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o magari formica corteccia filo d’erba 7 Sono ormai passate tre piccole nuvole

In un bosco della Cisa

6. o magari formica corteccia filo d’erba 7 Sono ormai passate tre piccole nuvole

8. e sei ancora tu: ami, ma ami senza

9. ed è un’altra esperienza

Dattiloscritto in inchiostro nero. Velina copiativa, 28 x 22 cm, intestata «Università degli Studi – Bari. Istituto di Lingua e Letteratura Francese. Via Garruba, 6. Il Direttore». Correzioni e interventi effettuati prima in penna stilografica nera, quindi in biro nera.

7. «Sono ormai»] «Ormai sono».

«piccole nuvole»] cassato in biro nera e sostituito da «lenti fiocchi di nuvole»

8. «tu: ami»] aggiunta di una parentesi quadra, «[», dopo «tu:», probabilmente per indicare un a capo 9. «ed è un’altra»] cassato e riscritto come postilla: «è una migliore esperienza?».

«una»] cassato e riscritto a margine: «una migliore esperienza?», ripetuto e modificato ancora con una nuova penna: «una migliore esperienza?», con «una»] cassato in biro nera

L’ultima redazione documentata prima della stampa contempla un testo già prossimo alla definitiva sistemazione. Gli interventi si concentrano negli ultimi versi, come già avveniva nella fase precedente: Erba tenta di snellire e concentrare al massimo il disinganno e l’autocritica, saldando le allusioni paesaggistiche alla riflessione e scegliendo quindi un dato atmosferico (il passaggio delle nuvole) come espediente figurativo (panorama celeste) e metaforico (l’attesa e lo scrutinio dei segni). Il verso 9 abbonda di riscritture votate alla compattezza e, in qualità di culmine dell’autoriflessione, approda infine alla rima, così da riprodurre palesemente il motivo retorico che ha generato l’intero testo (saggio/faggio). La suddivisione strofica deve essere quindi occorsa dopo questa redazione, seguendo spontaneamente l’ordine sintattico e argomentativo, suggellato dalla disposizione dei pronomi (tu, lei) nei luoghi chiave di cui si è detto nella Nota prosodica.

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Commento a Nel bosco

Primo testo stampato in tondo nel Cerchio aperto, il componimento apre anche l’Ippopotamo, subito dopo la soglia rappresentata dalla tavola aurea senese (testo I). L’ambientazione silvestre (già manifesta nel titolo della redazione 2a) si precisa in una serie di progressive messe a fuoco delle componenti arboree. Le radici, il faggio e i rami sono infatti nominati secondo un ordine che dal basso procede verso l’alto e in seguito, dall’insetto sul tronco al prato, torna a rivolgersi in basso («formica corteccia filo d’erba»). Lo sguardo segue quindi una traiettoria a parabola convessa che principia nel sottobosco, raggiunge il picco del cielo (l’azzurro) e atterra nuovamente al verso 6. Segue un’imponderabile fase di attesa rappresentata (ma non scandita) da una riga bianca e dal muto passaggio delle nubi. Con lo stacco strofico, l’occhio torna a sollevarsi (nuvole), rimbalzando verso l’alto e concludendo quindi una sorta di sinusoide a due creste.

La curva implicitamente tracciata individua uno spazio personale ricavato, a gambe incrociate, nel bosco, situato cioè in interiore silva. La preposizione locativa del titolo (Nel) è tutt’altro che superflua, perché salda il nuovo testo al precedente. La «madonna senese» si chiudeva infatti sulla «selva», che viene adesso recuperata e percorsa dall’interno. Poiché la «selva dei tuoi capelli», stagliata sul cielo d’oro, costituiva un nesso analogico legato al colore della chioma (sul modello di un ipotetico: tu sei «bruna» come è scura la selva), la nuova poesia tenta di attraversare esplicitamente la metafora e vi si inoltra come se, penetrando nel bosco, potesse penetrare nel testo o almeno nelle sue strategie retoriche.

La poesia inizia nuovamente senza lettera capitale, come affiorando appena da una conversazione ininterrotta con l’antecedente testo di apertura. Anche altrove torneranno queste stesse «scelte interpuntive della minuscola nella prima parola della lirica» (e talora anche «l’assenza del punto fermo dopo l’ultima parola»), «privo così di “cornice”, il testo risulta come ritagliato in una continuità di discorso sottaciuto, quasi un casuale affiorare dei caratteri a stampa dal velo della pagina bianca in cui vivrebbero una sorta di vita subacquea» (Gibellini 1984, 308). Nei due testi seguenti, infatti, questa impressione ancora implicita e quasi sottintesa sarà tematizzata mediante la lettura dei segni semigrafici apparsi sul pelo dell’acqua (testo IV) o, ancora una volta, nello stesso cielo (testo III) che cala come un sipario o una scenografia alla fine della «madonna senese» e al centro del Bosco.

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La contiguità di questi primi due componimenti autorizza una serie di confronti, a partire dalla constatazione che entrambe le poesie si rivolgono a un interlocutore espressamente designato (tu), che è dapprima la donna (M.) e poi la persona loquens in dialogo con se stessa.

Nel primo testo, il ricordo sfumava verso l’aureo cielo; in questo componimento, invece, il tentativo di «allontanare il pensiero di lei» vira verso l’azzurro. I due fondali monocromatici impostano fin d’ora l’alternanza giallo/azzurro che tornerà altrove nell’Ippopotamo (si veda soprattutto il testo XVII con le «infiorescenze azzurre e gialle»). Se la campitura d’oro era emersa dal «segreto degli occhi» della madonna senese, lo sguardo del Bosco si fissa sui moti celesti individuando i «lenti fiocchi di nuvole», quasi che il ricordo della donna restasse indelebile, magari nascosto e, persino graficamente, annidato: «occhi» nel testo I e «fiocchi» nel testo II, nel tentativo inefficace di «allontanare il pensiero di lei». La rima intertestuale occhi/fiocchi non è enfatizzata solo dall’elaborazione formale (rima difficile poiché inclusiva), ma è anche evidenziata dall’impiego del medesimo verbo, sempre al passato, nella stessa posizione all’interno del verso (primo emistichio): «passò» nella «madonna senese», «sono passati» nel Bosco.

Il cerchio aperto inaugura quindi un discorso espressamente elegiaco (Bevilacqua 1984, 14) che prende avvio dalla memoria e dalla lontananza, dalla nostalgia e contemporaneamente dal rifiuto del passato, distanziato e quasi osservato al microscopio per mezzo dell’ironia (Guagnini 1986, 65). La figura etimologica (pensavi/pensiero) lega il verso incipitario al verso centrale della prima lassa, ingaggiando un gioco di specchi, in cui la persona loquens avrebbe voluto disfarsi del «pensiero di lei», ma deve invece disfarsi dell’illusione di riuscirci.

La tattica compositiva elaborata nel testo precedente –cioè l’impiego espressivo della linea e del colore– torna adesso sotto forma di auto-senhal: il lineare «filo d’erba» davanti al colore «azzurro». L’incapacità di diventare quel filo d’erba corrisponde all’impossibilità di dimenticare lei, pertanto la trasformazione fallita di Erba in «erba» –una forma di mascheramento– misura la distanza tra la persona loquens, che non riesce a liberarsi di se stessa, e gli altri elementi o personaggi che riescono ad assumere una nuova forma. Mimia riesce infatti dove il poeta fallisce, poiché è capace di mutarsi in M.. Parimenti, la metaforica «selva dei capelli» si permuta in una selva letterale (In un bosco della Cisa) e, infine, anonima (Cisa>bosco), procedendo ancora verso il mascheramento e l’astrazione.

Per subire a sua volta una trasfigurazione letteraria ed entrare a pieno titolo nel testo, cioè nel bosco, Erba dovrà «sollevare la pietra / affondata nell’erba» (testo XIV), compiere quindi un gesto opposto a quello che tenta nei primi quattro testi del Cerchio aperto: dovrà scavare sottoterra anziché alzare gli occhi al cielo. Quando il poeta si riconoscerà finalmente nel Filo di ferro (testo XXXII), recupererà evidentemente il «filo d’erba», bersaglio che aveva mancato nel Bosco. Anche allora sarà purtroppo un filo tagliato e, più tardi (testo XXIV), tornerà finanche l’illusione che informa Nel bosco, un’illusione filiforme che si frantuma.

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la spezzata

illusione di un filo che legasse non solo a te ma a ogni cosa sperata ai grandi assenti, a eterni invisibilia

(testo XXXIV)

Erba sembra quindi riuscire a rappresentarsi solo per sottrazione, sotto forma di linea/legame spezzata/o: si identifica con la paura stessa di perdersi e di perdere «quanto lo circonda» (Vizzari 1985, 148). Il cerchio del 1983 è un cerchio aperto nella misura in cui qualcosa sfugge sempre e non torna: la linea (del filo o della circonferenza) si interrompe. La poesia scaturisce certamente da questa frattura, dal taglio che permuta la linea continua in una serie di archi o di segmenti: l’immagine sottesa all’autoritratto erbiano è insomma l’icona del tratteggiato troncato, che si materializzerà nel rampicante «interrotto» («continua si attorciglia» e sfocia ovviamente nella cromia quando «si dissecca sul chiosco dipinto», testo XLI) o nel binario tronco (testo XLV).

Sarà ugualmente prossimo a spezzarsi anche il ponte che potrebbe condurre Erba all’erba, un ponte di «corde stanche e sfilacciate», «sospeso sull’abisso», che mena a «un’erba calpestata / un po’ verde, un po’ gialla» (testo XXVIII), replicando la sequenza linea+colore nella consonanza esplicitamente fonica corda/verde. Già nel Nastro di Moebius il «ponte lunghissimo di ferro» (Molto al di là degli agghiacciati mari, Erba 1980, 89) costituiva il primo esempio di un legame filiforme pronto a spezzarsi (il germe dei futuri ponte di corda e fil di ferro). Il contatto mancato si concretizza puntualmente nella linea che rischia la rottura, come la collana tra le dita di una donna (Erba 1980, 67) o il filo d’erba. Sono linee e legami anche i rami e le radici nel Bosco, alle quali si aggrappa il «saggio orientale» dopo una fioritura notevole di varianti documentata dalle correzioni in 2b (sedere>appoggiarti>addossarti>stare addossato), che testimoniano una volontà di adesione e quasi di «contatto carnale con la natura» (Vizzari 1985, 149). Il saggio orientale di questa poesia tenta un avvicinamento per via tattile «alla radice sporgente», così come l’«inutile fiuto d’indiano» si approssimava per via olfattiva al «sentore di terra e di radici» di Autunno a Milano (Erba 1980, 40). L’immaginario orientale di Erba sembra quasi apparentato con il desiderio di compattezza e brevità della cultura giapponese degli anni Ottanta (O-Young 1984), che troverà compiuta esemplificazione nella poesia Questo è tempo di haiku (Erba 1995, 65), quando sarà del resto lo stesso Erba a figurare nell’antologia curata da Giuliano Manacorda, Haiku in Italia, che oltre a una nota di Tadao Araki includerà, fra gli altri, testi di Frabotta, Lamarque, Majorino, Ramat, Zanzotto e Zeichen (Manacorda 1995). Ma sarà anche il caso di ricordare la stima che Luciano Erba nutriva per Kengiro Azuma, artista –come Erba, a ben vedere– del rapporto tra «vuoto e pieno» (Capolongo Cortina 2016), che disegnò per il poeta milanese la copertina dell’antologia tradotta in inglese A greener meadow (Erba 2006t), il cui originale è tuttora appeso nella biblioteca di casa Erba.

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Non è dunque l’immenso cielo, «l’azzurro di luglio senza te» e senza risposta, che serba il prodigio, è piuttosto la frangia minima e compatta del bosco: la radice. Ma l’adesione alla radice dell’albero rimanda evidentemente a un’appropriazione ironica dell’oriente indiano e, più specificamente, buddista. Il faggio sarebbe insomma l’equivalente, sminuito e appenninico (siamo pur sempre sul passo della Cisa), del fico della Bodhi. La trasfusione della sacralità in una dimensione privata e miniaturizzata ricorda passa innanzitutto attraverso la condivisione della lettera iniziale: il fico sacro e il faggio, la madonna senese e Mimia; si tratta quindi di un travaso grafico e fonico, ma comunque approssimativo e destinato allo scacco. La ricerca inappagata di una sacralità orientale nel bosco (o una sacralità cristiana nel «segreto degli occhi» del testo I) induce a indagare il cielo, aureo o azzurro che sia, similmente a quanto capitava al protagonista milanese di Qualcosa (Erba 1980, 72).

È una via di Milano e veloce

vado verso l’oriente. Già si vedono delle luci ma il cielo è ancora chiaro chiare le nuvole lontane.

Sia in città sia nel bosco, il passaggio delle nuvole segnala un intervallo di tempo incommensurabile nel quale si consuma il cambio di prospettiva. Procedere verso est è quindi un’operazione di lucidità, un percorso cognitivo più che geografico, sicché non c’è poi differenza tra «l’Italia orientale» e «il mar della China» (Erba 1980, 82), poiché, nel novero delle ossessioni e dei refrain tematici di Erba, il volto d’oriente è la maschera che il poeta si è riservato, è lo specchio grazie al quale può sperare di apprendere chi è, fin da quando «distribuiva mestoli di sbobba / tra lettini di ferro» (di ferro come il ponte e come il filo, appunto), e gli «davano del cinese dicevano / ancora Cina Budda ancora un po’» (Erba 1988), a causa di «quella misteriosa ascendenza mandarina che ci esibiva a spiegare il taglio orientale dei suoi occhi» (Portinari 1984, 13).

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III.

Grafologia di un addio

Questo azzurro di luglio senza te è attraversato da troppi neri rondoni che hanno un colore di antenne e il taglio, il guizzo della tua scrittura. Si va dal «caro» alla firma

dal cielo alla terra

dalla prima all’ultima riga dai tetti alle nuvole.

Il cerchio aperto, 1983, p. 9

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Nota prosodica

Lassa singola di otto versi liberi irrelati, raggruppati in due proposizione di quattro versi ciascuna separate da punto fermo. Sul piano sintattico, il primo insieme comprende, oltre alla principale, una relativa mentre il secondo insieme solo la proposizione principale. Sul piano prosodico, invece, la misura dei versi va riducendosi secondo una progressione discendente non lineare.

Primo periodo

I verso: endecasillabo

II verso: ottonario + «neri rondoni» III verso: ottonario

IV verso: endecasillabo

Secondo periodo V verso: ottonario VI verso: senario

VII verso: senario + «riga» VIII verso: senario

La prima parte contiene due endecasillabi al verso 1 e 4, che racchiudono due ottonari nei versi centrali, uno dei quali è dissimulato con un virtuosismo divertente: i «troppi neri rondoni» sono letteralmente troppi per rientrare nella misura di un verso regolare ed eccedono fuori dall’endecasillabo sporgendo sulla stessa linea. La seconda parte recepisce il nucleo della prima, cioè l’ottonario, e lo sviluppa sia prosodicamente (riprendendo la misura di otto sillabe anche al quinto verso) sia tematicamente. All’ottonario seguono infatti tre senari (di cui uno mascherato, il verso 7), tutti introdotti dall’anafora della preposizione “da”. Per segnalare il senario mascherato, la u con accento tronco è la stessa vocale accentata del verso seguente nuvole, ribadendo una relazione significativa in u presente già nella poesia precedente (tu/nuvole). L’eccedenza diventa quindi un’isotopia: i rondoni di troppo, in cielo, e la riga di troppo, nel testo, trovano un parallelo esplicito sul piano retorico esattamente come avviene a livello metaforico (i rondoni in cielo sono allineati come le parole sulle righe di un testo). L’assenza della donna è insomma iper-significata, è un’assenza enfatizzata dal ricordo che scatenano gli uccelli e, quasi graficamente, è un’assenza sottolineata da una «riga».

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Redazione 3a