti, non rileggo / le tue lettere»). Ricordare, nel Cerchio, significa mettere a tacere e l’affioramento alla memoria induce, per reazione, alla chiusura (del baule, del cassetto, della bocca).

Si potrà forse azzardare che la traslazione da un piano visivo-memoriale (le Montagne del passato) a un’allusione gastronomica (il passato di castagne) segua, per così dire, l’adagio infantile del “si mangia con la bocca chiusa”, cioè in silenzio: il bolo (quasi fosse la sostanza biologica del ricordo) deve essere ingollato senza proferir verbo e quindi dissolto («Ma addio», testo X; «chi cerco resta sempre alle mie spalle», testo XXVII). Circostanziando sui

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testi il parallelo fra il cibo-da-ingerire e il ricordo-da-soffocare, converrà osservare che Erba stesso (1960, 13) aveva già tematizzato l’esperienza della digestione, connotandola proprio di una sfumatura di respingimento e rifiuto.

Devotio moderna

Venerdì posate d’argento aringa del mare del Nord prima digestio fit in ore e lo spero di cuore

tu a buon conto vessillo biancogiallo dalla torre più alta del castello metti in fuga gli stormi dei demonî pomeridiani unghiati ben decisi a punire in stomacho vili l’obbedienza ai precetti vescovili.

L’invocazione al vessillo impiegava, già quindici anni prima del Cerchio aperto, il colore bianco atto ad abbacinare la scena, quasi fosse neve o nebbia (Turci Zani 1989, 42), così da respingere e abbagliare i demoni. Ma la doppia colorazione del «vessillo biancogiallo» evolverà nel «berrettuccio» biancogrigio e nel «bianc[o] più bianco» di Implosion: in tutti i casi gli alimenti e il biancore vengono associati non solo alla deglutizione ma anche alla repulsione, rappresentano cioè il danno che deve essere respinto (il senso di solitudine o l’indigestione). Le aringhe del Nord, il mont-blanc o le arance a Natale (testo XXVII) non possono essere serenamente mangiati poiché non sono semplici pietanze: sono invece sostanza da smaltire, da «richiude[re nel] baule» o nella bocca («in ore»). Proprio nel commentare Devotio moderna, Aymone (1984, 164) sottolinea che tra le righe degli ironici emistichi in latino si annidano gli indizi della volontà di sopire un certo senso di disagio e una non meglio precisata memoria da strozzare.

[A]l di sotto dell’incanto letterario, pur giuocando, il poeta allude francamente a un’immagine pienamente ormai demonizzata del mondo, ed argutamente esemplata su una modesta angoscia personale. Si evidenzia a questo punto un senso tragico dell’esistenza con intenzione relegato […] a un trauma remotissimo dell’umanità, a sua volta rivissuto individualmente pur entro una collettiva, larvale ed estenuata memoria. […] Demonizzazione verso cui si sviluppa un relativo senso di colpa (di infrazione nei confronti della vincente divinità negativa).

Con levità e al contempo con un discreto senso di inappartenenza, la devozione di Erba vorrebbe esprimersi mediante la speranza di non essere tormentato dai demoni della modernità, per il fatto di aver seguito gli ormai superati «precetti vescovili». La situazione ritratta nel testo X ricontestualizza questo timore con gli strumenti retorici che il poeta ha aggiornato in un quindicennio. Chiudendo il baule, Erba vorrebbe infatti evitare di essere

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tormentato dal senso di solitudine (redazioni 10c, d, e, f, g, h) per il fatto di aver dato credito al sorriso dell’«indiana» e comprato un regalo scadente. Folco Portinari è il primo a registrare una diffusa sensazione di solitudine dissimulata che traspare dai versi del Cerchio aperto, in una brillante e tempestiva recensione sull’“Unità”, parlando di «ironia al servizio del “comico” dirottamento della malinconia e della solitudine» (Portinari 1984, 13), come cifra precipua di una «maniera» che Erba serberebbe accanto a un «conservatorismo che non è tanto o solo cattolico» (ibidem).

L’impercettibile senso di colpa per essere filoclericale nonostante tutto aveva già informato, oltre a Devotio moderna, il testo VIII.12 («e se vado ancora per preti») dove le gradazioni visive (verde, giallo, nero) subivano nuovamente una parziale trasformazione gastronomica («di verde di polenta di nero», v. 15), che potrebbe dare tutt’altra vividezza al nesso «un gusto di colori» (v. 14) supponendo una sovrapposizione sinestetica. Mi sembra pertanto che le sollecitazioni sensibili di Erba si traducano sul piano alimentare quando vengono contaminate da un lieve senso di colpa e dall’esigenza di essere smaltite e presto dimenticate. «Si tratta pur sempre di una matrice cattolica la quale[,] in Erba mai sopita del tutto[,] a tratti si riaffaccia per emblematiche presenze oggettuali», come il berretto-mont blanc, o tramite «lo stesso latino, talora chiesastico, dal poeta privilegiato in funzione d’inserto» (Aymone 1984, 165), o, nel caso del testo X, mediante la citazione dell’etichetta citata in inglese (verso 16) che costituisce un inserto irrinunciabile. Le diciture «hand knitted original article», «hand knitted original indian artcraft» o ancora «hand knitted original indian article» appaiono infatti in tutte le stesure del Baule e la necessità dell’inserzione pare tanto ovvia all’autore che nella redazione 10b.4 non è nemmeno citata per intera ma solo allusa con un’abbreviazione, come fosse un’annotazione che ovviamente andrà poi svolta non appena altre parti più mobili del testo si saranno sistemate. Non solo il berretto e i puns sono quindi centrali, ma anche l’etichetta.Innanzitutto «la figura […] del cappello» appare «in Erba davvero pregnante» (ivi, 167), al punto che «non si tratt[erà solo] di ritrovare nell’immagine del cappello un simbolo tout-court, quanto più sottilmente un’allusione e un’illusione. [P]iù che un simbolo di una concretezza di identità, di un ruolo certificante» (ivi. 168) o, comunque di quel «perbenismo» (Pacchiano 1972, 392) che anima altri copricapi erbiani (Erba 1980, 44 e 62), il berretto nel baule «si fa sogno di questo ruolo nel seno del reale»: il sogno di poter ricoprire degnamente il ruolo di padre della «seconda bambina / che ha un taglio d’occhi un po’ samoiedi» (vv. 4-5). Ma nella parola “taglio” si annida già la spia di una frattura, come «il taglio [della] scrittura» del testo III rimarcava una lontananza incolmabile, e il fatto che il souvenir non venga indossato «neppure […] una

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volta» (v. 9) concretizza nel berretto la delusione, il senso di inadeguatezza e tutto un «dramma familiare» in miniatura (redazione 10a.19) che deve essere soffocato prima di inficiare seriamente l’equilibrio domestico. La prima stesura di Richiudendo un baule optava per una soluzione a «lieto fine» (ibidem), mentre la versione a stampa sceglie un finale più in linea con l’andamento del Cerchio, sfrutta cioè i puntini di sospensione per visualizzare l’urgenza del silenzio in cui Erba si rifugia mediante «allusioni parziali [e] mutilazioni di certi enunciati» (Gibellini 1984, 308), come avviene nei testi V.9 e VIII.23, in cui la mancanza di fiducia verso deludenti architetti e sconfortanti sacerdoti fa da eco al tentativo fallito di fare un regalo alla figlia. La mutilazione dei versi in cui si esprime il ricordo è quindi motivata dal pericolo di incorrere nel dramma intergenerazionale e nell’incomprensione familiare; il gesto di chiusura e il rifiuto del ricordo tentano di imporre al berretto di restare un berretto, di non attivare un circuito d’immagini (cioè di non innescare la Ringkomposition ai versi 3-14 di cui si dirà a breve; insomma di non dare avvio alla poesia in cui esso stesso è inserito, una poesia che sembra distrattamente sfuggita fuori dal baule ma al baule deve tornare). Il berretto dimenticato per anni nella casa di campagna è certamente uno dei moltissimi oggetti che si rincorrono nella poesia di Erba, accanto al «cappello della Grande Jeanne [e a] quello di piquet della Nene» (Vizzari 1985, 149), tuttavia il testo X costituisce un tentativo esplicito di ritrasformare il berretto in berretto dopo le metamorfosi in mont blanc e in passato di castagne: la poesia funziona insomma come un congegno volto a contraddirsi (questo berretto non è un mont blanc, è un hand knitted original article) e a mettersi a tacere («Ma addio Montagne Rocciose») nel momento stesso in cui il patetismo rischia di tracimare. L’ultimo verso non si limita perciò a citare l’etichetta del souvenir ma sostituisce un intero verso con la targhetta cucita sul cappello, cioè sostituisce il testo dell’oggetto al testo della poesia. Ancora una volta il lettore si trova, mentre scorre la pagina, a compiere la stessa azione dell’io poetante: entrambi culminano leggendo il corpo stesso del berretto al di fuori dei puns e delle similitudini.

Il bianco della pagina funziona come il forziere che viene momentaneamente aperto (cioè scritto) per poi essere sigillato –come il baule– e suggellato –come il testo– da una struttura ad anello che, appunto, si apre («abeti» al verso 3) e si chiude («alberi» al verso 14) con uno scatto sottolineato fonicamente dalla variatio in perfetta assonanza. Ma il souvenir della riserva indiana relegato dentro il baule convesso non è poi differente dal ricordo degli occhi dell’indiana relegato dentro le parentesi tonde ai versi 5-6, secondo un procedimento già notato nei testi III e VI che sfrutta le proprietà tipografiche per iconizzare gli oggetti rappresentati nelle diverse poesie.

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XI.

Suite americana C’è da dire

che eravamo entusiasti del nostro nuovo cappello di pelo sulla diagonale* spazzata dal vento

né del tutto infelici

tra tavoli bisunti di salsicce inondati di birra, sopra il ferry, che si andasse all’ovest o verso est. La bambina biondo oro

in corsa sull’ammezzato

rischiosamente vicino a balconate di ferro battuto che davano su una hall piena di luci

e i palmizi di un grande magazzino non ne sa niente, non ricorderà la pista nel bosco, cancellata dalle betulle cadute di traverso,

e neppure tutte le rughe del vecchio hardware** di N. B. che si spianavano al solo vederla

mentre mi vendeva chiodi di diversa misura. Un mattino arriva un merlo di tre colori un merlo d’oltremare

che mi invita a tornare. (1978)

* diagonale: Broadway ** hardware: ferramenta

Il cerchio aperto, 1983, p. 31

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Nota prosodica

Sei diversi scenari sono allineati in tre periodi per un totale di ventuno versi irrelati, caratterizzati da grandissima mobilità in fase di elaborazione testuale e della più alta escursione in materia di numero sillabico (dalle quattro sillabe del verso 1 alle diciotto dei versi 2, 10 e 16).

L’apparente libertà compositiva del testo XI è scandita però da una sorta di simmetria sintattica il cui asse coinciderebbe con il blocco centrale dei versi 8-15. Questo gruppo assiale, costituito da una principale e da una relativa col pronome «che» in posizione anaforica (v. 11»), contempla una doppia negazione (v. 13: «non…non») e riparte equamente gli stessi elementi nell’area di testo antecedente e nella porzione di testo seguente: due coordinate negative (v. 4: «né»; v. 16: «e neppure») e quattro «che» anaforici (vv. 2 e 7: dichiarativo e correlativo; vv. 17 e 21: relativi).

Versi 1-3 Cappello a Broadway Primo periodo: principale

Versi 4-7 Pranzo sul ferry dichiarativa, correlativa

Versi 8-12 Bambina nella hall Secondo Periodo relativa

Versi 13-15 Pista nel bosco principale

Versi 16-18 Sorriso del ferramenta relativa

Versi 19-21 Invito del merlo Terzo periodo principale e relativa

La disposizione dei lunghissime versi 2, 10 e 16 cade a distanze quasi fisse: sette versi separano i primi due, cinque separano i secondi due e altri cinque separano il sedicesimo verso dalla fine del componimento. Questa semi-simmetria risulta piuttosto elastica per il fatto che, a prima vista, il testo XI appaia liberissimo nelle scelte metriche e tematiche, per poi sembrare, a un esame accorto, più architettonicamente congegnato di quanto paia all’inizio e, tuttavia, non abbastanza da potersi definire perfettamente compiuto. Quest’ambiguità di fondo si riflette anche nell’explicit in cui la rima baciata coinvolge due termini di dubbia decifrazione: l’«oltremare» è l’Europa vista dall’America o viceversa? E l’invito a «tornare» si riferisce a una rimpatrio in Italia o a un altro viaggio negli Stati Uniti? Ma è la posizione stessa della rima, enfaticamente sistemata in chiusura, a contraddire un uso invalso in tutta la composizione che si organizza attorno a consonanze e assonanze tra parole contigue e non tra termini posizionati alla fine di due versi differenti: «nostro nuovo» e «cappello-pelo» (v. 2), «ovest-o-verso» (v. 7), «biondo-oro» (v. 8), «palmizi-magazzino» (v. 12), «dalle betulle cadute» (v. 15), «neppure tutte le rughe» (v. 16), con i virtuosismi dell’allitterazione al verso 18 «chiodi di diversa» e il semi-anagramma al verso 20 «merlo d’oltremare».

Si è dunque provato a descrivere come tutti gli spunti retorici raggiungano un livello di approssimazione anziché di completezza: il testo XI è quasi simmetrico, la ripartizione dei versi più lunghi

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è quasi regolare, l’anafora del “che” è quasi del tutto compiuta (nella prima metà della poesia si tratta di una congiunzione e nella seconda di un pronome), le assonanze sono frequenti ma non svolgono il ruolo di rima poiché si limitano a coinvolgere parole contigue, l’anagramma del merlo è quasi esatto e la rima baciata è efficace ma anfibologica. Proprio l’anfibologia, insieme con altre forme di indeterminatezza, sembra costituire la cifra di Suite americana: Erba maschera la principale arteria newyorkese con la metonimia «diagonale» ma poi svela il suo stesso gioco ponendo –prima occorrenza nel Cerchio aperto– una nota esplicativa; lo stesso avviene con la traduzione autoriale, in nota, di «hardware» che, oltretutto, instaurava la possibilità di una doppia lettura rimossa dall’inserimento della glossa (in italiano “hardware” varrebbe invece “periferica, componentistica di un computer”: pista informatica che tornerà altrove, come in Erba 1998, 27: «sullo schermo del cielo / navigare sull’internet dei tetti» ). L’ambiguità del titolo, però, non viene risolta (l’accezione di “suite” è musicale, alberghiera, letteraria?) e neppure le coordinate spaziali in cui debba essere inserito il ritorno auspicato dal merlo (in Italia o negli States?).

Sul piano diegetico, infine, le varie scene formano quasi una cronistoria ma i dati (ricordi, luoghi, nomi) sono puntualmente erasi («non si ricorderà», «la pista nel bosco, cancellata», «N. B.») secondo una schema che, alle numerose istanze di non-finitezza, affianca una pioggia di doppie negazioni (v.4: «né […] in-felici», v. 13: «non […] non», v. 16: «e ne-ppure»), tra cui una litote (emblematica dell’uso erbiano). Anche gli scenari, come le negazioni, sembrano accoppiati secondo sottili somiglianze che non convincono mai del tutto e, alla fine, non si sovrappongono: la «diagonale» a New York richiama la trasversalità del traghetto che va verso ovest oppure verso est; alla strada «spazzata dal vento» fa eco il tavolo «inondato di birra»; il giardino di palme nella hall dello shopping mall affianca la pista tra le betulle; il sentiero boschivo è oscurato dai tronchi caduti come la ruga sul volto viene cancellata dal sorriso. Si tratta di semi-parallelismi a conferma del carattere di incompiutezza, cui tutto sembra tendere, e che si manifesta anche nei costrutti bimembri, o addirittura correlativi, che Erba imposta per poi contraddirli con una regolare variatio: «che…o» invece del più comune «sia che…sia che…» (v. 7), ribattuto dalla curiosa formula «all’ovest o verso est» invece di «a ovest, a est» (v. 7), la slogatura dei tempi presente/futuro nell’endiadi «non ne sa niente, non ricorderà» (v. 13) invece di un più logico «non se ne ricorderà e quindi non ne saprà nulla», così come nell’endiadi «entusiasti né del tutto infelici», incrinata dalla litote, o ancora la sequenza «un merlo di tre colori / un merlo d’oltremare» (vv. 20-21) il cui scarto inficia l’anafora così come avviene per i numerosi «che» non del tutto collimanti per il fatto di essere, come si è visto, talora congiunzioni, talaltra pronomi, e di assonare con l’attacco dell’intero componimento («c’è» ma non «che»).

Per quanto riguarda la ricorrenza dei metri in un pattern così mobile, converrà notare che i versi più lunghi sono disposti a coppie (vv. 2-3: diciotto sillabe seguite da dodici sillabe; vv. 15-16: dodici seguite da diciotto) così da incorniciano un’area specifica (vv- 2-16, dunque) il cui perno è il terzo verso di diciotto sillabe (v. 10). Tale perno si situa in mezzo al componimento come il piano «ammezzato» al centro del