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Esperienze e valori nelle pratiche di social eating

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Economia e Management

Corso di Laurea Magistrale in

MARKETING E RICERCHE DI MERCATO

ESPERIENZE E VALORI NELLE

PRATICHE DI SOCIAL EATING

Relatore: Prof. Daniele Dalli

Candidata: Francesca Vagelli

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INDICE

INTRODUZIONE ... 4

 

1. PRODUCTION, CONSUMPTION E PROSUMPTION. UN

INQUADRAMENTO TEORICO ... 6

 

1.1  Production  vs.  consumption:  un  excursus  storico  sul  ruolo  del  consumo  ...  8  

1.2  Dal  consumer  al  prosumer  ...  9  

1.2.1  Prosumer  e  co-­‐creazione  ...  10  

1.3  Il  prosumer  nel  Web  2.0  ...  13  

1.4  Self-­‐presentation  del  prosumer  nel  Web  2.0  ...  15  

1.5  Il  cibo  come  linguaggio  ...  18  

1.5.1  La  dimensione  culturale  e  identitaria  del  cibo  ...  19  

1.5.1.1  Il  cibo  e  la  cultura  italiana  ...  23  

1.5.2  Self-­‐presentation  nella  preparazione  culinaria  ...  25  

2. LA SHARING ECONOMY E LA COLLABORATIVE

CONSUMPTION ... 26

 

2.1  Sharing  economy  e  collaborative  consumption:  un  problema  definitorio  ...  27  

2.2  I  principi  della  collaborative  consumption  ...  31  

2.3  Classificazione  delle  piattaforme  di  collaborative  consumption  ...  33  

2.4  Perché  condividere?  ...  35  

2.5  Autenticità  e  collaborative  consumption  ...  40  

2.6  Criticità  per  la  regolamentazione  della  collaborative  consumption  ...  41  

3. SOCIAL NETWORK E CIBO: UN SODALIZIO ORMAI

CONSOLIDATO. DAL FOODSTAGRAM AL SOCIAL EATING (E

COOKING) ... 48

 

3.1  Foodporn  e  foodstagram  ...  49  

3.2  Food  sharing  economy  ...  50  

3.3  Social  eating:  il  food  sempre  più  digital  e  sempre  più  shared  ...  52  

3.3.1  I  numeri  del  social  eating  in  italia  ...  53  

3.3.2  I  network  del  social  eating  ...  54  

3.3.2.1  Gnammo  ...  61  

3.3.2.2  Socialeaty  ...  64  

3.3.2.3  BonAppetour  ...  66  

3.3.2.4  EatWith  ...  67  

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3.3.4  Normativa  generale  ...  69  

3.3.5  Normativa  fiscale  ...  72  

4. METODO DI RICERCA ... 74

 

4.1  Obiettivi  della  ricerca  ...  75  

4.2  Ricerca  qualitativa  ...  75  

4.2.1  Osservazione  partecipata  ...  76  

4.2.2  Interviste  in  profondità  ...  77  

4.3  Ricerca  quantitativa  ...  78  

4.3.1  Il  piano  di  campionamento  ...  79  

4.3.2  Il  questionario  ...  79  

4.3.4  Analisi  dei  dati  ...  82  

4.4  Limiti  della  ricerca  ...  82  

5. RISULTATI DELLA RICERCA ... 84

 

5.1  Il  guest  ...  84  

5.1.1  Profilo  del  guest  ...  84  

5.1.2  Abitudini  dei  guest  nelle  pratiche  di  social  eating  ...  88  

5.1.3  Awareness  e  utilizzo  delle  piattaforme  di  social  eating  ...  93  

5.1.4  Motivazioni  alla  base  delle  pratiche  di  social  eating  per  il  guest  ...  99  

5.1.4.1  Il  ruolo  del  cibo  nel  social  eating  ...  105  

5.1.5  Propensione  alla  spesa  ...  107  

5.1.5.1  Analisi  dei  prezzi  ...  108  

5.2  Chi  è  l’host?  ...  115  

5.2.1  Motivazioni  dell’host  ...  116  

5.3  Social  eating  vs  ristorazione  tradizionale  ...  118  

5.4  Social  eating:  un  fenomeno  in  evoluzione?  ...  122  

CONCLUSIONI ... 126

 

BIBLIOGRAFIA ... 130

 

ALTRE FONTI ... 140

 

SITOGRAFIA ... 141

 

ALLEGATI ... 143

 

ALLEGATO  A  -­‐  Traccia  dell’intervista  in  profondità  ...  143  

ALLEGATO  B  -­‐  Trascrizione  dell’intervista  in  profondità  n.1  ...  144  

ALLEGATO  C  -­‐  Trascrizione  dell’intervista  in  profondità  n.2  ...  148  

ALLEGATO  D  -­‐  Trascrizione  dell’intervista  in  profondità  n.3  ...  156  

ALLEGATO  E  -­‐  Trascrizione  dell’intervista  in  profondità  n.4  ...  161  

ALLEGATO  F  -­‐  Trascrizione  dell’intervista  in  profondità  n.5  ...  166  

ALLEGATO  G  –  Questionario  ITALIANO  ...  169  

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INTRODUZIONE

Nell’era dei social network la parola d’ordine è condivisione. Che siano pensieri, notizie o semplici immagini, il principio sul quale si basano queste comunità è la condivisione di contenuti.

E dal canto suo anche il cibo è da sempre stato un forte aggregatore di persone e di esperienze. Il cibo avvicina, rallegra e delizia: a tavola si parla più volentieri, si condividono non solo le pietanze, ma anche le nostre esperienze e le nostre storie, e in fondo il più vecchio social network del mondo è proprio la tavola.

Era quindi inevitabile che con lo sviluppo delle piattaforme social si creasse rapidamente uno stretto legame tra queste e l’esperienza di condividere e assaporare in compagnia cibi e bevande, per rendere ancor più social qualcosa che lo è sempre stato. Il cibo ormai spopola sui media e non è difficile rendersene conto: dai cooking shows presenti su moltissimi canali tv, ai numerosi food blog che stanno invadendo il Web, dai tablet che hanno sostituito i libri di ricette nelle cucine di oggi, a Youtube che ha preso il posto dell’amica che ci spiega come preparare una ricetta.

L’evoluzione continua dell’economia e del Web 2.0 ci sta portando a rompere i confini con altre realtà tradizionalmente lontane dall’ambito della nostra cucina. Negli ultimi anni, infatti, app, startup e vari esperimenti stanno permettendo la riscoperta del living e del food soprattutto dal punto di vista sociale: il binomio tra cibo e Web, e tra cibo e social network è ogni giorno più forte e la voglia di condivisione gioca un ruolo fondamentale.

Dopo l’arrivo quasi invadente di Instagram sulle nostre tavole adesso però è il tempo del social eating, il nuovo fenomeno nato in Gran Bretagna che si sta velocemente diffondendo in tutta Europa e in Italia e che, in senso pratico, coincide con il condividere il pasto con perfetti sconosciuti e trasformare quindi la propria casa in un ristorante. Il social eating, dunque, può essere inserito in quella serie di fenomeni che rientrano nel sistema della collaborative economy, funzionando in tutto e per tutto come uno scambio peer-to-peer tra privati, e che, avvalendosi di una gestione 2.0, bypassa il sistema istituzionale delle licenze per la ristorazione.

Ma quali sono le motivazioni che spingono, da una parte l’host e dall’altra il guest, a condividere con perfetti sconosciuti un pasto? Si può parlare di concorrenza per il

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mondo della ristorazione tradizionale?

Il presente lavoro di ricerca cercherà di fornire una risposta a questi quesiti, con particolare riferimento al caso del social eating in Italia.

Il punto di partenza sarà un’analisi delle evoluzioni e delle interpretazioni riguardo al ruolo consumo all’interno del sistema economico nel corso del tempo, per arrivare al concetto di prosumer e di co-creazione di beni, servizi e di valore tra consumatore e imprese, concetti che, con l’avvento della cosiddetta sharing economy si sono evoluti ulteriormente. Dopo aver inquadrato il contesto di riferimento, poi, si passerà ad analizzare le principali piattaforme di social eating diffuse sul territorio nazionale, con una particolare attenzione per quelle utilizzate nella successiva fase di ricerca, effettuata con l’utilizzo di metodologie sia di tipo qualitativo che quantitativo, che ha permesso la raccolta delle informazioni necessarie a dare una risposta ai quesiti posti in precedenza.  

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1. PRODUCTION, CONSUMPTION E PROSUMPTION.

UN INQUADRAMENTO TEORICO

Il ruolo del consumatore nella preparazione del cibo permette di valutare, riconoscere, e collegare a evidenze empiriche le diverse teorie sulla figura del consumatore che si sono succedute nel tempo, a partire dal tradizionale approccio “buy and own”, verso contributi più recenti (Biraghi, Gambetti, Dalli; 2016) che hanno individuato i molteplici ruoli ed attività che il consumatore gioca: cliente, produttore, lavoratore, distributore, comunicatore (Cova, Cova; 2012), fino ad arrivare al concetto più recente di collaborative consumption, nonché a nuove forme di condivisione nate grazie alle opportunità offerte dal Web 2.0.

Nell’era post-moderna, infatti, il consumo ha assunto una nuova chiave interpretativa: esso non è più circoscrivibile a un mero atto pratico per la soddisfazione dei bisogni del consumatore, ma diventa qualcosa di più, un momento in cui si producono significati ed esperienze individuali e collettive (Firat e Dholakia, 1998), funzionali alla creazione di una propria identità da comunicare agli altri.

La letteratura ha segnalato l’emergere di questo fenomeno dagli anni ‘80: il tema riguardante il passaggio del consumatore da semplice utilizzatore del bene, a una nuova idea di consumatore più attivo, partecipe, costante, militante, lucido, sociale, comunitario (Kucuck, 2008) e, soprattutto, tenace (Macdonald e Uncles, 2007) è, quindi, di trattazione abbastanza recente e questo motiva il fatto che coesistano e continuino a essere sviluppate numerose teorie, studi e ricerche che tentano di dare una spiegazione a questo fenomeno sociale, alcune delle quali verranno analizzate nel corso del Paragrafo 1.2.

In particolare, la letteratura sul tema è stata rivitalizzata a partire dagli anni 2000, in relazione alle pratiche nate sul Web 2.0, che è diventato l’habitat ideale del prosumer, e

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che hanno aumentato esponenzialmente il potenziale comunicativo a disposizione degli utenti per la self-presentation attraverso le loro scelte e comportamenti di consumo. Non è assolutamente semplice modellare un discorso univoco e lineare sulle diverse teorie elaborate riguardo alle dinamiche tra produzione, consumo, condivisione e rappresentazione di sé, perciò per facilitare il compito si procederà per punti affrontando un particolare tema e, di volta in volta, successivi argomenti che potranno, grazie alle stesse precedenti trattazioni, essere meglio compresi.

Il punto di partenza sarà un’analisi dell’evoluzione delle interpretazioni date al ruolo consumo all’interno del sistema economico nel corso del tempo (Paragrafo 1.1), per arrivare al concetto di prosumer e di co-creazione di beni, servizi e di valore tra consumatore e imprese (Paragrafo 1.2), concetti quest’ultimi che, con l’avvento della cosiddetta sharing economy, si sono evoluti ulteriormente (si veda Capitolo 2). Infine saranno analizzate anche le teorie riguardo al ruolo che il consumo e la produzione ricopre per i soggetti: infatti, da atto pratico per la soddisfazione dei propri bisogni, il consumo è diventato un’attività per la self-presentation del consumatore, attività questa che si è rafforzata con l’avvento del Web 2.0, soprattutto in relazione alla produzione da parte del consumatore (Paragrafo 1.4.1).

Infine, ma non per ordine d’importanza, il capitolo si concluderà con un’analisi del significato attribuito al cibo, alla sua preparazione e al suo consumo, che nel corso dei secoli si è evoluto da mero atto di nutrimento per la soddisfazione di quello che Maslow (1954) definisce un bisogno fisiologico1, fino a diventare una parte essenziale, un identificatore sociale e parte della cultura di una comunità.

Si può affermare, dunque, che il cibo racchiuda significati e simboli, costituisca un rituale, invochi rappresentazioni e descriva identità sia individuali che collettive (McDonagh e Prothero, 2005; Douglas et al., 2005; Martin, 2005; Brewis et al., 2005; Marshall, 2005), e quindi sia un vero e proprio linguaggio (si veda Paragrafo 1.5) avente una componente identitaria e culturale (si veda Paragrafo 1.5.1) e che quindi molto spesso costituisce il primo modo per entrare in contatto con culture diverse, assumendo una forte rilevanza anche dal punto di vista turistico, come per esempio nel caso italiano (si veda Paragrafo 1.5.1.1).

                                                                                                               

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1.1 Production vs. consumption: un excursus storico sul ruolo del

consumo

Nell’era moderna il consumo era visto come un atto, subordinato alla produzione, che non generava nessun valore rilevante per la società; sussisteva, dunque, la dicotomia tra produzione, intesa come value-creating activity, e consumo, considerato invece una value-destructive activity (Firat e Dholakia, 1998).

Dall’inizio della Prima Rivoluzione Industriale e per i due secoli successivi, l’economia Occidentale ruotava attorno alla produzione (Ritzer, Jurgenson, 2010), ed il pensiero preminente era affetto da quello che Ritzer definisce productivist bias (Ritzer and Slater, 2001). Infatti, molti degli studiosi, economici e non, di questo periodo raramente riconobbero importanza al consumo o guardarono ad esso in un’ottica positiva (Ritzer, 2014): il consumo veniva visto come banale, come una pratica sociale dispendiosa, superflua orientata allo spreco (Veblen, 1899) e come l’atto, estremamente razionale, attraverso il quale comprare beni e servizi per soddisfare i propri bisogni attraverso l’uso e possesso del bene (Campbell, 2005).

L’enfasi sulla produzione si fonda sul lavoro dei teorici sociali classici, primo tra tutti Karl Marx, che, con la sua teoria del valore, afferma che è la produzione, attraverso il lavoro, a dare valore ai beni (Ritzer, 2014) trasformandoli in merci, mentre invece la domanda non gioca alcun ruolo nella determinazione del valore degli oggetti.

Dalla Seconda Guerra Mondiale in poi l’importanza del consumo è aumentata all’interno del sistema economico: la produzione era ancora vista come preminente, ma il “pendolo” cominciava a spostarsi verso una centralità del consumo, data la sua forte espansione in quegli anni (Ritzer, 2014), che segnarono di fatto la nascita della società dei consumi di massa, ma fu grazie alla neonata teoria keynesiana che riconosceva una centralità al consumo, che si determinò una vera e propria “rivoluzione copernicana” rispetto alle teorie economiche precedenti.

Le teorie, in quegli anni, hanno dunque iniziato a essere affette non più da un productivist bias, ma da consumerist bias, e l’esempio più lampante di questo cambiamento è l’opera del sociologo francese Jean Baudrillard “Consumer Society” (1970), che, come già si evince dal titolo, sottolinea come nel 20° secolo si è passati da una società dominata dalla produzione a una dominata dal consumo: la società dei consumi di massa. Nella sua ottica, però, il consumatore è sfruttato, manipolato dalle forze del mercato ed è alla mercé della pubblicità e dei mass media che lo orientano per

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i loro scopi (Campbell, 2005).

Sebbene siano così diverse tra di loro, per non dire antitetiche, le teorie appena viste (quelle di Marx e di Baudrillard) distinguevano nettamente la sfera del consumo e della produzione ed entrambe si basavano sull’assunto che, mentre le imprese creano valore, il ruolo del consumatore è quello di consumare e distruggere il valore che le imprese hanno “immesso” nel prodotto o servizio (Biraghi, Gambetti, Dalli; 2016).

1.2 Dal consumer al prosumer

Appurato il ruolo privilegiato che il consumo ha guadagnato nel corso del tempo, nella seconda metà degli anni ‘80, con l’affermarsi della società postmoderna e di prospettive teoriche alternative nell’analisi del comportamento del consumatore, è emersa l’idea che il consumatore facesse di più che semplicemente resistere alle pressioni della pubblicità e del mondo dell’offerta.

La realtà emergente ha fatto sì che fosse riesaminato anche il tradizionale sistema company-centric di creazione del valore, tipico dell’era moderna, a favore di un nuovo frame di riferimento, basato sulla co-creazione del valore tra imprese e consumatore (Prahalad e Ramaswamy, 2004): con l’avvento del postmodernismo, dunque, il consumo è stato elevato al livello della produzione, come attività creatrice di valore (Firat, Venkatesh, 1995). È evidente, infatti, come affermato da Ritzer (2014) che il mondo della produzione e del consumo non siano più, nell’era post-moderna, separati e distinti come nel mondo moderno, ma come vi sia piuttosto una continua interrelazione tra produzione e consumo. Nella realtà post-moderna non vi è più una cosa che è “pura” produzione o “puro” consumo, ma questi possono essere solo considerati due ideal-tipi, posti agli estremi di un immaginario continuum, che nel mondo reale s’intersecano sempre (Ritzer, 2009; 2014). Ed è per questo motivo, per l’impossibilità di separare nettamente la produzione dal consumo, la figura del produttore da quella del consumatore, che lo scrittore futurista Alvin Toffler ha coniato il termine prosumer (1980), un neologismo che richiama ed enfatizza la sintesi tra le due, fino ad allora antitetiche e separate, sfere.

Le pratiche di creazione del valore da parte dello stesso cliente estendono il marketing dal dominio aziendale alla vita del soggetto. Riportando un’affermazione di Kotler (1972): “Marketing does not apply when a person is engaged in an activity in reference

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to a thing or himself. Eating, driving, and manufacturing are not marketing activities, as they involve the person in an interactive relationship primarily with things”. Ancora, Holbrook (1994) definisce il valore come una: “interactive, relativistic preference experience” sostenendo che è un’esperienza basata sull’interazione tra il soggetto e l’oggetto. Da qui si dà un senso al perché è ritenuto sempre più importante l’ascolto e la partecipazione del cliente, che è capace di deviare la direzione che un prodotto assumeva originalmente.

1.2.1 Prosumer e co-creazione

Ma cosa co-produce il consumatore, o meglio il prosumer?

Il consumatore partecipa attivamente alla produzione di un nuovo valore, sia esso materiale (Campbell, 2005; Kotler, 1986, Dujarier, 2014) che immateriale, simbolico (Firat, Venkatesh, 1995; Dalli Galvagno, 2014).

Riguardo la co-creazione di valore immateriale, ci si riferisce a ciò che fu già teorizzato da Douglas e Isherwood (1979): i beni sono consumati per quello che significano e rappresentano, perciò, un mezzo per la comunicazione non-linguistica, attraverso la quale le persone articolano le loro relazioni. I beni, secondo Firat, Venkatesh (1995), diventano messaggi d’inclusione verso altri individui o gruppi d’individui) e definiscono il loro posto all’interno del mondo sociale (McCracken, 1988). Da qui ecco l’emergere di una nuova figura del consumatore: egli non è più considerato né un attore razionale, né una vittima impotente del sistema capitalistico, ma un manipolatore dei significati simbolici legati al prodotto, un consumatore che seleziona i beni con l’intenzione specifica di usarli per creare e mantenere l’impressione data, la propria identità e il proprio stile di vita (Featherstone, 1991). Il consumatore, quando utilizza un bene, è continuamente impegnato nella ricerca e nell’attribuzione di significati che lo aiutano a plasmare e definire la propria identità. (Belk, 1988; Firat, Venkatesh, 1995; Anould e Thompson, 2005). Ma non si parla di distinte pratiche svolte isolatamente, come il mero acquisto di un oggetto in sé, ma di un insieme di azioni strettamente interconnesse per mezzo delle quali gli oggetti, gli atteggiamenti e i significati sono orchestrati in uno specifico contesto identificativo (Arsel e Bean, 2013).

Si può affermare che in quest’ottica il consumo può essere visto il come il comportamento attraverso il quale i consumatori rendono la loro identità “tangibile”,

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associandola ad oggetti materiali: le persone, infatti, spesso scelgono determinati prodotti o brands perché sono rilevanti per loro stessi e comunicano una determinata identità (Schau, Gilly, 2003), e dunque, come affermano Thompson e Hirschman (1995), “consumption serves to produce a desidered self through the images and styles conveyed through one’s possessions”.

Interessante da analizzare è anche la teoria dell’antropologo inglese Daniel Miller che individua nella capacità di riappropriazione simbolica degli oggetti da parte dell’individuo una possibile via di uscita dalla condizione di alienazione, di estraneazione che ha origine nel sistema di produzione industriale: le merci alienanti, in quanto frutto della produzione industriale, vengono trasformate nell’atto di consumo in beni inalienabili, in qualcosa che non può essere né comprato né ceduto, poiché l’oggetto viene investito di valenze personali. Miller sostiene che possiamo definire il consumo come un lavoro di appropriazione simbolica, dove non è necessariamente la forma fisica del prodotto a mutare, anche se a volte ciò avviene (si pensi al fai da te, o alla trasformazione degli alimenti nella preparazione dei pasti), ma la sua natura sociale, il suo significato simbolico, in modo tale che la merce viene trasformata in oggetto di consumo.

Nell’ambito degli studi di CCT, il primo che ha individuato questa relazione così intima e inseparabile tra il consumatore e i propri oggetti di consumo è stato Belk, con il concetto di extended self (1988): secondo l’autore, senza i propri bene l’individuo non avrebbe un’identità da comunicare all’esterno, pertanto l’identità di una persona è data dalle sue caratteristiche personali, ma anche dai suoi oggetti, dai servizi che usa e dalle attività di consumo che svolge (Ahuvia, 2005). Ecco quindi che il consumo diventa un’attività fondamentale nel processo di costruzione identitaria del consumatore, o meglio, del prosumer.

Ma mentre la letteratura riguardo alla produzione di valore simbolico da parte del prosumer è molto ricca e articolata, tant’è che è impossibile, in questa sede, passare puntualmente in rassegna le varie teorie, quella relativa alla partecipazione del consumatore alla creazione di valore materiale per la rappresentazione di sé è di trattazione più recente (Biraghi, Gambetti, Dalli; 2016) dato che questa dimensione è stata a lungo negata, ma poi riconosciuta in particolare in attività come il Do it yourself (Moisio et al, 2013; Arsel e Bean, 2013, Watson e Shove, 2008) e la preparazione del cibo (Moisio et al, 2004, Chytkova, 2011).

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Nella letteratura sull’argomento molti altri concetti sono stati elaborati a riguardo, e tra questi quello del “craft consumption” (Campbell, 2005). Come l’artigiano esercita un controllo personale su tutti i processi di creazione del bene, così il “consumatore-artigiano” è colui che progetta e realizza i beni che egli stesso consumerà (Campbell, 2005). Riprendendo ciò che è stato detto poco fa riguardo alla teoria di Miller, il sociologo Campbell lega l’emergere della nuova figura del consumatore-artigiano a una crescente commodificazione del sistema dell’offerta, che ha fatto sì che le persone abbiano avvertito la necessità di trasformare alcuni aspetti della loro vita quotidiana nel luogo dove oggetti ed attività hanno un significato che essi considerano unico o addirittura sacro (Campbell, 2005).

Nel concetto di auto-produzione rientra anche quello che Troye e Supphellen (2012) definiscono self-production: “[it] can range from producing goods and services from scratch with little or no use of commercial products to coproducing goods and services using tools such as input products and devices.”

Parlare di self-production significa quindi lasciare ampia autonomia al consumatore che decide egli stesso come assemblare e combinare i vari prodotti offerti dal mercato, e, per questo motivo, le imprese non possono avere il pieno controllo sull’uso che l’individuo effettivamente fa con prodotti acquistati.

Quando i consumatori sono coinvolti in attività con cui producono qualcosa direttamente con le proprie mani, attivano automaticamente delle associazioni con se stessi e ciò consente loro di creare una reazione affettiva verso l’oggetto prodotto e questo concetto si collega al fatto che più l’attività ha un elevato grado di coinvolgimento per l’individuo, più questo si sente di poter dare la propria impronta personale al prodotto creato, e quindi più forte è il legame che unisce il soggetto al suo prodotto (Troye e Supphellen, 2012). Questa fa sì, come sottolineano Franke et al. (2010) nella definizione dell’effetto “I designed myself”, che il soggetto attribuisca un incremento di valore all’oggetto self-designed, semplicemente per il fatto che costituisce una sua creazione di cui si sente il creatore e l’artefice unico. Il caso che portano in esempio riguarda il valore generato dai MC toolkit: sneakers e T-shirts customizzate dallo stesso individuo attraverso l’uso di websites, che sono l’esempio di come “beyond preference fit and effort, there might be a third value generating effect in MC that arises merely from the fact that the customer is the designer of the product”. Gli individui che creano un oggetto direttamente lo considerano più “proprio” rispetto a coloro che invece si recano in un supermercato e lo acquistano: il valore che ne deriva è

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molto superiore e dipende proprio da quelle sensazioni di subjective ownership (Frank et al. 2010).

La massima espressione di un individuo nell’investire se stesso in un oggetto è proprio quando lo crea e questo significa che il suo coinvolgimento nell’oggetto raggiunge un grado molto elevato, che determina un valore superiore associato all’oggetto stesso. Il prodotto che risulta dalla creazione infatti non ha soltanto un valore strumentale per il suo artefice, ma anche un valore psicologico.

Le motivazioni che spingono il soggetto a mettere in pratica attività di auto-produzione non sono finalizzate meramente all’ottenimento di un output finale, ma anche dal desiderio di provare determinate sensazioni; per cui risulta plausibile nel far riferimento alle motivazioni che spingono i soggetti a praticare attività di self-production, comprendervi ad esempio ragioni di tipo ricreativo, il desiderio di impiegare il proprio tempo libero, la semplice soddisfazione che si prova quando si ottiene un buon risultato, o il bisogno di accrescere il proprio senso di identità. Tuttavia, va sicuramente tenuto conto del fatto che molti consumatori si cimentino in queste attività di self-production anche per altri motivi, come quando ad esempio i prodotti offerti sul mercato sono troppo costosi, quando l’offerta è piuttosto carente o inadeguata, o anche per la minore qualità percepita dello stesso prodotto sul mercato.

 

1.3 Il prosumer nel Web 2.0

L’analisi sociologica sull’attività del consumatore è stata rivitalizzata dal 2000 in relazione alle pratiche legate alla nascita del Web 2.0 (Dujarier, 2014; Dalli, Galvagno, 2014): Internet, ed in particolare il Web 2.0 essendo basati su un maggior coinvolgimento, nonché sulla partecipazione attiva degli utenti, contrapponendosi di fatto alla versione primordiale del Web 1.0 - dove invece i contenuti erano provider-generated, hanno contribuito ulteriormente all'erosione del confine tradizionale tra domanda e offerta (Cova, 2010, p. 43) determinando la nascita di modelli economici basati su meccanismi di condivisione.

Si può quindi affermare che il Web 2.0, favorendo l’implosione tra produzione e consumo (Ritzer, Jurgenson, 2010), è stato cruciale per lo sviluppo della prosumption verso un nuovo fenomeno, che se vogliamo ne rappresenta un’evoluzione, quello della collaborative consumption (analizzato nel Paragrafo 1.3). I consumatori, o meglio i

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prosumer, non producono più insieme all’azienda, ma sono diventati sempre più intraprendenti nei confronti di quest’ultime e dei loro brand, non solo imponendosi e facendo sentire la loro voce collaborando ai concept d'offerta, ma anche mettendo in atto delle iniziative in grado di escludere le imprese, destabilizzando così i naturali assetti del mercato (Cova, 2010, p.61): vi è un nuovo trend sociale in cui le persone usano le tecnologie per avere le cose dagli altri, piuttosto che dalle tradizionali istituzione, come le aziende (Cova, Cova, 2012).

La domanda che sorge spontanea è se in questo caso si possa parlare ancora di cooperazione tra aziende e soggetti, e quindi di co-creazione del valore. La risposta è sicuramente negativa: il valore, infatti, non è co-creato poiché non vi è un comune obiettivo che coinvolge due parti, in questo caso azienda e cliente. Più che altro gli individui attuano attività senza la partecipazione delle imprese utilizzando le stesse risorse da loro ottenute (Gummerus, 2013). Ed è per questo che la corrente di studio che si è occupata di questo fenomeno (McQuarrie et al. 2013, Moiso et al. 2004, Press and Arnould 2011, e molti altri) parla di consumatori come creatori di valore (e non co-creatori). Nessuno dei concetti citati precedentemente, infatti, cattura le vera essenza delle attività che coinvolgono gli individui nel consumo collaborativo: si tratta di comportamenti di customer engagement, verso brand o aziende, che non tengono di conto del ruolo di service provider che acquisisce invece il consumatore nella collaborative consumption (Perren e Grauerholz, 2015).

Ricapitolando quanto analizzato nel presente paragrafo, e tralasciando le peculiarità delle varie e numerose teorie riguardo al ruolo attivo del consumatore nella creazione di valore, il consumatore, in una visione post-moderna, può essere descritto come un creatore di valore (intendendo con questo termine anche la co-creazione di valore con le imprese), poiché mette in pratica attività sia nella fase produttiva sia di consumo, contribuendo quindi alla generazione di un surplus materiale e/o simbolico che in seguito verrà “sfruttato” per la determinazione e costruzione della propria identità, del proprio self concept. Soprattutto negli ultimi anni, però, come affermato da Ritzer e Jurgenson, (2010) l’ambiente digitale del Web 2.0 ha favorito l’emergere di un ambiente sempre più collaborativo e sociale, dando vita al nuovo fenomeno della collaborative consumption, in cui non si può più parlare dei consumatori come co- creatori di valore, ma bensì come creatori di valore, e che quindi si può affermare che rappresenti un nuovo stage nell’evoluzione del ruolo del consumatore.

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1.4 Self-presentation del prosumer nel Web 2.0

Le nuove tecnologie e il Web 2.0 hanno fatto sì che il fenomeno della self-presentation sia diventato sempre più immanente nel mondo virtuale e abbia acquisito anche caratteristiche differenti da quelle analizzate poco fa e legate alla rappresentazione della propria identità tramite il consumo materiale. La prosumption chiaramente non è stata inventata sul Web 2.0, ma quest’ultimo ha aumentato l’interesse verso di essa e la sua popolarità, diventando the most prevalent location of prosumption and its most important facilitator (Ritzer, Jurgenson, 2010), come già segnalato precedentemente. Le nuove tecnologie, infatti, hanno aumentato esponenzialmente il potenziale comunicativo a disposizione degli utenti: mentre le esperienze offline legate al consumo avvengono in spazi privati o possono essere solo testimoniate dalle persone vicine al consumatore, ciò che avviene online diventa di dominio pubblico.

In quest’ottica la creazione di un personal website è stata vista come una forma di conspicuous self-presentation, (Schau, Gilly, 2003), ma il discorso può sicuramente essere esteso anche a fenomeni più recenti, come la creazione di pagine personali sui vari social network, di canali YouTube, etc. Il movente principale che spinge gli individui a cimentarsi nella creazione di un blog e simili, è quello che Schau e Gilly chiamano il communicative intent, che possiamo affermare sia la loro remunerazione (2003), e tutto questo è facilmente deducile anche se si pensa a come oggi il successo delle iniziative online si misura con il numero di visite da parte degli altri cybernauti. Una volta appurata l’estensione della consistenza delle platee a cui il prosumer può comunicare la propria identità, grazie alle nuove tecnologie e ai nuovi canali, passiamo ad analizzare cosa è cambiato rispetto alla self-presentation offline analizzata precedentemente.

Sicuramente la motivazione alla base della self-presentation sia online che offline, è la medesima, ossia quella di comunicare agli altri una determinata identità (Dittmar, Pepper 1992; Goffman, 1959, Wiley, 1994).

Innanzitutto mentre nella vita reale, quella offline, le persone comunicano la loro identità attraverso il possesso fisico e materiale degli oggetti, nello spazio virtuale la presenza materiale non è richiesta. Questo fa sì che le associazioni nel mondo reale siano limitate poiché i consumatori spesso incorrono in limiti finanziari o di prossimità per associare la propria identità a un brand, ad esempio. Nel mondo virtuale, invece, l’unica limitazione è rappresentata dall’immaginazione del consumatore, e quindi esso

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può associare la propria immagine a qualunque brand, nel portare avanti il suo piano di costruzione identitaria (Schau, Gilly, 2013).

A differenza di quanto teorizzato da Belk (1988) riguardo l’extended self, la self-presentation nella rete include relazioni oppositive e negative, poiché quello che è considerato implicito nelle scelte offline dei consumatori, che scelgono un bene o un brand piuttosto che un altro, nel Web può essere esplicitato, ribadendo la propria lontananza da determinati brand (Kleine et al. 1995).

È stato citato in quest’ultimo passaggio un concetto già analizzato nel precedente paragrafo: l’extended self (Belk, 1988). Quando Belk, nel 1988, affrontò questo tema si trovò poi di fronte ad uno stravolgimento del concetto, proprio a causa della nascita della rete. Si pensi semplicemente al potere dei social network nel definire la nostra personalità: quando un utente commenta i nostri post, retwitta una nostra frase, allega foto e video ad una nostra discussione, sta effettivamente contribuendo a dare un senso diverso al discorso (Carroll e Romano, 2011). Tutte queste interazioni non fanno altro che ridisegnare continuamente la nostra identità digitale.

Il concetto di extendend self assume quindi una valenza totalmente diversa dal passato, in cui erano gli oggetti a definire il sé, ed a questo proposito Belk individua cinque elementi che hanno portato a questo cambiamento che verranno brevemente menzionati: 1. Dematerializzazione: nella rete le nostre informazioni, messaggi e possedimenti sono digitalizzati. Ciò comporta che un’attività non potrà più essere privata ma diventerà, più che altro, condivisa in un gruppo. L’interazione comporta, di conseguenza, anche una valutazione da parte dei soggetti membri; semplicemente dalla condivisione, ad esempio, di una canzone è possibile giudicare il soggetto e i suoi gusti personali (Rentfrow e Gosling, 2003, 2006). Ma non solo: la dematerializzazione comporta anche l’entusiasmo nel condividere un qualcosa con una comunità, aspetto fondamentale per il prosumer (Born, 2011). Tuttavia è qui che subentra un dubbio legittimo: può un bene immateriale avere effettivamente questo ruolo di definire l’essere di un soggetto? Nel caso del cibo, nella rete c’è semplicemente un’immagine o un video: è possibile che questa modalità di rappresentazione mini il potere di definire la propria identità? Lehdonvirta (2010) sostiene che i beni virtuali non sono meno abili dei beni reali nel soddisfare i desideri dei consumatori, ma il loro utilizzo è circoscritto a determinate situazioni. Nonostante ormai siano cadute le distinzioni e i confini tra il mondo reale e

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virtuale, ci sono alcune differenze che vanno assolutamente evidenziate e che comportano una giusta precisazione sul concetto dell’extendend self nel mondo virtuale. Siddiqui e Turley (2006) hanno sostenuto che i beni digitali hanno in sé un’incertezza riguardo il controllo sul possedimento dovuto all’evidente mancanza fisica, che comporta inoltre una percezione di un contenuto emozionale inferiore rispetto alle controparti materiali (Fox, 2004; McCourt, 2005; Styve’n, 2010). Queste dichiarazioni non negano il contributo di Belk ma temperano il potere che hanno i beni digitali.

2. Reincarnazione: non sono solo i beni a perdere la loro fisicità ma, in un certo senso,

anche il soggetto. Nel mondo digitale, infatti, egli può continuamente definire la propria identità e adattarla a diversi contesti (Bolter, 1996), in relazione ai sé ideali (Kozinets e Kedzior, 2009; Robinson, 2007; Taylor, 2002), sé possibili (Young e Whitty, 2012), sé aspirazionali (Martin, 2008; Wood e Solomon, 2010).

3. Condivisione: è il concetto fondamentale in Internet, che coinvolge tutti gli utenti. A

questo punto è possibile dare un ulteriore contributo all’idea del sé; Schwarz sostiene che siamo in un’era senza precedenti della rappresentazione di nostri autoritratti (Schwarz, 2010). Un fenomeno connesso alla proliferazione delle condivisioni è ciò che è stato definito come effetto disinibizione (Ridley, 2012; Suler, 2004); questo atteggiamento porta molte persone a presentare il loro essere in un modo molto più profondo e veritiero rispetto alle relazioni reali (Bargh, McKenna e Fitzsimons, 2002; Taylor, 2002; Tosun, 2012). Da qui è possibile fare un’affermazione importante: quando le cose sono “possedute” e condivise con terzi, sono molto più rilevanti per definire la propria identità a livello aggregato piuttosto che a livello individuale (Born, 2011). Dunque, rispetto a quanto detto in precedenza parlando di dematerializzazione, è possibile sostenere che la definizione della propria identità digitale è molto più incisiva, rispetto a quella reale, in termini prettamente di aggregazione. Ecco il perché del proliferare della condivisione e dei rapporti online.

4. Co-costruzione di se stessi: essere presenti nel Web comporta inevitabilmente, come

già sottolineato, una continua interazione. Turkle ha definito questo concetto come collaborative self (Turkle, 2011), dove gli utenti, gli amici e anche estranei collaborano nella co-costruzione dell’identità digitale. Torna con dirompenza il lato collettivo della definizione del proprio essere; si pensi ad esempio al fenomeno dei blog, in cui gli

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utenti vengono invitati a dare dei feedback e a commentare creando in questo modo una vera e propria comunità dinamica in cui il gruppo interagisce in modo molto fruttuoso (Nardi et al. 2004).

5. Memoria distribuita: il potere degli oggetti sta anche nel fornire un ricordo del

passato mediante un’associazione con un’immagine, un evento, una persona (Belk, 1991). Nel Web 2.0 anche questo concetto è oggetto di trasformazione; la continua annotazione degli eventi nel corso della vita, le foto e le frasi che vengono condivise, contribuiscono in maniera molto più amplia a creare interazioni con soggetti con esperienze e ricordi simili (Bluck, 2003). A questo punto è forse superfluo sostenere come nuovamente è presente il concetto dell’extended self a livello prettamente collettivo.

Le caratteristiche appena citate portano a rafforzare il concetto che, nel contesto della digitalizzazione, il nostro essere è espresso da un avatar e ciò che prima era privato ora è di dominio pubblico: in questo contesto il concetto dell’extended self non può più essere visto in una prospettiva meramente personale, ma comunitaria, condivisa, cooperativa. Il self è più interattivo, collaborativo, confessionale, dato che il cyberspace fornisce opportunità interattive che agevolano la connessione tra gli interessi dei soggetti (Blanchard, 2004) e, quindi, tra gli utenti stessi.

1.5 Il cibo come linguaggio

La rappresentazione delle pratiche culinarie rappresenta un contesto perfettamente esemplificativo dove le dinamiche tra consumo, produzione e identità analizzate finora, possono essere osservate nella loro interazione ed evoluzione. Il connubio produzione/consumo e la figura del consumatore come creatore di valore è naturale e comune (Biraghi, Gambetti, Dalli; 2016).

Dal punto di vista empirico, già De Certau (1980) aveva osservato la presenza di attività produttive poste in essere dal consumatore anche nelle pratiche quotidiane tradizionali, come, appunto, la preparazione del cibo (Wallendorf, Arnould, 1991; Arnauld, Wallendorf, 1994; Dalli, Romani, 2007; Chytkova, 2011), che può essere considerata un’attività in larga misura artigianale: il consumatore è infatti chiamato a contribuirvi partecipando a forme di co-produzione con chi rende disponibili i beni alimentari.

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Possiamo, dunque, senza dubbio affermare che il cibo acquista di diritto una posizione rilevante, se non la più importante, all’interno del fenomeno della prosumption; questo grazie soprattutto alla sua stessa natura che fa sì che si presti facilmente a essere trasformato, personalizzato, spiegato e condiviso, diventando un perfetto mezzo per esprimere la propria personalità e il proprio estro creativo, adattandosi al meglio al modellamento della propria identità e alla sua diffusione. Non a caso nel contesto digitale, dove maggiormente si esplica l’attività del prosumer, il tema del cibo sta riscuotendo un ampissimo successo: come affermato da alcuni all’interno della cucina “the most important kitchen tool is no longer the knife, or the rolling pin, but the

camera” per scattare foto del processo seguito e dell’output2.

Nel mondo digitale, blogs, vlogs, social networks stanno diventando una vetrina della creatività dove le persone possono esplorare quello che amano cucinare e connettersi con gli altri per mostrare ciò che prima era nascosto nella cucina, e, per dirla in termini goffmaniani (1959), mentre prima quello che accadeva in cucina veniva accuratamente nascosto, e quindi si poteva parlare a riguardo di retroscena, oggi l’attività culinaria è destinata al palcoscenico, come attività ricreativa, ma soprattutto di self-presentation (Bugge, 2003).

Il cibo e la sua preparazione sono state a lungo marginalizzate all’interno delle ricerche sociali (Brady, 2011). Nonostante questo con l’avvento dei Food Studies, il cibo è stato riconosciuto come prolifica area di studi accademici poiché ha una vasta gamma di implicazioni politiche, culturali e sociali (Deutche, Miller, 2007). Ecco così che gli studi sul cibo hanno esplorato gli aspetti storici, sociali, culturali, simbolici e politici legati al food e alle pratiche ad esso legate, illuminandone il ruolo che ricoprono nella vita sociale (Nestle, McIntosh, 2010) inclusa la costruzione dell’identità, come analizzato nei paragrafi successivi.

1.5.1 La dimensione culturale e identitaria del cibo

Il fatto che il cibo possa essere considerato un elemento culturale è provato dal fatto che, pur essendo onnivoro, l’uomo non si nutre con i medesimi cibi in tutte le culture. La predilezione verso alcuni di questi e il rifiuto di altri, potenzialmente commestibili,                                                                                                                

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ha quindi un’origine culturale. Ogni cultura ha un codice di condotta alimentare che privilegia determinati alimenti, mentre ne rende indesiderabili altri, e quindi se si evita di considerare i casi in cui è la mera sussistenza a dettare ciò che si mangia, il cibo non rappresenta un bisogno fisiologico ma bensì una necessità culturale.

Anche in letteratura, dopo una lunga riluttanza delle scienze sociali ad affrontare le tematiche legate al cibo e all’alimentazione, sono stati molti i contributi sull’argomento. La sociologia ha tentato, soprattutto negli ultimi decenni, di studiare questo fenomeno comprendendo la portata e le sue implicazioni nella società, in primo luogo concentrandosi sull’aspetto della rappresentazione collettiva (Fischler, 1988, pag.1): l’atto del cucinare, infatti, insieme a tutte le pratiche ad esso connesse, permette all’individuo di partecipare ad un vero e proprio movimento culturale.

Uno dei sociologi che si è occupato dell’argomento è il francese Pierre Bourdieu, che ne “La Distinzione” (1979), si concentra su diversi aspetti del comportamento, come la musica, l’abbigliamento, la cosmesi, il mobilio, le arti visive ed il cibo, che spesso sono attribuiti al gusto individuale ma, contemporaneamente, possono essere considerati correlati alla stratificazione sociale. Le diverse abitudini alimentari che caratterizzano le diverse classi sociali, infatti, secondo Bourdieu sono guidate, insieme alle altre azioni e scelte da un habitus, una sorta di forma mentis, che deriva dalla combinazione dei tre capitali: culturale, sociale ed economico.

Inoltre, anche una vera e propria branca dell’antropologia, la Food anthropology, si è completamente interessata allo studio del cibo come centro e motore dell’interazione e del rapporto che un soggetto ha col suo gruppo e/o con altri gruppi.

Interessante è anche il contributo dell’antropologo Claude Lèvi-Strauss scrive che “a society’s cookery is a language into which it translates its structure, unless it reluctantly and no less unwittingly reveals there its contradictions” (1968). Egli, infatti, vede la cucina come un’attività tecnica che fa da ponte tra Natura e Cultura: l’attività culinaria, infatti, non può essere considerata solamente un processo pratico e materiale attraverso il quale l’uomo trasforma, dal punto di vista fisico e chimico, le materie prime, ma sancisce il passaggio del cibo da Natura a Cultura, trasformando elementi naturali in prodotti culturali con forti significati simbolici.

Come abbiamo visto, quindi, la cucina non è tanto una questione d’ingredienti trasformati, ma piuttosto è una questione di classificazioni e di regole che ordinano il mondo e gli danno un senso (Mary Douglas, 1984). La più banale classificazione è

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quella che divide tra cosa è cibo e cosa non lo è: le proibizioni culturali non hanno solo una funzione nutrizionale ma servono anche a rendere pubblica l'appartenenza a un determinato gruppo culturale, a definire l'identità collettiva, a porre ordine nel mondo (includono o escludono da determinati gruppi sociali).

Ma come si può associare il cibo al processo di costruzione identitaria, e come questa relazione è stata approcciata dalle varie teorie?

Negli anni ’60-’70 Claude Lévi-Strauss e Mary Douglas, come visto poco fa, enfatizzarono il ruolo del cibo come “signifier, classifier and identity builder”, ma negli anni 80 poi gli studi subito una brusca accelerata dati i molti cambiamenti che investirono il mondo del cibo e del cosiddetto cultural turn delle scienze sociali.

Una larga varietà di nuovi temi fu esplorata, e in particolare fu presa in esame lo stretto ed intimo legame tra identità e cibo. Questo fu fortemente supportato dall’affermazione che ciò che ruota attorno al cibo non è limitato solo all’atto di classificazione e al suo consumo, ma va esteso anche alla sua preparazione, organizzazione, ai taboo, la compagnia, la location, il piacere, il tempo, i simboli, i significati e l’arte di bere e mangiare (Scholliers, 2001, p.7).

La visione della relazione tra cibo e identità è stata riassunta nell’articolo di Fischler (1988) che si apre con la frase “Food is central to our sense of identity”. Egli riconosce che mangiare è, ovviamente, un atto biologico, ma anche molto altro. Con il cibo, infatti, superiamo i confini tra ciò che è interno ed esterno –al corpo-, con il cosiddetto processo d’incorporazione: ingerire una determinata pietanza significa assorbire tutto o alcune delle sue proprietà, e dunque diventiamo quello che mangiamo, non solo dal punto di vista biologico ma anche identitario. Infatti, il principio d incorporazione, come affermato da Fischler (1988), è anche alla base dell’identità collettiva poiché le persone, “assorbendo” il cibo, demarcano il loro gruppo dagli altri: le persone che mangiano cibi simili sono credibili, e familiari e sicure, mentre coloro che mangiano cibi inusuali, a addirittura taboo, determinano l’emergere di sentimenti di sospetto o addirittura disgusto. La cucina quindi è al centro dell’idea di appartenenza a un determinato gruppo, un collettivo, e ciò è visibile anche nella condizione dei migranti ad esempio, dove le abitudini culinarie sono spesso mantenute anche se la lingua dimenticata, come evidenziato nello studio di Chitkova (2011).

La stretta relazione tra il processo d’identificazione e il cibo è stata analizzata da un numero sempre maggiore di studi sociali, antropologici, etnografici, geografici,

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filosofici e di genere (Scholliers, 2001). Queste ricerche hanno pochi dubbi sul ruolo del cibo nei progetti di definizione identitaria, ma ne analizzano diverse sfaccettature, come il cibo sia un forte marcatore di barriere sociali, come il ruolo giochi un importante parte nell’espressione dell’identità di genere (Marjorie e DeVault, 1991; Counihan, 1999), nella produzione dell’identità familiare (Valentine, 1999) e nell’espressione della condivisione e del rapporto con gli altri (Kareklas et al. 2014).

Nonostante molti riconoscano al cibo questo status privilegiato di costruttore dell’identità, collettiva e individuale, non sono mancate le voci fuori dal coro, come quella di Alan Warde, che infatti afferma che il cibo rappresenta per molti solo una “marginal way of expressing personal identity, […] and it is just one of many ways by which to express identity, and, moreover, a minor one.” (Scholliers, 2001).

Come si è già avuto modo di rilevare, il cibo tende a evidenziare le differenze tra gruppi, culture, strati sociali, e serve a rafforzare l’identità di gruppo, separando e distinguendo il “noi” dagli “altri” (Bourdieu, 1983). Ancora oggi l’alimentazione è considerata uno degli elementi più importanti per delimitare barriere ideologiche, etniche, politiche, sociali, o al contrario, uno dei mezzi più utilizzati per conoscere altre culture e per tentare la via dell’interculturalismo; il cibo, infatti, è anche un meccanismo rivelatore dell’identità etnica, culturale e sociale (Scholliers, 2001). Esso costituisce il primo modo, forse, per entrare in contatto con culture diverse, dato che mangiare il cibo altrui sembra più facile – almeno in apparenza – che decodificarne la lingua (Montanari, 2015).

Anche se la relazione tra cibo e cultura è sempre stata molto forte, l’interesse per la cucina nazionale e per i cibi locali è di recente emerso come un modo per riaffermare le tradizioni e i valori locali (Richards, 2002; Mirosa e Lawson, 2012). In particolare se i locali prediligono sempre di più i cibi del territorio e a chilometro zero poiché li percepiscono come più salutari (Pearson et al., 2011) o perché guidati da un comportamento socialmente responsabile orientato alla sostenibilità ambientale (Pieniak et al, 2009), i turisti cercano sempre più sapori tipici ed esperienze culinarie autentiche (Gyimòthy e Mykletun, 2009; Björk, e Kauppinen-Räisänen, 2016). Il cibo è la porta d’accesso più immediata di un territorio, è la prima esperienza con la quale il viaggiatore contemporaneo cerca un contatto con la cultura e le tradizioni del luogo3, e può essere considerata una tourist attraction tutti gli effetti (Cohen and Avieli, 2004;                                                                                                                

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Smith e Costello, 2009; Hillel et al., 2013): il cibo e le esperienze a esso connesse sono una parte delle attività di una vacanza (Kivela e Crotts, 2006) e costituiscono una parte significante delle spese di un viaggio (Hjalager e Antonioli Corigliano, 2000; McKercher et al., 2008). Addirittura, per determinati segmenti di viaggiatori, i cosiddetti foodies, l’esperienza culinaria può determinare la scelta della destinazione (Robinson e Getz, 2014). La tradizione culinaria locale e il consumo di piatti tipici sono considerati come una garanzia di genuinità e autenticità (Sims, 2009; Kauppinen-Räisänen et al., 2013), e rappresentano, aldilà della componente materiale, un mezzo per capire il patrimonio intangibile e la cultura della destinazione (Björk, e Kauppinen-Räisänen, 2016).

In conclusione, il cibo è un veicolo di auto-presentazione e di scambio culturale (Montanari, 2004). Attraverso codici di comunicazione trasmette, infatti, un insieme di valori simbolici e di significati di varia natura (economici, sociali, politici, religiosi, etnici, estetici, ecc.), contenendo e trasportando la cultura, le tradizioni e l’identità di un gruppo e costituisce il primo modo per entrare in contatto con culture diverse.

1.5.1.1 Il cibo e la cultura italiana

Le ricette, le espressioni di tradizioni e valori locali diventano un importante elemento di caratterizzazione e promozione per un territorio soprattutto come quello italiano contraddistinto da un’assenza di un’unica e istituzionale cucina nazionale che ha favorito l’origine di molte e variegate cucine locali e regionali.

Il cibo italiano, infatti, è un elemento imprescindibile dell’ “esperienza Italia”, per la sua capacità di rappresentare il Paese e la sua cultura, per la sua riconoscibilità e attrattività internazionale, e per la sua capacità di generare condivisone e racconto.

L’indagine “Be-Italy” sull’attrattività del Paese, condotta da Ipsos/ENIT, rivela che l’Italia è la meta più desiderata al mondo per la qualità della vita, la creatività e l’inventiva, e, soprattutto, per il cibo: oggi l’immagine dell’Italia “patria della bellezza”, è legata principalmente alla cucina (23% dei turisti), seguita dai monumenti e dalla moda (16%), dalla pittura/scultura (15%), dal design (7%) e da musica/danza/teatro

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(5%) (si veda Figura 1).4

Figura 1: l’immagine dell’Italia secondo i turisti Fonte: indagine Be-Italy, Ipsos/ENIT

Solo cinque anni fa gli stranieri in Italia spendevano 131 milioni di euro per la vacanza enogastronomica, nel 2017 si è arrivati a 223 milioni (+70%), con una spesa media pro-capite giornaliera di ben 149,9 euro, a fronte dei 128,7 euro di chi visita le città d’arte.5 Qualità, bellezza e creatività sono i tratti distintivi riconosciuti ai prodotti italiani, con la moda primo ambasciatore del made in Italy nel mondo (63%), seguita dal turismo (58%) e dall’enologia (57%). Ma è il settore enogastronomico quello in cui, secondo i turisti, più si ricerca l’eccellenza, una sfida contemporanea, incentrata sui valori che oggi più interessano, come sostenibilità, creatività, il senso della comunità che si ha nei piccoli centri, la ricerca di benessere, e l’essere allo stesso tempo local e global.

La vacanza enogastronomica è quella che cresce di più nel lungo periodo, e i primi mercati di origine che generano i maggiori introiti per vacanza enogastronomica in Italia sono: Stati Uniti (45,5 milioni di euro), UK (25,4 milioni), Austria (18,7),                                                                                                                

4 https://www.ipsos.com/sites/default/files/ct/publication/documents/2017-11/ricerca_beitaly_ipsos.pdf   5

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Svizzera (17), Francia (16,5), Canada (11,6), Brasile (11,5), Germania (10), Danimarca (8,1), Belgio (7,2). Ma la buona tavola, si conferma la motivazione di viaggio anche per gli stessi turisti italiani.

 

1.5.2 Self-presentation nella preparazione culinaria

Dalle ultime ricerche e dai riscontri ottenuti dai fenomeni odierni, è emersa, come già introdotto all’inizio del capitolo, una nuova e interessante declinazione dell’attività di self-presentation: infatti si assiste, soprattutto in riferimento al fenomeno del cibo, ad una progressiva separazione delle attività produttive dal loro convenzionale obiettivo di consumo alimentare (Biraghi, Gambetti, Dalli; 2016). In altre parole mentre solitamente la preparazione casalinga del cibo viene legata all’alimentazione della famiglia, ossia al consumo finale di quanto preparato, in questo caso l’outcome viene solamente mostrato agli altri e non è destinato all’alimentazione, al consumo. Molti consumatori oggi si dedicano ad attività culinarie per perseguire scopi di self presentation e non necessariamente per mangiarlo: dunque essi plasmano il loro self concept attraverso le attività messe in pratica e l'esposizione del risultato ottenuto (Belk, 2013) utilizzando in molteplici canali (Belk, 2014; Morreale, 2014).

Quindi possiamo affermare che se prima la creazione identitaria del prosumer passava tramite il consumo e il possesso materiale degli oggetti di consumo (Firat e Venkatesh, 1995), come approfondito nel Paragrafo 1.2, oggi essa passa attraverso il lavoro, le attività produttive messe in atto e la successiva esibizione del processo produttivo seguito e/o del risultato ottenuto (Biraghi, Gambetti, Dalli; 2016).

L’esibizione, sia questa del processo produttivo o dell’output ottenuto, fa si che si tratti, quindi, di una cultura del fare non fine a se stessa ma orientata verso la comunicazione e la socializzazione attraverso i canali della comunicazione digitale (Belk, 2013; Ritzer, 2013), che rappresentano una vetrina perfetta per la self-presentation dei prosumers, come analizzato precedentemente.

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2. LA SHARING ECONOMY E LA COLLABORATIVE

CONSUMPTION

Rimasta alla periferia nell’era dell’economia industriale, la condivisione grazie ai digital network ha acquisito una nuova centralità (Benkler, 2004), al punto di far parlare di una vera e propria “new era of sharing” (Belk, 2010).

Negli ultimi anni abbiamo assistito a un uso pervasivo del termine condivisione e dell’espressione “economia della condivisione” e del suo equivalente inglese sharing economy: per il The Guardian6 si tratta di “un’alternativa sostenibile in un momento di

crisi energetica, con un sistema finanziario che avvantaggia pochi a spese di molti e con un degrado ambientale incombente”, mentre l’Economist7 sottolinea come possa essere

una risposta alternativa alla crisi economica, e possiamo aggiungere, relazionale. Si tratta dunque di un’ascesa costante che è stata consacrata nel 2015 dall’Oxford Dictionary, con l’introduzione tra i neologismi del termine sharing economy, definito come “an economic system in which assets or services are shared between private individuals, either for free or for a fee, typically by means of the Internet”8.

Con il termine sharing economy si vuole descrivere quindi, in generale, un modello di business basato sulla condivisione di un prodotto o servizio tra più individui, favorito dalle crescenti potenzialità offerte da Web e dalle nuove tecnologie (Matzler, Veider e Kathan, 2015).

In questo capitolo per prima cosa verranno analizzate le molteplici proposte definitorie del fenomeno (Paragrafo 2.1), per poi passare ad una proposta di classificazione delle sharing platforms e a un’analisi delle motivazioni hanno spinto questa new era of sharing (Paragrafo 2.3), prestando una particolare attenzione al significato del concetto                                                                                                                

6

https://www.theguardian.com/sustainable-business/behavioural-insights/sharing-economy-sustainable-alternative-economics

7 https://www.economist.com/technology-quarterly/2013/03/09/all-eyes-on-the-sharing-economy 8 https://en.oxforddictionaries.com/definition/sharing_economy  

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di autenticità all’interno del fenomeno della sharing economy (Paragrafo 2.4).

Una volta passata in rassegna la letteratura sul tema, dunque, si passerà a un’analisi delle criticità del fenomeno e le proposte circa la sua regolamentazione (Paragrafo 2.5).

2.1 Sharing economy e collaborative consumption: un problema

definitorio

Condividere sembra essere diventato un imperativo ineludibile della rete, e sharing economy un’espressione usata per definire pratiche e comportamenti, sia online che offline, molto diversi per tipologie di governance, per scopi, funzionamento, strumenti di remunerazione, e così via. Per questo motivo arrivare a una definizione solida e comune di sharing economy è quasi impossibile (Schor, 2014).

Dallo “sfruttamento” in comune di beni materiali (automobili, stanze liberi, divani) o immateriali (musica, film, libri, …), alla condivisione di informazioni (Linux, Wikipedia), fino al concetto di peer-to-peer, ossia l’erogazione diretta di servizi da parte di non professionisti: quello della sharing economy è un concetto ampio e articolato nel quale confluiscono pratiche di consumo e imprenditoriali rese possibili dai progressi delle tecnologie e dai cambiamenti attitudinali dei consumatori (Hamari et al., 2015).

Uno scenario così variegato, ha portato a una confusione semantica, di cui parla anche Belk (2014), nei termini usati per descrivere le pratiche di condivisione: the mesh (Gansky, 2010), commercial sharing systems (Lamberton e Rose, 2012), access based consumption (Bardhi and Eckhardt, 2012), prosumption (Ritzer and Jurgenson, 2010, Toffler 1980), creation (Prahalad and Ramasway, 2004, Lanier e Shau, 2007), co-production (Humphreys and Grayson, 2008), consumer partecipation (Fitzsimmons, 1985) online volunteering (Postigo, 2003), marketing tribale, cyber-libertarianism (Ritzer, Jurgenson, 2010), collaborative economy (Owyang, 2013).

Ognuno di questi termini ha un suo significato e mette in luce un aspetto caratterizzante la nozione ombrello più generica di sharing economy, in cui si intrecciano inevitabilmente i destini di diversi aspetti del sistema economico, e tra questi la produzione e il consumo (Rogers e Botsman, 2011; Owyang, 2013).

In particolare, dal punto di vista delle attitudini di consumo le pratiche tipiche della sharing economy rientrano nel concetto di collaborative consumption.

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Nella sua prima definizione (Felton e Speath, 1978) la collaborative consumption fu definita come come “those events in which one or more persons consume economic goods or services in the process of engaging in joint activities with one or more others” (p. 614).

Il concetto di consumo collaborativo è però stato reso popolare e rivitalizzato da Botsman e Roger nel 20109, che adeguandolo alle pratiche di sharing economy, lo hanno definito come un modello sociale di consumo basato sulla condivisione, lo scambio, il commercio o il noleggio di prodotti e servizi, che sta reinventando non solo ciò che si consumo, ma anche il modo in cui si consuma.

In particolare secondo Botsman e Rogers (2010), le pratiche di consumo collaborativo possono essere suddivise in tre categorie principali, a seconda del modello di business applicato:

1. Product service systems, dove l’accesso a prodotti e servizi senza la necessità di possedere, in contrapposizione al sistema tradizionale basato invece sulla proprietà del bene. Questo implica una predisposizione mentale al concetto di accesso in sostituzione a quello di possesso, infatti le persone pagano per ottenere il beneficio di un prodotto senza possedere quel prodotto. Un esempio è il ride-sharing, in cui le persone condividono i posti sulla propria auto con chi ha bisogno di quel servizio per la propria mobilità. Questo sistema allunga il ciclo di vita del prodotto e ha al contempo un impatto ambientale positivo in quanto un prodotto posseduto individualmente (con un uso spesso limitato) viene sostituito con un servizio condiviso massimizzandone l’utilità. Anche gli utenti ne beneficiano risparmiando sui costi di acquisto e manutenzione.

2. Redistribution market, per beni inutilizzati o sottoutilizzati, da dove non sono più necessari a qualsiasi luogo o persona che ne abbia bisogno. Lo scambio può avvenire sia dietro ricompensa monetaria che non (es. baratto).

3. Collaborative lifestyles, dove lo scambio non riguarda prodotti, ma risorse intangibili, come spazio, tempo, competenze, capacità e denaro che vengono                                                                                                                

9 Botsman e Roger,What’s Mine Is Yours: How Collaborative Consumption is Changing the Way We

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scambiati in modo nuovo, contribuendo così, in senso generale, alla creazione di uno stile di vita collaborativo.

Figura 2: categorie di collaborative consumption secondo Rogers e Botsman (2010). Fonte: Botsman e Roger,What’s Mine Is Yours: How Collaborative Consumption is Changing the

Way We Live” (2010).

Belk (2010) critica entrambe le definizioni di collaborative consumption appena viste: quella di Felson e Speath a suo avviso è troppo generica perché, pur riferendosi ad attività congiunte che riguardano il consumo, non pone il focus sull’acquisizione e la distribuzione delle risorse, e si basa meramente sul fatto che vi sia un’attività di consumo coordinato e congiunto tra persone. Anche quella di Rogers e Botsman a suo avviso è troppo generica perché fa confluire sotto il termine di collaborative consumption attività riferibili ad altre pratiche ascrivibili allo scambio di mercato, allo sharing e al dono10.

Ecco quindi che Belk (2010) fornisce una sua definizione del fenomeno: “collaborative consumption is people coordinating the acquisition and distribution of a resource for a fee or other compensation. By including other compensation, the definition also encompasses bartering, trading, and swapping, which involve giving and receiving non-monetary compensation. But this definition of collaborative consumption excludes

                                                                                                               

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