• Non ci sono risultati.

Il diritto come vita: l’incidenza capograssiana

Come anticipato, quando nel 1903 Chiovenda pronuncia a Bologna la sua nota prolusione L’azione nel sistema dei diritti ha inizio una stagione di profondo mutamento che trasforma l’àmbito degli studi processualistici al punto tale che detta lezione inaugurale viene considerata l’atto battesimale del neo-nato diritto processuale civile56. Nell’opera di Chiovenda, i paradigmi della novella scienza

53 TARELLO, Dottrine del processo civile: studi storici sulla formazione del

diritto processuale civile, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 212.

54 TARUFFO, La giustizia civile in Italia dal ‘700 ad oggi, cit., p. 191. 55 Sull’incidenza della nuova scienza processuale nel contesto degli studi

giuridici, così si esprime Salvatore Satta: «Ma la rinnovata impostazione della scienza […] ha avuto una influenza sulla dottrina non solo del processo ma del diritto in generale […] Non solo essa infatti ha aggiunto nuovi capitoli al diritto processuale […] ma ha costretto a ripensare […] in chiave di processo tutti i grandi problemi della teoria generale del diritto, ha imposto la presenza del processo in tutta la speculazione giuridica. Sotto questo profilo, non si tratta più di sconfinamento, ma di rinnovazione del metodo di ricerca […]» (SATTA, Dalla

procedura civile al diritto processuale civile, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p. 117).

56 In merito alla prolusione bolognese, Salvatore Satta sostiene: «Tutti

sanno che la scienza del processo è stata la più avventurosa ed avventurata delle varie discipline giuridiche, perché al principio del secolo ebbe nell’opera di Giuseppe Chiovenda la sua autentica rivelazione. In quel momento- si potrebbe indicare la data precisa col richiamo alla prolusione bolognese– furono fissati e

34 processuale vengono fissati e trasmessi sotto forma di un sistema che, nel suo rigore scientifico, conferisce ai principi da essa sostenuti i crismi della verità e della certezza57. Non può intendersi, dunque, l’importanza delle ricadute di tale sistema nel panorama degli studi giuridici italiani della prima metà del Novecento se non si pone mente alla circostanza per la quale esso ha determinato una concettualizzazione ideale della realtà mediante la risoluzione e la fissazione in concetti del dato positivo58.

L’opzione metodologica adottata da Chiovenda rappresenta, direttamente o indirettamente, un punto di riferimento ineludibile per i nuovi processual-civilisti, i quali svolgono il proprio iter teorico facendo ricorso ad un comune «alfabeto scientifico»59. Da Chiovenda in poi, diversi nomi si susseguono nell’alveo della nuova scienza processuale, imprimendovi il suggello della propria personalità ed apportando il loro personale contributo: Carnelutti, Calamandrei, Betti, Redenti.

Salvatore Satta è uno di costoro: egli appartiene a quella scuola ma, pur non rinnegandola, manifesta sin dagli esordi della sua riflessione scientifica le proprie personali riserve opponendosi, in

trasmessi a noi i canoni della nuova scienza» (SATTA, Presentazione degli scritti

giuridici di Antonio Segni, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p. 168).

57 «Ogni sistema» osserva ulteriormente Satta «reca in se stesso una

pretesa di verità: ma il sistema di Chiovenda, nella sua staticità, parve la verità stessa, perché dava appaganti certezze, in un mondo, come quello del processo, che è votato istituzionalmente all’incertezza» (SATTA, Dalla procedura civile al

diritto processuale civile, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p. 121). Ancora sul punto, MicheleTaruffo scrive: «Il sistema è articolato, complesso e dotato di un altissimo grado di coerenza che gli deriva dall’essere il frutto di un’accurata architettura di concetti. Inoltre, e proprio per questa sua natura, esso tende a configurare “un mondo di certezze”, nel quale la problematicità dell’esperienza e la relatività storica del diritto positivo scompaiono dietro l’astratta armonia delle idee» (TARUFFO, Sistema e funzione del processo civile nel pensiero di Giuseppe Chiovenda, cit., p. 1145).

58 Con riferimento al ruolo dei concetti nell’ambito del sistema, afferma

nuovamente Satta: «non si trattava, beninteso, di meri nomi, ma di contrassegni rivelatori di istituti che nell’opera di generalizzazione e di astrazione si venivano formando, e costituivano gli elementi del grande sistema» (SATTA, Dalla procedura civile al diritto processuale civile, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p. 121).

59 CALAMANDREI, Giuseppe Chiovenda (5 novembre 1937- 5 novembre

35 particolare, alla «eccessiva astrazione dei principi»60 quale tendenza che, a suo avviso, avrebbe caratterizzato la scienza giuridica a lui contemporanea. Il giurista sardo vive la crisi del primo Novecento e di essa è lucido interprete. Nei primi due decenni del secolo ventesimo, la roccaforte dell’ordine borghese, costruzione dalle sapienti fondazioni mitologiche, viene definitivamente meno e, con essa, un universo di stabili certezze o almeno di convinzioni ritenute tali61.

Il nostro autore individua l’origine delle proprie “meditazioni” in un contesto storico-politico durante il quale l’accademia italiana attraversa un’atmosfera di profonda inquietudine, sulla scia della quale gli studiosi del diritto sono portati ad interrogare loro stessi e lo statuto epistemologico del proprio operare. Secondo il docente nuorese è proprio la perdita degli usuali punti di riferimento a porsi all’origine di un ripensamento di identità, confini e metodi da parte del pensiero giuridico nel suo complesso62.

Sembra opportuno, a questo punto, interrogarsi sulla posizione riconosciuta e, di conseguenza, sulla funzione attribuita da Satta alla scienza del processo, nell’àmbito del più generale clima di turbamento di cui la dottrina giuridica italiana faceva in quel momento esperienza. Egli è assolutamente convinto che il fisiologico svolgersi della vita esiga l’individuazione di sempre

60 F. DE LA RUA, Presentación a la edición castellana, in Satta, Derecho

Procesal Civil, I, Manual de Derecho Procesal Civil, Buenos Aires, 1980, pp. 177- 186, col titolo Salvatore Satta y la escuela italiana de derecho procesal.

61 Sulle fondazioni mitologiche quali peculiari dimensioni della modernità

si veda, GROSSI, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, Giuffrè, 2005; M. VOGLIOTTI, Tra fatto e diritto: oltre la modernità giuridica, Torino, Giappichelli, 2007.

62 Nella Presentazione alla settima edizione del Manuale di diritto

processuale (1967), Satta fa espresso riferimento agli anni a partire dai quali prende avvio la messa in discussione dei principi tradizionali della scienza giuridica, qualificando tale lasso temporale in termini di crisi: «Guardando, come appunto faccio, a rovescio mi sembra che siano stati anni che il futuro storico del diritto considererà fondamentali per lo svolgimento del pensiero giuridico. […] In realtà non c’era allora libro che non parlasse di crisi, che non cercasse di individuarla nei suoi termini e nelle sue cause, e magari non proponesse una ricetta per risolverla. Oggi noi possiamo dire che crisi non c’era proprio perché si parlava di crisi, si sentiva la crisi, e in nome di questa crisi il diritto reagiva contro se stesso, rompeva i vecchi schemi che un mondo tranquillo aveva creato, poneva nell’otre vecchio il vino nuovo […]» (SATTA, Prefazione alla settima edizione del Manuale di diritto processuale, in Id., Soliloqui e Colloqui di un giurista, cit., p. 151).

36 nuove forme giuridiche che si adattino ad essa, in relazione all’insorgere dei molteplici interessi che, progressivamente, vanno delineandosi, premendo sul proscenio della storia affinché venga loro riconosciuta tutela.

Dal momento che la naturale evoluzione sociale si risolve inevitabilmente nel processo, ne scaturisce che la scienza ad esso relativa condivida «l’intimo tormento»63 dell’oggetto del suo operare e sia esposta «a tutte le intemperie della storia e della vita» che, ad ogni istante, ne pongono in discussione i postulati di riferimento64.La scienza processuale, così come quella giuridica in generale, che si “identifica” nell’impegno del giurista a relazionare dialetticamente diritto e vita, diviene essa stessa espressione della drammaticità che egli vive nel non poter essere in grado di adempiere pienamente a tale funzione. Per un verso, l’uomo di legge è esposto al pericolo di ampliare eccessivamente lo scarto tra la norma e la sua applicazione, per un altro, «se non salva la specificità delle modalità dell’agire umano in una forma che la illumini, corre il rischio di ridurre il diritto a materia grezza, al dato empirico che si dovrebbe salvare»65.

Una volta delineata la natura della scienza del processo, Satta sottolinea l’esigenza che quest’ultima non si risolva in mere nozioni astratte ma che la sua azione svolga, con la maggiore aderenza possibile, il percorso dell’esperienza. La dottrina processuale non

63 SATTA, Presentazione della quinta edizione del Manuale di diritto

processuale, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p. 144. Essendo uno studioso di diritto processuale civile, Satta avverte personalmente l’angoscia che caratterizza il proprio ambito di indagine disciplinare. Ma la vive, dapprima e soprattutto, in quanto uomo. L’inquietudine, scrive ne La Veranda, è «al fondo di tutte le cose create, degli atomi come dei mondi, che senza posa anch’essi si aggirano nell’inquieto infinito» (SATTA, La Veranda, cit., p. 183). In relazione a tale peculiare sfaccettatura della personalità sattiana, ricorda Alberto Virgilio: «Si intravedeva sempre dietro la trattazione del problema contingente, uno sfondo inquieto» (VIRGILIO, Un giurista letterato: S. Satta, in «Giustizia civile», 7, 1979). Ed ancora, Elio Fazzalari sottolinea: «Ha sempre ritrovato nella sua opera di giureconsulto il pathos della vita» (FAZZALARI, Un maestro del diritto che si

trasforma in poeta, in «Il Tempo», 3 giugno 1977, ora in Salvatore Satta. Rassegnastampa, cit., p. 4).

64 SATTA, Presentazione degli scritti giuridici di Antonio Segni, in Id.,

Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p. 169.

65 DELOGU, Esperienza giuridica e esperienza della pena in Salvatore

37 deve sovrapporsi, né tantomeno sostituirsi all’esperienza ma, al contrario, «immettersi» in quest’ultima; onde evitare di tradire la sua intima essenza e ridursi «nella posizione dell’osservatore esteriore, o della creazione autonoma e formalistica»66. A tale orientamento di pensiero è necessario sostituire la convinzione che il ruolo della scienza del diritto debba essere quello di rendere possibile la comunicazione tra la «volubilità del concreto» e la «sfingea immobilità» del principio, in modo che l’ordinamento giuridico divenga espressione della «tensione» propria della vita di concretizzarsi, di prendere forma67.

Nell’esperienza giuridica, pertanto, confluiscono come in un unico “contenitore” i contegni degli individui, i rapporti tra essi intercorrenti, le istituzioni politiche e sociali, l’elaborazione di norme e le relative strutture giuridiche; elementi che se, prima

facie, possono apparire tra di loro irrelati, in realtà, risultano

collegati da un nesso solidale, quasi come attirati a sé da un medesimo «campo gravitazionale»68.

Il riferimento alla nozione di esperienza rimanda espressamente alla meditazione filosofica capograssiana. L’intimo legame tra Capograssi e Satta, in quanto già più volte autorevolmente ricostruito69 sarà, in tale sede, ribadito esclusivamente al fine di evidenziare l’essenzialità della relazione tra il diritto e la vita quale costante del pensiero del nostro autore. Il decisivo incontro con Capograssi ne segna, infatti, tutta la

66 SATTA, Il giurista Capograssi, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista,

cit., p. 370.

67 DELOGU, Esperienza giuridica e esperienza della pena in Salvatore

Satta, in Nella scrittura di Salvatore Satta, cit., p. 95.

68 ORESTANO, “Diritto”. Incontri e scontri, Bologna, Il Mulino, 1981, pp.

505-506.

69 Tra i numerosi interventi aventi ad oggetto il legame tra Capograssi e

Satta ricordiamo, F. MERCADANTE, Il giurista Capograssi nella interpretazione di Salvatore Satta in «Quaderni sardi di filosofia e scienze umane», n. 16-17, 1986, p. 135-142; DELOGU, Le radici fenomenologico-capograssiane di Satta giuristascrittore in Salvatore Satta giuristascrittore, cit., pp. 419-428; DELOGU, Giuseppe Capograssi tra Salvatore Satta e Antonio Pigliaru, in Delogu- A. M. Morace (a cura di), Esperienza e verità, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 63-96; GROSSI, Uno storico del diritto in colloquio con Capograssi, ora in Nobiltà del diritto, Milano, Giuffrè, pp. 641-667.

38 successiva esperienza intellettuale70, tanto da potersi sostenere che egli abbia scoperto nel pensiero del filosofo di Sulmona l’espressa teorizzazione di alcune sue personali intuizioni probabilmente rimaste, sino a quel momento, allo stato larvale71.

Satta possiede una visione globale dell’opera capograssiana, ha attentamente meditato sugli scritti del maestro potendo in tal modo attingere ad essi, con piena consapevolezza, in relazione alle tematiche che intende affrontare. Il giurista sardo, in più occasioni, “inserisce” nei suoi testi riferimenti diretti a Capograssi, alternandoli a quelli dei numerosi autori, antichi e moderni, sui quali si è formato e che, costantemente, sono oggetto degli intimi colloqui tra i due studiosi72. Tuttavia, a meno delle citazioni

70 «A quando risale la conoscenza tra i due colleghi? Potrebbe partire da un

nodo iniziale sardo, nel senso che nasce per iniziativa di un collega sassarese, ad esempio Antonio Segni, una mediazione che poi si sviluppa tra Roma e Macerata, sede in cui Capograssi è rettore e in cui Satta, vinto il concorso, viene chiamato per l’insegnamento della procedura civile, prima del trasferimento a Padova al terzo anno di straordinariato (1936-37)» (MERCADANTE, Testimonianze, in

Salvatore Satta, oltre il giudizio, cit., p. 245).

71Satta ricordando il maestro ed amico, in una commemorazione tenutasi

nel 1956 presso il Consiglio superiore della pubblica istruzione, afferma di non aver «vissuto che di riflesso pensiero di lui» (SATTA, Giuseppe Capograssi, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p. 353). Non molti anni più tardi, manifesta ancor più esplicitamente la sua ammirazione e il suo alto giudizio per Capograssi definendolo «un signore del pensiero, un dominatore dello scibile», altresì sostenendo che «se si potesse parafrasare il celebre motto di Dostoevskij “tutti siamo usciti dal cappotto di Gogol”, direi che tutti siamo usciti dalla bonaria giacca da camera, con la quale ci accoglieva nelle sue spirituali conversazioni» (SATTA, Il giurista Capograssi, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., rispettivamente p. 365 e 375).

72 In una delle frequenti lettere alla moglie Laura, il nostro autore ribadisce

a proposito di tali conversazioni: «La grande oasi ristorativa è sempre la casa e l’anima di Capogì» (SATTA, Lettera a Laura Boschian, 6 marzo 1956, in Mia

indissolubile compagna, cit., p. 320). L’intenso colloquio quarantennale tra l’intellettuale nuorese ed il «bonario Maestro» è nutrito anche da una fitta corrispondenza tra i due studiosi: «Alle cento pagine complessive di Satta su Capograssi, nelle quali si rende al pensatore abruzzese un riconoscimento che ha “fatto stato” […]; a quelle cento pagine, in cui il genio di Satta trova il regolo per misurare da pari a pari la grandezza di Capograssi […] corrisponde una cinquantina di lettere (in prevalenza cartoline), scritte da Capograssi tra il 1946 e il 1954, in meno di dieci anni, gli ultimi prima della sua morte prematura» (MERCADANTE, Testimonianze, in Salvatore Satta, oltre il giudizio, cit., p. 245). In seguito alla scomparsa del filosofo di Sulmona, «nell’animo di Satta, Albanese prende il posto occupato da Capograssi, o meglio, vi si inserisce formando un triangolo dialettico ideale che, oltre sulla dimensione giuridica, si confronta sui temi della riflessione metafisica e religiosa […]. La rievocazione/identificazione Albanese-Capograssi è adombrata subito nella terza lettera indirizzata al docente palermitano e diventa esplicita nella successiva: “Le Sue lettere hanno la profondità spirituale di quelle di Capograssi […]” (22 marzo 1968). “Le Sue lettere ripetono ai miei orecchi la voce di Capograssi, la stessa grafia è simile alla Sua, il

39 espresse, sono autenticamente capograssiani molti dei contenuti entro i quali egli si muove. Basti rimandare ad alcune nozioni essenziali che ricorrono sistematicamente nella sua produzione scientifica e che rappresentano veri e propri concetti-chiave intorno ai quali l’intellettuale nuorese struttura la sua riflessione. Il richiamo è ai concetti di vita, individuo, esperienza, azione.

A partire dalla meditazione sulla fenomenologia husserliana, Capograssi concepisce la ricerca filosofica quale strumento volto ad individuare e a cogliere, nella loro purezza, i dati costitutivi dell’esperienza, “scremandoli” dalle modificazioni e dalle possibili snaturazioni del pensiero riflesso73. Il filosofo di Sulmona sottolinea l’esigenza di ricondurre il diritto nell’alveo della vita e di interrogarsi sul pericolo che la logica formale, nel suo lavoro di astrazione, possa giungere a semplificare a tal punto la realtà da rischiare di mortificare la tutela degli interessi sottostanti l’esistenza. Il messaggio capograssiano che non considera il diritto e la vita come due entità separate ma che, all’opposto, si impegna ad indirizzare la riflessione verso l’assoluta necessità che le due dimensioni siano strettamente collegate, si presenta al nostro autore come una «buona novella»74. Quest’ultima rafforza in lui la convinzione che la scienza giuridica debba considerare l’individuo non come un astratto “schema nomenclatore” della realtà, frutto di sottili astrazioni teoriche, bensì come un’entità in carne ed ossa; dal momento che il diritto rappresenta null’altro se non l’esperienza concreta del soggetto nella sua vita di relazione75.

Suo spirito si rinnova e riempie la solitudine nella quale mi ha lasciato” (15 aprile 1968)» (COLLU, Introduzione, in Salvatore Satta, oltre il giudizio, cit., pp. 12-13).

73 «Il pensiero riflesso, costretto com’è a procedere per concetti su piani

nozionali e astratti, è esposto alla continua tentazione di scambiare il suo piano pel piano della realtà piena e viva del concreto, che è lavoro di comprensione del dato, per lavoro di creazione di quel dato» (CAPOGRASSI, Opere, II, Milano, Giuffrè, 1959, p. 232).

74 MERCADANTE, Il giurista Capograssi nella interpretazione di Salvatore

Satta, in «Quaderni sardi di filosofia e scienze umane», cit., p. 135-142.

75 «Satta è coerente con questa visione capograssiana dei rapporti tra vita

e diritto anche nella sua proposta di didattica universitaria, oltre che nella sua attività di ricerca sul campo. Così scrive nella premessa al suo diffusissimo testo di Diritto processuale civile: “[non ho premesso] alla mia esposizione […] quel catalogo di concetti che si suol chiamare in ogni branca del diritto, parte generale […] queste parti generali mi sono sempre apparse […] come lunghe attese catecumeniche […] è evidente che ponendo il diritto sotto il segno dell’esperienza,

40 Satta, al pari del suo maestro, assume quale osservatorio privilegiato la vita quotidiana e gli individui comuni, intesi come protagonisti di una specifica umanità storica76. Pertanto, egli decide di allontanarsi da alcuni tipici atteggiamenti sapienziali di stampo formalistico e di indossare vesti più “modeste” che, in quanto scevre da prevenzioni teorico-dottrinali, possano assicurargli maggiore libertà d’osservazione. Il giurista sardo avverte, prepotentemente, la necessità di ribadire quanto, a suo avviso, costituisce l’intima “vocazione” del diritto: ovvero, l’ineludibile legame di quest’ultimo con la realtà della vita. Il suo è un accorato tentativo di cogliere l’anima sociale del fenomeno giuridico, nella prospettiva di una specifica attenzione rivolta all’esperienza degli uomini, ai legami che tra di essi si stabiliscono e alle strutture collettive in cui si articolano le loro vite77.

4. La «terribile responsabilità della propria