• Non ci sono risultati.

La «battaglia» contro il formalismo

Dal biasimo rivolto al concettualismo alla lotta nei confronti del formalismo il passo è breve125. È lo stesso Satta a definire l’indagine sul formalismo come uno dei principali, se non l’esclusivo, interesse della sua vita di giurista126.

Alla consueta ironia che lo accompagna e che lo porta ad affermare che esiste nell’uomo di legge «un istintivo orrore ad accettare la profonda semplicità della vita», egli affianca la sottile considerazione per la quale il ciclico riproporsi del formalismo, rappresenti un indice del suo configurarsi quale specifica «componente dello spirito umano»; da ciò, l’esigenza di una riflessione che si estenda, prima ancora che alle sue cause e alla sua portata, alla sua essenza127.

Nel condurre l’analisi su tale fenomeno, il nostro autore assume, nuovamente, una posizione distinta rispetto alla

124 SATTA, Il giurista Capograssi, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista,

cit., p. 372.

125 Sulla tematica del formalismo giuridico, tra i numerosi contributi, si

vedano le due ampie voci «Formalismo giuridico» rispettivamente in Enciclopedia Italiana, appendice III, vol. I, di ORESTANO, e in Novissimo Digesto

Italiano, di TARELLO. In particolare, Tarello distingue vari significati di formalismo giuridico, a seconda che l’espressione indichi un determinato tipo di ordinamento giuridico, un dato atteggiamento del giurista di fronte al diritto, una peculiare concezione del diritto (il diritto come forma), una specifica visione della scienza giuridica (come scienza formale), un modo distintivo di interpretare il diritto. Ancora sull’argomento, N. BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo

giuridico, Milano, Edizioni di Comunità, 1972, p. 79-100. Bobbio esamina le diverse accezioni che il formalismo giuridico assume con riferimento al tema della giustizia, del diritto, della scienza del diritto, dell’interpretazione giuridica. Di qui, constata come dalla maggiore valorizzazione dell’elemento formale rispetto a quello materiale nascano quattro diverse note teorie: la concezione legalistica della giustizia (o legalismo), la teoria normativa del diritto (o normativismo), la concezione della scienza giuridica come dogmatica, la giurisprudenza dei concetti (o concettualismo giuridico). Infine, in relazione al tema in questione, imprescindibile il riferimento al volume di JORI, Il formalismo giuridico, Giuffrè, Milano, 1990.

126 SATTA, Il formalismo nel processo, in Id., Il mistero del processo, cit., p.

103.

55 concezione tradizionalmente condivisa dalla scuola chiovendiana. In particolare, la sua critica si indirizza alla teoria secondo la quale la genesi del formalismo andrebbe rintracciata nella natura privata dell’antico processo civile. Satta esprime le proprie riserve sulla possibilità che simile ricostruzione storica possa essere realmente rispondente alla realtà; sostenendo, al contrario, che in origine il processo privato sarebbe stato intrinsecamente anti-formalistico e che anzi il formalismo avrebbe avuto inizio proprio a partire dalla pubblicizzazione del processo128. L’erroneità di detta teoria, sulla presunta “essenza” formalistica del processo privato, risiederebbe, nella sua prospettiva, nell’impiegare impropriamente il termine formalismo al fine di indicare il carattere formale di tale processo.

Nello scritto Il formalismo nel processo, il giurista sardo introduce una rigorosa precisazione terminologica inerente alla distinzione tra i termini formale e formalistico. Pare opportuno riportare per intero le sue considerazioni: «Disgraziatamente la povertà del linguaggio riconduce l’uno e l’altro all’idea di forma, ma è chiaro che questa parola è usata in due sensi completamente diversi e opposti: l’uno è quello scolastico di essenza di una cosa […]; l’altro è quello empirico di esteriorità a cui non corrisponde nessuna essenza»129. Satta ritiene che nel riferirsi all’originario processo civile si sia confuso il primo con il secondo senso, la forma essenziale con la forma esteriore. In altre parole, dapprincipio, il processo privato sarebbe stato formale, ma non formalistico, dal momento che l’esperienza di quel processo si sarebbe fissata in quella specifica forma che ne costituiva l’essenza130.

Tali considerazioni sul carattere formale, e non formalistico, dell’antico processo privato devono traslarsi, nella concezione dell’autore, al diritto in generale. L’accezione di forma dalla quale egli sembra muovere è quella classica: forma dat esse rei. Ciò non

128 Ibidem.

129 Ivi., p. 84. Sulla forma quale lemma che richiama due dimensioni

distinte: come elemento che prescinde dal contenuto o come caratteristica essenziale di un oggetto, si rinvia a TARELLO, Formalismo giuridico, cit., p. 436.

130 SATTA, Il formalismo nel processo, in Id., Il mistero del processo, cit., p.

56 vuol dire che l’essenza della cosa sia conferita dalla forma ma che a quest’ultima spetti il compito di palesare il manifestarsi di quell’essenza che, altrimenti, rimarrebbe inconoscibile e sconosciuta. Detto in altri termini, la forma identifica la natura o l’essenza di ciò che è designato con quella specifica parola, rappresentando una “definizione” della sostanza ontologica della cosa in sè e con ciò stesso il suo eterno carattere identico131. Esemplificando al massimo, si potrebbe intendere la forma come ciò che ponendosi all’ “esterno” della cosa ne cristallizza la natura di modo che, la cosa stessa non avrebbe la possibilità di essere altro se non attraverso quegli specifici contorni che ne eternano il tratto distintivo. L’esperienza, dunque, sceglie di “fissare” la sua “sostanza” nelle forme giuridiche; pertanto, sarà la conoscenza di tali forme a permettere di individuarne il nucleo costitutivo. È in tale passaggio che va rintracciata la ragione secondo la quale il diritto debba essere inteso necessariamente in termini di forma e che, in tal senso, esso rappresenti «l’unica forma di conoscenza che noi abbiamo»132.

Una precisazione risulta, tuttavia, necessaria. Nel sostenere che «il formalismo comincia dove il diritto finisce», il processualista nuorese non intende, in alcun modo, rivolgere la sua

131 Sul tema, J. DEWEY, Logic, the theory of inquiry, New York, Henry Holt

and Company, 1939, trad. it, Logica, teoria dell’indagine, Torino, Einaudi, 1949, 134 e VON MISES, Manuale di critica scientifica e filosofica, Milano, Longanesi, 1950, 26 e 40 ss.

132 SATTA, Il formalismo nel processo, in Id., Il mistero del processo, cit., p.

85. In merito, Alberto Scerbo ritiene possa essere ravvisata nella riflessione sattiana «un’aporia di fondo» determinata dalla mancata distinzione tra scienza e filosofia. A tal proposito, l’autore sostiene: «La confusione tra scienza e filosofia emerge in modo del tutto evidente, visto che viene considerato essenziale, e quindi filosofico, ciò che è espressione di un sapere logico-deduttivo. […] Ciò perché le regole sono interne alla realtà e l’oggetto della conoscenza non può essere compreso dall’esterno. Cosicché l’ordine razionale creato dalla scienza costituisce la mera esplicitazione dell’esperienza: in tal modo, però, l’apparato concettuale risultante non può che essere rappresentativo della struttura stessa dell’oggetto di indagine, nel senso che la conoscenza finisce per riguardare l’essenza […] L’equivoco di base, così, si delinea chiaramente. In Satta, infatti, il superamento della scienza “astratta” non significa recupero della dimensione filosofica, ma più semplicemente l’attribuzione ai principi convenzionali che sorgono dalla (e rappresentano la) realtà del crisma dell’assolutezza, “sicchè la filosofia s’identifica con la scienza, e attraverso la scienza s’immette nell’onda viva dell’esperienza, diventa esperienza”» (SCERBO, Salvatore Satta e il ritorno dei

57 disapprovazione alla concezione del diritto inteso in termini di forma: «la critica al formalismo» non poteva intendersi come una «inconcepibile e assurda critica alle forme giuridiche»133.

Il dissenso si riferisce, viceversa, al sempre più frequente impiego, da parte della scienza giuridica di una vuota formalità che, bloccando il «libero movimento» dell’esperienza, origina una ingannevole e inattendibile immagine di essa: ovvero, una «falsa esperienza»134.

A costituire il principale obiettivo della critica sattiana è il formalismo acritico e dogmatico; quell’atteggiamento intellettuale che, esasperando il ricorso ai concetti, determina l’indebita trasformazione della forma essenziale in forma inessenziale e, di conseguenza, il passaggio dalla necessaria dimensione del formale alla successiva degenerazione del sistema in apparato formalistico. Il fenomeno a cui Satta si riferisce è quello che, opportunamente, Luca Stefanelli definisce in termini di «“antipensiero” giuridico che si perpetua, identico a se stesso, in radicale distanza dall’esperienza comune, diretta e autentica delle cose»135.

La dicotomia tra l’inconsistenza metafisica delle concettualizzazioni dogmatiche e la concretezza del reale è evidenziata, altresì, nel capolavoro narrativo del nostro autore. In molti casi, infatti, soprattutto nell’ambito di ristrette dimensioni rurali, come quella nuorese del romanzo, il fenomeno giuridico non è in grado di cogliere i valori fondanti della comunità e, in particolar modo, di «garantire l’equilibrio tra due distinti momenti: quello

133 SATTA, Il formalismo nel processo, in Id., Il mistero del processo, cit.,

p.86.

134 Ibidem.

135 L. STEFANELLI, Rovesci del diritto. Il giorno del giudizio di Salvatore

Satta tra diritto, psicoanalisi e antropologia, Padova, Esedra Editrice, 2017, p. 19. Sulla medesima tematica l’autore richiama la calviniana nozione di «antilingua» nel cui contesto «i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo ad una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente […] La motivazione psicologica dell’antilingua è la mancanza di un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per se stessi. La lingua invece vive solo d’un rapporto con la vita che diventa comunicazione» (I. CALVINO, L’antilingua (1965), in Una pietra sopra.

Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, ora nei Saggi, Milano, Mondadori (“I Meridiani”), 1995, a cura di M. Barenghi, vol. I, pp. 154-159).

58 individuale e quello sociale»136. La vita, nella sua pragmaticità, di fatto annulla la rilevanza di alcune fondamentali categorie giuridiche: in primis, l’effettiva sussistenza dei diritti della persona e della famiglia in assenza della titolarità dei diritti reali. Si ritrova in un noto passo de Il giorno del giudizio: «Nel codice che Don Sebastiano teneva sul tavolo la famiglia era distinta dalla proprietà; ma nella realtà della vita la famiglia senza beni è un’astrazione, è un pomposo modo di dire, come l’uomo senza beni, del resto, di cui i giuristi mestieranti dicono che è un soggetto di diritti. Ce n’è stato uno (sono ricordi di quando anch’io studiavo legge) che ha detto che ogni uomo ha un patrimonio. Bella roba. Costui, non aveva visto Fileddu, lo scemo di Nuoro, che andava appresso ai signori come un cane […]»137.

In più occasioni, nel romanzo emerge lo scollamento tra la realtà nella sua effettiva concretezza e l’astratta concettualizzazione giuridica, evidenziando come il diritto e le sue leggi si presentino, nella percezione sociale degli abitanti di Nuoro, essenzialmente come mezzi di conquista e perpetuazione del potere piuttosto che come strumenti finalizzati alla tutela delle esigenze sociali138.

La concezione della realtà, vista come perpetuo e insolubile conflitto tra vita e forma è, dunque, costantemente presente anche nella produzione narrativa dell’intellettuale sardo. Scrive Satta ne Il

Giorno del giudizio: «[…] la vita non si riduce mai ad un ritratto, o

a una fotografia. Neppure il cinematografo riproduce la vita, perché anche se si muovono, non sono che fotografie, una dopo l’altra»139.

136 SCAMARDELLA, Diritto e letteratura: alcuni profili della consuetudine

giuridica ne Il giorno del giudizio, cit., p. 87.

137 SATTA, Il giorno del giudizio, cit., p. 46. Sul personaggio di Fileddu, si

veda, S.SOLE, Fileddu, in Nella scrittura di Salvatore Satta, cit., pp. 279-282.

138 «È vero che il succo del vangelo sta nell’aver fatto di ogni uomo un

soggetto di diritti: nell’altro mondo, però, non in questo. Don Sebastiano non aveva beni al sole, ma sapeva di averli nella penna che scricchiolava nella carta bollata, e la famiglia sarebbe venuta per il tramite di quella giovinetta con la quale era andato ad abitare all’ombra di Santa Maria» (SATTA, Il giorno del giudizio, cit., p. 46). In merito al distacco del diritto dalla società, ancora Francesca Scamardella osserva come si tratti di «una distonia che emerge soprattutto nel contrasto con gli usi e le consuetudini locali che paiono meglio recepire le aspettative della comunità, ponendosi come un diritto come dovrebbe essere» (SCAMARDELLA, Diritto e letteratura: alcuni profili della consuetudine giuridica ne Il giorno del giudizio, cit., p. 101).

59 Il riferimento al cinematografo riporta alla mente la tematica, pirandelliana per eccellenza140, della contrapposizione tra il fluire della vita e la fissità dell’immagine rappresentata. Ci si riferisce, in particolare, al romanzo Quaderni di Serafino Gubbio141 e ad alcuni

passi del saggio sull’Umorismo142. In questi, così come in numerosi

altri esempi, ci si trova di fronte alla ricerca di uno strumento o di una tecnica che accolga il movimento, la successione temporale della vita nella limitata e ingannevole transitorietà dell’arte, o meglio della forma artistica143.

Secondo Pirandello, la dimensione della forma si realizza solamente nell’attimo in cui si perviene alla fissità della morte; di qui, l’inevitabile contrapposizione tra forma e vita144. Anche nella descrizione dei personaggi sattiani, così come in quella delle figure pirandelliane, emerge l’elemento della ripetitività degli atteggiamenti umani: «ognuno di noi, anche se limitato a guardare in se stesso, si vede nella fissità di un ritratto, non nella successione dell’esistenza. La successione è una trasformazione continua ed è impossibile cogliere gli atti di questa trasformazione. Sotto questo

140 Indiscussa è l’ammirazione dell’intellettuale sardo nei confronti dello scrittore siciliano. In tal senso, un espresso riferimento di Satta a quest’ultimo si ritrova nello scritto Giuseppe Capograssi in Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p. 359. Ad ulteriore conferma di ciò, l’influenza di Pirandello è ripetutamente presente in particolar modo ne Il giorno del giudizio. «La matrice pirandelliana emerge nel romanzo di Satta» sostiene Brunella Bigi «da due conflitti precisi: la frustrazione vissuta come fonte di impossibilità di arrestare il flusso della vita attraverso lo strumento narrativo, e l’esigenza di liberare i personaggi che affollano la memoria dello scrittore della loro vita, restituendo loro l’autonomia meritata e negatagli dalle loro stesse esistenze» (BIGI, L’autorità della lingua, cit., p. 92).

141 L. PIRANDELLO, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Milano,

Feltrinelli, 2017.

142 PIRANDELLO, L’umorismo, Firenze, Luigi Battistelli editore, 1920. 143«La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo di arrestare, di fissare in

forme stabili e determinate […] Le forme, in cui cerchiamo di arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci […]» (PIRANDELLO, L’umorismo, cit., p. 214).

144 Sostiene il personaggio principale della novella La carriola, professore

universitario di diritto che esercita la professione di avvocato: «Ogni forma è morte…se potessimo vederla, questa forma, è segno che la nostra vita non è più in essa». L’io inteso quale «forma che è morte» è necessario, prosegue lo stesso protagonista «a mia moglie, ai miei figli, alla società, cioè ai signori studenti della facoltà di legge, ai signori clienti» (PIRANDELLO, Novelle per un anno, III, Milano, Mondadori, 1990, pp. 558-559).

60 profilo si può dubitare del nostro stesso esistere, o la nostra realtà è solo nella morte»145.

Se la forma è morte, dal momento che tenta di immobilizzare la vita che, al contrario, si presenta come un flusso continuo, il diritto inteso esclusivamente in termini di forma realizza da se stesso la sua distruzione, determinata dall’indifferenza nei confronti dei contenuti normativi che incidono sul valore dell’esistenza e della coesistenza. Tale esito è proprio del nichilismo giuridico il quale trova, per l’appunto, la sua genesi nel considerare i concetti come forme che cristallizzano e tradiscono la vita146.

Anche Satta avverte la dicotomia tra le due polarità del «diritto propriamente legale»e del «diritto dell’umanità»147, tra la forma delle norme giuridiche e l’essenza ultima delle cose stesse. Ovviamente, il nichilismo giuridico non rappresenta un orientamento di pensiero in alcun modo congeniale al nostro autore il quale, costantemente, sottolinea il senso di responsabilità che deve connotare la funzione svolta dal giurista in relazione alla specifica natura morale della scienza giuridica.

«Le posizioni concettuali del giurista» sostiene «non hanno solo un valore tecnico […] ma sono la vita stessa colta nella concretezza del suo essere, e hanno quindi una forza di penetrazione e di formazione spirituale che nessuna ideologia può avere»148. Malgrado la “tentazione” del nichilismo, dunque, l’atteggiamento del docente sardo rimane quello di un impegno che potremmo definire, con una sorta di gioco di parole, di coscienza e di scienza.

Le conclusioni a cui giunge in questa sua sentita riflessione sul formalismo si pongono perfettamente in linea con il proprio sentire,

145 SATTA, Il giorno del giudizio, cit., p. 168.

146 Sulla tematica del nichilismo giuridico, in particolare, si rimanda a, N.

IRTI, Nichilismo giuridico, Roma-Bari, Laterza, 2005; Nichilismo e concetti giuridici. Intorno all’aforisma 459 «Umano, troppo umano», Napoli, Editoriale Scientifica, 2005; Il salvagente della forma, Roma-Bari, Laterza, 2007; Diritto senza verità, Roma-Bari, Laterza, 2011; B. ROMANO, Fondamentalismo funzionale e nichilismo giuridico. Postumanesimo, Noia, Globalizzazione, Torino, Giappichelli, 2004.

147 Le espressioni sono tratte da PIRANDELLO, Novelle per un anno, I,

Milano, Mondadori, 1998, p. 630.

148 SATTA, Introduzione, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p.

61 tenacemente ancorato alla concretezza delle cose. Non esiste, egli scrive, una ricetta contro il formalismo: una formula che lo elimini agendo dall’esterno. Il suo è un invito alla modestia e alla responsabilità nella misura in cui sostiene che, probabilmente, l’unico possibile rimedio a tale fenomeno potrebbe essere quello di operare a partire dal cosiddetto foro interno, sforzandosi di compiere «quel profondo atto di umiltà di fronte alla vita che è stato espresso per i medici, ma che vale per tutti: cura te ipsum»149.

Satta è perfettamente consapevole che si tratti di suggerimenti in qualche misura sfuggenti in quanto indirizzati alla dimensione interiore dell’individuo e che, verosimilmente, nulla potrà eliminare questo singolare atteggiamento dello spirito umano.

Ciò nonostante, non si trattiene dall’individuare un barlume di speranza nelle potenzialità educative di una formazione culturale intesa in senso ampio che presti, in particolare, specifica attenzione alle discipline umanistiche. Secondo l’intellettuale sardo, onde essere in grado di sostenere il proprio «impegno morale», al giurista non sarà sufficiente «studiare e conoscere le leggi», ma sarà necessario «stabilire una comunicazione, attraverso gli studi che un tempo si chiamavano umani, coi grandi spiriti che ci hanno preceduto […] ma soprattutto acquistare nella meditazione, e quasi in una perpetua confessione, esperienza di sé»150.

7. Lo slancio creativo individuale e il metodo