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Un altro strumento di controllo del potere cautelare: l’appello

6. Le formule decisorie.

Abbiamo già notato come il procedimento di appello richiami, per molti versi, quello di riesame; ma, il troppo esplicito riferimento solo ad alcuni commi della norma sul riesame

Vedi sent. 18 dicembre 1996, n. 3183.

(ovvero i commi 1,2,3,7), rende impossibile applicare analogicamente, mutuandoli da tale norma, gli aspetti non espressamente regolati dall'art. 310 c.p.p. Preso atto di ciò, e della mancata specifica previsione di provvedimenti tipici di conclusione del procedimento di appello, si deve ricercare altrove lo schema dei provvedimenti definitori.

Si ritiene che, anche in questo caso, si possano applicare i principi tipici delle impugnazioni in generale, ovvero l'art. 605 c.p.p. che prevede le due conclusioni tipiche dell’appello.

Prima della riforma del 1982, invece, l’appello cautelare era ritenuto profondamente diverso rispetto all’appello di merito, perché “compenetrato con la fase istruttoria del processo penale, soggiacendone alle regole” ( ), da ciò deducendo che il 95 giudice avesse a compiere la più ampia rivalutazione della situazione processuale, anche su elementi non conosciuti dal primo giudice e quindi non fosse vincolato dal divieto di

riformatio in peius. Tale conclusione avvicinava l’appello

cautelare più all’appello istruttorio, proponibile verso il provvedimento emesso al termine della fase processuale compiuta dal giudice istruttore, dal pubblico ministero o dal pretore.

Le decisioni possibili allora, si riducono a tre: inammissibilità, conferma o riforma del provvedimento del primo giudice; alla riforma può fare seguito o l'annullamento in toto del provvedimento impugnato, oppure l'applicazione di una misura diversa.

L'inammissibilità si configura quando il rapporto processuale non è correttamente costitutito, ovvero mancano le condizioni di appellabilità soggettive e oggettive: ciò avviene quando l'impugnazione è proposta da un soggetto non legittimato (ad

Chiavario, Tribunale della libertà e libertà personale, op. cit., p. 177.

es. un p.m diverso da quello dell'ufficio del giudice che ha emesso il provvedimento) o senza interesse a impugnare, oppure quando il provvedimento non rientra tra quelli appellabili, o mancano i requisiti di forma dell'atto di appello (ad es. manca l'indicazione dei 'capi e punti' che segnano il limite alla cognizione del giudice dell'appello); non è, invece, causa di inammissibilità, la errata qualificazione dell'impugnazione, infatti il giudice che la riceve deve valutare la reale volontà dell'impugnante ed, eventualmente, convertire l'impugnazione nel corretto strumento di gravame. Anche in questo caso, si applica una norma mutuata dal giudizio di merito, l’art. 568, comma 5 c.p.p., che afferma la ammissibilità dell’impugnazione a prescindere dal nomen iuris che la parte le ha attribuito. In particolare, è necessario, perché operi la conversione, che vi siano tutti i requisiti della impugnazione corretta: se, per esempio, viene proposta richiesta di riesame, laddove invece, doveva essere proposto l’appello, perché il giudice possa convertire il mezzo di gravame è necessario che nella richiesta di riesame siano indicati anche i motivi, dato che su questo punto i due strumenti divergono.

Per l'analisi delle altre formule definitorie dell'appello giova ripetere che, nell'ambito della devoluzione operata attraverso i motivi di appello, il giudice ha una piena cognizione degli atti, che gli attribuisce gli stessi poteri del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. Il giudice dell'appello, quindi, se ravvisa un vizio nel provvedimento, non deve annullare e rinviare ad altro giudice per la determinazione circa il mantenimento o meno della restrizione della libertà, ma deve pronunciarsi direttamente, integrando il provvedimento appellato. L'appello, quindi, riassume in sé "un profilo rescindente, costituito dall'individuazione del vizio di validità

dell'atto e dall'annullamento dello stesso, sia un profilo rescissorio, costituito da un esame del merito della vicenda" ( ). Lo stesso ragionamento, viene ormai 96 comunemente applicato dalla giurisprudenza al vizio di motivazione: si ritiene che il giudice dell’appello non possa annullare il provvedimento carente di motivazione o con motivazione insufficiente e rinviare al giudice di primo grado, ma debba provvedere a completare il provvedimento in quanto è un giudice di merito e il potere di annullamento con rinvio compete esclusivamente al giudice di legittimità. Tale orientamento sembra da criticare, almeno in parte: le esigenze di economia processuale, che portano il legislatore all’affermazione della regola eccezionale posta dall’art. 604 c.p.p. in materia di appello di merito, non possono essere ritenute preminenti rispetto al diritto inviolabile della libertà personale. Inoltre, tale orientamento giurisprudenziale finisce per compromettere anche il diritto di difesa, perché costringe l’interessato all’impugnazione a muovere le sue censure, fra l’altro obbligatorie, ‘al buio’, senza potersi basare sulla motivazione. Per questo, sarebbe forse più corretto distinguere i casi di motivazione lacunosa, insufficiente o contraddittoria (per i quali ammetter il potere di integrazione) dai casi di completa mancanza della stessa.

Occorre, ora, sottolineare una distinzione, che deve operarsi in caso di riforma del provvedimento impugnato, tra il caso di appello del solo indagato e quello in cui appelli anche il pubblico ministero.

Nel primo caso, trova operatività il principio generale del divieto di reformatio in peius, delineato dall’art. 597, comma 3

Guadalupi, Fonntana, Le impugnazioni delle misure cautelari personali,

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c.p.p.: in difetto di una deroga espressa a tale regola, non è possibile, in sede di riforma, applicare una misura cautelare più afflittiva di quella applicata dal primo giudice. La giurisprudenza è unanime nel ritenere che tale norma, concepita per le impugnazioni della sentenza di merito, può ragionevolmente applicarsi anche alle impugnazioni cautelari. Nel secondo caso, invece, il giudice non incontra tale limite, ma deve rispettare il limite della devoluzione e quello di non pronunciarsi ultra petitum, quindi, non potrà comunque applicare una misura più grave di quella chiesta in prima istanza dal pubblico ministero e negata dal giudice di prima istanza. Si poneva in passato il problema dell’adottabilità di una misura meno afflittiva di quella chiesta dal pubblico ministero, dato che nel 1991 era stato introdotto il comma 1 bis all'art. 291 c.p.p. che prevedeva la necessità di pronuncia del giudice conforme alla richiesta del pubblico ministero qualora egli avesse formulato la richiesta di applicazione della misura cautelare in termini di esclusività, andando così a circoscrivere il thema decidendum del giudice ( ). Tale disposizione è stata 97 tuttavia abrogata con legge 8 Agosto 1995, n. 332, quindi oggi non sembra potersi individuare un limite alla possibilità da parte del giudice del l'appello di pronunciarsi applicando una misura meno afflittiva di quella chiesta dal pubblico ministero è negata dal giudice di prime cure.

La norma si applicava anche al giudice dell’appello, in quanto il giudice del

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controllo non avrebbe potuto avere una cognizione più estesa di quella del primo grado, vedi sent. 16 dicembre 1993, Aricò, in Giust. pen, 1994, III, p. 372.

7. L’esecuzione della decisione di appello: