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Criticità per la regolamentazione della collaborative consumption 41

2. LA SHARING ECONOMY E LA COLLABORATIVE

2.6   Criticità per la regolamentazione della collaborative consumption 41

affari a livello globale della sharing economy nel 2017 è stato di 300 miliardi di dollari, e che per il 2025 il fatturato globale atteso è di 570 miliardi di dollari15. Per avere un’idea più chiara si pensi a colossi come Uber e AirBnB: il primo ha raggiunto un enterprise value, nel 2016, di 68 milioni di dollari, mentre Hertz, che fa lo stesso lavoro, ha una flotta di 570mila auto, 29mila dipendenti, 9.400 stazioni in 150 Paesi, capitalizza “appena” 1,75 miliardi; Airbnb, invece, non possiede neanche un immobile e viene valutata 30 miliardi di dollari, una volta e mezzo la Hilton che ha 774mila camere in 4820 alberghi in tutto il mondo.

E in Italia? Il giro d’affari, nel 2015, dell’economia collaborativa nel nostro Paese viene individuato in 3,5 miliardi di euro16. Le previsioni di crescita per il futuro sono molto importanti: seconda degli scenari ipotizzati, si stima il contributo dell’economia collaborativa in una “forbice” che va da 8,8 a 10,5 miliardi di euro entro il 2020, e dai 14,1 ai 25,2 miliardi di euro entro il 2025.

Quindi, mentre il potenziale della collaborative consumption di trasformare il mondo e di crescere sembra enorme, molte criticità sono state sollevate dai detrattori, che vedono molti rischi nel nuovo paradigma e accusano il consumo collaborativo di concorrenza sleale, evasione fiscale, lavoro precario, solo per citarne alcune.

Ad aver maggior eco è stata la risposta a questi numeri da parte dell’economia tradizionale, la cosiddetta old economy, che si è tradotta in forme di opposizione talvolta democratiche e pacifiche, si veda il caso della proposition F di San Francisco con cui fu lanciato un referendum che proponeva l’obbligo per AirBnB di ridurre i giorni in cui il proprietario di casa poteva affittare la sua abitazione tramite la piattaforma (poi rigettata con il 55% di voti contrari), ma talvolta è sfociata anche in contestazioni più violente, come le più recenti manifestazioni e scontri di tassisti in rivolta contro Uber, in Italia17 e in Francia18.

A livello europeo, a Bruxelles, c’è stata una presa di posizione a favore della collaborative consumption con la Comunicazione COM (2016)356 – A European                                                                                                                

15 The sharing economy, PWC research, 2015

16 https://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2016-07-01/la-sharing-economy-italia-vale-35- miliardi-163954.shtml?uuid=AD11zhm 17 https://milano.repubblica.it/cronaca/2014/06/11/news/scontro_taxi- uber_marco_ponti_nessuno_parla_dell_interesse_dei_cittadini-88656136/ 18https://www.repubblica.it/economia/2014/04/24/news/francia_guerra_tra_i_taxi_e_le_vetture_con_autis ta_cos_il_governo_valls_tenta_la_mediazione-84338308/

agenda for the collaborative economy19, in cui vengono riportate delle linee guida

generali per i Paesi Membri in merito alle modalità di disciplina della nuova materia. Dopo aver definito l’economia collaborativa come l’insieme di “quei modelli di business in cui le attività sono agevolate dall’uso di piattaforme collaborative che producono un mercato aperto per l’uso temporaneo di beni e servizi spesso forniti da privati”, nella seconda parte, vengono poi affrontati alcuni punti fondamentali presentati di seguito (Dagnino, 2016):

• Accessibilità al mercato. In merito a questo punto è previsto che le autorizzazioni e le licenze non devono essere richieste alle piattaforme che operano come intermediari tra consumatori e fornitori di servizi e non forniscono loro stesse il servizio intermediato, tranne che in stretto caso di interesse pubblico. Per quanto riguarda i fornitori di servizi, gli Stati Membri sono invitati ad operare una distinzione tra forniture occasionali e professionali a seconda dei livelli di attività (come analizzato successivamente).

• Regimi di responsabilità. Le piattaforme digitali non sono ritenute responsabili d’informazioni possedute riguardanti i fornitori di servizi, tuttavia, esse sono incoraggiate a combattere i contenuti illegali presenti online e ad aumentare così la fiducia degli utenti. Le piattaforme sono invece ritenute responsabili dei servizi che direttamente offrono, come i servizi di pagamento.

• Tutela dei consumatori. Gli Stati Membri sono invitati a garantire a tutti gli utenti della piattaforma la protezione da pratiche commerciali sleali, questo però senza però far pesare ingenti obblighi su coloro che forniscono solo occasionalmente il servizio.

• Classificazione dei lavoratori. Per valutare la sussistenza di un rapporto di subordinazione fra fornitore del servizio e piattaforma collaborativa, la Comunicazione afferma che questo è presente quando il fornitore di servizio viene diretto dalla piattaforma, la quale ne determina l’attività, la remunerazione e le condizioni di lavoro (Dagnino, 2016).

• Trattamento fiscale. Per quanto riguarda la tassazione, la Commissione Europea resta ferma sul fatto che fornitori di servizio e piattaforme debbano pagare le tasse, tra le più rilevanti: le tasse sul reddito, sul fatturato d’azienda e l’IVA.

                                                                                                               

Anche a livello nazionale i dubbi e i timori attorno al consumo collaborativo hanno inciso sulla Proposta di legge N. 3564, denominata “Disciplina delle piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi e disposizioni per la promozione dell’economia della condivisione”, del 27 Gennaio 2016, e tutt’oggi ancora in fase di valutazione20.

Nel dettaglio possiamo affermare quindi che i principali aspetti critici legati al fenomeno e che dovranno essere regolamentati, possono essere riassunti nei seguenti punti:

1. il rapporto tra collaborative consumption e old economy;

2. gli effetti della collaborative consumption sulla tutela dei consumatori e sugli interessi, sia pubblici che privati, e dei settori in cui va ad operare;

3. Il ruolo e le garanzie di coloro che offrono il proprio lavoro all’interno o per tramite della collaborative consumption.

1. Rapporto tra collaborative consumption e old economy

Molto spesso ci si riferisce alla collaborative economy considerandola come disruptive del tessuto preesistente, ossia in grado di scardinare in profondità gli equilibri e sostituirsi ad esso, talvolta grazie a forme di concorrenza sleale.

Una prima linea d’intervento per garantire un graduale inserimento dell’economia collaborativa nel tessuto economico preesistente, come già accennato in precedenza, ruota intorno al concetto di professionalità del prosumer all’interno della collaborative consumption.

Infatti, se si parte dal riconoscimento da parte dell’ordinamento del valore dell’economia collaborativa, proprio per le caratteristiche di mutualità, rafforzamento del tessuto relazionale e comunitario, di aumento della produttività e di salvaguardia dell’ambiente già citate nel corso dei paragrafi precedenti, è facilmente giustificabile un regime giuridico a favore di coloro che operano all’interno della collaborative consumption in maniera non professionale, ossia come un’attività a latere di un’occupazione principale.

Ma in cosa si dovrebbe tradurre questo regime giuridico a favore? In un set di regole ridotte e più leggere da rispettare nello svolgimento dei servizi, e ciò anche quando il                                                                                                                

consumo collaborativo opera in settori fortemente regolamentati, e tradurre anche in un trattamento fiscale agevolato per coloro che svolgono queste attività in maniera non professionale.

Su questa scia s’inserisce anche quanto previsto dall’art. 5 della proposta di legge N. 3564, che infatti sancisce l’obbligo per i fornitori di servizio sulle piattaforme digitali a dichiarare il reddito percepito come “reddito da attività di economia della condivisione non professionale”. Su di esso viene applicata un’imposta pari al 10% qualora questo non superi i 10 mila euro annui. In questo caso, i gestori delle piattaforme si comportano da sostituti d’imposta. Se invece questo reddito supera la soglia stabilita, viene meno il requisito della non professionalità dell’attività, e dunque viene cumulato con i redditi da lavoro dipendente o autonomo e ad esso è applicata l’aliquota corrispondente. L’impostazione proposta è quindi flessibile e diversificata per chi svolge una microattività non professionale a integrazione del proprio reddito da lavoro e chi, invece, opera a livello professionale o imprenditoriale a tutti gli effetti.

2. Collaborative consumption e tutela degli interessi pubblici

Cosa ne è e ne sarà dei consumatori nel periodo in cui l’economia collaborativa è in attesa di regolamentazione?

Il timore, soprattutto da parte delle autorità pubbliche, di molti è quello di un vero e proprio far west. Di opinione contraria invece i consumatori, che in base ad una survey condotta, hanno ritenuto di aver ricevuto servizi coerenti con il prezzo pagata, e si sentiva correttamente informata circa gli operatori della collaborative consumption, la loro offerta di servizi e in merito ai diritti offerti ai consumatori, considerandosi dunque soddisfatti dell’esperienza di consumo collaborativo avuta21.

Se la soddisfazione riguardo al servizio ottenuto non sembra essere un problema, riguardo il tema della collaborative consumption e tutela degli interessi pubblici è un altro il tema che invece solleva un dibattito più acceso è quello legato al rating. Come visto in precedenza, la fiducia è alla base dello scambio tra sconosciuti tipico della delle nuove forme di condivisione sul Web 2.0: per questo tutte le piattaforme operanti in questo settore ha messo a punto dei sistemi di rating più o meno complessi. Compito                                                                                                                

21 "Collaboration or business? From value for users to a society with values", OCU, Altroconsumo, Deco

delle piattaforme di collaborative consumption dunque dovrebbe essere quello di garantire da parte sua il corretto funzionamento di tale sistema, che può essere considerato difatti un architrave del funzionamento del consumo collaborativo.

Accanto a tema del rating, vi è anche un altro tema forse ancor più caldo, che riguarda la fedeltà fiscale del prosumer che opera sulle piattaforme di collaborative consumption. Infatti si pone una questione riguardo alla veridicità delle dichiarazioni dei ricavi derivanti da attività svolte nell’ambito del consumo collaborativo da parte dei prosumer, che se non vere potrebbero rappresentare una pratica di concorrenza sleale. Per gli operatori dell’economia tradizionale. Anche a tal proposito, potrebbero esser e le piattaforme stesse, che hanno la possibilità di tracciare le transazioni dei prosumer, a interagire con lo stato per garantire la corretta applicazione delle norme anche in materia fiscale.

3. Lavoro e collaborative consumption

Il tema di investigare in questo caso è il rapporto tra la piattaforma e i lavoratori che offrono tramite essa i proprio servizi: la piattaforma è uno strumento che permette lo scambio di una prestazione di lavoro occasionale (seppur non sempre) su richiesta di un peer, i secondi sono considerati indipendent contractor, e dunque non godono delle garanzie dei lavoratori subordinati.

Sul tema in molti hanno invocato un intervento legislativo nel riconoscere la posizione di lavoratore subordinato per coloro che prestano la loro attività lavorativa per le piattaforme di collaborative consumption (si veda ad esempio gli autisti di Uber), ma nessun responso chiaro è giunto fino ad oggi, se non la recentissima sentenza n. 26/2019 del Tribunale di Torino riguardo al caso di alcuni riders della piattaforma di consegne a domicilio Foodora22. Infatti, se in prima istanza, il riconoscimento quali lavoratori subordinati della piattaforma dei riders era stato respinto, la sentenza in secondo grado ha stabilito che gli stessi “in riferimento all’attività prestata hanno diritto ad ottener una corresponsione compatibilmente con al retribuzione diretta e indiretta per i dipendenti di quinto livello del CCNL della logistica e dei trasporti”. C’è da specificare però che la sentenza è un’applicazione del D. Lgs. 81/2015, art. 2,                                                                                                                

22 https://torino.corriere.it/cronaca/19_gennaio_11/foodora-accolto-appello-torino-ricorso-5-ex-rider-

che fa riferimento ai rapporti di lavoro che vedono collaborazioni organizzate dal committente, ossia quei lavori che vengono svolti a livello personale ma le cui modalità d’esecuzione sono organizzate dal committente in riferimento ai tempie ai luoghi di lavoro, e che prevede che in questi casi sia applicata la disciplina del rapporto di lavoro subordinato23. Dunque i riders non sono stati riconosciuti come lavoratori subordinati, ma collaboratori autonomi, che però la legge parifica, a livello di retribuzione, al lavoro subordinato.

Con questa sentenza quindi si può intravedere uno spiraglio per la regolamentazione che riguarda la questione del lavoro sulle piattaforme di collaborative consumption, anche se molti studiosi sono invece dell’opinione che una possibili linea d’intervento sia la creazione di una nuova categoria di lavoratori. In questo senso appare andare anche l’intervento della Commissione Europea, che dopo aver preso atto del progressivo abbattimento delle tradizionali barriere tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, ha ribadito al propria volontà nell’investigare la possibilità di trovare nuove vie per garantire a questi nuovi lavoratori condizioni di lavoro più eque ed una struttura di welfare adeguata.

                                                                                                               

23 http://www.lavorosi.it/fileadmin/user_upload/GIURISPRUDENZA_2019/CdA_Torino-sent.-n.-26-

3. SOCIAL NETWORK E CIBO: UN SODALIZIO ORMAI