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Grado di apertura e arretramento delle vocali medio-basse a Santa Croce sull'Arno. Un'analisi empirica acustica.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN LINGUISTICA

Tesi di Laurea

GRADO DI APERTURA E ARRETRAMENTO

DELLE VOCALI MEDIO-BASSE A SANTA CROCE SULL’ARNO Un’analisi acustica empirica

Relatrice: Chiar.ma Prof.ssa Giovanna Marotta

Correlatore: Char.mo Prof. Franco Fanciullo

Candidata: Martina Orsi

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INDICE

INTRODUZIONE

1. LE VARIETÀ DEL REPERTORIO E L’ITALIANO DI SANTA CROCE SULL’ARNO

1.1 Le varietà del repertorio linguistico italiano 1.2 La Toscana nel panorama linguistico italiano

1.2.1 Principali caratteristiche fonetiche del dialetto fiorentino 1.2.2 Principali caratteristiche fonetiche del dialetto pisano 1.3 Santa Croce sull‟Arno

2. LE VOCALI: ASPETTI QUALITATIVI E QUANTITATIVI 2.1 La qualità vocalica

2.1.1 Parametri articolatori 2.1.2 Parametri acustici 2.1.3 Fenomeni coarticolatori 2.2 La quantità vocalica

2.3 Vocali di Pisa e vocali di Firenze

3. INTORUZIONE ALL’ANALISI

3.1 La raccolta dei dati

3.1.1 La costituzione del corpus 3.1.2 La scelta dei parlanti

3.1.3 La modalità di registrazione 3.1.4 Analisi uditiva dei dati 3.2 L‟analisi acustica

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3.2.2 La durata vocalica 3.2.3 La struttura formantica 3.2.4 Analisi statistica

4. RISULTATI DELL’ANALISI: VALORI FORMANTICI

4.1 Parlato letto. Campione maschile 4.1.1 Lavoratori

4.1.2 Studenti UniPi 4.1.3 Studenti UniFi 4.1.4 Intero campione

4.1.5.1 Lavoratori vs studenti

4.1.5.2 Studenti UniPi vs studenti UniFi 4.1.5.3 Lavoratori vs studenti UniPi 4.1.5.4 Lavoratori vs studenti UniFi 4.1.5.5 Valutazione complessiva 4.1.6 Variabili linguistiche

4.1.6.1 Bisillabi vs trisillabi

4.1.6.2 Sillaba aperta vs sillaba chiusa 4.2 Parlato letto. Campione femminile

4.2.1 Lavoratrici 4.2.2 StudentesseUniPi 4.2.3 Studentesse UniFi 4.2.4 Intero campione 4.2.5 Variabili sociolinguistiche 4.2.5.1 Lavoratrici vs studentesse

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4.2.5.3 Lavoratrici vs studentesse UniPi 4.2.5.4 Lavoratrici vs studentesse UniFi 4.2.5.5 Valutazione complessiva

4.2.6 Variabili linguistiche

4.2.6.1 Bisillabi vs trisillabi

4.2.6.2 Sillaba aperta vs sillaba chiusa 4.3 Parlato spontaneo

4.3.1 Campione maschile 4.3.2 Campione femminile 4.4 Discussione dei risultati

4.4.1 Breve excursus sulla gorgia

5. RISULTATI DELL’ANALISI: DURATA VOCALICA

5.1 Parlato letto

5.1.1 Campione maschile

5.1.1.1 Variabili sociolinguistiche 5.1.1.2 Variabili linguistiche

5.1.1.2.1 Bisillabi vs trisillabi

5.1.1.2.2 Sillaba aperta vs sillaba chiusa 5.1.2 Campione femminile

5.1.2.1 Variabili sociolinguistiche 5.1.2.2 Variabili linguistiche

5.1.2.2.1 Bisillabi vs trisillabi

5.1.2.2.2 Sillaba aperta vs sillaba chiusa 5.2 Parlato spontaneo

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5.2.2 Campione femminile 5.3 Discussione dei risultati

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RINGRAZIAMENTI

Il compito di scrivere i ringraziamenti si è rivelato senza dubbio il più difficile da affrontare durante la stesura di questa tesi. Esso ha rappresentato, infatti, per me, l‟ultimo atto di un lungo percorso iniziato molti – direi forse troppi – anni fa, durante il quale ho avuto modo di crescere intellettualmente ed emotivamente e di maturare un concreto interesse verso gli innumerevoli aspetti della linguistica, disciplina indispensabile e allo stesso tempo sconosciuta ai più.

Gran parte del merito va senz‟altro attribuito alla Professoressa Giovanna Marotta, relatrice di questa tesi, che desidero ringraziare non solo per la costanza e la cura con cui mi ha seguita, ma anche per l‟entusiasmo con il quale ha sempre condotto le sue lezioni, tra le più appassionanti della mia carriera universitaria. Ringrazio il mio correlatore Professor Franco Fanciullo, docente brillante la cui sterminata cultura mi ha da sempre affascinato ed intimorito allo stesso tempo (soprattutto in sede di esame!) e – last but not least – la Professoressa Silvia Calamai, dell‟Università di Arezzo, la quale mi più volte ha concesso il suo prezioso aiuto nel corso dell‟elaborazione della tesi, fornendo interessanti spunti e acute osservazioni. Ringrazio naturalmente anche i parlanti che si sono sottoposti all‟indagine, molti dei quali amici di vecchia data.

I ringraziamenti più speciali vanno alla mia famiglia, che mi ha sempre sostenuto nello studio e ancor più nella vita, permettendomi di realizzare i miei progetti e soprattutto di essere me stessa; mamma Silvia e babbo Giacomo ed i nonni Wilma, Vera, Luciano e Minos. Ad Ignazio, anima gemella, devo dire grazie per essermi sempre accanto, tra lacrime e risate e per riuscire a farmi sentire speciale ogni giorno in un modo nuovo; e alla sua famiglia, che mi ha accolto da subito come parte di essa, va un ringraziamento pieno di affetto. Ringrazio Marleen, Francesca, Lucia, Letizia, Betta, Hanna e tutte le amiche e gli amici che condividono con me gioie e dolori e che non si perdono mai i miei pranzi domenicali. Un ringraziamento particolare va ad Andrew, che con estrema pazienza è riuscito nell‟ingrato compito di introdurmi ai principi della statistica; inoltre, non posso non ringraziare Viola, Anna e Giada, colleghe e soprattutto amiche, senza le quali l‟università non sarebbe stata la stessa.

Merita una menzione particolare la piccola Piwi, compagna di avventure a quattro zampe, la quale, citando lo scrittore Daniel Pennac, mi ha offerto negli anni innumerevoli occasioni di meditazione. Infine, vorrei dedicare un pensiero ad una persona speciale che adesso non c‟è più, ma il cui ricordo rimarrà per sempre con me.

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INTRODUZIONE

La presente ricerca si propone di indagare alcuni aspetti del vocalismo tonico della varietà di italiano parlata a Santa Croce sull‟Arno. Questo progetto trae spunto da una serie di recenti studi a carattere sperimentale che hanno avuto come oggetto le caratteristiche acustiche del sistema vocalico dell‟area pisana (Calamai 2001; 2002; 2003a; 2003b; 2004a); in particolare, si è osservato che le vocali toniche medio-basse tendono ad essere articolate con maggiore apertura e arretramento rispetto a quanto si registra per le altre varietà compresenti sul territorio regionale toscano.

Dal momento che S. Croce si situa in un‟area di transizione tra la varietà pisana e quella fiorentina, abbiamo deciso di verificare se – e in quale misura – il vocalismo pisano eserciti un‟influenza sul sistema vocalico santacrocese, analizzando attraverso un approccio di tipo empirico le caratteristiche acustiche di tre vocali scelte come oggetto d‟esame, ovvero [a], [ɛ] e [ɔ]. A questo scopo sono state effettuate registrazioni audio con soggetti selezionati in base a determinati criteri sociolinguistici. All‟interno di una zona di transizione, infatti, i rapporti che si instaurano tra le varietà contigue dipendono in larga parte da vari fattori socioculturali che agiscono sulle scelte linguistiche dei parlanti; tali fattori intervengono a determinare quali tratti verranno accolti e quali esclusi, in un intersecarsi di forze concorrenti che agiscono a seconda del peso che una determinata varietà esercita su di un‟altra.

La considerazione di questi aspetti ci offre una visione dinamica di uno spazio geografico che non è, dunque, soltanto “un semplice contenitore di varietà lessicali, morfologiche, sintattiche e diatopicamente differenziate” (Grassi, Sobrero & Telmon 2003: 114), ma un luogo in cui i parlanti hanno un ruolo centrale nel determinare, attraverso i loro comportamenti, l‟instaurarsi di certe dinamiche che contribuiscono al modellamento della struttura linguistica. Queste dinamiche sono particolarmente vigorose ai margini delle aree linguistiche, le quali costituiscono dunque un “punto d‟osservazione privilegiato che consente di accertare le ragioni sia interne al sistema, sia esterne ([…] non esclusi i processi semantico-cognitivi cui viene sottoposto il parlante e la sua specifica visione del mondo) delle cause e delle modalità del mutamento linguistico” (Id.: 138).

Giannelli (1989: 282) aveva a suo tempo già fatto notare l‟importanza che i fattori sociolinguistici rivestono nel determinare i processi di variazione interni a singole comunità, tanto più se esse si situano al confine tra due aree linguistiche. Nel nostro caso, l‟utilizzo di tecniche e strumentazioni provenienti dalla fonetica sperimentale ha permesso di integrare le osservazioni derivanti da un approccio uditivo di stampo tradizionale,

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fornendo una descrizione oggettiva che possa essere ulteriormente verificata e servire da base di partenza per indagini successive.

Nel capitolo 1 presentiamo un quadro generale del repertorio italiano, descrivendone le diverse varietà in relazione alle dinamiche sociolinguistiche che intervengono sul territorio e soffermandoci in particolar modo sulla situazione linguistica della Toscana; noteremo, infatti, come in questa regione non sia possibile operare una netta distinzione tra lingua standard e dialetto, dal momento che, per le ragioni storiche che andremmo ad esporre, essi non si presentano come due codici alternativi, bensì come un'unica entità linguistica all‟interno della quale il parlante ha a disposizione “più registri linguistici connotati da forme più o meno „corrette‟ per funzioni diverse” (Giannelli 2000: 16). Ciò non impedisce, comunque, di poter individuare all‟interno del panorama linguistico toscano diverse aree vernacolari dotate di specifiche peculiarità, che consentano di formulare tentativi di classificazione in base a criteri fonologici, morfologici, sintattici e lessicali. In questa sede, inoltre, tratteremo nello specifico di Santa Croce sull‟Arno, sia dal punto di vista storico che sociale, fornendo i presupposti per l‟obiettivo della presente ricerca.

Il secondo capitolo si occupa di descrivere gli aspetti fondamentali che caratterizzano l‟oggetto della presente ricerca, vale a dire le vocali. In particolare, verranno esposte le caratteristiche articolatorie ed acustiche, introducendo importanti concetti a cui faremo costante riferimento durante l‟analisi empirica; inoltre, affronteremo anche la questione della quantità, la quale, benché non svolga alcun ruolo al livello fonologico in italiano, è comunque coinvolta in interessanti fenomeni fonetici che riguardano le vocali toniche. Infine, delineeremo un breve profilo del vocalismo delle varietà fiorentina e pisana di italiano, fornendo i parametri acustici che ci serviranno per procedere ad un‟analisi comparativa con la varietà santacrocese.

Nel terzo capitolo presentiamo le questioni tecniche e le scelte operative, nonché le metodologie adottate per l‟analisi empirica dei dati ottenuti attraverso l‟analisi del materiale audio proveniente da due diversi tipi di corpus, l‟uno di parlato letto e l‟altro di parlato spontaneo. Descriveremo, quindi, passo per passo il procedimento, partendo dalla creazione del materiale ad hoc su cui effettuare le registrazioni per poi passare alla scelta dei parlanti – i quali sono stati selezionati in base al grado di istruzione e al luogo in cui frequentano l‟università e suddivisi così nei tre sotto-gruppi lavoratori, studenti presso l‟Università di Pisa (UniPi) e studenti presso l‟Università di Firenze (UniFi) – fino ad arrivare alle tecniche strumentali e ai parametri utilizzati nell‟indagine acustica,il che è indispensabile per poter interpretare correttamente i risultati ottenuti, soprattutto alla luce

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di tutti quei fattori di variabilità che intervengono durante un‟indagine di tipo sperimentale condotta in ambiente non professionale.

Il quarto e il quinto capitolo sono dedicati all‟esposizione dei risultati dell‟analisi empirica. In particolare, nel capitolo 4 ci occupiamo dell‟aspetto qualitativo delle vocali, fornendo una descrizione della struttura fonetico-acustica della varietà santacrocese, anche in base alle variabili sociolinguistiche che sono state prese in considerazione durante la ricerca e che riguardano il grado di istruzione e la presenza di un assiduo contatto con una particolare area linguistica in grado di esercitare una qualche influenza (nel nostro caso, lo ricordiamo, si tratta delle varietà pisana e fiorentina). Inoltre, il nostro corpus comprende anche delle variabili linguistiche che riguardano la struttura della parola in cui è inserita la vocale target oggetto d‟indagine, in particolare il numero (due o tre) e il tipo (aperte o chiuse) di sillabe che la compongono.

All‟interno del capitolo 5, in cui presentiamo i risultati relativi alle misurazioni di durata effettuate sulle vocali toniche, le variabili linguistiche rivestiranno un ruolo molto importante, dal momento che ci daranno l‟opportunità di esprimere alcune considerazioni su due importanti questioni teoriche molto dibattute negli ultimi anni, ovvero il polysyllabic shortening effect e l‟isocronismo sillabico.

Nel capitolo dedicato alle conclusioni, interpreteremo i risultati più rilevanti emersi dall‟analisi acustica in relazione allo scopo della ricerca, cercando di sottolineare le caratteristiche più salienti delle vocali oggetto d‟esame e di individuare il ruolo delle variabili sociolinguistiche considerate.

Infine, in appendice sono inclusi il materiale che costituisce i due corpora e il questionario a cui i soggetti intervistati sono stati sottoposti allo scopo di ottenere informazioni di carattere socioculturale, utili a fornire una propria caratterizzazione sociolinguistica; esse comprendono la provenienza geografica del genitori e dei nonni, il loro grado di istruzione, le località in cui il soggetto ha frequentato le scuole (per i diversi gradi di istruzione) e i luoghi che frequenta più spesso per motivi personali, di studio o di interesse lavorativo.

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CAPITOLO 1

LE VARIETÀ DEL REPERTORIO E L’ITALIANO DI SANTA CROCE SULL’ARNO

1.1 Le varietà del repertorio linguistico italiano

Come impariamo fin dai primi anni di scuola, la lingua italiana affonda le proprie radici nel fiorentino letterario del Trecento, asceso a modello da imitare durante il Rinascimento, quando la „questione della lingua‟ si fece impellente nella penisola italiana1

. Con il Risorgimento, tale questione fu ampiamente sostenuta basandosi sull‟idea prettamente romantica “che lingua e nazione fossero legate vicendevolmente in un rapporto di corrispondenza e di stretta unità” (De Mauro 1991: p. 9). Invero, pur se il sentimento di unificazione politica – già all‟epoca assai vivace – prendeva necessariamente le mosse da un‟unificazione di tipo linguistico e culturale, la penisola italiana era popolata da realtà diverse e frammentate, ognuna con la propria dominazione, i propri usi e soprattutto la propria lingua. Per questo motivo l‟italiano non riuscì ad imporsi da subito come idioma nazionale, parlato e compreso da tutta la popolazione, rimanendo per lungo tempo una lingua soltanto scritta o, per usare le suggestive parole di De Mauro (Id.: 17), “straniera in patria”; la maggior parte della popolazione, infatti, si esprimeva correntemente nel proprio dialetto e spesso non possedeva nemmeno una competenza passiva dell‟italiano.

La varietà dei dialetti parlati sul territorio nazionale era attribuibile, oltre alla discontinuità geografica della penisola, alla frammentazione etnico-linguistica dovuta alla mancanza di uno stato unitario che fungesse da forza accentratrice in grado di rappresentare un modello a cui uniformarsi; in questo modo le principali città di ogni provincia o regione costituivano l‟unico punto di riferimento, favorendo il mantenimento dei particolarismi. Non solo la popolazione parlava quotidianamente il dialetto, ma fino a pochi decenni prima dell‟Unità esso veniva utilizzato durante le occasioni solenni e perfino dagli insegnanti nelle scuole (De Mauro 1991: 31-33). La lingua italiana, pertanto, non si offriva come strumento di uniformazione, come veicolo di espressione fruibile dalle masse, bensì soltanto come oggetto di studio acquisibile solo da pochi, incrementando così ulteriormente il divario fra le classi sociali.

Successivamente, con la costituzione dello Stato nazionale e la formazione di organi funzionali sorse l‟esigenza di adottare un linguaggio comune per comunicare in tutta la

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Promotore della lingua delle “tre corone”, ovvero Dante, Petrarca e Boccaccio, fu Pietro Bembo con il suo Prose della volgar lingua (1525). Per ulteriori approfondimenti si vedano De Mauro (1991) e Serianni & Trifone (1994).

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penisola. Oltre a questo, la scuola, la stampa, l‟industrializzazione con il conseguente spostamento di grandi masse dalle campagne verso le città e altri fattori di aggregazione ed omologazione, come la leva militare, spinsero la popolazione verso un utilizzo costantemente maggiore dell‟italiano, a scapito delle forme dialettali, conferendogli finalmente il ruolo di lingua nazionale che esso reclamava da tempo. Naturalmente, il passaggio (se di passaggio si può davvero parlare, dato che in molti casi esso non ha implicato una totale rinuncia al proprio dialetto) non è avvenuto in maniera netta, ma attraverso fasi intermedie che, da una parte, hanno portato a un‟„italianizzazione‟ dei dialetti e, dall‟altra, alla compenetrazione di elementi provenienti da questi ultimi all‟interno della lingua italiana, la quale fino ad allora, essendo stata legata per secoli alla sola scrittura, era rimasta quasi immutata nelle proprie strutture.

Il comporsi della tradizione linguistica italiana con le molteplici tradizioni linguistiche dialettali presenti sul territorio, derivante dai fenomeni sociali appena descritti, ha dato luogo alla varietà tradizionalmente definita italiano regionale o, per dirla nei termini di Poggi Salani (1981: 41), “italiano geograficamente vario”, diversificato, cioè, in relazione all‟origine e alla distribuzione geografica dei parlanti, i quali avvicinandosi alla lingua nazionale vi hanno introdotto elementi lessicali e consuetudini fonologiche e sintattiche del proprio dialetto d‟origine. Questa diversificazione su base geografica rappresenta una delle dimensioni di variazione sincronica della lingua, nello specifico quella diatopica. Oltre ad essa, la sociolinguistica ha individuato altri criteri di variazione a seconda dei fattori sociali e/o contestuali che intervengono:

- il sesso, le caratteristiche generazionali, il gruppo sociale di appartenenza contribuiscono alla variazione diastratica;

- la particolare situazione comunicativa in cui si usa la lingua dà luogo alla variazione diafasica;

- la situazione comunicativa relativa al canale o mezzo fisico-ambientale attraverso cui la lingua viene usata rappresenta la variazione diamesica2.

In pratica, le quattro dimensioni appena individuate costituiscono degli assi di riferimento lungo i quali si ordinano le varietà compresenti nello spazio di variazione della lingua. Tra queste dimensioni esiste un rapporto tale che esse si intersecano e addirittura agiscono l‟una dentro l‟altra; pensiamo per esempio al caso di un bambino italiano in fase di apprendimento, che impara una varietà sociale dell‟italiano della propria regione, entro

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Quest‟ultima definizione è stata introdotta in tempi recenti da Mioni (1983), mentre la terminologia relativa ai tipi di variazione connessi con il contesto extra-linguistico è ad opera di Coseriu (1973: 139-143).

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la quale poi sarà in grado di utilizzare diversi registri adeguati alla situazione e di distinguere le consuetudini di scritto e orale.

Inoltre, l‟eterogeneità del repertorio italiano è tale che il parlante si trova a poter disporre di diverse varietà tra loro indipendenti, ma prive di confini netti che le separano, le quali danno luogo a quello che Berruto (1993: 15) definisce un “continuum con addensamenti”, all‟interno del quale egli individua quattro principali varietà:

1. italiano standard o comune3; 2. italiano regionale;

3. dialetto regionale4; 4. dialetto locale5.

Ognuna di esse sarà quindi caratterizzata da a) tratti comuni a tutte le varietà; b) tratti comuni solo ad alcune varietà; c) tratti peculiari ad una determinata varietà. All‟interno di una lingua si distingueranno allora elementi neutri o non marcati, i quali fanno parte del nucleo comune a tutte le varietà, da elementi marcati, tipici di uno specifico insieme di varietà o di una di esse in particolare.

Infine, esiste un‟ulteriore varietà di italiano di tipo prettamente sociale e, quindi, sovraregionale: si tratta del cosiddetto italiano popolare, vale a dire “quell‟insieme di usi frequentemente ricorrenti nel parlare e (quando sia il caso) nello scrivere di persone non istruite e che per lo più nella vita quotidiana usano il dialetto, caratterizzati da numerose devianze rispetto a quanto previsto dall‟italiano standard normativo” (Berruto 1993: 58). In altre parole, questa varietà linguistica è il risultato del tentativo di acquisizione della lingua nazionale da parte di quella grossa fetta di popolazione che possiede una conoscenza imperfetta della grammatica e della pronuncia standard, in quanto principalmente dialettofona; l‟italiano popolare è, infatti, caratterizzato da due aspetti principali: da un lato, il contatto con il dialetto retrostante – che dà luogo a fenomeni di interferenza, ipercorrettismo etc. – e dall‟altro, la rielaborazione e ristrutturazione di strutture dell‟italiano standard (Id.: 59).

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In realtà si discute da tempo sul concetto e l‟effettiva esistenza dell‟italiano standard. Se accettiamo la definizione proposta da Sgroi (1994: 54), secondo la quale una lingua standard non presenta diversità spaziale (orizzontale), per cui l‟utente che la parla non lascia trasparire la propria provenienza geografica, è evidente che in italiano soltanto il livello della scrittura si avvicina a questa „neutralità‟ strutturale, mentre nell‟oralità sono ben evidenti i caratteri regionali. Senz‟altro si può dire che l‟italiano regionale funziona nella nostra penisola come lingua comune, ovvero “condivisa e utilizzata [...] almeno dalla maggior parte dei componenti di una comunità” (Id.

Ibidem).

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Ovvero il dialetto italianizzato parlato nei centri maggiori della regione che fungono da modello di prestigio, quasi una sorta di koinè dialettale regionale depurata dai localismi più marcati.

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Questa è la ripartizione proposta in Pellegrini (1960), ma olte altre sono state in seguito proposte. Per una breve rassegna in proposito si veda Berruto (1993: 18-23).

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1.2 La Toscana nel panorama linguistico italiano

Quanto detto finora riguardo al panorama linguistico italiano non è altrettanto valido per la situazione della Toscana. Per le motivazioni di ordine storico e culturale accennate all‟inizio del presente capitolo, infatti, le varietà parlate in questa regione appaiono decisamente prossime allo standard; a differenza di quanto accade nelle altre regioni, in cui il dialetto e l‟italiano rappresentano due sistemi linguistici diversi e paralleli, in Toscana “quasi nessuna varietà [...] costituisce oggi né ha veramente costituito in passato, un codice contrapposto a quello dell‟italiano ed alternabile ad esso nell‟uso” (Giannelli 1974: 248). Per questo motivo, i dialetti toscani sono tradizionalmente indicati con il termine vernacoli6.

Ciò non significa, però, che in questa regione la componente dialettale sia del tutto assente, anzi, “è difficile, se non impossibile, reperirvi del parlato che non sconfini immediatamente in qualche misura in un livello segnato da elementi di dialettalità” (Agostiniani 1988: 444); piuttosto, questa dialettalità assume una connotazione sociolinguistica, configurandosi come un insieme di varianti a disposizione del parlante in rapporto sia alla tipologia dell‟interazione (diafasia) che alla stratificazione sociale e generazionale (diastratia)7.

C‟è da dire, inoltre, che la pervasività dei tratti dialettali non investe in egual misura tutti i livelli della strutturazione linguistica; mentre il livello sintattico e morfologico risultano più vicini alla norma8, al livello fonologico si riscontra una maggiore tolleranza dei parlanti toscani nei confronti dell‟utilizzo di caratteri dialettali9, primo fra tutti la gorgia10 che è tratto vitale e tutt‟ora in espansione. Agostiniani (1988: 448) ricorre al concetto di “marcatezza pragmatica” per spiegare il motivo per cui alcune di queste

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Secondo Sobrero (1990: 62), il livello vernacolare corrisponde a quello che abbiamo precedentemente definito come italiano popolare, mentre l‟italiano regionale sarebbe il registro linguistico scelto in situazioni comunicative particolarmente formali.

7

A quest‟ultimo proposito, Giannelli (2000: 18) distingue in ogni vernacolo toscano tra un „dialetto corrente‟ – proprio dei ceti urbani e delle giovani generazioni – e un dialetto rustico – caratteristico dei vecchi contadini e degli anziani dei piccoli centri –. Infine, egli menziona anche una terza tipologia, l‟„italiano locale‟, che è meno definita delle altre, riuscendo a individuare però un‟opposizione basilare tra un italiano locale di tipo fiorentino, senese, grossetano e pistoiese e uno di tipo pisano, livornese, lucchese.

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“Tra le giovani generazioni, di qualsiasi ceto sociale, la maggior parte delle caratteristiche morfologiche dialettali sono scomparse” (Giannelli 2000: 15).

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Questa considerazione vale in generale per la situazione linguistica italiana ed è probabilmente dovuta al fatto che il carattere originario e a lungo conservativo di lingua pressoché esclusivamente scritta dell‟italiano e lo scarso interesse da parte della scuola per gli aspetti fonici abbia contribuito al consolidamento delle consuetudini fonetiche (e fonologiche) dialettali dei parlanti, che ne fanno largo uso quando si esprimono in italiano.

10

Con questo termine si indica il processo allofonico di spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche, che colpisce in special modo la velare [k], tipico della regione Toscana (Beccaria, acd, 2004).

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varianti vengono individuate dai parlanti come inadeguate al contesto comunicativo: a seconda dei casi, infatti, esse possono apparire troppo rustiche, volgari (marcate verso il basso) oppure snob, artificiose (marcate verso l‟alto).

Mancando quindi in Toscana un codice contrapposto e alternabile all‟italiano ed essendo minima la distanza tra livello vernacolare e livello, per così dire, standard – i quali si alternano piuttosto come registri stilistici – accade che nel linguaggio corrente questi due livelli si compenetrino continuamente, finendo spesso per confondersi11. Agostiniani e Giannelli (1990: 220) parlano infatti per questa regione di “assenza di bilinguismo”, poiché gli elementi dialettali presenti nelle parlate toscane non sono sufficienti a configurarle come codici alternativi alla lingua. Difatti, queste varietà non hanno mai potuto costituirsi in un insieme di dialetti vero e proprio dal momento che, data la prossimità strutturale con la lingua nazionale, esse risultano prive di una delle caratteristiche necessarie per funzionare come codici indipendente, ovvero l‟“estraneità alla norma dell‟italiano” (Agostiniani 1988: 442).

Possiamo, però, dire che le varietà toscane presentano una tendenza ad evolversi verso una forma comune, attuando una sorta di censura verso le specificità locali più marcate, ma accentuando nel contempo alcuni andamenti maggioritari della regione che garantiscano una certa continuità, come l‟affricazione della [s] post-consonantica e la spirantizzazione, la quale, come abbiamo accennato poco sopra, si mantiene particolarmente attiva in tutta la regione. Questa evoluzione ha certamente origine nei centri maggiori, i quali influenzano successivamente quelli di medie e piccole dimensioni, raggiungendo infine le località minori circostanti; ciò nonostante, l‟assenza di un modello regionale univoco favorisce il mantenimento di alcune caratteristiche più tipiche che fungono da elemento „bandiera‟ di una specifica varietà, tra le quali va senz‟altro inclusa l‟abitudine tipica dell‟area pisana e livornese di pronunciare le vocali medie più aperte ed abbassate, allungate e particolarmente modulate (già notata da Giannelli 1989 e ampiamente studiata in Marotta, Calamai & Sardelli 2004 e Marotta, Molino & Bertini 2011). Non dimentichiamoci, inoltre, che il capoluogo di regione Firenze costituisce un baluardo per il mantenimento di varie caratteristiche locali ad alta frequenza, tanto che in Toscana il fiorentino pare contrapporsi all‟intero insieme delle altre varietà (Giannelli 1989: 281).

Quanto alle reciproche influenze tra i vari dialetti e sottodialetti toscani, va detto che è difficile individuare un movimento unidirezionale: piuttosto, si nota che l‟introduzione di

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Si pensa che, già prima dell‟influsso dell‟italiano standard, la presenza di un ceto colto e semicolto piuttosto strutturato e di numerosi centri urbani di diffusa cultura abbia operato in modo che nel parlare corrente si affiancassero da sempre elementi dialettali e forme letterarie, anche se naturalmente con una frequenza diversa a seconda del livello sociale dei parlanti.

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elementi provenienti da una variante diversa dalla propria è di norma maggiormente accettata nel caso in cui tale variante appaia agli occhi del parlante più vicina allo standard. Inoltre, fenomeni sociali, come l‟industrializzazione di certe zone e il conseguente pendolarismo dalle piccole località circostanti, spingono ad un generale accostamento dei vali dialetti, più che al prevalere di uno in particolare, in un continuo scambio reciproco che tende, come abbiamo visto, verso una koiné toscana comunque non priva di dialettalismi.

Veniamo adesso ad illustrare il tentativo di classificazione dei vernacoli toscani proposto da Giannelli (2000), il quale ha proceduto cercando di combinare le caratteristiche morfosintattiche con quelle fonologiche e, soprattutto, fonetiche12 delle diverse varietà al fine di individuare tendenze comuni.

DIALETTI NON TOSCANI13 1. romagnolo

2. dialetti della Lunigiana

DIALETTI TOSCANI 1. fiorentino 2. senese 3. pisano-livornese 4. lucchese 5. elbano 6. aretino 7. amiatino

8. basso garfagnino – alto versiliese 9. alto garfagnino

10. massese

In ultimo, ma non per ordine di importanza, includiamo nella descrizione anche quelli che Giannelli (2000: 19) definisce “vernacoli grigi”, ovvero le varietà parlate nelle aree di transizione tra una zona dialettale e l‟altra che risentono dei molteplici influssi provenienti da queste zone e presentano al contempo elementi più tipicamente locali. Esse sono il

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Si tenga presente, comunque, che molte varietà, pur distinguendosi in base a fattori morfosintattici, presentano sostanzialmente un unico inventario fonematico, con eventuali differenze di tipo esclusivamente allofonico (Giannelli 2000:19).

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Queste varietà, di origine gallo-romanza, sono parlate nelle zone di transizione al confine con l‟Emilia Romagna e la Liguria (Loporcaro 2009: 111).

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viareggino, il pistoiese, il casentinese, l‟alto valdelsano, il volterrano, il grossetano-massetano, il chianino e i vernacoli del sud-ovest grossetano. Come vedremo tra breve, Santa Croce si trova proprio in una zona di passaggio tra i vernacoli fiorentini e pisani, in cuil‟influenza dell‟uno o dell‟altro è certamente legata alle dinamiche sociolinguistiche presenti sul territorio. Infine, si deve sottolineare che lo spazio occupato dalle singole varietà non corrisponde affatto alle suddivisioni amministrative, ma ad antiche unità culturali dovute all‟aggregarsi di una serie di comuni attorno ad un centro egemone.

Di seguito, proponiamo una breve descrizione delle caratteristiche dei vernacoli fiorentino e pisano, concentrandoci in particolare sugli aspetti fonetici e fonologici, i quali risultano di particolare interesse per la nostra ricerca dal momento che ci interessa individuare se nella varietà santacrocese si registri un qualche tipo di influenza daparte di queste due varietà, in particolare sul vocalismo tonico14.

Naturalmente, fiorentino e pisano presentano numerosi tratti in comune, tratti che potremmo definire panromanzi poiché sono condivisi anche dalle altre varietà compresenti sul territorio. Tra questi al livello fonetico vanno menzionati l‟anafonesi, ovvero l‟evoluzione di Ĭ e Ŭ latine in [i]e [u] anziché in [e] ed [o] di fronte ad alcune consonanti o nessi consonantici di tipo soprattutto palatale ([faˈmiʎʎa], ma *[faˈmeʎʎa]), il rotacismo di

/l/ preconsonantico (/‟salto/ > [„saɾto]) e la particolare evoluzione di alcuni nessi latini ([rj] intervocalico da -RI- e -RE- latini > [j]; -AR- atono > [er]; Ĕ ed Ŏ toniche > [jɛ] e [wɔ], quest‟ultimo monottongatosi successivamente in [ɔ]); ma la caratteristica più saliente è certamente legata allo speciale sviluppo del sistema vocalico che comprende sette vocali toniche, grazie alla distinzione tra vocali medio-alte e medio-basse:

Ī Ĭ Ē Ĕ Ā Ă Ŏ Ō Ŭ Ū

i e ɛ A ɔ o u

Inoltre, è presente nei dialetti toscani (tranne nell‟aretino cortonese e con limitazioni nel lucchese) il fenomeno del raddoppiamento fonosintattico dopo vocale tonica finale, che innesca la geminazione della consonante iniziale di parola (es. fiorentino [parleˈra ˈttanto]). Come vedremo tra breve, anche la gorgia è un tratto comune a molte varietà, ma con esiti diversi in ognuna di esse; in generale, il sistema consonantico toscano risulta particolarmente soggetto a fenomeni di indebolimento15 (Maiden & Parry 1997: 299) tra i

14

Tutti i riferimenti provengono da Mayden & Parry 1997, Giannelli 2000 e Loporcaro 2009. 15

Per indebolimento si intende la diminuzione dell‟energia articolatoria normalmente utilizzata per produrre un determinato suono (Beccaria acd 20043: 444). A differenza della lenizione, che

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quali oltre alla spirantizzazione (che agisce anche oltre il confine di parola, es. [la „hasa]) troviamo la realizzazione fricativa delle affricate alveolari (/tʃ/ > [ʃ]; /dʒ/ > [ʒ]).

A livello morfologico vanno segnalati la perdita di distinzione di caso nel pronome di II persona singolare, che si determina per estensione della forma accusativa [te] alla funzione di soggetto, e una generale semplificazione della morfologia verbale, per cui si ha per esempio la formazione della III persona plurale con l‟aggiunta del suffisso -[no] ([ɛ] > [ˈɛnno]) o l‟utilizzo della forma verbale impersonale in luogo della prima persona plurale ([si „va] invece di [and‟jamo])

1.2.1 Principali caratteristiche fonetiche del dialetto fiorentino

Il dialetto fiorentino è parlato nel Valdarno Superiore e in parte in quello Inferiore, oltre che nell‟intero Chianti, in Mugello e in altre valli minori. Esiste una notevole differenza tra le due varianti „rustica‟ e „corrente‟ ma, nel complesso, il fiorentino rimane il più conservativo tra i dialetti toscani centrali (Giannelli 2000: 20).

Per quanto riguarda gli aspetti fonematici, il sistema vocalico non fa registrare la presenza di fenomeni ragguardevoli, apparendo stabile e ben proporzionato (cfr. capitolo 4); al contrario, il sistema consonantico è particolarmente instabile e presenta in moltissimi contesti l‟indebolimento di cui abbiamo parlato poco sopra. Il caso senza dubbio più eclatante è quello della gorgia, il cui epicentro, come sappiamo, è costituito proprio dalla città di Firenze, dalla quale poi si è diffusa fino a raggiungere, in gradi diversi, gran parte della regione. Nel fiorentino essa coinvolge tutte le consonanti occlusive e affricate in eguale misura, producendo una serie di allofoni continui per [p b t d k g tʃ dʒ] che nella maggior parte dei casi sono realizzati come fricativi (Sorianello 2001); da rilevare è certamente la particolare realizzazione di /t/ come [h], normalmente è allofono di /k/, che si registra maggiormente al livello più „rustico‟.

Altra particolarità della varietà fiorentina è il raddoppiamento fonosintattico innescato, oltre che dalle parole ossitone, anche da alcuni elementi atoni monosillabi ([da, a, se, ma, ke]) tra cui alcuni pronomi ([tu, vu]) e dai bisillabi [kome] e [dove].

Infine, per quanto riguarda l‟aspetto intonativo, un tratto caratteristico di questa varietà parrebbe essere “l‟allungamento dell‟atona finale della frase, alla quale può aggiungersi una lieve aspirazione ([l ɔ ˈv:ista stamaˈt:ina:ʰ])” (Giannelli 2000: 33).

interessa soltanto le consonanti, l‟indebolimento ha un raggio d‟azione più ampio che investe anche i sistemi vocalici.

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1.2.2 Principali caratteristiche fonetiche del dialetto pisano

Il vernacolo pisano antico condivideva in origine molte caratteristiche del lucchese, ma con il tempo ha cominciato ad accostarsi sempre di più al livornese, fino a formare con esso un unica varietà dialettale. Il pisano-livornese si differenzia notevolmente dal fiorentino per ciò che riguarda gli allofoni di molti fonemi, a cominciare dalle vocali che appaiono nel complesso più rilassate; ciò è vero in particolar modo per le medio-basse [ɛ] e [ɔ] e per la centrale [a], che si presentano marcatamente abbassate e posteriorizzate, realizzandosi rispettivamente come [æ], [ʌ] ed [ɑ] (Giannelli 2000, Camalai 2002, 2003a/b, 2004a). Inoltre, le vocali in posizione tonica sono caratterizzate da una notevole lunghezza, parallela ad un‟ampia modulazione della frequenza fondamentale, che ha il suo massimo impiego nella città di Livorno ed è certamente utilizzata anche a fini stilistici (Marotta, Calamai & Sardelli 2004; Marotta, Molino & Bertini 2011).

Diversi sono anche gli esiti della gorgia, che nel pisano colpisce soprattutto la velare /k/, e in misura decisamente minore /t/ e /p/, dando luogo ad una vasta serie di allofoni che vanno dalla realizzazione fricativa maggiormente diffusa nel caso di /k/, al mantenimento dell‟occlusione, più utilizzato per la bilabiale /p/ (Marotta 2001), a conferma del fatto che il punto di articolazione velare è il bersaglio primario della gorgia.

1.3 Santa Croce sull’Arno

Santa Croce sull‟Arno è un comune di 14.365 abitanti in provincia di Pisa. Esso si trova nel Valdarno Inferiore, che corrisponde alla parte del territorio percorso dal fiume Arno compresa tra le due città di Firenze e Pisa. In particolare, essa si estende lungo la strada provinciale che, prima della costruzione della Strada di Grande Comunicazione Firenze-Pisa-Livorno, costituiva la principale arteria di traffico per il collegamento dei due capoluoghi Pisa e Firenze; lungo di essa, infatti, sorgono numerose cittadine (Castelfranco, Fucecchio, fino ad arrivare a Pontedera da un lato e ad Empoli dall‟altro) che formano un fitto abitato, ingranditosi nel tempo fino a rendere questi insediamenti partecipi di un‟unica area metropolitana nata dalla giustapposizione di realtà indipendenti (Cecchella & Pinna 1991: 388).

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Figura 1.1 Cartina del territorio che comprende Santa Croce sull’Arno (Cecchella & Pinna 1991: 27)

L‟origine del borgo di Santa Croce pare risalire all‟Alto Medioevo. Purtroppo, le fonti storiche a disposizione sono piuttosto esigue, limitandosi al lavoro di alcuni storici locali che forniscono dati generici. Pesciatini (1927), per esempio, indica come primi abitanti alcuni gruppi di persone in fuga dagli scontri tra le popolazioni barbariche che occupavano la Penisola Italiana, i quali si rifugiarono in quell‟area dando vita a piccoli agglomerati rurali tra i quali il più antico sembra essere Vico Vignale, di cui si ha notizia intorno al 700 d.C.. Altre fonti (Cecchella & Pinna 1991), invece, riportano la versione dello storico santacrocese Giovanni Lami, secondo la quale il borgo sarebbe stato fondato dai lucchesi in una non ben definita “età medievale” (Id.: 362); il Pesciatini, dal canto suo, data gli insediamenti lucchesi intorno all‟anno mille e a questi fa risalire l‟etimologia del nome Santa Croce; pare, infatti, che le famiglie di lavoratori lucchesi – stagnini, calderai e simili – trovando il sito scelto decisamente confortevole, decisero di erigere una sorta di santuario all‟interno del quale esporre la sacra immagine da loro adorata: un Cristo in croce di origine greca, che prendeva appunto il nome di Santa Croce. Già dalla fine del X secolo, comunque, il borgo era alle dipendenze dei Conti Cadolingi dei Borgonuovo (Fucecchio)16, i quali ordinarono la costruzione di quattro parrocchie, una per ognuno dei

16

La dinastia Cadolingia, che prende il nome dal capostipite Cadolo o Kadulo, era di origine longobarda e risiedeva a Pistoia; Cadolo venne investito del titolo di Conte di Fucecchio dall‟imperatore Ottone I nel 964 (Pesciatini: 1927). Oltre a Santa Croce, i loro feudi comprendevano le città di Siena, Pistoia e Lucca.

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diversi distretti agricoli del borgo: ciò sta a testimoniare come, già all‟epoca, l‟area fosse piuttosto popolata; del resto, l‟abitato santacrocese era attraversato (come lo è adesso) dalla strada che congiungeva il Valdarno Inferiore con quello Superiore e si biforcava a nord-ovest verso la lucchesia, la quale certamente costituiva all‟epoca – e costituisce tuttora – un‟importante arteria di comunicazione.

La povertà delle fonti storiche non consente di stabilire con precisione quando Santa Croce abbia rivendicato la propria libertà, dichiarandosi comune indipendente, mentre per le vicine Castelfranco, Santa Maria a Monte, Fucecchio e San Miniato si ha notizia di autonomia governativa sin dall‟XI secolo17. Lami (Pesciatini 1927: 14) riporta che l‟anno

di costituzione della prima cinta muraria del castello si può far risalire al 1221, mentre la più antica memoria autentica superstite in cui S.Croce si trova nominata come comunità è un atto notarile del 27 novembre 1224 che rivela come essa intrattenesse legami tributari con il comune di Firenze (Id.: 15).

Una volta costituita la propria autonomia comunale, S.Croce dovette cominciare ad affrontare le prime difficoltà; anch‟essa, infatti – come gran parte della Toscana – fu colpita dalle sanguinose guerre tra Guelfi e Ghibellini, sostenitori del Pontefice i primi e dell‟Imperatore i secondi (Pesciatini 1927). La sua posizione strategica, tra Pisa, Lucca e Firenze, fu infatti motivo di inevitabile coinvolgimento nel conflitto. Nel 1261 essa fu presa da un esercito ghibellino di pisani e fiorentini, i quali nel muovere battaglia alla guelfa Lucca occuparono molti dei castelli che appartenevano territorialmente a quella Repubblica, ivi compreso quello di S.Croce. In seguito alla battaglia delle Melorie (1283), in cui i pisani furono sconfitti dai genovesi, questi ultimi costituirono con fiorentini e lucchesi una lega guelfa contro Pisa; questa, stremata dalle lotte, firmò, tramite la persona del Conte Ugolino, una pace in cui si accordava a cedere gran parte dei propri possedimenti, tra cui S.Croce, Fucecchio, S.Maria a Monte, Montecalvoli e Castelfranco18. Questo cambiamento accolse il favore della popolazione delle Castella, non solo perché di orientamento guelfo, ma anche perché la dominazione fiorentina concedeva loro maggiori franchigie e una più ampia autonomia governativa (Id.: 19).

A cavallo tra il XIII e il XIV secolo, S.Croce fu coinvolta in cruenti contese territoriali con i comuni vicini, finché nel 1314 essa fu di nuovo vittima di un‟invasione ad opera dei

17

Un documento del 1190, in cui si rammenta che alcuni comuni della zona (tra cui Fucecchio, Galleno, Orentano) vennero obbligati a pagare le loro rendite annuali al delegato imperiale in Toscana, ci permette di escludere che Santa Croce fosse già autonoma, in quanto essa non viene citata nell‟elenco (Pesciatini 1927: 14).

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Tali comunità erano note con il nome di „cinque castella‟ (Pesciatini 1927: 17). A tale evento fa riferimento anche Dante nel XXXIII canto dell‟Inferno: “Che se l‟ conte Ugolino aveva voce / D‟aver tradita te delle Castella / ...”.

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pisani, durante l‟ennesimo scontro con Lucca e Firenze. Da quel momento in poi la città di S.Croce passò ancora diverse volte nelle mani di fiorentini, pisani e lucchesi, divenendo preda di scorrerie e saccheggi da parte dei vari eserciti; infine, nel 1330 si cedette per propria volontà al comune di Firenze, insieme alle vicine Castelfranco e Fucecchio (Id.: 25-30).

Dall‟inizio del XV si registra un‟epoca di relativa stabilità, in cui la popolazione di S.Croce poté dedicarsi alla propria ricostruzione economica: si istituirono mercati, si cedettero ai cittadini terreni da coltivare e si promossero iniziative volte al ripopolamento, tra le quali l‟esenzione dai tributi per 10 anni per tutti coloro che si fossero trasferiti in città (Id.: 31-35).

Tra il 1500 e il 1650 circa il territorio santacrocese subì alcuni importanti assalti ad opera degli eserciti delle varie potenze che all‟epoca dominavano e si contendevano la penisola italiana, dopodiché non si contano avvenimenti notevoli fino al 1799, anno in cui S.Croce dovette soggiacere al dominio napoleonico. In quel periodo la città venne annessa al dipartimento di Livorno, che era uno dei tre in cui il Granducato di Toscana fu diviso dall‟imperatore francese (essendo gli altri due Siena e Firenze). Nel 1849, infine, la cittadina fu vittima dell‟ennesima devastazione, stavolta ad opera dell‟esercito austriaco che tentava di reprimere i moti di liberazione, ormai diffusi su tutto il territorio italiano; soltanto pochi anni dopo, con l‟unità d‟Italia, S.Croce poté finalmente godere di tranquillità, nonostante le due guerre mondiali abbiano lasciato danni indelebili nella memoria della città.

Gli anni ‟50, con il boom economico del dopoguerra, non colsero impreparata S.Croce, che era l‟unica città della zona a poter vantare una struttura industriale consistente; già dalla prima metà del 1800, infatti, erano sorte le prime concerie, dando così l‟avvio a una florida industria che ha consentito una crescita economica senza precedenti nel territorio circostante. Come abbiamo accennato all‟inizio del paragrafo, infatti, S.Croce si trova inserita in un tessuto urbano molto ricco, costituito dalle decine di paesi che si affiancano lungo la strada che un tempo costituiva il principale collegamento tra Pisa e Firenze; in particolare, insieme ai vicini centri di Castelfranco di Sotto, Montopoli in Val d‟Arno, S.Maria a Monte, S.Miniato e Ponte a Egola, S.Croce fa parte del distretto industriale noto come Comprensorio del Cuoio, la cui area urbana comprende circa centomila abitanti e dove l‟occupazione principale riguarda la lavorazione del cuoio e del pellame (Cecchella & Pinna 1991: 371). In pratica, queste piccole cittadine nate lungo importanti vie di comunicazione (non si dimentichi la preziosa presenza del fiume Arno), hanno nel corso del tempo accresciuto la propria espansione territoriale, giungendo a costituire “un‟unica

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città, un‟unica realtà urbano-industriale” (Id.: 367), in grado di soddisfare la richiesta lavorativa di un sempre maggior numero di persone.

È facile intuire che un contesto del genere stimola dei flussi migratori consistenti, costituiti non solo da lavoratori provenienti da altre aree della Toscana o dell‟Italia trasferitisi in zona per l‟ampia offerta lavorativa, ma anche dalle migliaia di persone che già vivono nel Comprensorio e che all‟interno di esso si spostano per motivi personali, lavorativi o di studio. Nel paragrafo precedente abbiamo accennato al fatto che S.Croce si colloca in un‟area di transizione tra le due tipologie dialettali identificate come pisano(-livornese) e fiorentino, giacché quest‟ultimo è parlato fino a San Miniato e Fucecchio (Giannelli 2000), mentre il pisano si spinge certamente fino a Bientina, Santa Maria a Monte e Castelfranco (Calamai 2004a); in questo modo, è possibile che l‟assiduo contatto dei parlanti santacrocesi con persone e contesti diversi dal proprio in ragione di reciproci spostamenti e frequentazioni abbia comportato l‟adozione di determinate scelte linguistiche a scapito di altre. Ciò non significa che una varietà debba necessariamente prevalere sull‟altra, ma, anzi, si creerà piuttosto una commistione di elementi provenienti da entrambe, dando luogo ad una terza varietà dotata di determinate peculiarità ascrivibili all‟influenza ora dell‟una, ora dell‟altra fonte.

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CAPITOLO 2

LE VOCALI: ASPETTI QUALITATIVI E QUANTITATIVI 2.1 La qualità vocalica

2.1.1 Parametri articolatori

Nella produzione dei suoni linguistici si distinguono principalmente due azioni parallele ma allo stesso tempo indipendenti: la fonazione e l‟articolazione. La prima consiste semplicemente nella realizzazione di un segnale vocale, acustico, attraverso una corrente d‟aria egressiva proveniente dai polmoni, la quale viene in qualche modo alterata dai movimenti periodici di chiusura e apertura delle pliche vocali che costituiscono il meccanismo laringeo. In base poi alle diverse conformazioni assunte dal canale orale si creano degli ostacoli più o meno consistenti in grado di influenzare le proprietà del segnale: se, infatti, nessuna azione muscolare interviene a modificare la struttura del tratto vocale, si ottiene un suono che in letteratura è classificato come corrispondente alla „vocale neutra‟ /ə/.

Attraverso la fase di articolazione, invece, è possibile dare luogo alla produzione di un numero ben maggiore di suoni. Questi possono essere suddivisi in due categorie principali, a seconda dell‟azione articolatoria coinvolta: le consonanti sono prodotte tramite l‟introduzione di un ostacolo nel canale orale, sia esso una costrizione o un contatto completo tra due articolatori; le vocali, al contrario, sono caratterizzate dall‟assenza di impedimenti alla fuoriuscita del flusso d‟aria e dalla necessaria presenza del meccanismo laringeo. L‟articolazione delle vocali sarà quindi espressa nei termini di uno spazio costruito in base alla disposizione assunta dagli organi mobili, all‟interno del quale le vocali si collocano in un continuum sonoro di difficile suddivisione.

I criteri fondamentali utilizzati per la classificazione delle vocali sono tre: - la posizione della lingua sull‟asse verticale;

- i movimenti della lingua lungo l‟asse orizzontale; - l‟arrotondamento delle labbra.

Escludendo gli spostamenti laterali, privi di interesse a livello fonetico, la lingua è in grado di spostarsi dall‟alto verso il basso e in direzione antero-posteriore. Utilizzando come punto di riferimento la sua parte centrale, il dorso, è possibile osservare i movimenti che esso compie durante la produzione dei suoni vocalici. Sulla base di tali movimenti viene convenzionalmente individuato uno spazio astratto all‟interno del quale si realizzano tutte le articolazioni vocaliche possibili, che prende il nome di trapezio vocalico, in quanto ricorda la forma di questo quadrilatero.

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Figura 2.1 Il trapezio vocalico utilizzato nella trascrizione IPA (Beccaria 20043:XVI)

All‟interno del trapezio vengono collocate quelle che Daniel Jones, celebre fonetista inglese, definì le vocali cardinali, rappresentate dai fonemi vocalici più caratteristici definiti in base ai parametri articolatori sopra descritti. E‟ importante considerare che queste rappresentano in un certo senso dei tipi ideali, dei target articolatori a cui tendere per ottenere una fedele realizzazione; al contrario delle consonanti, le quali possono essere descritte agevolmente indicando gli organi coinvolti nella loro produzione (quindi il modo e il luogo di articolazione), le vocali non presentano, infatti, confini netti e si dispongono nel trapezio in maniera non rigida. In altre parole, lo spazio vocalico è definito soprattutto in base ai rapporti che si creano tra ciascun fono all‟interno del sistema, più che da una puntuale collocazione di essi. Ciò risulta ancor più evidente alla luce di un‟analisi acustica, dal momento che “ad una particolare forma [del tratto vocale] corrisponde un‟unica configurazione formantica; tuttavia, differenti forme possono produrre le stesse configurazioni di frequenze formantiche: è possibile far uso di diverse manovre articolatorie per ottenere contrasti fonetici simili” (Calamai 2004a: 210).

Osservando la figura 2.2, si nota subito una prima distinzione tra vocali anteriori, centrali e posteriori, riferita al grado di avanzamento/arretramento della lingua e tra vocali alte, medio-alte, medio-basse e basse, che concerne il grado di innalzamento della lingua rispetto alla posizione di riposo. Anche la conformazione delle labbra può influire sulla qualità vocalica: molti foni, infatti, presentano un proprio corrispettivo prodotto con un arrotondamento delle labbra tale da modificare la sua struttura timbrica, dando luogo a vocali labializzate o prochelie. Inoltre, per ognuna delle configurazioni articolatorie finora descritte può essere realizzata una corrispondete vocale nasale, prodotta attraverso una parziale espulsione dell‟aria dalle narici.

Al centro del trapezio vocalico è collocato lo schwa, trascritto con il simbolo [ə], il quale rappresenta il suono vocalico prodotto con gli organi articolatori in posizione di riposo. Rispetto a questa configurazione per così dire neutra, si possono individuare agli

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estremi del triangolo le tre vocali [i], [u] e [a]. Dal punto di vista tipologico, esse rivestono un ruolo fondamentale in ogni sistema linguistico: quasi tutte le lingue del mondo, infatti, presentano almeno una vocale alta anteriore, una alta posteriore e una bassa. La loro esatta natura fonetica può variare da lingua a lingua, ma ciò non impedisce che esse possano funzionare come punti di riferimento per indicare quei foni che si collocano agli estremi del trapezio vocalico, oltre i quali si avrebbero articolazioni consonantiche. L‟importanza di questi vocoidi è evidente anche in riferimento all‟acquisizione linguistica, in quanto solitamente sono le prime ad essere apprese e quelle a conservarsi meglio nei pazienti affetti da disturbi fonologici del linguaggio (Nespor & Bafile 2008: 43).

Il sistema vocalico italiano comprende sette vocali toniche, che si riducono a cinque nel sistema atono19. In esso, infatti, viene a mancare la distinzione che intercorre tra le vocali toniche medio-alte e medio-basse sia anteriori che posteriori, perciò la presenza dei due fonemi20 [ɛ] e [ɔ] è limitata ai contesti tonici.

Figura 2.2 Le sette vocali toniche dell’italiano standard (immagine creata autonomamente sulla base dello schema presentato in Rogers & D’Arcangeli 2004: 118).

2.1.2 Parametri acustici

Abbiamo visto nel paragrafo 2.2.1 come la descrizione della qualità vocalica attraverso approcci di tipo articolatorio, sebbene svolga una funzione indicativa della disposizione di tali foni all‟interno dello spazio in cui vengono prodotti, non possa essere ritenuta uno strumento preciso, in quanto fondata esclusivamente sull‟osservazione della complessa interazione tra gli articolatori, che risulta difficilmente quantizzabile. A partire dagli studi fonetici dell‟ingegnere elettrico Gunnar Fant, risalenti agli anni ‟60 del secolo scorso, si è

19

Ci riferiamo al cosiddetto italiano standard. Come abbiamo osservato nel capitolo precedente, i più realistici usi che si fanno dell‟italiano a livello regionale possono modificare questo stato di cose, presentando un sistema tonico pentavocalico, dovuto appunto al riflesso sull‟italiano della mancata distinzione tra le vocali medie in basse e alte presente a livello regionale o dialettale. 20

Mentre fino ad ora abbiamo parlato soltanto di foni, intesi genericamente come suoni prodotti dall‟apparato fonatorio umano, ci riferiamo adesso al fonema come al suono linguistico dotato di valore distintivo all‟interno di un determinato sistema fonologico. Il fonema, cioè, come unità minima del sistema in grado di differenziare significati lessicali.

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cercato allora di stabilire delle correlazioni tra parametri articolatori e parametri acustici, effettuando misurazioni con strumentazioni adeguate in grado di offrire un valido correlato acustico della qualità vocalica. Ciò è logico, dal momento che, come illustrato nel paragrafo precedente, le vocali sono disposte su un continuum fonetico difficilmente frammentabile: solo attraverso l‟analisi dei parametri che compongono il segnale vocale sarà possibile interpretare correttamente questo continuum ed offrire una descrizione qualitativa dei foni vocalici attendibile e non impressionistica.

Dal punto di vista acustico, il meccanismo laringeo (costituito, come abbiamo visto, dalla successione di cicli di apertura e chiusura delle pliche vocali) dà origine alla produzione di un‟onda sonora complessa, cioè formata da diverse componenti, la quale si muove attraverso il canale epiglottico. Quest‟ultimo, come tutti i corpi elastici, funziona da risuonatore entrando in vibrazione ogni qual volta venga sollecitato da una determinata frequenza, detta perciò frequenza di risonanza, la quale è legata alle dimensioni e alla forma del corpo stesso. Le armoniche (cioè le componenti del segnale vocale21) che presentano una frequenza pari alla frequenza di risonanza del canale epiglottico vengono in questo modo amplificate, cioè subiscono un aumento in termini di intensità22. In corrispondenza dei gruppi di armoniche amplificate si collocano le formanti, indicate in letteratura come F1, F2, F3 etc. Esse “rappresentano le conseguenze acustiche dei movimenti di forma assunti dagli organi fonoarticolatori durante l‟articolazione dei differenti suoni” (Calamai 2004a: 201). E‟ la capacità di risonanza del canale epilaringeo a fare in modo che, a seconda della conformazione adottata, diverse frequenze vengano amplificate: in questo modo, ad una determinata disposizione articolatoria corrisponde un particolare timbro vocalico.

La classificazione dei foni vocalici si basa essenzialmente sulle misurazioni dei valori della prima e della seconda formante (rispettivamente F1 e F2). E‟ stato infatti dimostrato che “le formanti superiori alle prime due aggiungono poco in quanto a definizione del tipo vocalico: esse determinano un miglioramento essenzialmente qualitativo in quanto a „naturalezza‟ e „individualizzazione‟ dell‟emissione verbale” (Ferrero 1972: 13). In realtà,

21

I valori di frequenza di queste componenti corrispondono a multipli interi della frequenza del segnale complesso. La frequenza della prima armonica è per definizione uguale a quella del segnale complesso ed è chiamata frequenza fondamentale (F0)21; essa corrisponde alla frequenza delle vibrazioni glottiche.

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Altre armoniche saranno indebolite (antirisonanze) o del tutto annullate. E‟ importante notare che è soltanto l‟ampiezza dell‟onda ad essere modificata e non la frequenza delle armoniche, la quale dipende dal mezzo di diffusione del suono. Attraverso questa azione amplificatoria è possibile contravvenire al regolare decadimento del segnale, ovvero la fisiologica diminuzione dell‟ampiezza dovuta a ragioni puramente meccaniche: qualsiasi forza fisica esercitata su un „oggetto‟ esaurisce la propria energia in un determinato lasso di tempo (pensiamo, per esempio, ad una palla che rotola).

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la terza formante (F3) è coinvolta nella produzione dei foni procheli, cioè prodotti con una protrusione delle labbra, ma il suo valore può essere ritenuto trascurabile ai fini di una caratterizzazione generale dei timbri vocalici delle lingue del mondo (mentre potrà essere preso in considerazione per quelle lingue, come il francese, in cui suoni del genere appartengono al sistema fonologico).

Il valore della prima formante appare collegato in maniera direttamente proporzionale al grado di apertura della cavità orale, quindi ai movimenti della lingua sull‟asse verticale (Albano Leoni & Maturi 2002) . Una bassa F1 (circa 200 Hz) indica una vocale chiusa, o alta, mentre una F1 elevata (intorno agli 800 Hz) è propria di una vocale aperta, quindi bassa. “Alti valori di F1 sono associati inoltre ad una bassa posizione del dorso della lingua (e al conseguente arretramento della sua radice verso la glottide) e ad una larga, non arrotondata apertura della bocca; F1 è bassa quando l‟apertura della bocca è piccola e arrotondata ovvero quando c‟è un allargamento della cavità faringale e un restringimento di quella orale” (Calamai 2004a: 202). Le distinzioni di altezza sono senza dubbio favorite nell‟asse anteriore rispetto a quello posteriore: ciò è riconducibile a semplici ragioni fisiologiche, dal momento la lingua, l‟organo maggiomente coinvolto nella produzione dei suoni vocalici, ha una maggiore mobilità proprio nella parte frontale della cavità orale.

La seconda formante (F2) è invece relazionata al grado di avanzamento della lingua lungo l‟asse orizzontale. Essa ha il suo valore minimo per le vocali posteriori alte (700-800 Hz) e raggiunge una frequenza massima di circa 2300 Hz per le vocali anteriori alte, collocandosi così in un rapporto direttamente proporzionale all‟anteriorità vocalica. Inoltre, pare ci sia un legame molto stretto tra l‟arrotondamento delle labbra e bassi valori di F2: “the frequency of the second formant is related to something else as well as tongue position. (...) A major part of the lowering of the second formant is due to the increase in lip rounding. (...) The scale [for the representation of second formant in a chart] should be taken as reflecting lip rounding as much as the backness of the tongue” (Ladefoged 2001: 41).

Diversi studiosi (Ladefoged 1975; Lindau 1978) ritengono che la correlazione tra i valori di F2 e il grado di anteriorità/posteriorità non sia così attendibile come quella tra F1 e il grado di altezza vocalica. Piuttosto, per il grado di arretramento vocalico si individua un parametro più attendibile nella distanza (F2-F1): essa è grande nelle vocali anteriori e piccola nelle vocali posteriori. L‟utilizzo di tale parametro conferisce maggiore importanza al valore della prima formante, rispetto all‟approccio classico (quello che oppone direttamente F1 a F2) e ciò sembrerebbe rispecchiare la realtà acustica e uditiva. F1 è,

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infatti, più intensa delle altre formanti ed è quindi dotata di un maggior potere discriminante23.

Le frequenze formantiche sono quindi determinate dalla dimensione e dalla forma del tratto sopralaringale. In generale, si osserva una proporzione diretta tra la diminuzione della lunghezza del condotto vocale e l‟aumento delle frequenze di risonanza: ciò significa che, a parità di bersaglio fonetico, i valori formantici misurati su un campione femminile risultano normalmente più elevati, solitamente di circa il 20%, in confronto a rilevazioni effettuate su un campione maschile24. Infatti, il canale epilaringeo di un uomo misura mediamente 17 cm, mentre quello di un bambino corrisponde alla metà e quello di una donna a circa 5/6. Inoltre “ricordiamo che le differenze tra vocali pronunciate da uomini, donne e bambini sono dovute non solo a peculiarità anatomiche relative alla dimensione della laringe, alla massa delle corde vocali e alla dimensione del condotto vocale, ma anche alla fisiologia della vibrazione delle corde vocali, che nelle donne e i bambini presuppone un‟alterazione sorgente-filtro abbastanza consistente, responsabile della qualità „soffiata‟ (breathy) di queste voci25” (Zmarich & Bonifacio 2003: 311). Queste differenze fisiche tra i valori formantici di uomini, donne e bambini sono in parte neutralizzate attraverso il processo di normalizzazione uditiva26 del condotto orale; le sovrapposizioni tra le aree di esistenza delle vocali di queste tre tipologie di parlanti vengono risolte attraverso il calcolo dei rapporti interni al sistema, che rimangono costanti: è l‟intero spazio vocalico a „spostarsi‟ con gli stessi criteri, non i singoli elementi in maniera indipendente l‟uno dall‟altro.

Anche nel caso di confronti interlinguistici possono verificarsi difformità tra sistemi vocalici. Per esempio può capitare che vocali trascritte con lo stesso simbolo fonetico, poniamo [i], presentino valori formantici piuttosto diversi: ad esempio ai circa 400 Hz del

23

Vedremo in seguito che F1 si mostra anche più „stabile‟ di F2. 24

Inoltre, la diversa collocazione delle formanti in uomini e domme varia a seconda della vocale e della singola formante; le origini di queste differenze sarebbero dovute ad una scalatura non uniforme del condotto vocale femminile rispetto a quello maschile (Calamai 2004a).

25

Tale caratteristica è dovuta ad un tipo particolare di fonazione in cui la parte posteriore dei processi vocali (aritenoidi) rimane permanentemente distaccata (diastasi), mentre la porzione anteriore, corrispondente a circa i due terzi delle pliche vocali, produce un regolare movimento vibratorio. La presenza della diastasi fa sì che durante ciascun ciclo di vibrazione vi sia una perdita continua di aria dalla parte posteriore delle corde vocali, il che dà luogo ad un flusso d‟aria turbolento continuo, simultaneo alla vibrazione glottica, che determina la generazione di un segnale in cui alla struttura armonica si sovrappongono componenti aperiodiche di rumore (Ferrero, Magno Caldognetto & Cosi 1996: 1-2). A causa di queste peculiarità la misurazione delle frequenze formantiche di donne e bambini può risultare alquanto difficoltosa.

26

Per normalizzazione si intende il calcolo delle relazioni esistenti fra gli elementi di un sistema, in questo caso tra le vocali.

Figura

Figura 1.1 Cartina del territorio che comprende Santa Croce sull’Arno (Cecchella & Pinna 1991: 27)
Fig. 3.1. Forma d’onda, sonagramma e text grid del segmento ‘il capo’, pronunciato in contesto da una  voce femminile
Tabella 1. Valori formantici medi relativi a campioni di italiano, pisano e fiorentino per parlanti di sesso  maschile, con indicazione delle rispettive fonti
Figura 4.2. Schema delle singole realizzazioni delle vocali [a] [ɛ] [ɔ] del soggetto Co.L
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Riferimenti

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