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Analogie e distanze tra riesame delle misure coercitive ed appello dei provvedimenti cautelari personali nella disciplina delle impugnazioni de libertate

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Capitolo primo

Uno sguardo all'evoluzione storica del

sistema delle impugnazioni.

Sommario: 1. Premessa. - 2. Il cambiamento del

sistema dal codice del 1930 alla Costituzione. - 3.

Problemi tecnici e operativi della ricorribilità in

Cassazione. - 4. L’attuale art. 111 Cost. - 5. La CEDU. -

6. Le interazioni tra Costituzione e CEDU. - 7. Il

diritto to take proceedings ex art. 5, par. 4 CEDU. - 8.

Il controllo sulla legalità della detenzione. - 9. La

necessità di un intervento legislativo. - 10. La legge

delega del 1974 per la creazione di un nuovo c.p.p. -

11. Proposte di legge sul ‘tribunale delle libertà’. - 12.

Verso la stesura definitiva. - 13. La legge 12 Agosto

1982, n. 532.

1. Premessa.

Il tema delle impugnazioni delle misure cautelari ha subito una progressiva modifica nel senso di un aumento di garanzie per l’imputato che si vede privato di un bene fondamentale. Su impulso della normativa europea, si è introdotto nell’ordinamento italiano un soddisfacente sistema di controllo sui provvedimenti de libertate.

Inizialmente, il riferimento principale era costituito dalla previsione costituzionale della ricorribilità in Cassazione

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avverso tali provvedimenti, che però, alla luce degli sviluppi dottrinali e giurisprudenziali e della ratifica della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, poneva subito in risalto la mancanza di un controllo anche nel merito.

Tale lacuna è stata colmata nel 1982, quando con legge ordinaria si ritenne di dare finalmente attuazione agli obblighi internazionalmente assunti dall’Italia con la ratifica della Convenzione nel 1955.

Ovviamente prima di tale approdo, ci sono stati diversi interventi che, gradualmente innalzarono il livello di garanzie, e allontanarono il nostro ordinamento dall’impronta autoritaria lasciata dal fascismo, trasformandolo in un ordinamento pro

libertate.

2. Il cambiamento del sistema dal codice del

1930 alla Costituzione.

La necessità di una riforma si apprezza considerando l'assetto della materia a partire dal codice Rocco del 1930. All'epoca, il settore delle impugnazioni delle misure cautelari era uno dei più deficitari e gravati da una ideologia, quella fascista, che considerava le applicazioni processuali delle dottrine liberali come fondate su principi per cui " l'individuo è posto contro lo Stato, l'Autorità è considerata come insidiosa sopraffattrice del singolo e l'imputato, quand'anche sorpreso in flagranza, è presunto innocente" ( ). 1

Vedi Relazione del guardasigilli on. A. Rocco, in lavori preparatori del codice penale

1

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Innanzitutto, il processo penale in generale era gravato da una concezione aberrante, se paragonata ai sistemi di common law, di impronta tipicamente accusatoria: il processo aveva la funzione principale di giungere all'accertamento della verità dei fatti al fine di applicare le conseguenze giuridiche previste. Quindi, lo scopo primario del processo penale era la repressione della delinquenza e l'assicurare allo stato la pretesa punitiva. Ogni interesse ulteriore, come anche la tutela della libertà dell'individuo era subordinata e secondaria a tale scopo: non era completamente esclusa ogni normativa sulla tutela della libertà dell'imputato, ma si partiva dall'idea di un soggetto colpevole, in quanto il pubblico ministero veniva definito come un soggetto disinteressato e imparziale nello svolgimento delle sue attività, quasi fosse per ciò stesso esente da errori.

Anzi, la stessa presunzione di innocenza, veniva definita come "paradossale è irrazionale" ( ); ci si chiedeva, arrivando al 2 paradosso, perché procedere verso un soggetto, che è da ritenere innocente. Si affermava, in sostanza, che "il non essere certi della colpevolezza di una persona indiziata [...] non può mai equivalere a presumere l'innocenza" ( ). 3

Tale concezione portava consequenzialmente all'affermazione per cui la libertà personale, tutelata non in quanto bene giuridico meritevole di tutela, ma in quanto interesse dello stato allo sviluppo della personalità finalizzato al progresso della società, era vista come una concessione di uno stato benevolo ai cittadini, che però cedeva di fronte all'interesse sociale, da considerare prevalente rispetto a ogni altro interesse.

Manzini, Trattato di diritto processuale italiano, Torino, 1931, p. 180.

2

Vedi ancora Manzini, op. cit.

(4)

L'interesse collettivo prevaleva sempre su ogni interesse individuale, configurando un rapporto stato-individuo nettamente sproporzionato a favore dello stato.

Questo rapporto si riverberava anche sul settore delle impugnazioni de libertate, perché gli strumenti concessi al l'imputato per contestare l'esercizio del potere coercitivo da parte delle autorità procedenti erano da considerare come una eccezionalità, non essendoci nessuna situazione soggettiva da tutelare.

Il pubblico ministero poteva impugnare tutti i provvedimenti de

libertate, ovvero il provvedimento di non emissione o di revoca

del mandato di cattura, di scarcerazione istruttoria e di cautele patrimoniali o obblighi imposti con la concessione della libertà provvisoria. Tra l'altro, l'impugnazione da lui proposta, aveva effetto sospensivo nei confronti della concessione della libertà provvisoria.

L'imputato poteva impugnare, invece, solo i provvedimenti in tema di libertà provvisoria, senza provocare effetti sospensivi del provvedimento.

Proprio da tale diseguaglianza dovette prendere le mosse l’intervento dell’on. Giovanni Leone che, durante i lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, introdusse con una certa enfasi il proprio emendamento all’art. 102: intendeva introdurre la ricorribilità in Cassazione di tutti i provvedimenti incidenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari e speciali (oltre che delle sentenze pronunciate dagli stessi organi), proprio in relazione alla situazione vigente nell’ordinamento fascista, sostenendo che la ricorribilità in Cassazione fosse “una delle più grandi garanzie conquistate da un regime democratico in un codice di procedura

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penale che, in questa parte soprattutto, sentì l’influenza del regime dittatoriale” ( ). 4

Certo, sarebbe stato preferibile l’introduzione in Costituzione di un controllo nel merito di questi provvedimenti, ma ciò non toglie che questa norma rappresenta un importante punto di partenza per le guarentigie pro libertate, che ovviamente deve poi essere sviluppato.

Spetterebbe al legislatore adeguare il sistema codicistico a tale previsione, la quale comunque non preclude l'istituzione di appositi controlli di merito, operati tramite tribunali ad hoc. Questo era il punto di vista dell'on. Giovanni Leone, che in un discorso tenuto al Senato affermava come vi fosse la necessità di una garanzia di fronte alla cattura preventiva dell'imputato, ossia di un giudice della libertà che deve essere istituito dal legislatore, deve essere diverso e distinto dal giudice istruttore, e deve serenamente giudicare se quella persona debba "subire l'ignominia di un carcere e anche quella dell'opinione pubblica", ritenendo che "l'ignominia di un carcere per detenzione preventiva, in Italia, è più grave della carcerazione per espiazione di pena", perché la carcerazione preventiva non serve solo per allontanare l'imputato dalla società ma anche per scopi punitivi( ). 5

Nello specifico, egli riteneva che le modifiche parziali, non sono mai soddisfacenti, ma in un sistema come il nostro basato sul bicameralismo, le riforme integrali richiedono sempre tempi eccessivi, che il sistema penale non può attendere; per questo ci si può accontentare di un "tentativo di trapianto [...] che possa

Intervento on. Leone, seduta pomeridiana del 27 Novembre 1947, La Costituzione

4

della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, vol. 5, p.4166.

Discorso del Sen. Leone al Senato nella seduta del 23 gennaio 1969, Crisi della

5

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collocarsi nel tessuto legislativo previgente senza produrre eccessivo danno".

Con la c.d “piccola riforma” del 1955 ( ), si introdussero proprio 6 delle modifiche parziali e si dette attuazione al disposto costituzionale, anche se non fu una modifica completamente risolutiva delle carenze in materia di impugnabilità da parte dell’imputato.

3. Problemi tecnici e interpretativi della ricorribilità in Cassazione

Nonostante l’importanza storica dell’introduzione della ricorribilità in Cassazione, l’art. 111, comma 2 (attuale comma 7, dopo le più recenti modifiche), presenta delle difficoltà, riassumibili sostanzialmente in due distinte questioni.

Da un lato si prevede uno strumento a tutela dell’imputato che si vede privato della libertà personale molto limitato, in quanto presenta carenze vistose: in primo luogo permette una reazione alle sole violazioni di diritto, “ciò che rende in pratica difficile l’esplicazione di un controllo penetrante che, per riuscire tale, dovrebbe nella maggior parte dei casi investire anche il merito dei provvedimenti restrittivi “( ). In altri termini, la Cassazione 7 opera solo un controllo formale, ma non un controllo che coinvolge anche la fondatezza delle ragioni addotte

Legge del 18 Giugno 1955, n. 517, conosciuta anche come ‘piccola riforma’ perché

6

è stata la prima riforma del codice Rocco che ha cercato di conformarlo alla Costituzione nei settori che più stridevano con i principi costituzionali, e che ha modificato un centinaio di articoli contribuendo a realizzare il c.d garantismo

inquisitorio, ovvero un impianto processuale di tipo inquisitorio su cui operano delle

aperture in senso accusatorio.

v. V. Grevi, Libertà personale dell’imputato, in Enc. dir.,XXIV, Milano, 1974, p.391.

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sull’esistenza dei presupposti indicati dalla legge per l’emanazione della misura.

Inoltre, la Corte ha una funzione, quella di garantire l’uniformità del diritto, tale da non permettere una risposta in tempi ragionevolmente brevi: se la misura fosse illegittima, deve essere eliminata nel minor tempo possibile per non contrastare con quel basilare principio dell’art. 13 Cost, che afferma la libertà personale limitabile nei solo casi e modi previsti dalla legge ( ). 8

D’altro canto, il rimedio del ricorso in Cassazione era garantito avverso i provvedimenti dell’organo giurisdizionale, dovendosi quindi escludere i provvedimenti restrittivi emanati dal pubblico ministero. Questa interpretazione operava quindi un enorme restringimento dell’area di applicabilità della norma in commento.

E’ evidente il collegamento tra l’art. 111, comma 2, e l’art. 13, comma 2 Cost.(che prevede una riserva di giurisdizione in materia di restrizione di libertà personale, ovvero che la limitazione può avvenire solo tramite un atto motivato dell’autorità giudiziaria), il quale pone una alternativa ermeneutica: o si ritiene che anche il pubblico ministero possa l i m i t a r e l a l i b e r t à p e r s o n a l e , i n q u a n t o a u t o r i t à giudiziaria,dando rilievo preminente all'art. 13, comma 2 Cost., quindi deve ammettersi il ricorso per Cassazione anche verso i suoi provvedimenti, oppure si dà prevalenza alla norma dell’art. 111, comma 2 Cost. per ritenere che il pubblico ministero, non essendo organo giurisdizionale, non dovrebbe nemmeno emettere i provvedimenti in esame.

Sembra preferibile la prima soluzione, dato che la norma centrale in materia di libertà personale è l’art. 13 Cost. e ad essa

v. ancora Grevi, op. cit.

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fa da corollario il diritto a un controllo almeno sulla legittimità del provvedimento: se non si permettesse il ricorso in Cassazione dei provvedimenti emanati dal pubblico ministero, considerando anche gli ampi poteri che egli aveva nel nostro ordinamento durante la vigenza del codice Rocco, si contraddirebbe il principio di inviolabilità della libertà personale. Inoltre, se la collocazione delle norme può avere un qualche significato, quelle sul pubblico ministero si trovano nel titolo IV della seconda parte della Costituzione, in due sezioni denominate “ordinamento giurisdizionale“ e “norme sulla giurisdizione“. Questo può portare a ritenere che il termine ‘giurisdizionale’ non è utilizzato nella Costituzione, come riferito esclusivamente al giudice, ma piuttosto come un termine da interpretare caso per caso a seconda della ratio delle singole disposizioni.

A questo punto, quindi, nulla impedisce di accogliere la interpretazione dell’art. 111, comma 2 Cost. che intende ricomprendere il pubblico ministero tra gli ‘organi giurisdizionali’, i cui provvedimenti possono essere oggetto di ricorso in Cassazione.

Questa interpretazione, adottata definitivamente anche grazie a un intervento della Corte Costituzionale ( ), permette di evitare 9 il paradosso di trattamento differenziato tra imputati che, per cause contingenti e del tutto occasionali, vedono ristretta la loro libertà per opera di un giudice o di un pubblico ministero.

In tale senso, un valido contributo proviene anche dalla giurisprudenza europea( ), che ha ritenuto insufficiente la 10 convalida da parte del magistrato di un provvedimento

Sent. 14 Luglio 1971, n. 173 che dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 263

9

bis, nella parte in cui non permette il ricorso per Cassazione contro i provvedimenti di convalida dell'arresto in flagranza.

Corte europea dei diritti dell'uomo, Affaires de vagabondage, 18 giugno 1971.

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provvisorio emesso dall'autorità di pubblica sicurezza per rispettare il principio di giurisdizionalità richiesto dall'art. 5, par. 4: l'interrogatorio dell'arrestato in flagranza o del fermato non bastano per esaurire lo standard di giurisdizionalità richiesto, sia per le caratteristiche dell'organo deputato al controllo, sia, soprattutto, per le caratteristiche del procedimento in generale, che deve rispettare alcuni principi guida ( ). 11

4. L’attuale art. 111 Cost.

Dopo la riforma, operata con legge costituzionale del 23 Novembre 1999, n. 2, l’art. 111 Cost. si ritiene di aver dato attuazione al c.d ‘giusto processo’ che trova la sua base giuridica nell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo( ). L’attuale comma 7 del predetto articolo 12 recita che “contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge”.

In linea di massima la norma non si discosta dalla precedente formulazione, prevedendosi ancora che il rimedio costituzionalmente doveroso è rappresentato dal ricorso in Cassazione e non, come da più voci sottolineato, da un controllo esteso al merito. Non risulta però indicato che esso debba essere l’unico rimedio verso i provvedimenti restrittivi della libertà personale, anzi, può senza dubbio affermarsi che l’art.111,

Per approfondimenti, vedi par. 5, di questo capitolo.

11

Ratificata in Italia con legge 4 Agosto 1955, n.848.

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comma 7 Cost. pone uno standard minimo di tutela che il legislatore deve garantire, ma non vieta che vi sia una garanzia maggiore predisposta per il soggetto privato della libertà personale, che può trovare una legittimazione anche sulla base dell’art. 13 Cost., ossia nell’affermazione centrale dell’inviolabilità della libertà personale.

Oggi il problema delle carenze del ricorso in Cassazione, dell’idoneità a fornire una corretta garanzia all’accusato, della capacità di permettere una risposta in tempi brevi alla eventuale illegittimità della misura de libertate, si presenta in modo leggermente attenuato dal fatto che è stata introdotta nell’ordinamento italiano la legge n. 532/1982 conosciuta come la legge istitutiva del ‘tribunale delle libertà’ perché introduce finalmente il controllo anche nel merito dei provvedimenti restrittivi.

5. La CEDU.

In materia di libertà personale e di garanzie per la persona privata di questo bene giuridico vi è un trattato internazionale redatto dal Consiglio d’Europa e ratificato da tutti i 47 Stati membri, che si occupa di dettare delle regole generali sui diritti umani, la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ( ). 13

Essa è dotata, non solo di una autorità di fatto, ma anche di un preciso valore giuridico che deve esserle attribuito dagli Stati, i quali hanno il dovere, ex art. 1 della Convenzione stessa, di rispettare i diritti dell’uomo in essa contenuti.

Ratificata a Roma, il 4 Novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con legge 4

13

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Un aiuto per l’inquadramento della normativa europea nel sistema delle fonti non proviene dalle fonti internazionali, che lasciano agli stati contraenti la scelta del mezzo più opportuno per riconoscere effetti interni alle norme pattizie, seppur affermando che l’applicazione diretta risulta il metodo migliore per realizzare una concreta attuazione dei diritti ( ). Si può 14 dire, quindi, che, indipendentemente dal metodo prescelto, ciò che davvero interessa è che la sostanza dei diritti riconosciuti sia effettivamente goduta dagli individui.

La tecnica normativa maggiormente utilizzata dagli Stati firmatari è quella di conferire rango infra-costituzionale ma sovra-legislativo, riuscendo quindi a tutelare il principio cardine del costituzionalismo moderno, ovvero il primato della Costituzione, e ad evitare che alla norma di recepimento del trattato internazionale venga applicato il principio cronologico di successione di nome nel tempo. Sono pochi invece gli Stati che accordano al diritto internazionale un rango sovra-costituzionale o sovra-costituzionale, ad esempio la Spagna, la Turchia e l’Austria.

Da escludere paiono i tentativi di ricondurre gli atti internazionali a una clausola generale quale l'art 11 Cost. aderendo al c.d. "principio pacifista" , come afferma la stessa Corte cost. con sent. n. 348 del 22 ottobre 2007: la Convenzione, infatti, non produce limitazioni della sovranità nazionale, impone esclusivamente degli obblighi internazionali che vincolano lo stato ma non autorizzano i giudici di merito a disapplicare la normativa interna in contrasto con una norma convenzionale. Questo orientamento pare confermato dal novellato art. 117 cost. che differenzia i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario dagli obblighi internazionali.

Cfr. Corte europea, 18 Gennaio 1978, Irlanda c. Regno Unito.

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La Corte costituzionale, nella già citata sentenza del 2007 ritiene di dover cercare proprio nell'art 117 cost. il riferimento per ritenere che la Cedu ha valore di norma interposta, ovvero di una norma sub-costituzionale ma con un valore sovraordinato rispetto alla legge ordinaria.

Tale riconoscimento particolarmente riferito alla Cedu, è giustificato sulla base di una peculiarità della convezione che introduce la giurisdizione di un organo giurisdizionale ad hoc per la tutela dei diritti contenuti nell'atto stesso, il quale non è più invece un mero elenco di diritti e obblighi.

In particolare, con la violazione di un obbligo internazionale, si ha violazione indiretta dell’ art. 117, comma 1 Cost, così come avviene, ex art 76 cost., tra legge delegata e decreto legislativo. Non si opera quindi con un riconoscimento diretto della Cedu, ma si ritiene che l'inadempimento agli obblighi internazionali configuri una violazione indiretta, come se l'obbligo internazionale integrasse la costituzione.

Le implicazione connesse al riconoscimento di un rango sovraordinato alla Cedu si colgono appieno qualora vi siano delle divergenze tra legislazione interna e normativa internazionale. Nel caso di antinomia tra norma interna e norma della Convenzione, che non è risolvibile in via interpretativa, il giudice non può disapplicare la norma interna direttamente, come invece può fare per le norme derivanti dall’ordinamento comunitario, ma deve sollevare questione di costituzionalità di fronte alla Corte costituzionale per violazione dell'art 117 cost.

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6. L’interazione tra la Costituzione e la CEDU.

Non sembra strano, quindi, dopo queste osservazioni, che non hanno certamente pretese di completezza, che la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo svolga una funzione propulsiva per l’introduzione di istituti e garanzie anche in materia di libertà personale.

In particolare, un incentivo per l’introduzione di un controllo più pregnante su provvedimenti che incidono su uno dei beni giuridici fondamentali per uno stato liberale, proviene dall’art. 5 Cedu, che elenca una serie di garanzie che competono alla persona “arrestata” o “detenuta”, dopo aver determinato anche i singoli casi in cui è possibile procedere alla limitazione della libertà personale.

Viene in considerazione, in particolare, il paragrafo 4, in cui si prevede il diritto di ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione di indirizzare un ricorso a un tribunale affinché esso decida entro brevi termini sulla legalità della detenzione e ordini la liberazione del soggetto non appena la privazione risulta illegittima.

Si è anzi ritenuto che la legge istitutiva del ‘tribunale delle libertà’ fosse proprio l“adempimento di un impegno internazionalmente assunto dall’Italia” ( ) con l’adesione alla 15 Convenzione. E’ avvenuta una sorta di ‘costituzionalizzazione’ della normativa europea, un procedimento simile a quello che ha introdotto direttamente nell’ordinamento italiano le regole sul ‘giusto processo’, modificando l’art. 111 Cost. nel 1999 ( ). 16

G. Vassalli, in Premessa al commento alla l. 12/08/1982 n. 532, Legisl. pen, 1982.

15

Cfr. P. Maggio, il giudice delle libertà tra impulsi europei e diritto interno. Riflessioni

16

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D’altro canto, però, è da escludere che lo standard minimo previsto dalla Costituzione con il ricorso per Cassazione sia formalmente incompatibile con la previsione convenzionale, anzi, la Commissione Europea aveva attribuito al ricorso per Cassazione il significato di un rimedio di per sé satisfattivo delle esigenze espresse nella clausola europea, perché si riteneva sufficiente che la decisione di privare il soggetto della libertà promanasse da un organo giudiziario, non essendo necessario un secondo grado di giudizio (vedi infra, par. 5).

Ci si è chiesti tuttavia, se non era il caso di sfruttare tutte le potenzialità della norma Cedu e prevedere quindi un sistema di impugnazioni che sviluppasse appieno la direttiva della brevità dei tempi per il controllo e quella di un controllo sulla legalità, da intendersi in senso lato, ovvero non come mera legittimità formale, ma, come nei sistemi di common law, una verifica di non arbitrarietà della decisione, capace quindi di estendersi anche al merito.

Ovviamente, il riferimento alla Cedu e alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, potrà essere utilizzato solo in chiave di ricerca del massimo standard di tutela dei diritti e mai in chiave di abbassamento della tutela garantita dalla Costituzione ( ). 17 Ciò è apprezzabile soprattutto quando si verifica, non già un contrasto tra nome europee e nazionali, ma una diversità di disposizioni, non incompatibili tra loro: in questo caso pare doveroso operare una integrazione tra le due disposizioni per espandere la tutela garantita dal diritto interno, in linea con il principio per cui il giudice deve evitare ogni interpretazione restrittiva e utilizzare canoni ermeneutici che permettono di

Cfr. Paola Spagnolo, Il tribunale delle libertà tra normativa nazionale e normativa

17

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estendere la portata applicativa delle forme di tutela delle persone.

7. Il diritto to take proceedings ex art. 5, par. 4 CEDU

La previsione dell.art 5, par. 4 Cedu non impone in realtà un secondo grado di giudizio: nonostante sia da sempre ritenuta la base per la costruzione di un sistema di controllo delle misure

de libertate, la norma non implica la costruzione di un sistema

di impugnazioni( ). 18

In particolare, una parte della dottrina, soprattutto di matrice anglosassone, ha elaborato la teoria, secondo la quale, se la restrizione è operata da un provvedimento del giudice, il controllo ex art. 5, par. 4 risulta essere ‘incorporato’ nel provvedimento stesso. Si tratta, nello specifico, del caso in cui la detenzione è seguita dalla traduzione davanti al giudice: i soggetti, dunque, che vedono ristretta la libertà personale ai sensi dell’art. 5, par. 1, lettera a), ovvero “in seguito a condanna da parte di un tribunale competente” , oppure hanno ricevuto un primo scrutinio ai sensi del par. 3 della stessa norma, non hanno diritto a ottenere un ulteriore controllo.

In sostanza, è sufficiente il carattere di giurisdizionalità del procedimento al termine del quale è disposta la misura limitativa, il quale presenti le caratteristiche del ‘processo equo’.

E’ affermazione corrente della Corte europea però, che, se uno Stato decide di

18

introdurre un sistema basato su un secondo grado di giudizio in materia cautelare, deve apprestare in esso le stesse garanzie del primo grado.

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In una importante sentenza, i giudici di Strasburgo ( ) hanno 19 affermato che non è necessario un doppio grado di giudizio, ma è sufficiente che l'organo e le forme in cui si esercita il controllo abbiano dei caratteri di giurisdizionalità, nel senso che il modus

procedendi riconosca all'imputato idonee garanzie difensive.

Da ciò deriva che l’art. 5 Cedu ben potrebbe legittimare un sistema che prevede che la misura cautelare imposta dal giudice sia seguita immediatamente dal contraddittorio in sede di interrogatorio di garanzia, senza che sia necessario un ulteriore procedimento incidentale per il controllo della legittimità della detenzione. Il diritto al ricorso al tribunale potrebbe essere soddisfatto, per esempio, dalla possibilità di presentare istanze di revoca o sostituzione al giudice a brevi intervalli.

Ciò non significa che il criterio del controllo integrato esclude senz’altro la possibilità di valutazioni ulteriori quando il ricorso sia giustificato dal sopravvenire di nuove circostanze rilevanti. Quanto alla caratterizzazione dell’organo ‘tribunale’, cui indirizzare il ricorso, la Corte Europea ( ) afferma che è 20 necessario che esso abbia i caratteri di una autorità giudiziaria, ovvero l’indipendenza dall’esecutivo e dalle parti in causa; deve però, necessariamente, disporre del potere di ordinare la scarcerazione, con la conseguenza che non può esprimere un semplice parere consultivo.

Per il fatto che l’organo investito è denominato ‘tribunale’, è necessario prevedere anche una serie di garanzie e modalità procedimentali: inizialmente la giurisprudenza della Corte riteneva che non era necessario il rispetto dei principi del fair

Corte europea, affaires de vagabondage, 18 Giugno 1971.

19

Sent. 2 Marzo 1987, Weeks c. Regno Unito, par. 61.

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trial indicati dall’art. 6 Cedu( ), ma con il tempo questo 21 orientamento è mutato e si è prestata maggior attenzione alle forme del controllo.

Oggi la stessa Corte precisa che il procedimento deve garantire almeno due esigenze indispensabili, ossia il contraddittorio e la parità delle parti.

Si è ritenuto infatti, che il termine ‘proceedings’ di cui all’art. 5, par 4 Cedu implica che l’organo deve presentare garanzie tipiche delle procedure giudiziarie ( ). 22

Va tenuto presente, però, che l’applicazione dell’art. 6 Cedu ai procedimenti di controllo della legalità di una misura cautelare non è completa, ma è sufficiente il rispetto di un minimo standard, costituito dal contraddittorio tra le parti, che discutono in condizioni di parità di armi a disposizione.

8. Il controllo sulla legalità della detenzione

Quanto all’ambito cognitivo del giudice che deve effettuare il controllo, egli deve verificare che la detenzione sia ‘lawful’ . Si ritiene che l’art. 5, comma 1 della Convenzione prescrive che le limitazioni della libertà personale debbano rispondere a una duplice condizione: devono rispettare innanzitutto la disciplina interna, e poi devono essere riconducibili ai casi tassativamente indicati nella stessa norma convenzionale. Non è sufficiente il rispetto del diritto interno perché eventuali violazioni del diritto di libertà personale potrebbero anzi trovare legittimazione

Ad esempio, nella sent. 22 Giugno 1968, Neumeister c. Austria, par. 22, la Corte

21

afferma che non è necessario garantire il principio di parità delle armi nei procedimenti sulla legittimità della detenzione.

Vedi Corte europea, 31 Gennaio 2002, Lanz c. Austria, par. 40-42.

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formale in una legislazione nazionale poco attenta a tale bene giuridico. Per queste ragioni, i giudici di Strasburgo finiscono per attribuirsi un penetrante sindacato, che coinvolge appunto il doppio livello di garanzia ( ). 23

Secondo alcuni, deve distinguersi un profilo di ‘legalità’, intesa come conformità alle norme nazionali, e ‘regolarità’, come c o n f o r m i t à d e l l a l e g i s l a z i o n e n a z i o n a l e a q u e l l a internazionale( ). 24

La privazione della libertà personale finisce quindi per essere legittima solo se rispettosa di un doppio livello di legalità, interna e internazionale.

Ciò che si ritiene comunemente, comunque, è che il controllo non può dirsi limitato al rispetto formale della disciplina, ma deve estendersi anche al merito: si tratta di una verifica complessa, riguardante ognuna delle condizioni che legittimano l’esercizio del potere cautelare, come risulta da costante giurisprudenza della Corte ( ). 25

Il giudice che controlla la legalità deve potersi pronunciare su tutti gli aspetti rilevanti per giustificare la perdurante limitazione della libertà personale, prendendo in considerazione i fatti allegati dall’interessato che possono anche solo mettere in discussione la fondatezza dell’accusa e controllando la sussistenza di tutti gli elementi che giustificano la restrizione. Come più volte affermato, tale norma è stata ritenuta la base di riferimento per l’introduzione del nostro ordinamento del sistema di impugnazioni delle misure cautelari, anche se non si ritiene che l’art. 5 Cedu abbia voluto imporre un secondo grado

Cosi per Mazza, La libertà personale nella Costituzione europea, in Profili del

23

processo penale nella Costituzione europea, AA.VV, a cura di Coppetta, 2005.

De Salvia, la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, Napoli, 2001, p. 199. 24

Per esempio, sent. E. c. Norvegia del 29 Agosto 1990, par. 49.

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di giudizio per le misure de libertate. Tuttavia, dall’analisi del tipo di controllo richiesto dalla Cedu, emerge subito come non vi sia differenza tra le varie misure restrittive: il controllo è sempre lo stesso, sia che ad essere censurata è una misure genetica della cautela, sia una misura modificativa della stessa e coinvolge, quindi, non solo il diritto interno, ma anche la normativa internazionale, i principi generali che la Convenzione consacra e lo scopo delle restrizioni.

Nel sistema introdotto nel nostro ordinamento con la legge n. 532/1982, si distingue invece un controllo più incisivo per le misure genetiche, rispetto a quello delle misure “sulla vita” della cautela, ritenendo di dover accordare una maggior tutela al soggetto che per la prima volta viene limitato nella sua libertà personale.

9. La necessità di un intervento legislativo.

Da ciò che abbiamo messo in evidenza nei precedenti paragrafi, emerge chiaramente la necessità di una modifica da parte del legislatore ordinario, anche parziale, in modo da porre rimedio alle disparità di trattamento tra pubblico ministero e imputato e da dare la più piena attuazione alle potenzialità della normativa convenzionale ( ). 26

Il primo intervento, che gradualmente risolve tali problematiche, è costituito dalla legge 18 Giugno 1955, n. 517. Oltre ad adeguare il sistema codicistico alla Costituzione, riproponendo all'art. 190 c.p.p. la regola generale della

Da ricordare che l'art. 5, par. 4 Cedu non si ritiene richieda un adeguamento da

26

parte dell'Italia, che con il ricorso per Cassazione previsto dalla Costituzione si riteneva sufficientemente attuata la norma in oggetto.

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ricorribilità in Cassazione di tutti i provvedimenti incidenti sulla libertà personale, introduce anche due nuove norme: l'art. 272 bis e l'art. 280 c.p.p.

La prima norma introduce la possibilità per l'imputato di proporre appello verso le ordinanze di scarcerazione; la competenza spetta al giudice istruttore per le ordinanze emesse dal pretore , oppure alla sezione istruttoria per le ordinanze emesse dal giudice istruttore. Inoltre, si prevede che tali ordinanze sono immediatamente impugnabili, senza dover attendere la decisione del giudizio di merito, che rimane inalterato dall'impugnazione cautelare.

La seconda, richiamando la prima per la disciplina specifica, detta la stessa possibilità per l'imputato per quanto riguarda le ordinanze sulla libertà provvisoria.

Nonostante il grande passo avanti compiuto con questa riforma, che tra l'altro è stata la prima compiuta riforma del codice Rocco, rimanevano dei seri problemi di tutela dell'imputato dal momento che l'ordine o il mandato di cattura rimaneva non impugnabile nel merito, ma solo ricorribile per Cassazione, ex art. 263 bis c.p.p.

Risultato di questa disciplina, quindi, era che per ottenere un controllo di merito sul provvedimento contenente il mandato di cattura, l'imputato doveva ricorrere a un escamotage: doveva fare domanda di scarcerazione o libertà provvisoria, al fine di impugnare il prevedibile diniego e far valere le proprie doglianze anche verso il 'provvedimento genetico' della restrizione ( ), come se la scarcerazione presupponesse, non la 27 sopravvenienza di nuovi elementi, ma un mero riesame degli elementi su cui si basava il provvedimento.

Cfr. Chiavario, tribunale delle libertà e processo penale, in Tribunale della libertà e

27

(21)

La mancanza dei presupposti per l'emissione del mandato di cattura e la sussistenza dei presupposti per la scarcerazione sono, tuttavia, riconducibili a fattispecie ben diverse, quindi, far rifluire verso la scarcerazione fattispecie che dovrebbero dare luogo ad annullamento del mandato di cattura è un segno evidente che il sistema delle impugnazioni era inadeguato. L'artificiosità dell'insieme risultava anche dalla stessa giurisprudenza, e in particolare in quelle pronunce che delineavano l'iter da seguire per giungere al controllo di merito( ). Ne derivava, quindi, un sistema in cui i 28 provvedimenti restrittivi sembravano dotati di una particolare 'forza di resistenza' all'impugnazione, dato che, con il ricorso per cassazione avverso il mandato di cattura, potevano essere valutati solo "motivi che siano comunque rapportabili alla legittimità del provvedimento" ( ), il che non comprendeva il 29 controllo sul presupposto dei 'sufficienti indizi di colpevolezza', che tra l'altro, era l'unico a venire in questione quando, per l'imputazione contestata, la cattura era obbligatoria. Su tale aspetto, la corte si limitava a prendere atto delle affermazioni contenute nel provvedimento( ). 30

Una prima osservazione, all'esito della riforma del 1955, è che risulta ancora più enfatizzato il cumulo di poteri istruttori e poteri 'de libertate' in capo a soggetti come il giudice istruttore e, addirittura, il pretore e il pubblico ministero, che detenevano già il potere di iniziativa del processo penale.

Un riferimento si riscontra nella sent Cass.,1 Dicembre 1980, in Cass. Pen. 1981,

28

p. 1336, m. 1222; oppure in Cass., 25 Gennaio 1978, in Cass. Pen. 1979, p. 1240, m. 1271.

Sent Cass, 6 Febbraio 1978, in Cass. Pen. 1979, p. 1566, m. 1502.

29

Cfr. osservazioni di G. Lattanzi, in Cass. Pen. 1981, p. 1340.

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10. La legge delega del 1974 per la creazione di un nuovo c.p.p.

Le proposte dottrinali di modifica del sistema delle impugnazioni cautelari, anche se animate da impostazioni nettamente diverse tra loro, si susseguirono nel tempo, ed ebbero il pregio di tenere sempre vivo ed attuale il problema, riuscendo infine a influenzare positivamente le scelte legislative, concretizzatesi nella legge delega per la creazione di un nuovo codice di procedura penale ( ). 31

Con tale intervento legislativo, si dette risposta alle richieste provenienti da più parti, di attribuire a un giudice (o tribunale) estraneo alla conduzione delle indagini la competenza di pronunciarsi in esito a un controllo sulla legittimità della restrizione de libertatis. ( ). 32

Una proposta più radicale, invece, fu quella di attribuire a tale nuovo organo, la competenza ad emanare direttamente il provvedimento limitativo, salva la possibilità per il pubblico ministero, oltre quella di richiedere il provvedimento stesso, di provvedere direttamente nei casi di urgenza, ravvisabile nella esigenza di tutela degli interessi sociali e nel corretto evolversi del procedimento

VEDERE LAROSA.

Una terza proposta, fu quella di conferire all'imputato il diritto di opposizione contro l'ordine o mandato di cattura entro tre giorni dall'esecuzione del provvedimento, da effettuare presso il

Legge 3 Aprile 1974, n. 108, 'punto' 54 dell'art. 2.

31

Cfr. Leone, Crisi della giustizia penale, in Riv. pen., 1969, I, p. 111, il quale propone

32

la competenza di un "giudice della libertà [...] che deve essere diverso e distinto dal giudice che conduce l'istruttoria".

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tribunale, che avrebbe deciso in camera di consiglio, dopo aver sentito il pubblico ministero e la difesa, entro dieci giorni dalla proposta di opposizione, a pena di perdita di efficacia della misura ( ). 33

Anche per quanto riguarda la struttura dell'organo giurisdizionale vi erano opinioni dottrinali divergenti: per alcuni era sufficiente un giudice monocratico, con il potere della cattura preventiva; per altri era necessario un giudice collegiale a composizione mista, cioè con giudici togati e laici, i quali avrebbero garantito una miglior considerazione delle esigenze sociali.

Il legislatore riuscì, dopo un percorso travagliato della durata di più di dieci anni ( ), a disporre quei criteri direttivi per il 34 Governo, delegato all'emanazione di un nuovo codice di procedura penale.

La legge delega in commento adottò, innanzitutto, il principio cardine di alterità del ruolo del pubblico ministero rispetto agli organi giurisdizionali: la limitazione della libertà personale può quindi avvenire solo per atto del giudice e non più anche del pubblico ministero, a cui viene sottratta anche la competenza di convalida del fermo e dell'arresto.

Successivamente, si preoccupò di introdurre un ulteriore principio garantistico: l' "impugnabilità, anche nel merito, del provvedimento che dispone la misura, nonché quello che dispone la convalida del fermo e dell'arresto, dinanzi al tribunale in camera di consiglio, nel contraddittorio fra pubblico ministero e imputato". La direttiva in commento,

Cfr. Pisapia, Orientamenti per una riforma della custodia preventiva nel processo

33

penale, in Riv. d. proc.,1965, p. 89.

Giova forse ricordare che risale al 1965 il primo disegno di legge delega

34

presentato dal Governo, e che l'approvazione definitiva della legge delega è avvenuta solo nel 1974.

(24)

quindi, oltre a precisare l'estensione del controllo del giudice, dettò anche le modalità procedurali, incentrate sul contraddittorio tra le parti ( ), ma non individuò l'organo 35 competente, indicandolo genericamente come 'tribunale'.

Ciò che si ritrova in tutti i progetti, compreso quello adottato dalla legge delega del 1974, è essenzialmente una duplice direttiva: da una parte si vuole la netta separazione tra funzione inquirente e potere di intervento e controllo sulla libertà dell'inquisito; dall'altra si mira a garantire l'esigenza di tempestività della verifica del merito dei provvedimenti de

libertate; e infine, l'essenza di tutti i vari apporti è quella di

garantire all’imputato un controllo sul merito del provvedimento, ovvero sulla concreta sussistenza dei presupposti della misura, con particolare riferimento agli indizi a suo carico e alle ragioni cautelari fondanti e della misura, ai principi di gradualità e adeguatezza della misura stessa.

La legge delega inoltre, non lasciò dubbi circa la efficacia sospensiva o meno, delle impugnazioni del pubblico ministero, enunciando a chiare lettere la "immediata esecutività del provvedimento che pone in libertà l'accusato, anche in pendenza di impugnazione da parte del pubblico ministero". La soluzione non può essere diversa per le impugnazioni dell'imputato verso i provvedimenti che lo sottopongono a misure cautelari, nonostante che la legge delega sul punto non si sia espressa, data l'evidenza delle ragioni che suffragano tale affermazione.

La legge, che imponeva la creazione di un nuovo codice entro il termine di due anni dall'entrata in vigore della legge stessa, prorogato successivamente di un anno, fu seguita da un

Addirittura ci fu una proposta,alquanto particolare, dell'on. Valiante sull'intervento in

35

contraddittorio anche del giudice istruttore, in quanto più informato circa le esigenze cui il provvedimento dovrebbe servire.

(25)

progetto preliminare del codice di procedura penale nel 1978, che regolamentava, negli artt. 298 e 299, l'appello e il successivo ricorso per Cassazione avverso le ordinanze de

libertate, assicurando tempestività del controllo con la

previsione di un termine (seppur ordinatorio) di dieci giorni dalla ricezione degli atti per la decisione, separazione delle funzioni, individuando l'organo competente in base allo schema classico delle impugnazioni (l'appello proposto verso le ordinanze emesse dal pretore o giudice istruttore era di competenza del tribunale, quello sui provvedimenti emessi in giudizio dal tribunale era deciso dalla corte d'appello, i provvedimenti emesse dalla corte d'assise, infine, erano impugnati davanti alla corte d'assise d'appello) ( ). Quanto al 36 provvedimento coercitivo emesso in grado di appello, si superò l'impasse stabilendo che la competenza spettava alla Cassazione con una cognizione estesa al merito.

Il progetto preliminare, seppur con molte difficoltà, riuscì a creare un sistema, nel complesso soddisfacente e sufficientemente esauriente, tuttavia, le difficoltà tecniche legate all'innesto della riforma su strutture già esistenti, e soprattutto, l'allarme sociale creato dal dilagare della violenza politica armata, che si tradusse in quegli anni in numerosi interventi legislativi conosciuti come 'legislazione dell'emergenza', crearono una sorta di immobilismo, che rischiò di far affossare definitivamente il progetto di riforma orientato

Il problema di quale dovesse essere il giudice competente nasceva dal fatto che la

36

legge delega, indicando tale organo genericamente come 'tribunale', sembrava indicare come unico giudice competente il tribunale. Ma la soluzione fu presto abbandonata perché non in sintonia con il sistema dei rapporti tra organi giudiziari, dato che si sarebbe verificata la situazione per cui il tribunale fosse competente per l'appello dei provvedimenti di un altro tribunale, o addirittura di una corte d'appello.

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verso principi più garantistici della libertà personale dell'imputato ( ). 37

11. Proposte di legge sul 'tribunale delle libertà'.

Come di consueto, il legislatore, per uscire da questa impasse, abbandonò l'idea di una riforma integrale, per intervenire con provvedimenti settoriali e novellistici.

Il primo tentativo fu rappresentato da un DDL del 1978, che fu poi ripresentato in termini sostanzialmente identici nella successiva legislatura ( ). 38

Esso prevedeva la competenza di un unico giudice collegiale per le impugnazioni di tutti i provvedimenti de libertate, attraverso la istituzione di una o più sezioni presso ogni tribunale, composte in modo da funzionare continuativamente e formate da magistrati che ogni due anni venivano sostituiti (Art. 1, DDL 396/1979).

Nel disegno di legge in esame non si ignorò il problema della necessaria riorganizzazione degli uffici giudiziari, infatti, nella relazione che accompagnava il DDL si affermava che “all’aumento di carico dei tribunali corrisponderà una diminuzione di quello delle sezioni istruttorie e che i relativi spostamenti saranno tempestivamente realizzati con opportuni

Cfr. Coppetta, Primi appunti sul 'tribunale delle libertà', in Giust. Pen, 1982, parte

37

terza, p. 532.

Ci si riferisce al DDL 1488 del 4 Dicembre 1978, riprodotto successivamente nel

38

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provvedimenti amministrativi del Consiglio Superiore della Magistratura anche senza apposita normativa legislativa” ( ). 39 Il disegno di legge si esponeva a rilevanti critiche: in primo luogo, vi erano dei problemi organizzativi per gli uffici di minori dimensioni, nei quali sarebbe stata difficile la creazione di una sezione con dei giudici stabilmente predisposti alla funzione, oltre che garantire la rotazione dei magistrati stessi, con la conseguenza che si sarebbe profilato il rischio di una decisione del ‘tribunale delle liberta’ sostanzialmente anticipatrice della decisione di merito. In secondo luogo, nonostante la mens legis fosse quella di prevedere dei termini stringenti per la proposizione e la decisione dell’appello (l’art. 4 del disegno di legge prevedeva infatti un termine di otto giorni dalla notifica del provvedimento per proporre l’impugnazione e un ulteriore termine di otto giorni dalla ricezione dell’atto in cui il giudice avrebbe dovuto decidere), si prevedeva all’art. 4, comma 7 che, se le parti avessero presentato motivi e memorie dopo l’impugnazione, il termine per la decisione sarebbe stato di quindici giorni da quello della presentazione dell’ultimo atto. Conseguenza di tale previsione, sarebbe stata uno “ slittamento,praticamente senza termine, del giudizio”, perché le parti con il deposito di memorie avrebbero potuto prorogare discrezionalmente il termine stesso.

Ultimo, ma non meno rilevante problema, era causato dal fatto che l’art. 4, al fine di non violare il segreto istruttorio, prevedeva un controllo limitato alla motivazione, in particolare all’esistenza di sufficienti indizi o al fatto che il provvedimento si basasse su un “evidente travisamento dei fatti”. Si introduceva, in conclusione, un appello che non prevedeva un

Relazione contenuta in Larosa, Disegno di legge sull’istituzione dei tribunali della

39

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controllo di merito, ponendosi in antitesi anche con la legge delega del 1974, aggirando e non risolvendo la problematica centrale delle impugnazioni de libertate.

Un successivo progetto di riforma, sempre parziale, è rappresentato dal disegno di legge 1679 del 14 Maggio 1980, presentato dal Ministro di Grazia e Giustizia Morlino.

Tale progetto ebbe il merito di proporre una soluzione che utilizzava le strutture già esistenti, ma operò una selezione di provvedimenti impugnabili nel merito: si ritennero impugnabili nel merito solo gli ordini e mandati di cattura emesse in fase istruttoria (perchè quelli messi a seguito di impugnazione di decisioni sulla libertà personale avevano già sufficienti garanzie e non occorreva un secondo giudizio) e il decreto di convalida dell’arresto (mentre si escludeva l’impugnabilità dell’ordine o mandato di arresto data la sua provvisorietà).

Non si dette una disciplina soddisfacente nemmeno alle esigenze di speditezza processuale perché i termini dovevano essere quelli predisposti in via generale per l’appello, così come l’intero procedimento: in questo modo però, si derogava totalmente alla disciplina del segreto istruttorio, che veniva meno completamente dato che era necessari oingrare il contraddittorio tra pubblico ministero e difesa, la quale doveva avere la possibilità di visionare gli atti.

Anche nel 1981 vide la luce una proposta di legge, la n. 2371,formulata da Rizzo e Napoletano, che teneva conto di tutte le problematiche emerse nei dibattiti scaturiti dai precedenti progetti.

La presente proposta si discostò nettamente dalla legge delega e dai precedenti DDL, perché introdusse la previsione di un ‘tribunale delle libertà’ competente, non già per il riesame nel merito, quindi in seconda battuta, del provvedimento

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restrittivo, ma per l’emanazione direttamente in prima battuta dei provvedimenti de libertate. Le ragioni di questa scelta sono enucleate nella relazione introduttiva al DDL n. 2371: si è ritenuto che fosse opportuno anticipare il momento in cui si controlla l’emanazione dei provvedimenti in questione, dato che essi erano sempre più visti come anticipazioni della retribuzione penale.

La competenza per l’emanazione del provvedimento quindi, spettava al tribunale delle libertà, istituito presso ogni tribunale e formato da uno o più sezioni, composte da magistrati individuati con delle tabelle formate ogni anno dal Consiglio Superiore della magistratura. Si superarono anche le difficoltà organizzative dei piccoli uffici, ammettendo che non ci fosse incompatibilità tra il giudice del tribunale delle libertà e il giudice del merito.

Tale affermazione, contenuta nell’art. 3 del disegno di legge, è senza dubbio discutibile, ma forse ancora più discutibile sembra la curiosa posizione assunta dal Consiglio Nazionale forense che affermava la compatibilità solo se il giudice del tribunale delle libertà si fosse pronunciato negativamente sulla proposta del provvedimento restrittivo, perché il rigetto non implicherebbe un pronunciamento sul merito, ma solo sulla pericolosità del soggetto, o sul pericolo di fuga, mentre un accoglimento della richiesta cautelare implicherebbe un giudizio, ancorché sommario, che coinvolge il merito dell’accusa, quindi le posizioni sarebbero incompatibili ( ). 40

Altro aspetto considerato dal DDL fu assicurare la tempestività della decisione: per soddisfare tale esigenza, oltre a termini brevi per la decisione, si affermò che il giudice istruttore avrebbe potuto, nei casi di urgenza, emanare un provvedimento

Cfr. Notiziario del Consiglio Nazionale Forense, in Rass. forense, 1981, p. 101.

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di arresto che però successivamente avrebbe dovuto passare sotto il vaglio del tribunale delle libertà. Inoltre, si affermò la necessaria trasmissione in copia degli atti con la richiesta motivata della cattura, sempre per esigenze di speditezza della decisione, andando però a scontrarsi con l’esigenza opposta di mantenere il segreto istruttorio. Si ritenne, però, che tale deroga non avrebbe dovuto destare troppe preoccupazioni perché gli atti rimanevano comunque in ambito interno all’apparato giudiziario.

Una fondamentale differenza tra questo DDL e i precedenti, basati su un controllo in seconda battuta del tribunale delle libertà, stava nel ruolo dell’impulso di parte: nei DDL precedenti, era onere della parte rivolgersi al tribunale delle libertà per ottenere un controllo sull’operato del giudice istruttore; nell’ultimo DDL analizzato, invece, il privato non avrebbe avuto tale onere, perché la quesito libertate si sarebbe originata automaticamente con la richiesta del provvedimento da parte dell’organo istruttorio ( ). 41

12. Verso la stesura definitiva

La Commissione giustizia della Camera dei deputati approvò un disegno di legge il 17 dicembre 1981, n. 1703, che riuniva il DDL 1679 del 1980, presentato dal Ministro Morlino, e la proposta dei legge Rizzo-Napoletano n. 2371 del 1981, ampliando la materia di riforma fino a comprendere l’intera materia della custodia preventiva.

Cfr. Chiavario, Tribunale delle libertà e libertà personale, in Tribunale delle libertà e

41

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Prima di compiere una puntuale esegesi delle norme del disegno di legge, occorre puntualizzare il significato complessivo di questo progetto.

Dopo anni di legislazione dell’emergenza, per la prima volta viene sperimentato un nuovo modo di riforma, perché non si opera più attraverso interventi novellistici settoriali, ma attraverso una modifica più ampia del processo penale, anticipando una parte di un progetto organico di più ampia portata, nell’ottica di una rinnovamento graduale del processo penale.

La scelta operata dal legislatore è stata quella di attribuire a un organo collegiale la competenza di riesame nel merito dei provvedimenti restrittivi, lasciando inalterato il potere di emissione degli stessi in capo agli organi istruttori.

Per capire a fondo la scelta definitiva, che ha accantonato definitivamente quindi l’opzione di una competenza in prima battuta del nuovo tribunale delle libertà, forse è utile menzionare le scelte che si prospettavano al legislatore e il rapporto tra esse e i diversi sistemi processuali.

In un sistema di impronta accusatoria, non è necessario approntare un sistema dai controlli in tema di carcerazione preventiva, perché in esso vige il principio di separazione delle funzioni processuali, ed è proprio in tale principio che risiede la garanzia per l’accusato, perché assicura un controllo reciproco tra le parti. Al contrario, in un sistema inquisitorio, basato sul cumulo di funzioni, l’unico strumento di controllo è di tipo successivi: il sistema dota di poteri assoluti il magistrato inquirente, poi, dato che questi è un uomo e può sbagliare, si prevede una impugnazione affidata a un giudice superiore, dotato degli stessi poteri.

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Innanzitutto, il progetto operò un allargamento dei provvedimenti suscettibili del controllo di merito, includendo anche il provvedimento di convalida dell’arresto o del fermo, “così da potersi affermare che nessuna misura cautelare istruttoria sfugga alla verifica da parte del tribunale delle libertà” ( ). 42

Si occupò, inoltre, di disciplinare in modo specifico l’individuazione dell’organo competente: l’art. 19 specificò che la competenza spettasse a una o più sezioni del tribunale, composte da magistrati individuati annualmente dal Consiglio Superiore della magistratura, che si occupava anche di variare, ove possibile, la composizione ogni anno.

Se la decisione doveva avvenire in così breve termine (tre giorni prorogabili di altri tre), era necessario che il tribunale competente fosse anche molto vicino in senso spaziale all’organo di cui si impugnava il provvedimento, infatti si previde che il tribunale competente dovesse essere quello che aveva sede nel circondario in cui si trovava l’ufficio dell’autorità che ha emesso il provvedimento (art. 6). Permanevano comunque i gravi problemi legati all’incompatibilità tra il giudice che si pronuncia sul provvedimento restrittivo e il giudice del merito, soprattutto nei tribunali di più piccole dimensioni.

Altre gravi mancanze del disegno di legge in questione sono rappresentate dal segreto istruttorio e dalla garanzia del diritto di difesa. Nel riserbo del progetto in proposito, si deve ritenere che non solo il difensore non può prendere visione degli atti, ma non può nemmeno esporre le proprie ragioni al giudice.

Coppetta, Primi appunti sul tribunale delle libertà, in Giust. Pen. 1982, c. 539.

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13. La legge 12 Agosto 1982, n. 532.

Dalla sintesi dei precedenti DDL e dal dibattito che essi hanno suscitato in dottrina, è scaturita la legge n. 532/1982 recante “disposizioni in materia di riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà personale e dei provvedimenti di sequestro- Misure alternative alla carcerazione preventiva”.

Da notare, che, a differenza dei precedenti disegni di legge, che facevano espresso riferimento all’istituto del ‘tribunale delle libertà nella denominazione o nel testo stesso, la legge in commento elimina ogni etichetta emblematica; tuttavia, è conosciuta comunque come la legge istitutiva del ‘tribunale delle libertà’ proprio perché esprime la “superiore e generale esigenza di un controllo giudiziario effettivo su questo momento cruciale e drammatico del processo, in cui viene coinvolto in nome delle ragioni della giustizia un fondamentale diritto individuale costituzionalmente garantito” ( ). 43

Ancora da un punto di vista generale, la legge si pone all’attenzione per due caratteri fondamentali: anzitutto la legge rappresenta l’adempimento di un impegno internazionalmente assunto dall’Italia con la ratifica della CEDU, basandosi sulla precisazione che, nonostante la normativa europea richieda un controllo sulla “legalità”, il concetto nella mentalità anglosassone, che ha per larga parte presieduto a quegli accordi, è ben più vasto della nostra “legittimità” e si può dire con certezza che abbraccia anche il merito del provvedimento.

Vassalli, Premessa alla l. 12/08/1982, in Legisl. pen, 1983, p. 58.

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Il secondo carattere fondamentale è rappresentato dalla netta inversione di tendenza rispetto alla legislazione degli anni ’70, incentrata sulla lotta al terrorismo e ai reati più gravi. Si può anzi dire, che rappresenta la prima legge dal 1974 che non incide negativamente sulla libertà personale nel processo penale (basta pensare a qualche intervento precedente per capire la netta differenza: allungamento dei termini della carcerazione preventiva- l. n. 220/1974; ripristino della correlazione tra obbligatorietà del mandato di cattura e concepibilità della libertà provvisoria e ritorno all’effetto sospensivo dell’impugnazione del pubblico ministero- l.n. 15/1980) e che afferma il “ritorno a principii di civiltà processuale” ( ). 44

La legge operò delle scelte compromissorie tra le varie soluzioni prospettabili, cercando di ridurre al minimo i problemi evidenziati nel corso del dibattito.

Innanzitutto, ponendo l’attenzione sulle scelte lessicali, è stato introdotto un 'riesame' nel merito, non qualificato, quindi, come appello. Il motivo di questo allontanamento risiede nella volontà di sottrarre il riesame a una disciplina ritenuta di ostacolo alla speditezza delle indagini e alla tutela del segreto istruttorio, e forse anche nella volontà di circoscrivere la portata del controllo al fine di evitare che esso potesse incidere sull'intera regiudicanda ( ). 45

Non si tratta quindi di appello, sia per la formulazione adottata, sia per la disciplina che in concreto viene riservata al riesame. Le opinioni espresse circa la natura del riesame sono, però, le più diverse: secondo alcuni autori, si colloca all'interno dello schema delle impugnazioni, definite come strumenti per denunciare l'ingiustizia di un provvedimento azionabili ad

Vassalli, Premessa, op. cit, p. 61.

44

Cfr. Relazione della 2^ commissione permanente(giustizia), 27/7/1982, rel. Bausi.

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iniziativa di parte. Tale costruzione non è contraddetta dall'art. 190 c.p.p., che afferma il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, perché la norma non prestabilisce i mezzi di impugnazione ammissibili.

Nello specifico, il riesame sarebbe da classificare all'interno dei mezzi di 'gravame', che permettono di devolvere al giudice competente l'intero tema da decidere ( ). 46

Secondo altri, invece, si pone come un rimedio sui generis, quindi distinta dal sistema di impugnazioni.

Altri autori qualificano il riesame come una "fattispecie a formazione progressiva", in cui le due ordinanze, quella applicativa e quella del tribunale in sede di riesame, si integrano e si completano a vicenda, dato che la richiesta di riesame proposta dall'imputato consente al tribunale di emettere una pronuncia di conferma integratrice del provvedimento.

Addirittura c'è che inquadra il riesame come un ricorso gerarchico improprio, facendo leva sugli aspetti specifici di questo rimedio, che lo differenziano nettamente dagli altri sistemi di impugnazione, e anche sulla alternatività con il ricorso per Cassazione, che richiamerebbe chiaramente la regola del concorso alternativo tra il ricorso in via amministrativa e il ricorso in via giurisdizionale nota al diritto amministrativo. Il rimedio del riesame e del ricorso per Cassazione sono infatti concepiti come due sistemi paralleli, ovvero opera la regola "electa una via non datur recursus ad alteram". Si conclude, quindi, che "il riesame di merito dei provvedimenti restrittivi appare inserito tra le c.d.impugnazioni [...] solo per comodità di raggruppamento" ( ). 47

Cfr. Illuminati, Commento art. per art. della l. 12/8/1982 n. 532, p. 101.

46

Giambruno, Spunti per un inquadramento del riesame sui provvedimenti cautelari

47

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Attualmente, la dottrina maggioritaria ritiene che il riesame, e tutte le impugnazioni cautelari in genere, sia da classificare nell'ambito delle impugnazioni, non solo per la chiara indicazione codicistica (il libro IV, titolo I, capo IV è intitolato "impugnazioni"), ma anche per una serie di caratteristiche che lo accomuna a questi istituti: la necessaria istanza di parte per azionare il rimedio, finalizzato alla rimozione in tutto o in parte del pregiudizio sofferto; la tassatività nell'indicazione dei soggetti che possono inoltrare l'istanza e delle ordinanze impugnabili; le decisioni che possono essere adottate dal giudice del riesame, che richiamano quelle tipiche dei mezzi di impugnazione (annullamento, conferma, riforma).

Non sarebbe contrastante con tale ricostruzione il fatto che nella richiesta di riesame non è necessario indicare i motivi, volti a delimitare l'ambito del devolutum, perché questa caratteristica è comune all'opposizione al decreto penale di condanna, pacificamente ricondotta tra i mezzi di impugnazione. L'unico elemento distonico di questo inquadramento, è rappresentato dalla perdita di efficacia del provvedimento in caso di mancato rispetto dei termini.

Va, ad onor del vero, precisato però che il riesame presenta comunque connotati peculiari rispetto alla generale categoria di riferimento, dovuti al particolare thema decidendum devoluto al giudice del controllo.

Il tema cautelare, infatti, è per sua natura instabile, basato su elementi mutevoli, che permettono di definire l'ordinanza cautelare con un provvedimento rebus sic stantibus. Per questo la decisione cautelare dovrà giovarsi sempre della corrispondenza con l'attuale situazione, rifiutando ogni stabilità definitiva al provvedimento.

(37)

Conclusivamente, quindi, si può affermare che ci sono disposizioni dettate dal libro IX del codice di procedura penale che possono essere applicate anche alle impugnazioni cautelari, anche in ragione del fatto che alcune norme specifiche che riguardano le impugnazioni delle misure cautelari dettano una disciplina derogatoria rispetto a quella generale, che si spiega solo in relazione a una normale applicabilità delle altre disposizioni.

Non si può, però, giungere ad una completa e aprioristica applicazione della disciplina, anche nel silenzio del legislatore, che non sempre è indice di uniformità di trattamento.

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Capitolo secondo

Il riesame nella disciplina attuale.

Sommario: 1. Legittimazione a ricorrere. - 2. La

richiesta di riesame: il termine. - 3. I provvedimenti

riesaminabili. - 4. Il Tribunale della libertà:

competenza territoriale. - 5. Il procedimento: i tempi

processuali. - 6. (Segue) Il rito camerale e il

contraddittorio. - 7. (Segue) La partecipazione delle

parti. - 8. La cognizione del giudice del riesame. -9. I

poteri del Tribunale della libertà. - 10. La tipologia di

decisioni. -11. Il termine entro cui rendere la

decisione. - 12. La motivazione del provvedimento

limitativo della libertà personale.

1. Legittimazione a ricorrere.

Come ampiamente affermato nei paragrafi precedenti, l’istituzione di un ‘Tribunale delle libertà’ si è fin da subito posta come adempimento di un dovere internazionale dell’Italia rispetto agli obblighi posti dalla Convenzione Europea dei diritti

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dell’uomo, quindi è importante che si valuti la conformità dell’istituto rispetto alle norme convenzionali.

Perché il rimedio predisposto sia conforme alla pretesa internazionale, deve essere, oltre che effettivo e con un carattere di giurisdizionalità, anche accessibile, sia in astratto che in concreto: astrattamente infatti può dirsi esistente il rimedio, anche se poi nella pratica il soggetto tutelato dal rimedio stesso non ha la possibilità di usufruirne.

Astrattamente, il riesame è un rimedio accessibile in quanto la richiesta di riesame può essere posta a prescindere dalla fase processuale nella quale è disposta la restrizione. Addirittura la giurisprudenza ritiene che si profili un interesse all’impugnazione autonoma dell’ordinanza che dispone la misura anche dopo che sia pronunciata la sentenza di merito, prima di tutto, perché la sentenza di merito, pur potendo assorbire la valutazione in ordine alla gravità indiziaria, non è in grado di precludere la valutazione sull’esistenza delle esigenze cautelari; ma poi anche perché la decisione di annullamento della misura pronunciata dal tribunale delle libertà o dalla Corte di cassazione è un presupposto indefettibile per l’integrazione del diritto a un’equa riparazione ( ). 48

Per quanto riguarda le possibilità concrete di introduzione del rimedio, si deve convenire che, anche in questo caso, il sistema delineato dall’ordinamento pare conforme al dettato internazionale.

Si adotta, infatti, un concetto ampio di libertà, idoneo a includere anche quelle che possono definirsi mere limitazioni di movimento (come ad esempio, il divieto di espatrio),

Cass., Sez. II, 3 Ottobre 2000, Laratta, in C.E.D. Cass, n. 217595.

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