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Sommario: 1 Legittimazione a ricorrere 2 La richiesta di riesame: il termine 3 I provvediment

5. Il procedimento di riesame: i ‘tempi’ processuali.

L’art. 309 c.p.p. disciplina analiticamente il procedimento di riesame, con una attenzione del tutto particolare per i ‘tempi’ dedicati al procedimento stesso: dobbiamo infatti tener conto che la restrizione della libertà ante iudicium si pone in netto contrasto con la presunzione di non colpevolezza affermata dall’art. 27 Cost., quindi, deve garantirsi uno svolgimento rapido del controllo di legalità della restrizione.

Proprio in quest’ottica, la Corte di cassazione ha stabilito che i procedimenti de libertate non subiscono interruzioni derivanti dalle ferie estive ( ). 69

Il termine per proporre l’impugnazione, come già osservato, viene scorporato dal termine entro il quale viene differito il colloquio tra l’indagato in vinculis e il suo difensore, sul

Vedi Cass. 8 Maggio 1996.

ragionevole presupposto che la scelta dell’impugnazione o meno del provvedimento si basa sulla fusione tra le conoscenze tecniche dell’avvocato e la determinazione dell’indagato.

Questa norma, introdotta con la legge 332/1995 recante modifiche sulla custodia cautelare, ha sicuramente un merito, ossia quello di garantire una volta di più il diritto di difesa del soggetto privato della libertà personale, ma non può negarsi un impatto non positivo perché, inevitabilmente, si provoca un allungamento del tempo entro cui chiedere un controllo sulla misura personale.

Come già osservato, in origine l’impugnazione doveva essere presentata al giudice che ha emanato la misura, ma nella disciplina attuale l’impugnazione deve essere presentata direttamente nella cancelleria del giudice del riesame, individuato in base alle predette regole di competenza.

A questo punto devono essere effettuate delle attività preparatorie all’accertamento, dando vita, quindi, a una fase apparentemente di passaggio, ma molto importante perché dà vita ai c.d tempi morti della procedura, che incidono sia sulla possibilità materiale di creare una rete di conoscenza e informazioni necessarie per la realizzazione del controllo da parte del collegio, sia sulla decorrenza del tempo massimo per l’esecuzione del controllo stesso.

Una volta ricevuto l’atto di impugnazione, è competenza del Presidente del collegio, ai sensi dell’art. 309, comma 5, curare che al Tribunale della libertà siano trasmessi gli atti concernenti la vicenda cautelare.

Prima osservazione da effettuare è che la competenza attribuita al Presidente è quella di curare la trasmissione degli atti, mentre materialmente l’atto di avviso all’autorità procedente di procedere al deposito, è effettuato dalla cancelleria; quindi, in

concreto il Presidente è deputato al controllo del rispetto dei tempi della procedura.

In secondo luogo, da notare è sicuramente la funzione garantistica cui assolve tale attribuzione, soprattutto se paragonata alla disciplina del riesame in tema di misure cautelari reali, dove, invece, è la cancelleria stessa che dà immediato avviso all’autorità procedente, senza fare alcun cenno al Presidente del collegio.

Una evidente mancanza è che, a parte eventuali responsabilità disciplinari, non sono previste sanzioni per un avviso tardivo, che, comunque, provoca una conseguenza non irrilevante, ossia il procrastinare dell’inizio del termine per la trasmissione degli atti, con conseguente ritardo nella definizione della procedura del controllo. A fonte di queste importante esigenze garantistiche, si prevede un termine incalzante per dare avvio alla procedura (si prevede che sia dato ‘immediato avviso all’autorità procedente’), che però, se violato, non provoca sanzioni processuali, andando così a svuotare di contenuto la previsione del termine stesso.

Sulla questione si è sviluppato un acceso dibattito che ha portato a una pronuncia della Corte costituzionale.

Mentre la Suprema Corte aveva dapprima ritenuto che la mancata previsione di un termine perentorio per l’attività del Presidente del collegio non fosse lesiva delle garanzie costituzionali, perché rientrava tra i c.d. ‘tempi tecnici’ del processo, la questione è finalmente approdata alla Corte costituzionale ( ). 70

La pronuncia è stata una ‘interpretativa di rigetto’, con la quale non si è optato per una dichiarazione di illegittimità ma per una nuova interpretazione dell’art. 309 c.p.p. La questione è sorta

La sentenza a cui ci si riferisce è la n. 232 del 24 Giugno 1998.

dalla considerazione per cui la decorrenza del termine per la trasmissione degli atti da parte dell’autorità procedente è inopinatamente affidata a una variabile non controllabile. La Consulta, però, ha fornito una diversa interpretazione dell’art. 309, maggiormente conforme alle istanze garantistiche sottese alla norma e sostanzialmente vanificate dalla mancanza in commento: stabilisce, infatti, che il termine di 5 giorni per l’autorità procedente decorrono dalla presentazione della richiesta di riesame, perché tra la presentazione dell’impugnazione e l’avviso effettuato dal Presidente del collegio non deve trascorrere alcun lasso temporale.

Per quanto riguarda, invece, l’attività che deve compiere l’autorità procedente, essa consiste nella trasmissione, entro il giorno successivo, e comunque non oltre il quinto giorno, degli atti presentati ai sensi dell’art. 291, comma 1 c.p.p., nonché tutti gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini.

La formulazione attuale è il risultato della novella 332/1995 che ha adottato la formula ‘autorità procedente’ in luogo di quella di ‘autorità che ha emesso il provvedimento’, adottata dalla formulazione originaria dell’art. 263 ter. Tale modifica si giustifica per il fatto che le due figure possono differire in relazione al momento in cui si innesca la verifica. L'autorità cui si fa riferimento, infatti, non è solo il pubblico ministero, il quale è l'autorità di riferimento per la fase delle indagini preliminari, mentre successivamente l'autorità procedente va individuata nel giudice per le indagini preliminari una volta formulata la richiesta di rinvio a giudizio e fino a quando questo non è disposto; nel giudice del dibattimento in tutti gli altri casi nei quali il pubblico ministero ha esercitato l'azione penale ed è stato disposto il rinvio a giudizio.

In concreto possono porsi delle difficoltà nell'individuazione dell'autorità procedente quando il riesame viene proposto nel momento in cui si verifica il cambio di fase processuale: ad esempio, il provvedimento coercitivo viene adottato durante le indagini preliminari, ma viene impugnato dopo un considerevole lasso di tempo (si pensi al caso di indagato latitante), quando, cioè, il procedimento si trova già in fase dibattimentale. In questo caso l'autorità procedente potrebbe essere sia il giudice dibattimentale (che peraltro non dovrebbe conoscere gli atti ex art. 291, comma 1, perché non fanno parte del fascicolo dibattimentale) sia il pubblico ministero che ha chiesto il provvedimento coercitivo.

A tale lacuna, la Corte di cassazione ha posto rimedio ritenendo che la competenza del trasferimento degli atti al Tribunale del riesame spetta all'organo che al momento della richiesta "sta procedendo" , perché è questa l'autorità che ha la materiale disponibilità degli atti ( ). 71

Rimane irrisolto un quesito: se il pubblico ministero spedisce al giudice per le indagini preliminari il fascicolo affinché questi proceda allo svolgimento di uno degli adempimenti che gli competono, ad esempio un incidente probatorio o la proroga delle indagini preliminari, il Tribunale della libertà non può sapere che che durante il procedimento principale si stanno verificando delle vicende incidentali alle indagini preliminari, quindi, non può essere indirizzata al G.i.p la richiesta. Non solo: l'autorità procedente durante la fase delle indagini non può essere un organo chiamato a pronunciarsi su una vicenda incidentale. In verità, il fatto che il pubblico ministero non è in

Sent 12 dicembre 1995, che ha affermato il principio per cui il termine di cinque

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giorni decorre dal momento in cui il pubblico ministero riceve l'avviso, ma se questi si è spogliato degli atti del procedimento a seguito dell'esercizio dell'azione penale, il termine decorre dal momento in cui l'avviso sia dato all'autorità che attualmente procede.

possesso della documentazione potrebbe incidere sul decorso del termine, anche se l'inconveniente è più teorico che pratico perché il pubblico ministero non si priva mai completamente del fascicolo, al fine di non ostacolare e interrompere le indagini preliminari.

Anche dopo la novella del 1995 permane una lacuna circa le modalità di trasmissione degli atti quando l'autorità che dispone degli atti è diversa dal l'autorità procedente al momento dell'impugnazione: si potrebbe risolvere la questione ritenendo che il passaggio di documenti avvenga sempre con la collaborazione del pubblico ministero; quindi, destinatario del l'avviso sarà sempre il pubblico ministero, il quale, se non ha gli atti presso di sé, o comunica al giudice del riesame che l'autorità a cui si deve rivolgere è un'altra (e a questo punto il Presidente del collegio darà corso di nuovo all'avviso) oppure può "girare" la richiesta dei documenti direttamente alla autorità che li possiede.

Per quanto riguarda il termine per la trasmissione è importante notare una differenza rispetto a quella originaria dell’art. 263

ter c.p.p. abrogato: in origine, infatti, il termine per la

trasmissione era al massimo di 24 ore. Questo termine ad horas era una novità su più fronti: anzitutto, perché non sembra possa essere prorogato, a differenza, addirittura, del termine, egualmente di 24 ore, concesso agli ufficiali di polizia giudiziaria per porre l’arrestato a disposizione del giudice. Inoltre, si poteva verificare una situazione anomala, per cui l’imputato faceva impugnazione immediatamente dopo l’esecuzione del provvedimento, ancora prima che l’imputato stesso potesse essere sentito dal giudice, il che provocava l’anomalia che il Tribunale del riesame riceveva gli atti

manchevoli delle dichiarazioni dell’imputato rese in sede di interrogatorio.

Forse è proprio questa la ratio della novella 332/1995, che ha introdotto una non proprio felice espressione ("entro il giorno successivo, e comunque non oltre il quinto giorno") che di fatto permette la trasmissione degli atti entro un più lungo termine di 5 giorni.

Un cenno merita anche la questione dell’inosservanza del termine di trasmissione degli atti: la disciplina originaria non prevedeva espressamente alcuna sanzione processuale, potendo configurarsi quindi solo una responsabilità disciplinare in capo all’autore del ritardo. La stessa norma, era troppo chiara nel ricollegare la perdita di efficacia del provvedimento restrittivo alla mancata decisione nei termini da parte del Tribunale, escludendo quindi che si potesse estendere questa singolare sanzione processuale anche al caso di tardiva trasmissione. Inoltre, si era sviluppata una prassi per cui il tempo massimo per la decisione iniziava a decorrere dal momento in cui tutti gli atti fossero pervenuti al collegio, provocando, così, la inaccettabile conseguenza che il rispetto dei tempi era affidato alla ‘buona volontà’ e diligenza dell’autorità procedente.

La disciplina attuale, innovata dalla novella del 1995, ha completato la normativa, prevedendo che la perdita di efficacia della misura restrittiva è provocata anche dal mancato rispetto del termine di cui al comma 5, proprio per evitare che la tardiva trasmissione, dovuta a inadempienze dell'autorità, incida negativamente sulla durata dello stato detentivo dell’indagato. Una riflessione può e deve compiersi anche sul contenuto della trasmissione da parte dell’autorità procedente.

La norma ormai abrogata, prevedeva la trasmissione di tutti gli atti del procedimento, non limitandosi solo a quelli necessari

per decidere sull’impugnazione, differenziandosi dalla norma sull’appello de libertate, né escludendosi gli atti coperti da segreto istruttorio. Si realizzava quindi una deroga al principio di segretezza delle indagini, che si giustificava perché operava solamente tra uffici giudiziari, e permaneva invece nei confronti della difesa, che non poteva visionare tutto il fascicolo, anche perché il legislatore ha taciuto tale possibilità.

La norma attuale, invece, prevede un richiamo all’art. 291, comma 1 c.p.p., che prevede, per l’applicazione della misure coercitiva, il deposito da parte del pubblico mistero di tutti gli elementi su cui si fonda la richiesta, degli elementi a favore dell’imputato e delle eventuali memorie depositate.

Si deve escludere, come ha avuto modo di precisare la Corte di cassazione con la sent. 23 novembre 1994, che il pubblico ministero possa effettuare una ulteriore cernita del materiale da inviare al giudice del riesame, dopo aver già scelto in sede di richiesta della misura coercitiva il materiale da sottoporre al G.i.p. L'iter è quindi semplice: il pubblico ministero deposita presso la cancelleria del gip al momento della richiesta alcuni documenti che ritiene necessari e sufficienti per ottenere l'applicazione della misura; quando si tratta di trasmettere gli atti al giudice del riesame, siccome si deve garantire una seconda pronuncia autonoma, devono essere depositati gli stessi atti che si sono portati a conoscenza del gip.

La disposizione che si sta analizzando rappresenta la normativa centrale per l'integrazione del contraddittorio, che non è certamente un principio rispettato fin dall'origine all'interno del procedimento di riesame, e di cui si esamineranno i caratteri nello specifico più avanti.

6. (segue) Il rito camerale e il contraddittorio.

L’art. 309, comma 8 c.p.p. richiama per le caratteristiche del procedimento l’art. 127 c.p.p., prevedendo anche, però, delle ‘correzioni’ dovute alla particolare situazione in oggetto.

In particolare si prevede che l’avviso della data di discussione sia dato ai soggetti legittimati a partecipare alla camera di consiglio: pubblico ministero, imputato e difensore; tra l’avviso e l’udienza deve trascorrere un termine dilatorio di 3 giorni, che consiste in un termine a difesa che permette appunto alla difesa di elaborare gli argomenti necessari per realizzare il contraddittorio con l’accusa. E’ un termine effettivamente ristretto, che però pare funzionale alla esigenza di ottenere un controllo il più rapido possibile per tutelare la preminente esigenza di riottenere la libertà personale se la privazione è avvenuta contra legem.

Durante questa pausa, la difesa si occupa di studiare il provvedimento restrittivo ed eventualmente estrarre copia dei provvedimenti depositatati, come espressamente precisato dalla norma. Sul punto si era sviluppata, peraltro, una singolare linea giurisprudenziale che escludeva la correlazione tra il deposito degli atti e la possibilità per la difesa di estrarne copia, facoltà concessa solo previa autorizzazione (tra le altre, per esempio, sentenza 23 Giugno 1993), che veniva concessa da parte dell’autorità procedente (da individuarsi nel pubblico ministero) secondo un ‘prudente apprezzamento' che doveva fondare la scelta di contrastare la regola della segretezza delle indagini.

Questo termine di tre giorni per la vocatio in iudicium rappresenta già la prima deroga rispetto allo schema generale del rito camerale previsto dall’art. 127 c.p.p., il quale, invece,

prevede un termine di dieci giorni. Questa contrazione è ancora una volta dovuta alla necessaria concentrazione e rapidità che deve caratterizzare il riesame.

Abbiamo già sottolineato che questo, consiste in un termine concesso alla difesa per poter preparare una strategia difensiva e dare quindi effettività al diritto di difesa.

L’aspetto del contraddittorio nel procedimento delineato dall’art. 309 c.p.p è tutt'altro che scontato, se si confronta con la disciplina originaria dell’istituto.

Le parti non erano chiamate a partecipare all’udienza camerale, e si realizzava un ‘contraddittorio’, se così si può chiamare, solo sulla base di memorie che potevano essere depositate dalle parti fino a prima della decisione, senza essere peraltro sopportabili dalla conoscenza degli atti depositati. Così strutturato, il riesame era censurabile sotto più profili rispetto al principio del diritto di difesa: dal momento che il legislatore ha previsto una garanzia ulteriore rispetto a ciò che la Costituzione impone (era richiesta la sola ricorribilità in Cassazione per tutti i provvedimenti restrittivi della libertà personale), avrebbe dovuto prevedere un procedimento che rispettasse un livello minimo di diritti difensivi; e invece, è stato costruito un procedimento dal sapore squisitamente inquisitorio, basato sulla segretezza, sulla scrittura, sull’assenza di ogni diritto della difesa a conoscere gli atti e a partecipare materialmente all’udienza.

Nonostante che alla difesa si riconosceva il diritto di sottoporre al controllo di un giudice collegiale la misura restrittiva, era un potere di iniziativa monco, che si risolveva in una mera protesta di ingiustizia, che veniva fatta al buio perché la difesa non veniva a conoscenza degli atti fondativi la misura.

Una così grave compressione del diritto di difesa veniva spiegata dall’esigenza di giungere in tempi brevi alla decisione e inoltre da quella, condivisibile, di mantenere il segreto istruttorio sugli atti di indagine. Nella sostanza, però, "sebbene acclamato come emblema di una precisa svolta oltre l'emergenza, al momento della sua creazione il Tribunale della libertà presentava, in effetti, una malformazione congenita: concepito come antidoto contro l'arbitrio del giudice singolo, funzionava piuttosto come istituto da ancien regime " ( ). 72 Con il tempo si assisteva però a un’evoluzione della posizione della difesa, in senso più conforme ai procedimenti dell’habeas

corpus dove l’accusa scopriva alcune delle sue carte, la difesa le

contraddiceva e il Tribunale controllava se queste potevano bastare a fondare una misura restrittiva.

Un significativo cambiamento è riscontrato già a partire dalla legge delega per la creazione del nuovo codice del 1987, nel cui art.2, punto 54, figura la necessità di prendere la riesaminabilità anche nel merito dei provvedimenti restrittivi, dinanzi al Tribunale in camera di consiglio, con garanzia del contraddittorio e ricorribilità per Cassazione, e al punto 3, la necessità di garantire la parità delle parti in ogni stato e grado del procedimento.

Un primo passo in tal senso è compiuto con la ‘legge ponte’ n. 330 del 1988, la c.d. legge anticipatrice del codice di rito, in cui si consentiva la presenza del difensore in udienza, anche se al solo fine di illustrare la richiesta di riesame.

Il codice di rito attuale cerca di porre rimedio al punto debole del meccanismo di controllo prevedendo che la difesa abbia il diritto di partecipare materialmente all’udienza, interloquire

Cit. Confalonieri, verso la tutela sostanziale della difesa nel riesame delle misure

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davanti al giudice con l’accusa e di conoscere tutti gli atti che fondano l’accusa.

A questi obiettivi si collega la previsione dell'art 309 c.p.p., esaminata nel precedente capitolo, che impone la trasmissione degli atti su cui si forma la misura applicativa, che devono rimanere depositati presso la cancelleria fino al giorno dell'udienza in modo che la difesa possa consultarli ed estrarne copia. Si consente, in sostanza, di costruire una piattaforma conoscitiva comune alla triade processuale,basata sui "segreti" che il pubblico ministero ha deciso di svelare al G.i.p, perché si possa effettivamente integrare il contraddittorio e il giudice possa decidere in completa autonomia.

Al di là della petizione di principio, occorre poi valutare nella prassi applicativa se il contraddittorio e il diritto di difesa siano effettivamente rispettati e questo non sempre è dato riscontrare.

7. (segue) La partecipazione delle parti.

Il principio del contraddittorio è collegato necessariamente alla possibilità per le parti di partecipare all’udienza e intervenire nella discussione.

Come già sottolineato, il procedimento nella disciplina originaria era di gran lunga carente sotto il profilo della difesa, dato che l’art. 263 ter taceva del tutto sulla possibilità di intervento delle parti davanti al collegio. Anzi, all’imputato e al suo difensore era preclusa, oltre che la partecipazione, anche la conoscenza degli atti processuali su cui l’accusa si fondava. Era solo prevista la possibilità di presentare memorie ed istanze ai sensi dell’art. 145 c.p.p. abrogato, e per il pubblico ministero era invece controversa l’applicazione dell’art. 76 c.p.p abr., che

prevedeva l’obbligo per il giudice di sentire il pubblico ministero, salvo i casi eccettuati dalla legge. Si poteva ritenere infatti che, implicitamente, il legislatore del 1982 avesse escluso tale parere, concretizzando una eccezione ai sensi dell’art. 76 c.p.p. perché non ha specificato il termine entro cui il pubblico ministero doveva rendere tale parere, né si è previsto un diritto della difesa di controbattere al parere dato eventualmente dal pubblico ministero: in sostanza, la estrema celerità richiesta dal rito in questione, i termini molto ristretti entro cui il Tribunale doveva rendere la decisione e il fatto che fosse un rito camerale, quindi da svolgere “senza la presenza del pubblico ministero e e del cancelliere e senza intervento delle parti private e dei difensori” (art. 153 c.p.p. abr), rendeva inapplicabile tale obbligo per il giudice ( ). 73

Secondo altri, invece, sarebbe stato necessario rispettare