• Non ci sono risultati.

La critica al concettualismo

I severi rilievi rivolti agli epigoni chiovendiani non può esimere Satta dal confronto con la sempiterna problematica inerente alla natura dell’attività conoscitiva propria della scienza giuridica; problematica che, superfluo ribadirlo, assume profili di

inesatte le soluzioni e le conclusioni alle quali essa portava, non ho abbandonato né quell’abito, né quella scienza» (SATTA, Orientamenti e disorientamenti della scienza del processo, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p.189).

91 SATTA, Prefazione al volume sull’Esecuzione forzata, in Id., Soliloqui e

colloqui di un giurista, cit., pp. 135-138.

92 SATTA, Dalla procedura civile al diritto processuale civile, in Id.,

Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p. 117.

93 Ivi., p. 135. 94 Ivi., p. 136.

45 criticità del tutto peculiari stante la non riconducibilità di tale scienza all’ ámbito delle discipline schiettamente empirico- sperimentali95.

Riprendendo ancora una volta la lezione capograssiana96, il nostro autore ribadisce come nel contesto delle scienze della natura i concetti si configurino quali semplici rappresentazioni della realtà circostante; di conseguenza, tali scienze si pongono rispetto a quest’ultima in «una posizione di esteriorità», a partire dalla quale si tratterebbe esclusivamente di comparare concetto ad oggetto.

Al contrario, costituendo la scienza giuridica parte integrante dell’esperienza, il suo obiettivo fondamentale deve essere quello di non staccarsi da essa ma di coadiuvarla nel tentativo di farne emergere l’intima struttura97.

Pertanto, secondo il giurista sardo, pur al di là dell’indiscutibile sforzo di tradurre in termini giuridici il presupposto metagiuridico del processo quale valore universale98,

95 A tal proposito, sembra opportuno richiamare il riferimento alla

distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito elaborata, nel 1883, da W. DILTHEY nello scritto intitolato Introduzione alle scienze dello spirito (Einleitung in die geisteswissenschaften). Dilthey è stato riconosciuto come il fondatore dello storicismo, quella specifica corrente filosofica sviluppatasi in reazione al clima positivistico di fine Ottocento e che ha trovato in Weber la sua più compiuta espressione. Due le caratteristiche fondamentali di tale orientamento di pensiero: da un lato, l’identificazione della peculiare natura dell’oggetto della conoscenza delle scienze culturali; dall’altro, l’individuazione degli strumenti propri di tale conoscenza che si assumono differenti rispetto a quelli di cui si avvale la conoscenza naturale. In relazione al primo punto, il materiale sul quale opera la conoscenza storica è rappresentato dall’individualità, colta nella sua posizione dicotomica rispetto alla natura generale, omogenea e replicabile dell’oggetto della conoscenza naturale. Viceversa, per quanto attiene all’attività qualificante la conoscenza storica, il relativo schema esplicativo viene ravvisato in un lavoro di comprensione che, seppur diversamente declinato dai vari autori, si riferisce alla specifica operazione volta al riconoscimento delle diverse individualità storico-sociali. In taluni casi, lo storicismo ha affrontato anche la problematica inerente alla relazione che si stabilisce tra l’evoluzione storica e le finalità che gli individui tentano di conseguire in tale divenire, le quali, pertanto, orienterebbero il carattere mutevole dello stesso. Nel novero di alcuni indirizzi della corrente storicistica è, pertanto, anche possibile rintracciare riflessioni afferenti alla cosiddetta teoria dei valori. Sul tema dello storicismo, è stato consultato, N. ABBAGNANO, Storia della Filosofia, La filosofia moderna e contemporanea: dal Romanticismo all’Esistenzialismo, Volume III, Torino, Utet, 2003, pp. 581-615.

96 CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto, Milano, Giuffrè, 1962. 97 SATTA, Chiose, in Quaderni del diritto e del processo civile, II, cit., pag.

29-30.

98 SATTA, Dalla procedura civile al diritto processuale civile, in Id.,

46 anche la sistematica di Chiovenda non sarebbe riuscita a sfuggire al pericolo in cui rischiano di incorrere tutti i sistemi per la sola circostanza di essere tali e, precisamente, a quello di «generare una certa fissità formale, che determina un più o meno spesso diaframma tra la scienza e la vita»99. Tale rischio potenziale si sarebbe, successivamente, tradotto in realtà, nel momento in cui la riflessione post-chiovendiana avrebbe gradualmente snaturato la nozione stessa di sistema, contrapponendo due distinte modalità di conoscenza: una di natura inferiore ed una di natura superiore.

Più precisamente, quella superiore, identificata con il concetto stesso di sistema, sarebbe consistita nell’individuazione di una serie di principi astratti, in quanto totalmente avulsi dall’esperienza, e nella riduzione ad essi dell’intera realtà100. Riferendosi agli esiti riduzionistici del concettualismo Satta, nel presentare il primo volume del Commentario al codice di procedura civile, ribadisce come la generazione di studiosi alla quale egli appartiene condivida un’autentica “vocazione” per le costruzioni concettuali101.

99 Ivi., p. 122. In relazione al rischio che l’estremizzarsi

dell’“atteggiamento” concettualistico distanzi oltremodo il diritto dalla realtà del concreto, riportiamo lo stralcio di un frammento sattiano di recente reso noto: «Mi è accaduto di leggere qualche mese fa, una decisione di un nostro tribunale nella quale si stabiliva che la norma in calce non può essere rilasciata in un foglio forato, ma deve essere stesa nello stesso foglio o su un suo allungamento. Nello stesso giorno in cui questo giudice fissava tale supremo principio e ne dava, curvo sulla pagina, la più dotta dimostrazione, un altro uomo lanciato vertiginosamente compiva il giro intorno alla terra. La concomitanza dei due fatti è impressionante, perché processo vuol dire procedere, cioè andare avanti […] voglio significare che lo stesso razzo che lancia l’uomo sulla luna lancia uno actu il giudice cento o mille anni indietro, così che egli fatalmente parla un linguaggio negativo, ama una vera e propria lingua morta se purtroppo non fosse vivissima per via dell’autorità. Il caso accennato può fare maggior impressione per il suo contenuto formalistico: ma io sono sicuro che se si esaminano cento sentenze, un’altissima percentuale risente di questo sfasamento (corsivo nostro) rispetto alla vita» (SATTA, Mia

indissolubile compagna, cit., p. 25).

100 SATTA, Prefazione alla prima edizione del Manuale di diritto

processuale civile, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p. 139.

101 Nell’ambito della copiosa produzione giuridica sattiana, ai frequenti

rimandi letterari si affiancano le citazioni di arte figurativa. Ancora nel Commentario, ritroviamo un frammento in cui compare un esplicito riferimento a Marc Chagall. «Ci sono per la verità dei momenti, nelle vicende umane» scrive il nostro autore «sono le età dell’oro, che non sono favoleggiate, poiché la società nel suo convulso moto ha sempre delle grandi pause in cui gli uomini si riconoscono uno con l’altro, l’uno nell’altro. In questi periodi fortunati, l’uomo e la natura si identificano, e studiando la norma si studia, o si ritiene di studiare, l’uomo. Nascono allora i grandi giuristi, nasce Chiovenda: il suo sistema è perfetto proprio perché è sorretto dalla fede che […] tutto esiste e presiste nella norma. Improvvisamente (e fosse felicemente) il moto a un certo punto riprende, la

47 L’accademia giuridica avrebbe acquisito tutta una serie di granitici assiomi teorici quali solo sarebbero potuti scaturire dall’universo delle astrazioni; riducendo, gradualmente, «a quelle certezze la vita, cioè la grande espressione della vita che chiamiamo diritto»102.

È il docente nuorese medesimo, nel susseguirsi delle prefazioni103 alle sue principali opere giuridiche, a dare testimonianza del percorso della sua riflessione critica nei confronti delle tendenze concettualistiche dominanti nella scienza giuridica italiana del tempo. L’atteggiamento in qualche misura “indipendente” assunto nel corso degli studi giovanili, probabilmente, racchiude già in sé il germe della futura reazione che sfocerà, in seguito, in una decisa presa di posizione intorno alle «cose supreme, ai problemi più essenziali del processo, e quindi del diritto». L’autore progressivamente acquisisce consapevolezza di quello che sarebbe dovuto essere il suo ruolo, e il ruolo di ogni giurista: «non costruire» ma, una volta emancipatosi dai concetti ricevuti, predisporsi all’osservazione e alla lettura dei fenomeni

società si scompone come in quadro di Chagall, corpo di uomo e testa di gatto; e allora tra le rovine e dietro la maschera rispunta l’uomo, miserevole e terribile, a seconda del modo come riflette o non riflette la società. Il giurista non lo vede e continua a studiare la norma» (SATTA, Mia indissolubile compagna, cit., p. 25).

102 SATTA, Prefazione al primo volume del Commentario al codice di

procedura civile, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p. 156.

103 Con riferimento al ruolo ricoperto dalle Prefazioni nel corso della sua

produzione scientifica, Satta scrive: «Disgraziatamente, la rinnovata impostazione che la storia esigeva dal pensiero giuridico comportava la vanificazione di buona parte dei problemi senza i quali pareva che non si potesse far scienza, e prima ancora dei concetti che scambiati con la realtà avevano fatto sorgere quei problemi; e più disgraziatamente l’esponente di quel rinnovamento ebbe la sciagurata idea di dirlo nelle prefazioni che a ogni libro e a ogni riedizione di libro si divertiva a dettare. Le prefazioni sono una cosa molto seria, prima di tutto perché vengono dopo il libro, e poi perché sono le sole cose che uno legge: una persona prudente non dovrebbe mai scriverne. […] l’importanza di queste prefazioni […] sta più che altro nella riproposizione del problema del metodo» (SATTA, Introduzione, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p. 34). Ferdinando Mazzarella, nella Prefazione al volume dei Soliloqui e colloqui di un giurista, edito da Ilisso nel 2004, precisa: «Un’intera sezione del volume è dedicata alle prefazioni che Satta stesso premise alle edizioni della sua opera più nota (il manuale di Diritto processuale civile, un classico per generazioni di studiosi, che ebbe in vita dell’autore otto edizioni) e in una di esse dice che la prefazione non ha per scopo di giustificare il libro, ma di “dire tutto ciò che il libro non dice”» (MAZZARELLA, Prefazione, in Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p. 11).

48 sociali, in modo da poterli descrivere nella loro origine e nelle loro finalità104.

Sulla base di quanto lo stesso Satta riporta, il suo atteggiamento nei confronti del concettualismo avrebbe attraversato una escalation negativa di sentimenti: freddezza, ostilità, ripugnanza. In particolare, l’ostilità si sarebbe tradotta in ripugnanza nel momento in cui egli avrebbe acquisito coscienza della circostanza per la quale, nonostante la devastazione del mondo realizzata dalla guerra, il pensiero giuridico seguiva «imperterrito a giocare ai dadi dei suoi concetti»105. A quel punto, la questione scientifica, nella prospettiva dell’intellettuale nuorese, avrebbe cessato di essere tale per assumere i connotati di un vero e proprio «fatto morale», di qui il suo tentativo di «rompere il cerchio magico della scienza concettualistica»106.

Tuttavia, si tratta di intendersi: Satta è lontanissimo dal polemizzare con l’idea che l’argomentazione, quella giuridica in particolare, affronti il problema della dispositio, dunque, ricerchi un ordine per esporre il pensiero, un sistema per incasellare i concetti. Egli non rifiuta l’idea di un sistema quale coerente elaborazione di necessarie raffigurazioni nozionali, dal momento che della vita e della storia che la ingloba non è possibile avere una struttura interpretativa che non sia concettuale e che riesca a prescindere dall’impiego di astrazioni.

L’esperienza giuridica a causa del suo legame con l’evoluzione, i mutamenti, le eccentricità della vita necessita di un percorso che la orienti: tale percorso è quello individuato dall’attività svolta dalla

104 SATTA, Prefazione al volume sull’Esecuzione forzata, in Id., Soliloqui e

colloqui di un giurista, cit., pp. 136-137.

105 Molti degli interrogativi esistenziali, prima ancora che scientifici, che

Satta si pone scaturiscono dalle riflessioni originate dalla drammaticità e dal profondo senso di disorientamento scatenato dalla guerra. «Non c’è nulla di più stimolante della guerra per la revisione delle condizioni teoriche» scrive l’autore «infatti il culmine e la fine della guerra mi trovò intento nella revisione più radicale, quella dell’uomo, al lume delle piccole e grandi esperienze che sotto i miei occhi e prima ancora che in me stesso si andavano maturando» (SATTA,

Introduzione, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p.33).

106 SATTA, Introduzione, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p.

49 scienza giuridica107. La dimensione esperienziale individua l’oggetto sul quale operano le costruzioni della riflessione scientifica, nella misura in cui apporta il materiale in relazione al quale quest’ultima elabora le sue concettualizzazioni. Di fronte alla variabilità e alla transitorietà del divenire storico, la dottrina assume il ruolo di depositaria dei dati costitutivi del reale, attraverso la loro conversione in nozioni di natura generale. Detto in altri termini, la vita, nella multiformità delle sue manifestazioni, esige l’intervento dell’attività strutturante e concettualizzante della scienza giuridica, la quale, a sua volta, non è concepibile al di fuori del suo totale inserimento nella sfera dell’esperienza108.

Data per assunta tale concezione, ciò nei cui confronti Satta manifesta una forte diffidenza è la tendenza a porre i concetti e la loro catalogazione in sistema, al posto della realtà dei fatti e della concretezza dei rapporti sociali, sostituendo ai problemi reali superflue preoccupazioni teoriche109. L’autore ribadisce, in diverse occasioni, come il giurista, nello svolgimento della propria attività, sia obbligato a ricorrere a “pratiche di astrazione” sfocianti nella conseguente elaborazione di concetti. Questi ultimi nella misura in cui identificano l’essere nella sua forma essenziale, rappresentano il

quid proprium della scienza giuridica. Tuttavia, il rischio di tale

opera di sistematizzazione è che le polarità possano invertirsi e che «[…] i concetti acquistino una tale assolutezza da diventare generatori della realtà, in luogo di essere generati»110.

107 GROSSI, Enrico Opocher nella cultura giuridica del Novecento italiano,

in G. Zaccaria (a cura di), Ricordo di Enrico Opocher, Padova, Cedam, 2006, p. 26.

108 Con riferimento alle più recenti riflessioni inerenti al rapporto tra

scienza giuridica e diritto, si rinvia a B. PASTORE, Tradizione e diritto, Torino, Giappichelli, 1990, pp. 116-117, 246 ss., 257-258; F. VIOLA, La critica

dell’ermeneutica alla filosofia analitica italiana del diritto, in M. JORI (a cura di),

Ermeneutica e filosofia analitica: due concezioni del diritto a confronto, Torino, Giappichelli, 1994, pp. 101-103.

109 «Qualsiasi cosa, invero, se ne pensi il diritto non ha rompicapi. I

rompicapi sorgono quando al diritto, cioè alla considerazione della realtà, si sostituiscono le costruzioni arbitrarie, fondate su presupposti arbitrari, cioè i concetti; in una parola, quando si scambiano i concetti con la realtà» (SATTA, La successione nel diritto controverso, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p. 232).

110 SATTA, Il formalismo nel processo, in Id., Il mistero del processo, cit., p.

50 La tendenza concettualistica contro la quale il giurista nuorese si schiera è quella che, paradossalmente, anziché impiegare il concetto quale indispensabile strumento esegetico conduce, all’opposto, alla negazione della sua intrinseca natura. Una tale pericolosa negazione si realizza nella misura in cui simili elaborazioni teoriche non hanno più ad oggetto la realtà dell’esperienza ma si pongono, all’opposto, esse stesse come realtà, anzi come la sola realtà esistente, in modo tale che l’intera sfera dell’esperienza debba adeguarvisi111. In altre parole, i rilievi critici del processualista sardo non si indirizzano alla nozione di concetto in sé, il che sul piano della logica avrebbe costituito un non senso, quanto piuttosto al suo limite: egli si riferisce al momento nel quale il concetto cessa di configurarsi come legittimo “degenerando” nella dimensione del concettualismo112.

Più in particolare, lo studioso indirizza i suoi principali strali polemici in direzione della specifica nozione di concetto giuridico. Quest’ultimo rappresenterebbe, dal suo punto di vista, null’altro che un mero «preconcetto», nella misura in cui in ambito giuridico non esisterebbero concetti «primitivi», come nelle scienze prettamente logiche, ma ci si troverebbe semplicemente di fronte alla variegata realtà dell’esperienza. Di conseguenza, l’unica legittima possibilità di poter parlare di concetto giuridico risiederebbe nel considerare quest’ultimo essenzialmente in termini di concreta disciplina del rapporto sostanziale113.

L’eccessiva astrazione della scienza giuridica avrebbe determinato un’indebita separazione della stessa dalla realtà dei rapporti sociali, in piena disarmonia con il compito precipuo del

111 SATTA, Discorso sul metodo, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista,

cit., pp. 160-161. La presenza dello scarto tra la pura cognizione teorica del diritto positivo e la conoscenza giuridica come esperienza di vita rappresenterà il connotato distintivo anche di alcuni personaggi de Il giorno del giudizio. Ludovico, uno dei figli di don Sebastiano «conosceva le istituzioni del codice, diceva che quando due coniugi non vanno d’accordo si devono separare, ed era quello che solo poteva dire, dal momento che aveva trovato nella legge quella certezza che gli sfuggiva nella vita, e si sentiva naturalmente portato a scambiare la vita con la legge» (SATTA, Il giorno del giudizio, Milano, Adelphi, 2007, p. 240).

112 SATTA, Dottrina. Voci ed echi, in Id., Quaderni del diritto e del processo

civile, III, Padova, Cedam, 1969, p. 80.

51 diritto che è quello di «tradurre in esperienza giuridica il dato concreto, cioè di pensarlo come universale»114. In una simile ottica, sembra potersi concludere che il concettualismo giuridico a cui Satta si oppone, più che una dottrina filosofico-giuridica, sia uno specifico metodo ermeneutico. Tale concezione interpretativa se, in relazione agli aspetti positivi, può essere apprezzata per i suoi “vantaggi” mnemonici e argomentativi presenta, quale risvolto negativo, il ricorso ad un sistema di concetti che, ancorando il diritto al dogmatismo di taluni principi immutabili, contribuisce ad attuarne il distacco dalla concretezza della vita115.

Di qui, il rifiuto per una realtà fatta di astratte nozioni in cui gli uomini vengono sostituiti da entità prodotte dall’intelletto, le quali finiscono con l’assumere la veste di veri e propri oggetti di “culto”. È proprio contro l’entificazione dei concetti che il nostro autore conduce una delle sue più accanite battaglie sempre permeate di venature umoristiche116. È il caso della

114 Numerosi sono gli esempi concreti addotti da Satta per mostrare

l’illusorietà dei tentativi finalizzati ad un effettivo riscontro nella realtà delle costruzioni giuridiche: «Così, per fare un esempio, quando io apro il codice civile, e nell’art. 1439 leggo che il dolo è causa di annullamento quando i raggiri usati da uno dei contraenti sono stati tali che senza di essi l’altra parte non avrebbe contrattato, […] io non ho di fronte il dato, non ho di fronte il diritto, se non come dichiarazione programmatica, di valore ipotetico; il dato sorge quando un determinato fatto si pone come raggiro […] e come tale viene riconosciuto o disconosciuto. Allora soltanto si forma l’esperienza giuridica, allora soltanto si forma, si crea veramente il diritto […]» (SATTA, Prefazione alla prima edizione del Manuale di diritto processuale, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista cit., p. 140). Ancora, sul tema, si veda altresì, SATTA, La successione nel diritto controverso, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., pp. 232-233.

115 Anna Jellamo, a tal proposito, osserva che: «Dal diritto come concreto

muoveva Satta nel criticare la tendenza della dottrina alla personificazione delle astrazioni: la norma giuridica, la volontà della legge, lo Stato. Astrazioni che possiedono una loro utilità, avvertiva, purché non vengano scambiate per realtà, “così che tutto quello che avviene deve essere adeguato a quella realtà”. È l’astratto che deve piegarsi al concreto, sosteneva, e non il contrario; il movimento deve andare dal fatto al concetto, e non viceversa. Per Satta narratore il concreto è la vita, la realtà delle cose, per come le cose si mettono e si compongono. Il concreto sono i rapporti umani, che vivono di vita propria, e accade che dicano cose diverse da quelle che dice la legge» (A. JELLAMO, Il

terribile giudizio. Rileggendo Salvatore Satta, in M. P. Mittica (a cura di), Diritto e narrazioni. Temi di diritto, letteratura ed altre arti, Milano, ISLL, 2011, p. 184).

116 «C’è un apostrofe napoletana» scrive Satta «che si rivolge a chi usa nel

suo linguaggio parole difficili: “parla comme mamma t’ha fatto”. È l’apostrofe, o meglio l’esortazione, che io mentalmente rivolgo ai giuristi o aspiranti giuristi di cui mi accade di leggere i libri infarciti di termini (credo) filosofici, di formule (credo) matematiche, e di leggerli ovviamente senza comprenderli […] Per questo

52 “personificazione” del diritto, canzonata nei Quaderni, in forza della quale le norme diventano autentiche persone dotate di azione e movimento che nella fattispecie «agitano la frusta»117 o, semplicemente, ordinano qualcosa a qualcuno, così distraendo dalla reale natura del rapporto umano. La critica iconoclasta, quasi provocatoria, di questa come di altre espressioni simili, impiegate