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Diritto processo giudizio nell'opera di Salvatore Satta

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Academic year: 2021

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A mia madre

«Pure, una dolce consuetudine ammette una minima invasione della vita sentimentale nell'opera: ed é attraverso l'offerta di questa, e più che di questa, della fatica durata, a una persona cara, e ignota a chi legge».

Salvatore Satta

(3)

Ringraziamenti.

Vorrei esprimere la mia più profonda e sincera gratitudine nei confronti del Professor Tommaso Greco che é stato al mio fianco accompagnandomi e supportandomi pazientemente durante l'intero arco della redazione del presente lavoro.

Ringrazio sentitamente altresì il Professor Ilario Belloni per la presenza costante ed i preziosi suggerimenti, il Professor Lorenzo Milazzo per la vicinanza ed il sostegno e il Professor Giorgio Ridolfi per gli assidui incoraggiamenti e l'affetto mostratomi in questi anni. Infine, ad ideale chiusura del cerchio, parafrasando quanto scritto da Salvatore Satta a proposito del maestro Giuseppe Capograssi, la mia riconoscenza va ai Professori Franco Bonsignori ed Eugenio Ripepe che da sempre rendono generosamente partecipi gli allievi della scuola pisana delle loro «spirituali conversazioni».

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I

NDICE

INTRODUZIONE

Salvatore Satta: un intellettuale “extra-vagante” 1

CAPITOLO PRIMO Diritto e realtà: «scambio di vita» 1. La cultura giuridica dall’unità d’Italia all’avvento del fascismo 20

2. Gli studi processualistici e la dottrina chiovendiana 24

3. Il diritto come vita: l’incidenza capograssiana 33

4. La «terribile responsabilità della propria esistenza»: la reazione agli orientamenti pubblicistici 40

5. La critica al concettualismo 44

6. La «battaglia» contro il formalismo 54

7. Lo slancio creativo individuale e il metodo del «non so come» 61

8. Un primo bilancio: Salvatore Satta tra esigenze di emancipazione e fedeltà alla tradizione 65

CAPITOLO SECONDO La dinamicità dell'ordinamento giuridico 1. Indipendenza del processo versus concezione unitaria del diritto 70

2. Il processo quale chiave di lettura del diritto 73

3. Antropologia “fenomenologica” e teoria dell’azione 78

4. L'unità dell’ordinamento giuridico 85

5. Ordinamento, azione, giurisdizione: medesima problematica 88

6. Dalla legge all'azione 91

7. Natura della giurisdizione 96

8. Il principio di tripartizione dei poteri 101

9. Lo storicismo sattiano tra individuo e ordinamento giuridico 105

CAPITOLO TERZO Ontologia dell'individuo e diritto 1. L’inafferrabilità del diritto 113

2. Le contraddizioni del normativismo 117

3. La giuridicità del rapporto umano 120

4. La volontà di riconoscimento tra autonomia ed eteronomia 133

5. Il diritto: la vita che "ordina" se stessa 139

(5)

7. Satta pubblicista 152

7.1 Tra natura e fede: l’indissolubilità del matrimonio 156

8. Il regresso del progresso 165

9. Un nichilista apparente 182

10. Il diritto sattiano: umanità condivisa 185

CAPITOLOQUARTO La metagiuridicità del giudizio 1. Del giudizio in generale 190

2. La natura sospensiva del giudizio 195

3. Il giudizio: modalità conoscitiva dell’essere 201

3.1 L'essenza del giudizio: la terzietà del giudice 203

4. Le radici metagiuridiche del giudizio: «Nolite iudicare» 207

5. Il giudizio tra diritto e letteratura 218

5.1 La compromissione esistenziale: «l’altrui destino, il mio destino» 219 6. La responsabilità di eternare l'insignificante 228

7. Il valore e la solennità dell’inutile: poesia ed epica 235

8. L'ironia: «un ridicolo dio» 237

9. Riepilogando: il nucleo "anti-giudicativo" del giudizio sattiano 242

CAPITOLO QUINTO Identità tra processo e giudizio 1. Esperienza umana, processo e giudizio 250

2. A partire dalla giustizia rivoluzionaria... 253

2.1 ...per arrivare alla "misteriosità" del processo 259

3. La giustizia: «un'idea concreta» 268

4. Il formalismo e il giudizio "disumano" 271

5. Il giudice di Satta: “uno” tra “tutti” e “nessuno” 280

6. Un tradizionalismo innovatore 285

6.1 La legge tra «fondazione» e «conservazione» 287

6.2 Il naturale argine al giudizio 292

7. Un normativista "inconsapevole"? 300

8. Il tempo sattiano: un’antinomia? 303

9. «Vanitas vanitatum» e «giudizio differito» 309

10. Il tempo narrato: processo e giudizio, racconto ed epilogo 316

(6)

CONCLUSIONI

Redde Rationem 327 Bibliografia 342

(7)

1

I

NTRODUZIONE

Salvatore Satta: un intellettuale

“extra-vagante”

«I grandi occhi neri, messi in rilievo dalle folte sopracciglia, avevano uno sguardo luminoso malgrado gli occhiali, compiaciuto, incredulo, ironico. […] Ne avevo sentito parlare: estroso, solitario, venuto a Padova da un anno, aveva tenuto una prolusione che oggi si direbbe dissacrante, ma non si fanno più prolusioni sulle autorità scientifiche nel campo del diritto processuale. Era temuto, ammirato, considerato difficile da trattare e in definitiva da comprendere»1. Sono queste alcune delle espressioni con cui Laura Boschian2, vedova di Salvatore Satta, delinea l’«intensa invadente personalità»3 che ha conquistato la sua vita4.

1 Si tratta della descrizione del primo incontro avvenuto tra Salvatore Satta

e la futura moglie Laura Boschian. Il ricordo di tale momento è contenuto in una testimonianza, inviata dalla nipote Ignazia Satta, in occasione del Convegno Salvatore Satta. L’impegno civile di una vita (Nuoro, 12 dicembre 2015), ora riportata in S. SATTA, Mia indissolubile compagna. Lettere a Laura Boschian 1938-1971, a cura di A. Guiso, Nuoro, Ilisso, 2017, pp. 8-9. Nell’esistenza di Salvatore Satta gli scambi epistolari con alcune figure rivelatesi fondamentali nel corso della sua esistenza (la moglie Laura Boschian, il maestro Giuseppe Capograssi, il fraterno amico Bernardo Albenese) hanno rivestito un ruolo di cruciale importanza non soltanto a livello personale ma, altresì, per la ricostruzione ed interpretazione postuma della sua personalità. «Scrivere belle lettere» afferma il nostro autore «è per me una intima gioia, che derivo da quel tanto di passato che rivive nella mia anima, e non è ultima cagione delle mie sofferenze» (SATTA, Lettera a Laura Boschian, 14 dicembre 1938, in Mia

indissolubile compagna, cit., p. 63).

2 Nel seguente lavoro di tesi non sarà riportata una biografia di Satta, alle

tappe più significative della cui vita si farà riferimento solo in determinati momenti della trattazione in cui verrà ritenuto opportuno. Pertanto, sul tema si rinvia, principalmente, a U. COLLU, La scrittura come riscatto. Introduzione a

Salvatore Satta, Cagliari, Edizioni Della Torre, 2002; V. GAZZOLA STACCHINI,

Come in un giudizio, Vita di Salvatore Satta, Roma, Donzelli Editore, 2002. Tuttavia, in relazione alla centralità rivestita dal rapporto coniugale nell’esistenza dell’intellettuale nuorese, sembra opportuno ricordare come: «Nell’avanzata primavera del 1938 Salvatore conosce all’università di Padova Laura Boschian, giovane triestina assistente volontaria alla cattedra di Letteratura russa. “Durante l’estate mi trovavo nel Carso – racconta Laura - […] ricevetti parecchie lettere di Satta che si trovava a Nuoro […], una più bella dell’altra, come non ne avevo mai ricevute, alle quali risposi. Nell’ottobre ci incontrammo a Padova, dove Satta, oramai trasferito ad altro ateneo, tornava per fare gli esami; passammo i mesi successivi a conoscerci, sapendo che la conoscenza era molto importante. Fidanzati nel febbraio, ci sposammo il 3 maggio 1939”» (GAZZOLA STACCHINI, Come in un giudizio, cit., p. 28).

3 SATTA, Mia indissolubile compagna, cit., p. 9.

4 «Perché per Satta» scrive Neria De Giovanni in seguito ad un’intervista

alla professoressa Boschian, «la sua compagna era veramente tale, uguale seppur distinta, personalità autonoma anche se in perfetta sintonia con il marito. E a

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2 L’immagine tramandata dagli ambienti dell’Università di Roma della quale il giurista sardo è stato, non soltanto, docente di diritto processuale, ma anche preside, è quella di uno studioso molto discreto che amava trascorrere diverse ore nella riservatezza del suo studio ma, ciò nonostante, di somma gentilezza nei confronti di chiunque gli si avvicinasse5. Gli amici di Bob6 riportano un ricordo analogo, quello «di un uomo intenso, ironico, di poche parole e dalla battuta pronta, ma ricco di umanità»7.

Tuttavia, non lo si rammenta quasi mai allegro, se non in occasione di episodi isolati quando lo diveniva, come accade nello spirito limpido dei bambini, per motivi, apparentemente, senza alcuna importanza8. «Accanto a papà la nostra è stata una vita spontanea, un allegro ruzzare di gatti legatissimi tra loro»9, afferma il figlio primogenito Filippo. Proseguendo nella reminiscenza, però, aggiunge: «Ma c’erano in mio padre momenti di solitaria tensione spirituale, di totale isolamento, in un groviglio di angosce di cui oscuramente ci rendevamo conto»10. Probabilmente in tal senso, gli

questo proposito la signora Laura ricorda una lettera di Satta, allora suo fidanzato, il quale poco prima delle nozze, con notevole modernità di opinione, sosteneva che la personalità della donna, le sue peculiarità culturali, non si devono annullare nel matrimonio. Insomma, con questa lettera del 1939, Satta tracciava per la sua giovane futura sposa, un’immagine di donna autonoma e “completa”» (N. DE GIOVANNI, Mio marito era proprio così, in «Il Cagliaritano», 10 novembre 1984, ora in Salvatore Satta. Rassegnastampa, a cura del Consorzio per la pubblica lettura “S. Satta”, Nuoro, 1989, p. 190).

5 G. MASSARI, Salvatore Satta, un romanziere nascosto, in «Tuttolibri», 3

marzo 1979, ora in Salvatore Satta. Rassegnastampa, cit., p. 40.

6 «Satta per gli intimi e per gli amici era Bob, e non si tratta di un

americanismo: era semplicemente un derivato da Bobore (a volte addirittura Boboreddu) che in sardo vuol dire Salvatore» (Questa la spiegazione fornita da Laura Boschian, in GAZZOLA STACCHINI, Come in un giudizio, cit., p. 63).

7 S. DEL POZZO, Un giudizio a sorpresa, in «Panorama», 1 maggio 1979, ora

in Salvatore Satta. Rassegnastampa, cit., p. 84.

8 MASSARI, Salvatore Satta, un romanziere nascosto, cit., p. 40. 9 DEL POZZO, Un giudizio a sorpresa, cit., p. 84.

10 Ibidem. Altra testimonianza “intima” dell’uomo Satta è quella lasciataci

dal figlio minore Luigi: «[…] cercherò di mostrare mio padre nella vita familiare […] Mi è chiaro che dalla sua opera letteraria non appare l’immagine di un allegrone, ma posso assicurare che nella vita quotidiana non aveva nulla di cupo, anzi era dotato di un grande umorismo, che non lesinava, e che contribuiva a smussare gli spigoli che inevitabilmente e continuamente appaiono. […]. Fra il 1950 e il 1960 […] andava spesso a Milano per ragioni professionali. […] Partendo, spesso lasciava a mia madre dei brevi componimenti in versi. Ne ho ritrovati trentadue […] Sono scritti sui brandelli di carta che trovava sottomano, ad esempio il retro di foglietti già utilizzati, o ritagli di buste, e hanno tutti la caratteristica di essere scritti di getto, senza alcuna correzione: evidentemente gli si presentavano alla mente completi di ogni dettaglio» (L.SATTA, Salvatore Satta,

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3 affetti più intimi richiamano alla memoria come l’intellettuale nuorese fosse solito declamare i versi carducciani: «Meglio oprando obliar che indagarlo questo enorme mistero dell’universo»11. Ovviamente, egli non volle o, molto più realisticamente, non riuscì mai ad astenersene.

Non è semplice confrontarsi con Salvatore Satta12. Le sue riflessioni, originate dal senso di crisi e di smarrimento propri del dilemmatico secolo breve13, non si pongono alla ricerca di un possibile “seguito” da parte della comunità scientifica a lui contemporanea; piuttosto, fanno dei suoi interlocutori i destinatari di una sorta di guanto di sfida che sollecita a non accontentarsi di qualunque risultato discenda da accomodanti compromessi intellettuali. Riproponendo le medesime considerazioni effettuate da Elias Canetti a proposito delle molteplici interpretazioni delle opere kafkiane, sentiamo di condividere in pieno la conclusione secondo la quale esistono determinati uomini di cultura, i quali sono così totalmente se stessi14, che qualsiasi dichiarazione su di

mio padre, in Nella scrittura di Salvatore Satta. Dalla “Veranda” al “Giorno del giudizio”, Atti del Convegno nazionale di Studi nel centenario della nascita di Salvatore Satta, Sassari, 4-5 aprile 2003, a cura di A. Delogu e A. M. Morace, Sassari, Magnum-Edizioni, 2004, p. 264.

11 S. MALATESTA, Perché fu rimandato “Il giorno del giudizio”, in «La

Repubblica», 12 maggio 1979, ora in Salvatore Satta. Rassegnastampa, cit., p. 90.

12 In relazione alla complessità interpretativa degli scritti sattiani, osserva

Ferdinando Mazzarella: «[…] la difficoltà del testo sattiano esige grandi sforzi interpretativi, ma mai per andare oltre le parole, bensì per cogliere le infinite possibilità di pensiero che sono nelle sue parole. Così non stupisce che Satta sia stato, volta a volta, inteso e frainteso, bandiera e vessillo del progressismo come del conservatorismo. In realtà in Satta c’è tutto» (F. MAZZARELLA, Interpretazione

di Satta, in Studi in memoria di Salvatore Satta, Volume I, Padova, Cedam, 1982, p. 491).

13 L’espressione riproposta si riferisce alla nota definizione dello storico

britannico Eric Hobsbawm che, nel saggio riportante tale titolo, analizza le svolte storiche del XX secolo, in un lasso temporale la cui estensione è compresa tra due specifiche date: 1914-1991 (E. J. HOBSBAWM, The age of extremes: the short

twentiethcentury, 1914-1991; tr. it., B. Lotti, Il secolo breve, 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Milano, Rizzoli, 1995).

14 Sull’incapacità di sottrarsi al suo io più profondo è lo stesso Satta ad

esprimersi in una lettera all’amico Albanese, in cui scrive a proposito di Simone Weil: «Tante volte penso con nostalgia alle mie velleità di fanciullo di andare missionario e annullarmi negli esseri che popolavano mondi allora davvero ignoti. Erano, si capisce, bambinate alle quali non si deve dare alcun peso, ma esprimevano forse inconsciamente quello che è stato il dramma di tutta la mia vita: non aver saputo rinunciare a nulla per poter essere me stesso» (SATTA, Lettera ad Albanese, [manca il giorno] settembre 1972, in GAZZOLA STACCHINI,

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4 loro ci si arroghi la facoltà di esprimere potrebbe sembrare una barbarie15.

In ragione di ciò, si è deciso di assumere quale punto di avvio del nostro lavoro su Satta la descrizione di alcune immagini meno “istituzionali” e, dunque, meno note della sua figura che, proprio in quanto tali, riteniamo costituire tasselli di grande significato per un approccio, quanto più possibile autentico, alla complessa e sfaccettata personalità dello studioso nuorese.

Ma se quelle riportate in precedenza, sono le parole che immortalano il docente sardo nella memoria di familiari ed amici16, in che termini, l’uomo Satta in persona pensava se stesso? A tal proposito, abbiamo reputato opportuno riportare la seguente sintetica definizione che egli si “auto-attribuisce” in una lettera indirizzata alla moglie: «Povero Bob, giurista, letterato, padre raté (non marito però)»17.

Procediamo con ordine. Discepolo e assistente di Marco Tullio Zanzucchi e successore in cattedra di Francesco Carnelutti, Satta si

Come in un giudizio, cit., pp. 115-116). Alle possibili affinità di pensiero tra Satta e Simone Weil ci si riferirà nel corso dei capitoli IV e V della seguente trattazione.

15 Cfr. E. CANETTI, Der andere Prozess. Kafkas Briefe an Felice, Carl

Hanser Verlag, München, 1969, tr. it., A. Ceresa, L’altro processo. Le lettere di Kafka a Felice, Milano, Mondadori, 1980, (edizione su licenza della Longanesi, 1973).

16 In particolare, con riferimento all’ambito delle amicizie, non può non

farsi riferimento, se pur en passant, al ruolo centrale rivestito nella vita di Satta da parte del docente di Diritto Romano all’Università di Palermo, Bernardo Albanese. Satta e Albanese hanno modo di conoscersi a partire da una lettera che il professore siciliano indirizza al processualista sardo, richiamando alla sua attenzione un errore da quest’ultimo compiuto nella citazione di un’iscrizione latina. Anziché indispettire Satta, quel rilievo rappresenta l’occasione che lo induce a voler approfondire i contatti con il mittente della missiva. «A me sembra» scrive l’intellettuale nuorese «un sogno questo nostro incontro, per ora epistolare» (SATTA, Lettera ad Albanese, 15 aprile 1968, in GAZZOLA STACCHINI,

Come in un giudizio, cit., p. 73). È proprio a proposito della fitta corrispondenza epistolare tra i due studiosi, dal 1968 sino alla morte di Satta (Roma, 19 aprile 1975), che Vanna Gazzola Stacchini sostiene: «Sembra che il rapporto psicologicamente intensissimo […] con questo amico abbia avuto una parte non indifferente nell’attivare un processo interiore di svelamento e nel riattivare la vita della fantasia creativa. A contatto con lui si sono aperte come delle cataratte, sempre tenute chiuse, della vita intima di Satta, nella sicurezza di viaggiare con l’amico sulla stessa linea d’onda. Un transfert? Forse questo in fondo intendeva Satta quando gli scriverà […]: “Diciamo con mia moglie che il mistero del mondo è che ci sia Lei, e diciamo pochi altri come Lei”» (GAZZOLA STACCHINI, Come in un giudizio, cit., p. 79).

17 SATTA, Lettera a Laura Boschian, 17 luglio 1948, in Mia indissolubile

(11)

5 colloca a pieno titolo nella nota tradizione della scuola italiana di diritto processuale civile, nell’ambito della quale si distingue per l’altissimo apporto scientifico, suggellato nei suoi scritti più noti (L’esecuzione forzata 1937, Manuale di diritto processuale civile 1948, Istituzioni di diritto fallimentare 1948, Commentario al

codice di procedura civile 1959-1971). L’attività giuridica

rappresenta, pertanto, la professione “pubblica” del nostro autore18; ciò non di meno, tutt’oggi, egli è giurista non particolarmente studiato19.

In realtà, è lo stesso processualista sardo a rivelare in un articolo pubblicato su La Nuova Sardegna, il 20 marzo del 1973, di non aver nutrito «una vocazione precisa arrivando alle soglie dell’università»20. La decisione di consacrare la propria vita al diritto avviene, infatti, in una notte sassarese del 1923, attraverso la persona del professor Lorenzo Mossa21.

L’aspetto più rilevante di Satta “giurista” e, dunque il suo lascito maggiore alla scienza giuridica, risiede nella scelta di valorizzare l’osservazione della realtà dell’esperienza concreta, in opposizione alle costruzioni nozionali derivanti dalla mera applicazione dell’astratta logica deduttiva. Si tratta, cioè, di un

18 «La forza evidente di Satta nelle opere pubbliche, lungo il corso della sua

vita, è soprattutto giuridica: eccelsa, riconosciuta, invidiata, anche sordamente osteggiata. Giuristascrittore? No; in vita solo giurista» (COLLU, Satta e la

vocazione letteraria, in Salvatore Satta. L’impegno civile di una vita, Nuoro, Il Maestrale, 2018, p. 131).

19 «Spesso chi ha scritto di lui (e sono in tanti)», sostiene Antonino Menne,

«lo ha fatto perché affascinato e quasi tramortito dalla forza evocativa del grande romanzo pubblicato postumo, dagli interrogativi che lascia aperti nelle sue pagine finali e dalla necessità di sperimentare le proprie conoscenze e competenze attraverso gli ossimori che accompagnano la storia umana e letteraria di quest’intellettuale solitario» (A. MENNE, Salvatore Satta. Il giovane giurista a

Milano e il rapporto con il professor Marco Tullio Zanzucchi, Milano, Vita e pensiero, 2016, p. 269).

20 GAZZOLA STACCHINI, Come in un giudizio, cit., p. 6.

21Tale la descrizione riportata da Satta a proposito di quell’indimenticabile

occasione: «Mi fece sedere, mi guardò di là dalle spesse lenti, mi chiese come Farinata, dei miei maggiori. Poi parlò di sé. […] So che man mano che parlava la stanza, nella quale già si insinuava il crepuscolo si popolava di spiriti […] Quando mi accompagnò alla porta, mi guardò fisso negli occhi: “Nella vita si possono fare molte cose, disse, e si può fare a meno di studiare il diritto. Per me – e la voce si fece grave – il diritto è tutto”. Mi precipitai per le scale, mi slanciai felice nella notte. Avevo trovato la mia vocazione, avevo trovato l’assurdo» (SATTA, Il professor Lorenzo Mossa, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, Nuoro, Ilisso, 2004, p. 412).

(12)

6 intellettuale che, pur inserito in una specifica compagine accademica, non vi si riconosce del tutto in quanto avverte, nonostante il suo percorso formativo, di non appartenerle completamente. Il nostro autore, infatti, sempre secondo quanto riportato in un’intervista a Laura Boschian, ritiene piuttosto di far parte della categoria dei cosiddetti «giuristi pensosi»22. In tal senso, sembra legittimo sostenere che l’intera produzione intellettuale del giurista sardo sia “pensosa” nella misura in cui introduce, nell’ambito della riflessione scientifica a lui contemporanea, innovativi spunti prospettici che originano da una concezione del diritto inteso in termini di vita. Anche laddove, a causa di necessità professionali23, Satta deve riferirsi a strutture concettuali astratte ed impiegare nozioni prettamente tecniche emerge, costantemente, una sorta di tensione “metafisica”, un sentito imperativo ad «una continua ricerca dei valori essenziali della vita»24.

22 «Giuristi pensosi è una bellissima espressione. Vuol dire i giuristi che

amavano la cultura, e dunque avendo cultura possedevano anche la curiosità che gl’incolti non hanno, vuol dire i giuristi che insegnavano le loro ardue materie, ma non si richiudevano presuntuosamente in esse, non mettevano confini al mondo. I giuristi d’un tempo, insomma» (MASSARI, Il giurista pensoso, in «Tuttolibri», 2 giugno 1979, ora in Salvatore Satta. Rassegnastampa, cit., p. 104).

23 «È stato un vero Maestro», ricorda Giuseppe Bettiol, «anche verso chi

non ha studiato procedura o diritto fallimentare. La grandezza del maestro sta proprio in questo: non infagottava le menti con notizie prive di vita e di sostanza ma le sagomava in modo da abituarle ad una valutazione chiara e aperta dei problemi, massimi o minimi che fossero, purché contenessero un’autentica espressione di vita che il diritto doveva valutare» (G. BETTIOL, L’uomo Satta, in

Studi in memoria di Salvatore Satta, cit., p. 154). Ancora sul piano dei ricordi, riporta Salvatore Mannuzzu: «Allora, conoscendo di Salvatore Satta solo gli studi processualistici, mi impressionava lo straordinario input morale che li animava in ogni riga; e diventava tessuto vivo di quelle pagine: quindi scrittura, stile. Satta era anche un teorico del diritto […] ma tutte le asserzioni di principio contenute nei saggi del Mistero si incarnano dentro le analisi particolari che il Satta compie delle vicende del processo; anche dentro quelle in apparenza più specialistiche e minute (“aride”, piace dire): che si fanno così pulsanti di vita» (S. MANNUZZU,

Cerimonia della cenere. Inattualità e attualità di Salvatore Satta, in Nella scrittura di Salvatore Satta, cit., p. 290).

24 A. VIRGILIO, Un giurista letterato: Salvatore Satta, in «Giustizia civile»,

luglio 1979, ora in Salvatore Satta. Rassegnastampa, cit., p. 108. «Dietro la trattazione del problema contingente» continua Alberto Virgilio «si intuiva soprattutto che la sua anima […] spaziava oltre i limiti – pur così vasti – delle conoscenze connaturali alla sua vocazione di studioso del diritto […]. Dunque non soltanto nel De profundis, che fu una riflessione sull’ultima guerra, ma nelle stesse opere giuridiche, in particolar modo nei Soliloqui e colloqui di un giurista e nei gustosissimi Quaderni, l’insofferenza del Satta per il rigoroso rispetto dei limiti concettuali delle materie giuridiche si manifestò in lampi di visioni universali».

(13)

7 Dunque, il docente nuorese, professore di diritto processuale in diverse università italiane (Padova, Genova, Roma) è uno dei volti più insigni del diritto italiano. Tuttavia, coloro i quali hanno familiarità con lui sono al corrente della sua giovanile vocazione di scrittore25. Satta, infatti, inizia la stesura del suo primo romanzo, intitolato La veranda, nel 192526. La scottante delusione derivata dal rifiuto dello scritto al Premio Viareggio del 1928, lo induce ad accantonare le proprie aspirazioni letterarie per dedicarsi esclusivamente alla carriera giuridica27. Ma alle vocazioni, specie se

25 «Fin dalla prima giovinezza – afferma la vedova Satta – avvertì la

vocazione letteraria. Ne venne dissuaso dai fratelli maggiori, che lo avviarono alla giurisprudenza». (A. DE BENEDETTI, La moglie dello scrittore racconta, in «Corriere della sera», 1 marzo 1979, ora in Salvatore Satta. Rassegnastampa, cit., p. 39).

26 La “veranda”, a cui fa riferimento il titolo dell’opera, si riferisce ad una

terrazza con vetrate di un sanatorio dell’Italia settentrionale che ospita il protagonista del romanzo, un avvocato venticinquenne. Il luogo in cui si svolge la narrazione rimanda alla casa di cura per tubercolotici di Merano, nella quale Satta trascorre due anni della sua giovinezza. Sembra opportuno ricordare come, alle vicende del romanzo risulti essere legata la figura di Marino Moretti. Il nostro autore, in quegli anni dedito all’esercizio dell’avvocatura, invia, infatti, quella sua prima opera al Premio Viareggio del 1928. Nonostante l’appoggio di Moretti in giuria, lo scritto viene scartato a causa del tema trattato, assolutamente non in linea con l’atmosfera salutista e “ginnica” già presente nella retorica degli anni Venti. Diversi anni più tardi, l’intellettuale nuorese, oramai affermato docente di diritto processuale, ritrova sul Corriere della Sera un articolo di Moretti il quale, ricordando un’opera intitolata La veranda, si chiedeva quale fosse stato il destino del libro e del suo autore. Nella sua risposta Satta, ringraziando con commozione il poeta-romanziere, rivela di aver scritto lui quel romanzo, nel tempo andato perduto, e di essere divenuto, nel mentre, un giurista. Dovrà passare molto tempo perchè il manoscritto compaia casualmente, nel 1981, nell’archivio del nostro autore. Tra gli scritti su La Veranda, si vedano, MASSARI, Salvatore Satta, un

romanziere nascosto, in «Tuttolibri», 3 marzo 1979; A. TODISCO, Il “mal sottile”

fece sbocciare Satta, in «Corriere della Sera», 23 gennaio 1981; G. MAMELI, La

vita all’ombra di una casa di cura, in «L’Unione Sarda», 15 marzo 1981; TODISCO, C’è nel sanatorio una figura antica, in «Corriere della sera», 17 giugno 1981, MAMELI, L’attesa di un amore, in «L’Unione Sarda», 18 luglio 1981, G. MARCHESI, «La Veranda» di Salvatore Satta, in «Civiltà Cattolica», 1982, ora in

Salvatore Satta. Rassegnastampa, cit., rispettivamente pp. 40, 126, 128, 136, 137, 163. Ancora, F. PAPPALARDO LA ROSA, Sulla Veranda, anime messe a nudo, «L’Umanità», 21 luglio 1981; COLLU, La scrittura come riscatto, cit., pp. 19-21; GAZZOLA STACCHINI, Come in un giudizio, cit., pp. 10-24; A.MARIA MORACE, Un

universo concentrazionario: «La veranda», in Nella scrittura di Salvatore Satta, cit., pp. 203-212; L. MUONI, Dolorante Realismo e cupo lirismo ne La Veranda di Salvatore Satta, in Salvatore Satta, oltre il giudizio. Il diritto, il romanzo, la vita, a cura di U. Collu, Roma, Donzelli Editore, 2005, pp. 111-119. Più di recente, S. MARSI, L’essere umano e il suo destino. Sulla «Veranda» di Salvatore Satta, in «Strumenti critici», XXXIII n.3, settembre-dicembre 2018, pp. 559-573.

27 «È una mia debolezza, lo so: ma vi è in fondo alla mia anima una

vocazione che non ha saputo esplicarsi e perciò la rende corrucciata e irosa. Se avessi avuto il coraggio (se non fossi intimamente un uomo tradizionale) […] non avrei tradito me stesso» (SATTA, Lettera ad Albanese, 25 ottobre 1969, in COLLU,

(14)

8 inclinazioni profonde ed autentiche, è difficile sfuggire e lo scrittore si agita nell’animo dell’insegnante di diritto processuale «come un’indomabile vena carsica che appare e riappare in superficie. In uno scorrimento costante e insistente»28.

Nel 1937, nel corso della presentazione al volume L’esecuzione

forzata, opera dal forte contenuto tecnico-scientifico, il giurista

sardo, dopo aver passato in rassegna le maggiori teorie processualistiche a lui coeve chiede, in conclusione, che gli «sia concesso un minuto di poesia»29; momento da lui individuato nella dedica della fatica connessa alla stesura dell’opera «a una persona cara». Tale figura, nel caso specifico, è rappresentata dal fratello Filippo, sotto il cui insegnamento Satta compie le iniziali esperienze nel mondo del diritto. Il ricorso ad un istante poetico, per dirlo con le parole di Pascoli, si rende necessario al fine di facilitare un ritorno all’ «umanamento dell’uomo»30 dal momento che, diversamente dalle opere letterarie, in quelle giuridiche, secondo il nostro autore, è particolarmente arduo rinvenire la presenza di «persone vive, che con le loro gioie e i loro dolori eternino nell’arte l’animo gioioso o doloroso di chi le ha create»31.

Pur avendo in precedenza affermato che la procedura rappresentasse il «talento» di cui era stato dotato e che con un

Satta e la vocazione letteraria, in Salvatore Satta. L’impegno civile di una vita, cit., p. 137).

28 Ivi., p. 131.

29 SATTA, Prefazione al volume sull’Esecuzione forzata (1937), in Id.,

Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p. 138.

30 G. PASCOLI, Il fanciullino, in Poesie e prose scelte, a cura di C. Garboli,

Milano, Mondadori, 2002, tomo II.

31 SATTA, Prefazione al volume sull’Esecuzione forzata (1937), cit., p. 138.

A rendere nota la sua predilezione per la poesia è lo stesso Satta, il quale vi fa riferimento nell’articolo di commemorazione in onore di Giacomo Delitala. In tale scritto, rievocativo del loro rapporto amicale, si ritrova: «ci scrivemmo quasi ogni giorno, ed io gli versavo le mie poesie, che egli ascoltava con interesse e giudicava. Che cosa darei per ritrovare quell’epistolario!» (SATTA, «La Nuova Sardegna», 20 marzo 1973, ora in Mia indissolubile compagna, cit., nota 4, p. 104). Ad ulteriore conferma dell’attitudine sattiana per la poesia le testimonianze degli amici. In primis, quella di Giuseppe Capograssi che in una lettera indirizzata al nostro autore scrive: «Mio caro Satta, poeta in prosa e in versi! […] La tua piccola poesia del crepuscolo, quando le cose, nel poco lume, non si vedono come nemiche, mi è stata cara» (G. CAPOGRASSI, Lettera a Satta, 21 dicembre 1947, in MERCADANTE, Testimonianze, in Salvatore Satta, oltre il giudizio, cit., pp.245-246). Ancora, Giuseppe Maria Bettiol ricorda: «Rare volte, come in lui, la dogmatica giuridica si è disposta ad un’intuizione artistica ed è diventata lirica. Era in sostanza poeta e grande poeta» (BETTIOL, L’uomo Satta, cit., p. 156).

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9 «libro di procedura» si sarebbe presentato al cospetto del «giudizio di Dio»32, con il passare del tempo, l’inquieto intellettuale nuorese, insoddisfatto del proprio percorso professionale e sopraffatto da numerosi rimpianti affettivi, scrive all’ amico Albanese: «[…] mi restano pochi anni da vivere […] e in questi anni devo fare qualcosa che giustifichi la mia esistenza. Cosa sarà lo ignoro: ma non può essere questo mestiere»33. Nella speranza di poter essere totalmente se stesso34, Satta ha bisogno di lasciar esprimere la sua passione letteraria «repressa e continuamente riaffiorante», ritenuta la sola via di «salvezza dal vuoto esistenziale»; in tale prospettiva, la narrazione assume funzione di «riscatto» e di «pacificante redenzione»35. Nonostante la sua produzione giuridica sia copiosissima e stimata, il docente sardo non riesce a riconoscere in essa la “motivazione” completa del proprio esistere e, pertanto, «con l’annotazione Fregene luglio 1970, seguita dalla firma, si apre l’agenda che contiene il manoscritto de Il giorno del giudizio»36.

32 SATTA, Prefazione alla prima edizione del Manuale di diritto

processuale (1948), in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p. 143.

33 SATTA, Lettera ad Albanese, 11 luglio 1969, in GAZZOLA STACCHINI, Come

in un giudizio, cit., p. 82. Sulla condizione di insoddisfazione del nostro autore nei confronti della sua professione istituzionale, scrive Francesco Mercadante: «È deluso Satta di tutta la sua avventura nel mondo del diritto, come chi sa di avere altre frecce nel suo arco, e di non averle usate; come chi si domanda […] dov’è finito lo scrittore […] che si agitava in me, ed ho crudelmente confinato nel sottosuolo, senza potergli impedire di emergere?» (MERCADANTE, Testimonianze, in Salvatore Satta, oltre il giudizio, cit., p. 243).

34 SATTA, Lettera ad Albanese, 15 maggio 1970, in GAZZOLA STACCHINI,

Come in un giudizio, cit., p. 78.

35 COLLU, La scrittura come riscatto, cit., p. 10.

36 GAZZOLA STACCHINI, Come in un giudizio, cit., p. 83. La decisione di

scrivere Il giorno del giudizio si colloca in un peculiare momento della vita di Satta e, di conseguenza, in un’altrettanto peculiare condizione del suo animo. «Un nodo di sentimenti» scrive Giovanni Pirodda «legati alla conclusione della sua carriera accademica, all’estinguersi della sua famiglia di origine […] alla percezione dell’avvicinarsi della morte, lo spinge ad un’esperienza di scrittura, in cui riemerge una vocazione vivissima e mai abbandonata, come possibilità espressiva più radicale e profonda del suo essere e della sua esperienza esistenziale, soprattutto nelle sue radici etniche e familiari (“io non sono io: sono questa misteriosa famiglia nella quale sono nato e nella quale, anche se ultimo, morirò”). Satta è animato in questo momento dal bisogno di esprimere, come un’esperienza liberante, questo nodo della sua esistenza: “forse ho attribuito troppa importanza alla terra, alla famiglia, al passato di cui sono intriso. Per liberarmene dovrei rendere in canto tutte queste cose: il canto sia pure di una prefica» (G.PIRODDA, La “sacra follia” di Gonaria Sanna, in Nella scrittura di Salvatore Satta, cit. pp. 235-236).

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10 Trentacinque anni intercorrono tra il romanzo della giovinezza e quello della maturità; sono anni di mutamenti personali e stravolgimenti storici senza precedenti durante i quali, «sfiorando per la tangente le coordinate morali entro cui inserire il dettato giuridico-narrativo del De profundis»37, il desiderio narrativo di Satta continua ad alimentarsi38. Allo stesso modo di Italo Svevo e di altri intellettuali che, per diverse ragioni, non poterono convertire la propria inclinazione letteraria in professione ufficiale, anche il nostro autore non abbandona mai l’iniziale volontà di divenire scrittore39.

Come opportunamente pone in evidenza Ugo Collu40, la propensione del giurista nuorese per gli studi letterari emerge, in maniera evidente, anche nella Prolusione tenuta all’Università di Trieste nel novembre del 1945, successivamente alla caduta del

37 DE GIOVANNI, La scrittura sommersa. Itinerari su Salvatore Satta,

Cagliari, Gia Editrice Cagliari, 1984, p. 12. Satta scrisse il De Profundis, tra il giugno del 1944 e l’aprile del 1945, istruendo una sorta di ideale processo sull’ultimo quarto di secolo della storia italiana, nel tentativo di fornire una risposta a due interrogativi: «perché gli italiani avessero accettato e, nella stragrande maggioranza, sostenuto, il fascismo, e perché, una volta dentro la guerra, avessero fin da subito sperato nella sconfitta. A Satta interessava soprattutto la figura dell’“uomo tradizionale”, figura del passato, ormai grottesca, che sognava l’impossibile restaurazione del vecchio ordine» (SATTA, Mia indissolubile compagna, cit., p. 302). Tra gli scritti sul De Profundis si veda, U. NICCOLINI, Leggendo il “De profundis” di Salvatore Satta, «Humanitas», IV, 1949; F.MARTINAZZOLI, De profundis, in «Studi Sardi», IX, 1950, ora in Salvatore Satta. Rassegnastampa, cit., pp. 1-3; E.PERA GENZONE, Salvatore Satta, De

profundis e Il giorno del giudizio, aprile 1981, in «Filosofia», ora in Salvatore Satta. Rassegnastampa, cit., 130-135; COLLU, De profundis e morte della patria, aprile 2017, in «L’Ortobene».

38 «Essendo nato nel 1902, Satta quando scrisse “La Veranda”, cioè nel

1925, si apriva alla vita ma la vita invece per lui si chiudeva quando cominciò a scrivere “Il giorno del giudizio” […] La vita si apriva, la vita si chiudeva nel segno della letteratura: ma cinquant’anni, più di cinquant’anni erano stati vissuti tra studi di altro genere, ricoprendo altri incarichi, insegnando nelle università, frequentando i tribunali, riconoscendo Capograssi e Chiovenda tra i suoi maestri, nomi che la letteratura riconosce solo se ben informata. C’era evidentemente in quest’uomo una specie di bivalenza» (MASSARI, Salvatore Satta, un romanziere

nascosto, in Salvatore Satta. Rassegnastampa, cit., p. 40).

39 Cfr. G. MAMELI, Quel Gattopardo venuto da Nuoro, in «L’Unione

Sarda», 7 marzo 1979, ora in Salvatore Satta. Rassegnastampa, cit., p. 47.

40 COLLU, Satta e la vocazione letteraria, in Salvatore Satta. L’impegno

civile di una vita, cit., pp. 140-141. In relazione al ruolo rivestito da Satta presso l’Università di Trieste si veda, anche, A.AGNELLI, Dal De profundis al Rettorato a Trieste, in Nella scrittura di Salvatore Satta, cit., pp. 9-34; F. TOMMASEO, Salvatore Satta, rettore a Trieste nell’anno accademico 1946-1947, in Salvatore Satta giuristascrittore, a cura di U. Collu, Atti del Convegno Internazionale di Studi «Salvatore Satta giuristascrittore», Nuoro, Teatro Eliseo, 6-9 aprile 1989, pp. 481-486; GAZZOLA STACCHINI, Come in un giudizio, cit., pp. 43-47.

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11 regime. Satta, nominato rettore dell’allora “recente” ateneo friulano, vi istituisce due nuove Facoltà: quella di Lettere e Filosofia e quella di Ingegneria Navale. Durante il discorso inaugurale, pur instaurando un parallelismo tra i due corsi di studi, egli non manca di soffermarsi con sentita enfasi su una celebrazione del primo41. L’esaltazione del valore dell’istruzione letteraria si affianca ad un accenno di personale rammarico; il neo-eletto rettore esorta i triestini, con «l’autorità» che ritiene provenire non dal suo «effimero ufficio» ma dal perenne rimpianto di non aver potuto coltivare le proprie «inclinazioni», ad indirizzare i figli ad intraprendere la carriera umanistica, suggerendo accoratamente loro di non valutare in termini di «danaro ciò che gli studi umani possono dare»42. Esclusivamente rivalutando l’essenzialità di questi ultimi e facendo in modo che essi rientrino nel «patrimonio comune del popolo»43, si sarebbe potuto facilitare, nella prospettiva del nostro autore, «l’avvento della vera, della santa, della liberatrice democrazia»44. Detto in altri termini, secondo Satta incentivare la formazione umanistica dei giovani avrebbe favorito il diffondersi di

41 «E nasce sotto […] il segno del lavoro, la Facoltà di Lettere più vicina

forse all’altra di quel che non sembri, poiché essa è nel mondo dello spirito quel che l’ingegneria è nel mondo della materia. Da molti anni ormai gli studi che furono chiamati per eccellenza umani hanno ceduto di fronte alla ferinità trionfante […] onde il culto degli spiriti magni che hanno formato la civiltà moderna […] si accompagna ad un senso di stranezza, giustificato in parte dallo scarso rendimento economico che da quel culto deriva» (SATTA, L’Università di

Trieste alla luce delle libertà democratiche, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p. 434).

42 Ivi., p. 435.

43 Ibidem.

44Ibidem. Quanto sostenuto da Satta a proposito della necessaria

rivalorizzazione del patrimonio culturale umanistico, sembra riecheggiare nelle parole pronunciate, più di un cinquantennio dopo, da Martha Nussbaum: «Se non insistiamo sul valore fondamentale delle lettere e delle arti, queste saranno accantonate perché non producono denaro. Ma esse servono a qualcosa di ben più prezioso, servono cioè a costruire un mondo degno di essere vissuto con persone che siano in grado di vedere gli altri esseri umani come persone a tutto tondo, con pensieri e sentimenti propri che meritano rispetto e considerazione, e con nazioni che siano in grado di vincere la paura e il sospetto a favore del confronto simpatetico e improntato alla ragione» (M. C. NUSSBAUM, Not for profit. Why the democracy needs the humanities, Princeton, Princeton University Press, 2010; tr. it. R. Falcioni, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica (2010), Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 111 ss).

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12 «una educazione morale all’attenzione»45, la quale costituisce un elemento necessario, non soltanto, per un migliore esercizio della dialettica democratica, ma ancor prima, una garanzia di tutela in vista della sua conservazione.

Da quanto ripercorso sin’ora, non può non riproporsi l’interrogativo che è sempre stato presente nelle interpretazioni del pensiero e dell’opera dell’intellettuale sardo: “Satta: giurista o scrittore?”46. Sebbene egli stesso scriva all’intimo amico Albanese: «Mi è mancata in tutto la vocazione, nel bellissimo senso etimologico della parola»47; in realtà, lo sguardo di un attento osservatore ben potrà cogliere come nel noto processualista non solo, sia esistita una profonda vocazione, ma che quest’ultima si sia configurata, contestualmente ed inscindibilmente, tanto giuridica quanto letteraria48. Nella produzione scientifica, infatti, al di là della inevitabile diversità di “struttura”, è presente l’identico retroterra ideologico e lo stesso sostrato simbolico che affiora negli scritti letterari49. In particolare, Il Giorno del giudizio convalida, se pur in

45 L’espressione si ritrova in A. VISCONTI, Narratività, narrazione,

narrazioni: giustizia come “apertura”, in Giustizia e Letteratura III, a cura di G. Forti, C. Mazzucato, A. Visconti, Milano, Vita e Pensiero, 2016, p. 25.

46 «Negli anni il dibattito si è sempre sviluppato cercando di accostare i due

“monconi” (SATTA, Il giorno del giudizio, cit., p. 98) che darebbero unità all’esperienza umana e letteraria di Satta. Il giurista, sconosciuto ai più, e il romanziere sarebbero due volti della stessa medaglia perché la scrittura si svilupperebbe dentro lo stesso registro, a partire da La Veranda» (MENNE, Saluti

e Prefazioni, in Salvatore Satta. L’impegno civile di una vita, cit., p. 17).

47 SATTA, Lettera ad Albanese, [manca il giorno] settembre 1972, in

GAZZOLA STACCHINI, Come in un giudizio, cit., p. 116.

48 Particolarmente interessanti le considerazioni che Manola Bacchis

svolge in relazione all’inclinazione giuridico-letteraria sattiana: «Tale Beruf vocazione/professione ossia scrittore/giurista sarà in Satta sempre un binomio, un alter ego, una maschera pirandelliana, vissuto e condiviso nella sua vita di avvocato, di professore, di marito, di padre, di uomo» (M. BACCHIS, Simbolismo,

significato e realtà ne Il giorno del giudizio, Università di Pisa Dipartimento di Scienze politiche Corso di Laurea Specialistica in Sociologia, Anno Accademico 2012-2013, p. 74). A tal proposito, si precisa come il termine tedesco Beruf significhi tanto vocazione quanto lavoro.

49 Sulle implicazioni reciproche tra diritto e letteratura nella meditazione

sattiana, osserva Giovanni Pirodda: «come sono importanti i suoi studi giuridici per comprendere non superficialmente l’opera letteraria, così gli interessi letterari hanno avuto un ruolo rilevante nel caratterizzare e nell’imprimere nuovi indirizzi al suo pensiero giuridico» (G. PIRODDA, L’isola «estatica» di Satta, in «Nuova Sardegna», 3 novembre 2002).

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13 altro contesto, i presupposti concettuali già affermatisi nei precedenti testi accademici50.

Antonio Delogu, indagando la matrice fenomenologica della teorica dello studioso nuorese, sostiene che egli accosti il «potere dell’immagine» al «potere del concetto»51. Satta, invero, è intimamente persuaso che l’impiego della ragione non sia, nella sua esclusività, sufficiente a penetrare il «mistero del diritto», ovvero, il «mistero della vita»52. È questa la ragione per la quale, affidandosi alla «forza conoscitiva dell’immagine», è costantemente portato a «scrivere sul diritto come si trattasse di un racconto»53 e a narrare con «il racconto le avventure del diritto»54. In una simile prospettiva, ciò che non può essere colto dal freddo raziocinare del giurista viene compreso attraverso la partecipata intuizione dello scrittore55. Dunque, l’intellettuale sardo è tanto giurista quanto

50 «Dietro il romanzo, il giurista c’è […] I personaggi, come li vediamo ad

uno ad uno nascere e vivere, sono opera del poeta: il loro destino – cioè il loro riflettersi e consumarsi nell’azione – opera del giurista, senza ovviamente né iato né gerarchia tra le due fonti. […] Letto il libro, apparirà che l’eccedenza del giurista, rispetto all’inviolabile economia di mezzi richiesti dall’opera poetica, è stata tenuta perfettamente sotto regime, senza tuttavia compromettere la ricchezza dei materiali che quella cava avrebbe potuto fornire, e di fatto ha fornito» (MERCADANTE, Diritto e letteratura nel “Giorno del giudizio” di Salvatore Satta, in «Realtà del Mezzogiorno», 1 aprile 1979, ora in Salvatore Satta. Rassegnastampa, cit., p. 59).

51 DELOGU, Le radici fenomenologico-capograssiane di Salvatore Satta, in

Salvatore Satta. Giuristascrittore, cit., p. 427.

52 SATTA, Il mistero del processo, in Id., Il mistero del processo, Milano,

Adelphi, 1994, p. 24. In relazione alla nozione di mistero, riproponentesi con molta frequenza nei testi sattiani, quale dimensione “positiva” di limite di fronte al quale la razionalità non può che arrestarsi, più diffusamente si tratterà nel Capitolo IV del presente lavoro.

53 DELOGU, Le radici fenomenologico-capograssiane di Salvatore Satta, in

Salvatore Satta. Giuristascrittore, cit., p. 427.

54 Ibidem.

55 In merito al nesso che unisce diritto e letteratura nell’opera sattiana,

Mario Corda si spinge a sostenere che: «Nell’ottica del processo come racconto, Satta è stato certamente un precursore. E come tutti i precursori (mi sia consentito dirlo) non a suo tempo capito. Oggi quella stessa intuizione è stata addirittura teorizzata, e in maniera così efficace da poter essere considerata un dato oramai acquisito alla cultura ufficiale. Mi riferisco, soprattutto, alla divulgazione fatta ultimamente da Arianna Sansone, autrice di un testo dall’accattivante titolo Diritto e Letteratura […]; e altresì, più specificamente, al saggio dell’americano Jerome Bruner, La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita […]. Ai tempi del Satta, però, il rapporto tra diritto e letteratura era un dato ancora da acquisire» (M. CORDA, Salvatore Satta e Il mistero del processo, in Il giorno del giudizio. Ambiti e modelli di lettura, a cura di M. Marsala e V. Serra, Cagliari, Portales Aipsa Edizioni, 2012, p. 30-31). Per quanto attiene alla nostra trattazione, i legami tra processo, giudizio e racconto, nell’opera sattiana, saranno affrontati nell’ambito del Capitolo V.

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14 letterato, nel suo essere in grado di immortalare le ingiustizie della società e le incongruenze del diritto in un modo che la critica letteraria Maria Corti ha definito, impiegando una calzante espressione ossimorica, «scientifico-artistico»56. Costituirebbe, pertanto, una evidente forzatura separare, nell’uomo Satta, l’animo del giurista da quello dello scrittore, nella misura in cui l’evoluzione del primo procede in parallelo con quella del secondo57.

Ma in definitiva, qual è l’oggetto della riflessione di questo giurista-letterato amante della poesia? «Racconta il quotidiano» scrive Enzo Siciliano «il quasi nulla che è la vita», soffermandosi sulle iniquità, le insensatezze, i timori, in una sola espressione, sul «tormento che costa la sopravvivenza»58. Il rigoroso docente di diritto processuale non ha mai formulato nessuna dottrina, né tantomeno elaborato alcun sistema concettuale (“costruzioni”, queste ultime, nei confronti delle quali assume, come si vedrà, una posizione decisamente critica); tuttavia, il costante e angoscioso ricercare il senso dell’esistenza e le ragioni del suo pathos cosa non rappresentano se non l’essenza di una genuina meditazione filosofica?

Eppure: «Satta non amava in alcun modo la filosofia», rivela Laura Boschian nella sua intervista rilasciata a Neria De Giovanni, «odiava quasi i termini filosofici»59. Probabilmente, anche da tale affermazione è scaturito l’atteggiamento di profonda cautela che la comunità interpretativa, sia giuridica che letteraria, ha assunto nel

56 M. CORTI, Nello specchio si vede Nuoro, in «Il giorno», 11 marzo 1979,

ora in Salvatore Satta. Rassegnastampa, cit., p. 48. In merito, continua la studiosa: «artista e giurista si danno la mano in riflessioni ironiche di questo genere: “il moto degli alberi è verso l’alto, in questa lieta conquista del cielo, che a noi animali (o, come si dice nelle leggi sull’abigeato, semoventi) è negato”».

57 «Non si trattava di un importante scrittore che per caso era anche

professore di diritto come credono i letterati» sostiene Salvatore Mannuzzu «né d’un grande giurista con l’hobby fortunato della scrittura, come forse vogliono i giuristi. Un’unica cifra – conoscitiva, morale, stilistica- distingue Salvatore Satta ed i suoi libri» (MANNUZZU, Cerimonia della cenere. Inattualità e attualità di Salvatore Satta, in Nella scrittura di Salvatore Satta, cit., p. 290).

58 E. SICILIANO, Un Gattopardo che arriva da Nuoro, in «Corriere della

sera», 1 marzo 1979, ora in Salvatore Satta. Rassegnastampa, cit., p. 37. 59 DE GIOVANNI, La scrittura sommersa, cit., p. 7.

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15 riconoscere nell’ambito degli scritti sattiani una vera e propria “spinta” filosofica60.

Volendosi dapprima prendere in considerazione le sole opere giuridiche è possibile ravvisare in esse una costante concordanza sulle tematiche di fondo, al di là della puntuale analisi degli specifici istituti di diritto processuale esaminati. È tale “assiduità” di base a costituire il connotato distintivo di scritti sorti in tappe esistenziali e professionali distinte ed originati dall’insorgere di occasioni differenti. Sempre, la produzione scientifica del nostro autore sulla procedura civile adombra interrogativi che, a buon titolo, possono essere ricondotti nell’alveo della filosofia del diritto. Ciò non perché possa individuarsi nella meditazione sattiana o nelle modalità con le quali viene condotta, un’espressa finalità speculativa quanto piuttosto dal momento che, mediante lo studio del processo, si arrivano a sfiorare i meccanismi che presiedono all’iter formativo del diritto e al ruolo che quest’ultimo è chiamato a svolgere nella società; identificandone, di conseguenza, fondamento e natura.

A simili considerazioni di partenza, va necessariamente aggiunto come l’accostamento di Satta alla filosofia discenda, in particolare, dall’esclusivo rapporto che il docente nuorese condivide con il maestro ed amico Giuseppe Capograssi. È la relazione con il filosofo di Sulmona ad introdurre l’intellettuale sardo alla cosiddetta filosofia dell’esperienza61. Egli condivide totalmente la concezione capograssiana secondo la quale la consapevolezza della pluralità umana, impone alle volontà meramente egoistiche dell’agire individuale di riconoscere l’esigenza, e dunque la razionalità, di un apparato di regole che normi la dimensione della

60 In merito al rapporto del nostro autore con la filosofia, secondo Mario

Corda: «la ben nota passione del Satta per quello che considerava l’apprendimento ritratto dalla meditazione sugli studi giuridico-filosofici di Giuseppe Capograssi […] nonché la predilezione per i testi di Dostoevskij, Pirandello e Miguel de Unamuno, ma anche (e con pari intensità) sulle opere strettamente filosofiche di Henri Bergson […] avrebbero dovuto indurci ad attribuire un più preciso significato a quella dichiarazione di “non amore” per la filosofia» (CORDA, Salvatore Satta e Il mistero del processo, in Il giorno del giudizio. Ambiti e modelli di lettura, cit., p. 24).

61 Al legame tra Satta e Capograssi, nonché all’orientamento filosofico della

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16 compresenza, configurandosi in termini di vero e proprio “progetto d’azione” tra gli uomini62.

A meno di ciò, è altresì indubbia, nella visione sattiana della storia, l’influenza di Vico, Agostino e Pascal, nonché l’incidenza nel suo universo di pensiero, del filone spiritualistico sviluppatosi nel Novecento in Francia63. Tuttavia, pur essendo un profondo conoscitore della tradizione storiografica cattolica e dello spiritualismo francese, il nostro autore «non parla attraverso le parole altrui», la sua è «una riflessione altissima sull’agire umano»64 che assume delle connotazioni del tutto peculiari.

Tale profonda e sofferta meditazione sul senso dell’esistenza, è ciò che ha indotto a parlare del giurista sardo come di un «filosofo della vita», intendendosi per tale uno studioso che esalta il valore di quest’ultima evidenziando «l’ossimorica contraddizione che la caratterizza: quella di essere finalizzata alla morte»65.

62 «Nel pensiero, come nel suo agire da intellettuale militante (cioè attento

alle vicende del proprio tempo per incidervi concretamente) la lezione di Capograssi entra come sollecitazione ad aprire nuove piste di ricerca […] nella convinzione che Capograssi sia uno dei pochi pensatori italiani che hanno […] richiamato il pensiero alla sua propria responsabilità […] al suo dovere di pensare umanamente e semplicemente (pensare per l’uomo, pensare l’uomo) richiamando in pari tempo la problematica dell’ordine giuridico a rendere trasparente tutto il problema dell’uomo» (A. PIGLIARU, In memoria di Giuseppe Capograssi (1956), in Id., La lezione di Capograssi, a cura di A. Delogu, Roma, Spes – Fondazione G. Capograssi, 2000, p. 161).

63 Con riferimento all’attenzione sattiana nei confronti di tale corrente

filosofica sostiene Giuseppe Pirodda: «Il carattere non incline al sistema del pensiero di Satta, i suoi interessi per la letteratura, lo indirizzavano piuttosto alle manifestazioni più propriamente letterarie di quegli orientamenti culturali: ad esempio le testimonianze sulle sue letture indicano autori come Peguy e Mauriac come scrittori che Satta amava significativamente rileggere» (PIRODDA,

Procedendo nel vortice, in Il giorno del giudizio. Ambiti e modelli di lettura, cit., p. 109).

64 «Senza di essa», ritiene Elvira Pera Genzone, «non si può cogliere

l’intensità filosofica del romanzo, il tormentarsi sulle ragioni o sull’assenza di ragioni che percorre l’agitarsi dei personaggi. Essi sembrano conficcati nell’isolamento metafisico di una terra ancora selvaggia e quasi estranea al resto del mondo; e invece proprio dalla drammatica semplicità, dalla elementarità primitiva delle loro azioni, degli impulsi e delle fantasie scaturisce la verità universale, l’illuminante metafora che infonde a quell’alto narrare anche il sigillo di una profonda intuizione filosofica» (PERA GENZONE, Salvatore Satta. De

profundis e Il giorno del giudizio, in «Filosofia», aprile 1981, ora in Salvatore Satta. Rassegnastampa, cit., p. 130).

65 CORDA, La filosofia della vita in dimensione esistenzialista. Salvatore

Satta filosofo, Roma, Armando Editore, 2004, p. 123. Che Satta possa essere considerato un “filosofo della vita” sarebbe desumibile, sempre secondo Corda, dall’evidente ascendenza pirandelliana riscontrabile in molti dei suoi scritti, tanto giuridici, quanto letterari: «perché Pirandello, come autorevolmente affermato da Giulio Ferroni (Storia della letteratura italiana, vol. IV, Il Novecento, Milano,

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17 Nel suo percorso, personale prima che professionale, Satta ha scelto di porre la propria esperienza di vita, il suo essere uomo, come parametro di riferimento non per ricercare verità universali ma per tentare, umilmente, di fornire una “soggettiva” spiegazione ai sempiterni enigmi esistenziali: il perché della vita, la sua direzione66. Il pregio di tale sforzo risiede, appunto, nella riuscita «trasposizione» nell’ambito delle opere letterarie, tra le quali rientrano indiscutibilmente le prefazioni agli scritti giuridici, «di un pensiero filosofico quanto mai intriso di profonda spiritualità»67. In tale ottica, Brunella Bigi sostiene che sia sul giurista che sullo scrittore prevalga «il filosofo», ovvero, l’uomo che incessantemente ricerca «ancor prima di cominciare, la motivazione, la ragione epistemica del suo stesso atto»68.

Probabilmente, la realtà è che la filosofia, se veramente tale, debba considerarsi indisgiungibile dalla vita. Non può non riconoscersi, infatti, come l’essenza della riflessione filosofica origini dalla struttura del pensiero la quale, a sua volta, pur nelle distinte declinazioni individuali, appartiene ad ogni individuo per l’appunto in quanto uomo. Pertanto, il “fare filosofia” rappresenta, fondamentalmente, «un aspetto della singolare condizione dell’esistenza umana» e coloro i quali “tecnicamente” vengono ascritti alla categoria dei filosofi sono, né più né meno, «uomini particolarmente sensibili a questa insopprimibile istanza della vita»69. Ma se questo è vero, di rimando, la filosofia così intesa non può essere scissa da quell’insieme di elementi (norme, azioni,

Mondadori, 10, 1996, p. 134 ss), “era molto vicino alle filosofie della vita che dominavano nell’Europa del tempo, da cui gli veniva una concezione globale della realtà, vista come perpetuo e insolubile conflitto tra vita e forma” […]» (ivi., p. 21, nota 13). Maggiori considerazioni sulle influenze pirandelliane nell’ambito della meditazione sattiana, verranno effettuate nel capitolo seguente.

66 A tal proposito, ed in particolare in relazione a Il giorno del giudizio, Ivo

Murgia fa riferimento alla contestuale presenza nel romanzo dell’«analisi rigorosa del giurista insieme con la pietà immensa del filosofo, con la coscienza dell’uguaglianza eterna, e con l’intreccio assiduo della vita con la morte» (I. MURGIA, Un libro che non ha paragoni, in «Il Gazzettino», 6 aprile 1979, in Salvatore Satta. Rassegnastampa, cit., p. 67).

67 CORDA, La filosofia della vita in dimensione esistenzialista, cit., p. 12. 68 B. BIGI, L’autorità della lingua. Per una nuova lettura dell’opera di

Salvatore Satta, Ravenna, Longo Editore Ravenna, 1994, p. 82.

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18 istituti) che costituisce la multiforme realtà del fenomeno giuridico; di qui discende come, «tutta la vita giuridica» sia retta «dal possente impulso della riflessione filosofica»70.

Alla luce di dette considerazioni, appare assolutamente calzante la descrizione del nostro autore quale giurista nella cui produzione intellettuale si combinano, armoniosamente ma non senza una sofferenza profonda, una scrupolosa «analisi del dato positivo», un evidente «talento letterario» ed una «tormentata sensibilità religiosa». Collante tra tali elementi, ed è questo il dato rilevante, una peculiare concezione del giudizio che «assume le tonalità di vera e propria filosofia»71.

Tale breve excursus preliminare ha voluto, semplicemente, mettere in luce la ricchezza e, di conseguenza, la complessità dell’orizzonte speculativo sattiano. Una simile consapevolezza crediamo implichi l’opportunità di individuare puntuali iter tematici che consentano di approcciarsi in maniera, per così dire, “trasversale” ad un’opera tanto densa. È questo il motivo per il quale l’analisi dei testi realizzata nel presente lavoro non ne proporrà uno studio sistematico, ma tenterà di tratteggiare un percorso che privilegi l’indagine di alcuni nuclei portanti della riflessione dello studioso sardo; pur nella contezza della difficoltà di conseguire anche un simile ristretto risultato. La ricostruzione tematica prescelta afferirà, pertanto, alla concezione del processo come chiave di lettura del fenomeno giuridico, alla critica nei confronti del concettualismo, alla specifica concezione del diritto inteso come «essere del rapporto umano»72, alla riflessione “metafisica” sul giudizio quale modalità conoscitiva dell’essere e, da ultimo, al formalismo giudiziario ed alla correlativa “denuncia” indirizzata nei confronti della cosiddetta figura del giudice “disumano”.

Se si riconosce che la contemporanea filosofia del diritto, “spogliatasi” di molte delle rigidità appartenenti ad un passato poi

70 Ibidem.

71 C. PUNZI, Il giurista e la speranza. Note sulla filosofia del giudizio di

Salvatore Satta, in «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto», 2004, p. 11.

72 SATTA, Quaderni del diritto e del processo civile, II, Padova, Cedam,

(25)

19 non così lontano, sia pronta ad assorbire gli stimoli provenienti da universi prospettici ulteriori rispetto a quello giuridico, allora l’opera di Satta può sicuramente identificare uno spazio di dibattito critico suscettibile di sollevare molteplici interessanti sollecitazioni. La riflessione dell’intellettuale nuorese, infatti, pur nella sua a volte non agevole interpretazione, è quella di colui che postosi a «cavalcioni su un muro (metaforico o reale)», identificante il limite tra due territori, è in grado di individuarne, dall’alto, «identità e differenze, separazioni e interdipendenze, così da porre in dubbio – quindi – la consistenza, il significato e – in ultima analisi – la stessa esistenza del confine»73.

73 M. TARUFFO, Sui confini. Saggi sulla giustizia civile, Bologna, Il Mulino,

(26)

20

C

APITOLO

1

Diritto e realtà: «scambio di vita»

1. La cultura giuridica dall’unità d’Italia

all’avvento del fascismo

Il cinquantennio che va dall’Unità d’Italia all’ascesa del fascismo rappresenta il lasso temporale nel corso del quale ha avuto luogo la formazione, contemporaneamente alla costituzione dello Stato unitario sul paradigma liberale e parlamentare, della cultura giuridica accademica1. Si assiste allo sviluppo della storiografia romanistica, della dogmatica civilistica, della nuova scienza del diritto pubblico e delle differenti scuole penalistiche. Si delinea, altresì, l’impianto strutturale delle Facoltà di Giurisprudenza, riflesso di una concezione armonica del sapere giuridico fondata su un’articolazione gerarchica delle discipline: lo studio del diritto romano come preliminare e propedeutico rispetto a quello del diritto civile, l’apprendimento di quest’ultimo come preparatorio ai restanti insegnamenti, la collocazione del diritto pubblico quale teoria generale dello Stato e disciplina di chiusura del sistema2.

Accanto ad un’istruzione universitaria in tal modo concepita si profila la delineazione di una cultura della pratica forense e amministrativa, sviluppatasi intorno alla nascita di un cospicuo numero di riviste settoriali e professionali3.

1 In merito alla nozione e al ruolo della «cultura giuridica», L.FERRAJOLI,

La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Roma-Bari, Editori Laterza, 1999, pp. 5-14; P. COSTA, La giuspubblicistica dell’Italia unita: il paradigma

disciplinare, in A. Schiavone (a cura di), Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla Repubblica, Roma-Bari, Editori Laterza, 1990, pp. 89-145; COSTA,

Lo Stato immaginario. Metafore e paradigmi nella cultura giuridica italiana tra Ottocento e Novecento, Milano, Giuffrè, 1986. Per un’ulteriore analisi del periodo di intensa revisione teorico-metodologica attraversato dall’Italia tra il finire del XIX e gli inizi del XX secolo si rinvia, altresì, a G. ALPA, La cultura delle

regole. Storia del diritto civile italiano, Roma-Bari, Laterza, 2000; C. NITSCH, Il giudice e la legge. Consolidamento e crisi di un paradigma nella cultura giuridica italiana del primo Novecento, Milano, Giuffrè, 2012.

2FERRAJOLI, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, cit., pp. 15-16. 3 S. CASSESE, Giolittismo e burocrazia nella “cultura delle riviste”, in Storia

d’Italia. Annali, IV, Intellettuali e potere, Torino, Einaudi, 1981, pp. 473 ss; P.Grossi (a cura di), La “cultura” delle riviste giuridiche italiane. Atti del primo incontro di studio. Firenze, 15-16 aprile 1983, Milano, Giuffrè, 1984.

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