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INTRODUZIONE
Il seguente lavoro si propone di investigare i meccanismi che
sottendono al funzionamento della macchina democratica di
Marinaleda, enucleando elementi di importanza tutt’altro che marginale, tanto a livello locale quanto a livello globale, quali il ruolo
della donna, il potenziale produttivo della solidarietà e della
cooperazione, la garanzia e la non mercificazione dei diritti
fondamentali.
Il lavoro qui presentato è stato svolto per la maggior parte in
Andalusia, dove ho collaborato con la prof.ssa Evangelina Olid
Gonzalez, afferente al Dipartimento di Sociologia dell’Università di Siviglia. Per la stesura di questo lavoro è stata utilizzata in primo
luogo una bibliografia inerente alla storia spagnola e, nello specifico,
andalusa, per ricostruire la cornice storica nella quale la nascita del
sistema di Marinaleda si colloca. Successivamente si è proceduto ad
un’analisi approfondita del caso con l’ausilio di testi sociologici ed economici.
2
Il lavoro di ricerca bibliografico si è svolto parallelamente a viste in
loco e ad interviste agli abitanti di Marinaleda.
Agli inizi degli anni Sessanta dopo la caduta del franchismo e della
dittatura, la Spagna dice “sì” alla democrazia e al progresso. I tassi di crescita del paese sono decisamente più alti rispetto alla media degli
altri paesi europei, l’economia è fiorente e la società è in ripresa. Lo scenario è però destinato a mutare nuovamente a causa della
grande crisi economica che ebbe inizio nel 2008. La bolla immobiliare
ebbe un impatto devastante sul paese, facendo crollare i principali
pilastri economici spagnoli quali l’edilizia e il turismo. La crisi non ha risparmiato nessuno, coinvolgendo persone appartenenti alle più
diverse fasce sociali, le quali, avendo precedentemente stipulato
contratti da ipoteche per acquistare un’abitazione, si sono ritrovate ad
essere indebitate oltre maniera e incastrate nelle maglie di un sistema
finanziario sempre più esigente e allo stesso tempo crivellato senza
sosta dai colpi della crisi.
Questa paradossale situazione portò all’insorgere della popolazione,
che cominciò ad occupare edifici vuoti, i quali avrebbero potuto
3
poiché gli sgomberi e gli sfratti esecutivi non tardarono ad essere
eseguiti. Le occupazioni non erano mai clandestine ma pubbliche e
misero “in discussione le leggi sulla proprietà privata
contrapponendola alla funzione dell’abitazione”.1
In questo contesto emerge la fragilità di un paese il cui sistema
produttivo non è riuscito a resistere alle pressioni economiche esterne,
facendo sì che il PIL si contraesse alla fine del 2008 (passando da
+3,8% a +1,2%2), fino a quando non fu confermato che la Spagna era
entrata ufficialmente in recessione.
Quella che ci si presenta già nel febbraio del 2009 è una Spagna
paralizzata, con un tasso di crescita del PIL ridotto del 3,6%, una
Spagna in cui le banche si sono inginocchiate e arrese al fondo salva
Stati dell’UE, dove la disoccupazione ha raggiunto livelli preoccupanti (la disoccupazione giovanile toccava il 25%), dove le
industrie non producono ricchezza e il finanziamento di opere
pubbliche è congelato a tempo indeterminato.
1 E.Corona, Sì, se puede! Viaggio nell’Andalusia della speranza oltre la crisi, EPUB, settembre
2013. http://www.lafeltrinelli.it/ebook/corona-elvira/si-se-puede-viaggio-nell/9788868554590
2 “Spagna. Rapporti Paese congiunti”, Ambasciate/consolati – uffici ICE all’estero, Ministero
4
Da sottolineare è il fatto che la crescita avvenuta fino al 2007 era
basata essenzialmente sui consumi, sulle costruzioni e sulle massicce
risorse finanziarie di provenienza UE.
Il mercato del lavoro spagnolo ha risentito moltissimo della crisi,
confermandosi così il più debole d’Europa. Infatti, il tasso di disoccupazione del 2010 ha toccato e superato il 20%, stabilizzandosi
nuovamente ai livelli degli ultimi anni Novanta.3 La disoccupazione
ha colpito soprattutto le categorie più vulnerabili, come i giovani, le
donne, gli immigrati.
In una Spagna assediata da un lato dalla disoccupazione crescente e
dall’altro dal sempre più urgente problema abitativo, c’è però un’isola socialista, in Andalusia, che resiste alla crisi e sembra non risentire del
clima di malcelata esasperazione. Si tratta di Marinaleda, un pueblo
non distante dalla città di Siviglia, dove i lavoratori si sono organizzati
per dare vita ad una cooperativa che, attraverso un progetto sociale di
solidarietà, punta alla distribuzione equa del lavoro e ad una diversa e
più partecipata forma di democrazia.
Marinaleda fa parte di quelle numerose comunità agricole che
costellano l’Andalusia, circondata da immense distese verdi e
3 Ibidem, pag 6.
5
pianeggianti e filari di ulivi, ma che si differenzia nettamente da tutte
le altre. Marinaleda è riuscita, infatti, in controtendenza rispetto agli
andamenti economici di un’Europa in crisi, ad abbattere la disoccupazione e a trovare una soluzione concreta all’emergenza abitativa. Attraverso un modello politico ed economico fondato sulla
cooperazione e su scelte solidali, si concretizza l’utopia dei nostri giorni: disoccupazione allo 0%, mentre i dati per il resto del paese
riportano percentuali vicine al 35%; distribuzione del lavoro equa e
sostenibile; diritto all’abitare garantito.
La gestione della cosa pubblica avviene attraverso assemblee
periodiche, che vedono la partecipazione della quasi totalità della popolazione, in cui si creano Gruppi d’Azione per intervenire su problemi specifici o laddove ci sia bisogno.
Questa diversa modalità di amministrare il locale fa emergere un altro
fondamentale elemento di controtendenza. Nel pueblo non esiste alcun
vuoto incolmabile tra gli elettori e l’eletto, mentre è sempre più evidente nel resto d’Europa, e in Italia in particolare, lo scollamento crescente tra i cittadini e le istituzioni che li rappresentano.
Dimostrazione di ciò è l’inesistenza della paga per i consiglieri
6
all’impegno politico in Ayuntamiento durante il tempo libero o
addirittura sottraendo ore al lavoro.4
4 Marinaleda, il paese senza disoccupati, di Luigi Politano, postato da Le inchieste di Repubblica.
27
dicembre2013,http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/repit/2013/12/27/news/marinal eda_il_paese_dove_non_esistono_disoccupati-74586848/
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CAPITOLO I: LE POTENZIALITÀ DI UN’ECONOMIA BASATA SULLA COOPERAZIONE SOLIDALE
La globalizzazione dell’economia e dei mercati non aiuta la dimensione locale ad autodefinirsi in quanto entità produttiva
indipendente e sostenibile, nella quale l’individuo è inteso non più
come semplice elemento apportatore di forza lavoro – e quindi di
guadagno – ma è considerato in primo luogo come portatore di diritti.
La divisione territoriale del lavoro che si profila all’inizio del processo di produzione capitalista e che influisce sul tessuto sociale andaluso,
fa emergere una definizione non ancora scardinata dell’economia andalusa, intesa come un mercato marginalizzato e non ancora
indipendente.
Certamente la globalizzazione non è di per sé una follia, poiché ha
arricchito il mondo da un punto di vista scientifico e culturale5,
rendendo permeabili confini prima considerati invalicabili. Nelle
parole di Amartya Sen, “la preoccupazione principale [collegata alla
globalizzazione, ndr] è il livello della disuguaglianza”6, e questo non
5 A. Sen, Globalizzazione e libertà, Mondadori, Milano, 2011 6 Ibidem, p. 6
9
vuol dire ridurre il tutto, semplicisticamente, a quanto guadagnino le
parti, quanto piuttosto vuol dire indagare se la distribuzione di questi
guadagni sia equa oppure no.
Nel mondo contemporaneo c’è quidi bisogno di ripensare le categorie economiche e politiche tanto a livello globale, quanto locale. La
riflessione non può non trovare il proprio avvio nella complementarità
necessaria tra le varie istituzioni, come il mercato, i sistemi
democratici e le opportunità politiche e lavorative.
Il concetto di lavoro sembra diventare sempre più malleabile e
soggetto ad interpretazioni varie, in quanto il mondo capitalizzato ha
costretto in qualche modo a ripensare le categorie lavorative entro le
quail ogni individuo dovrebbe riconoscersi.
Con la rapida e precoce diffusione del sistema latifondista e del
capitalismo agrario e, subito dopo, con l’espropriazione delle terre e dei beni comuni ai campesinos, in Andalusia le lotte contadine sorsero
con l’obietto di restituire la terra a chi la lavora, secondo il motto la tierra para quien la trabaja.
Isidoro Moreno ha formulato il concetto di cultura del trabajo in
10
– senza dimenticare i lavori invisibili come quello domestico, oppure i lavori considerati marginali o informali dal senso comune – e la
posizione che in questo stesso processo viene occupata, determinata
dalla divisione sociale del lavoro la quale dà origine alle relazioni
sociali di produzione, sono i due elementi alla base non solo delle
condizioni materiali che assicurano la tranquillità dell’esistenza, ma condizionano e impregnano ogni ambito della vita: dai matrimoni al
tipo di relazione tra vicini di casa, dalla rappresentazione che ognuno
ha del mondo fino al modo di esprimere i propri sentimenti. Si genera,
quindi, non solo una cultura del lavoro e di tutti gli aspetti attinenti
alla sfera lavorativa, ma anche una cultura dal lavoro, a partire dai
diversi processi lavorativi e dai ruoli ricoperti dal lavoratore
all’interno della relazione di produzione: per questo motivo sarebbe molto più accurato parlare non al singolare, bensì al plurale, di culture
del lavoro”(traduzione mia).7
La cultura del lavoro ingloba in sé saperi, attitudini, valori,
comportamenti e sentimenti che danno avvio ad un processo alla fine
del quale il gruppo si traduce in collettivo, grazie ad una nuova e
rinnovata coscienza politica.
7 I. Moreno, Trabajo, ideologia sobre el trabajo y culturas del trabajo, in TRABAJO. Revista
11
Di conseguenza, come specifica Talego, non è un caso che i
jornaleros di Marinaleda abbiamo accettato e fatto propria una determinata ideologia, e che avanzarono determinate proposte e non
altre. Il poder popular poggia su una ideologia che lo legittima e che è
il risultato di una meravigliosa “mescolanza tra la cultura del lavoro e
la tradizione della sinistra rivoluzionaria”(traduzione mia).8
Il “poder popular” opera a Marinaleda attraverso due tipi di azioni – non sono solo gesti simbolici, ma azioni politiche volte ad ottenere
risultati concreti e tangibili – ossia i lavori volontari (trabajos
voluntarios) e le lotte.
Il seguente lavoro si propone quindi di analizzare la forza e la
concretezza di questa alternativa, illuminando non solo gli aspetti
virtuosi che potrebbero costituire un valido esempio per esperienze
con propositi similari, ma anche gli aspetti critici, che corrispondono
ai limiti dell’applicabilità complessiva del modello in altri contesti.
8 F.Talego, Democracia asemblearia y liderazgo. La accion politica jornalera en Marinaleda, in
12
1.1 LA CRISI DEL LAVORO
Il lavoro non è sempre stato inteso come mezzo per raggiungere uno
scopo economico. A partire dall’era del capitalismo industriale invece,
è diventando un elemento dominante dello scenario socio-economico.
Prima dell’avvento della società capitalista, i primi industriali del secolo XVIII e XIX faticavano nell’obbligare i propri dipendenti a
lavorare durante la giornata, giorno dopo giorno. Da questo dato
storico risulta chiaro che la cosiddetta “etica del lavoro” e la “società del lavoro” sono fenomeni recenti. L’elemento topico delle società del lavoro è quello di considerare il lavoro come un dovere morale
dell’individuo, come un obbligo sociale. Gorz, nella sua Metamorfosi del lavoro, spiega su quali pilastri poggia l’ideologia del lavoro:
- Più un individuo lavora, più aumenta il benessere collettivo;
- Coloro che lavorano poco o non lavorano creano un danno alla
società;
- Chi lavora bene raggiunge un elevato status sociale.
Gorz continua affermando che molti vivono ancora sotto l’influsso di questa ideologia, tanto “che non passa giorno in cui un politico, che sia di destra o di sinistra, non esorti il cittadino a lavorare, perché è
13
solo mediante il lavoro che si può sconfiggere la crisi economica. Per
vincere la disoccupazione, continua il politico, bisogna lavorare di più,
e non di meno” (traduzione mia).9
In realtà, l’etica del lavoro si è rivelata in molti punti fallace, perché non è sillogistico affermare che lavorare più corrisponda a produrre di
più, né che produrre di più permetta di vivere meglio.
Il legame tra ‘più’ e ‘meglio’ si è dissolto, soprattutto a causa di un’economia rapace che tende sempre più a distruggere ciò di cui più avremmo bisogno, come l’aria, l’acqua, e al di là del contesto di natura, il tempo e il contatto umano.
Lo stesso Gorz sgretola le false asserzioni derivanti da questa
ideologia del lavoro, sotto il cui impulso si ha una funzione di
produzione crescente, ma che genera una quantità di lavoro
decrescente. Quello che risulta chiaro, anche e soprattutto a seguito
della rivoluzione tecnologica, è che non è poi così necessario che tutto
il mondo lavori a tempo pieno. L’etica del lavoro diventa in questo
contesto impraticabile, e si manifestano pesanti conseguenze sulla vita
personale degli individui.
14
Per far fronte ad un mercato del lavoro mutevole e imprevedibile, i
lavoratori salariati hanno sentito sempre più l’esigenza di organizzarsi
in unioni regolate per negoziare e far fronte in maniera collettiva alle
condizioni lavorative. Il sindacalismo è l’espressione concreta di questo interesse comune.
1.1.1 UNA NUOVA CONCEZIONE DEL LAVORO
Il senso comune imporrebbe di pensare alla definizione di “lavoro”
come ad un’attività remunerata, che prevede una controprestazione
monetaria, realizzata per conto di un terzo o di terzi. Questo crea
confusione tra lavoro ed impiego, ma, come specifica Gorz nelle
pagine finali del suo volume, “in realtà, non tutte le attività posso essere considerate ‘lavoro’, e non tutto il lavoro che si svolge è pagato. Ed è per questo che bisogna distinguere tra il lavoro con
15
domestico; le attività autonome, che si svolgono di per se stesse,
liberamente e sin necesidad. Si tratta di attività che sfruttano le corde
creative dell’essere umano, ma che contribuiscono anche ad un pieno sviluppo e non opprimono l’individuo con obblighi e cariche opprimenti. C’è un’enorme differenza tra un lavoro del secondo tipo, vissuto come obbligo sociale e triste e grigio tempo della vita, e un
lavoro del primo tipo, dal quale si trae il meglio e che si compie con
estrema serenità d’animo, in cooperazione con gli altri e attraverso la
ripartizione volontaria dei compiti.
1.2 IL CAPITALISMO: VECCHIA UTOPIA
Agli inizi del ‘900 l’immagine di un progresso inarrestabile, capace di
generare nuovi beni e servizi capillari faceva parte dell’immaginario di molti. Il capitalismo rese questa utopia realtà. Il capitalismo ha fatto
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concepibile. Ma quello che un tempo era desiderabile non è detto che
oggi lo sia ancora: la subordinazione al lavoro salariato e al guadagno
fa sì che i progetti e le ambizioni umane si indeboliscano perdendo di
senso e necessità. In un contesto simile le azioni culturali e lo sviluppo
di attività alternative rivestono un’importanza strategica.
Infatti, “la liberazione del lavoro con fini economici, attraverso la riduzione del tempo ad esso dedicato, e lo sviluppo di un altro tipo di
attività, autoregolate e autodeterminate, sono le uniche capaci di
conferire nuovo senso alle economie basate sul lavoro salariato e che
sono figlie della rivoluzione tecnologica” (traduzione mia).10
L’ambizioso progetto di una società in cui non si è schiavi del tempo e in cui ognuno può lavorare non solo per profitto costituisce la nuova
utopia del nostro tempo. Un’utopia che restituisce senso al progresso storico e coesione allo scenario sociale. La prospettiva è quella di
restituire dignità al lavoro non salariato, ponendo obiettivi conformi
con gli interessi dei lavoratori e dei ‘non-lavoratori’, cementando la solidarietà e la volontà politica comune.
Il lavoro salariato potrebbe non assorbire più la maggior parte del
tempo individuale, ma questo implica delle conseguenze. La lotta per
10 A. Gorz, Op.cit., pp. 282-283.
17
una riduzione sostanziale del tempo di lavoro salariato presuppone che questo smetta di essere un’occupazione totalizzante per la persona e smetta soprattutto di essere un mezzo di inserimento sociale e di
identità. Questo vuol dire che attività diverse, svincolate dai dettami
economici dominanti, devono assumere una nuova posizione di
preminenza per non creare smarrimenti identitari. Il cambiamento
della società e della cultura esige quindi che nuovi valori emergano,
come la cooperazione, la solidarietà e l’umanità dei rapporti.
Argutamente Gorz parla di liberaciòn en el trabajo e di liberaciòn del
trabajo come di elementi non antitetici e non in contraddizione con gli obiettivi sindacali tradizionali, e che quindi si condizionano vicendevolmente. L’aspirazione a ‘liberarsi’ del lavoro e nel lavoro opera nel senso di una humanizaciòn intesa come riduzione del tempo
lavorativo senza però la perdita di entrate.
Si potrebbe dibattere sul ruolo delle nuove tecnologie, che
semplificando gli scambi e accorciando le distanze hanno reso il
lavoro meno ‘fisico’ e più informatizzato, quasi smaterializzato, creando i presupposti per dimezzare i tempi lavorativi. Quello che il
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dei tempi lavorativi, che vengono compattati accelerando di fatto i
ritmi. Quella che Gorz chiama densificaciòn del trabajo.
1.2.1 L’IMPORTANZA DEL NOT FOR PROFIT
Se è vero che l’economia capitalista è riuscita a moltiplicare la quantità di beni disponibili, e ad allungarne il raggio di diffusione, non
è riuscita però a garantire ad ogni uomo e ad ogni donna il diritto al
lavoro, inteso qui come lavoro economicamente utile e remunerato.
Per fare in modo che il lavoro sia equamente distribuito, è auspicabile
ampliare il campo delle possibilità lavorative che vanno oltre la sfera
dell’economia tradizionale e l’aspetto lucrativo, lasciando spazio ad impieghi non tradizionali, creativi, che non fanno dell’accumulo di
ricchezza la loro ragion d’essere.
La svolta democratica di questo presupposto si ha nel momento in cui
19
categoria di lavori, attraverso una ridistribuzione del tempo lavorativo
in modo da non escludere nessuno dal circuito del lavoro.
Una politica di riduzione del tempo di lavoro limitata solamente agli
impiegati non qualificati, non sarà in grado di evitare quella
segmentazione della società che si dovrebbe invece prevenire. La
scissione sociale che deriverebbe da questo tipo di implementazione
della politica appena citata, da un lato lascerebbe adito all’emergere di una elite professionale che monopolizzerebbe le posizioni privilegiate
e di responsabilità; dall’altro lascerebbe dietro di sé una massa di
lavoratori part-time, non qualificati, marginali e senza potere
contrattuale.
È necessario, quindi, che tutti abbiano le stesse possibilità di accesso
nel mercato del lavoro alternativo, in modo da avviare un processo
trasparente e democratico che consenta ad ognuno e ad ognuna di
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1.3 UN’ATTO CONTRARIO ALLA LOGICA CAPITALISTICA
Il mondo è retto dalla logica del profitto economico, del guadagno a
tutti i costi, e in questo contesto il dono rappresenta un elemento
anacronistico, quasi incomprensibile e quindi sottovalutato.
Ci si potrebbe chiedere perché si parla di economia del dono e se
abbia senso. La risposta, che può sfuggire all’homo oeconomicus, è
semplice: donare è importante per instaurare relazioni. Per far sì che la
relazione prevalga sull’individualità. Le società moderne, ponendo troppo spesso l’accento sulle differenze piuttosto che sulle caratteristiche comuni, hanno finito per enfatizzare una dicotomia di
tipo “io” e “loro”, scardinando completamente il sentimento collettivo di solidarietà che invece deriva da quello che Richard Sennett chiama
il pronome pericoloso, “noi”. L’economia e alcune correnti filosofiche
del mondo occidentale moderno concordano nell’affermare che, affinché la società funzioni bene, ognuno deve perseguire il proprio
21
sorrette principalmente da regole economiche, il dono viene
considerato come pura ipocrisia11.
L’opposizione tra due tipologie di società, una basata sulla solidarietà e sullo scambio reciproco, e un’altra in cui ognuno persegue istintivamente i propri interessi, ha affollato, e tutt’ora affolla, i
discorsi e le idee di studiosi e filosofi. Di norma il secondo tipo di
società caratterizza il mondo occidentale, mentre l’area orientale del pacifico viene considerata ancora legata a tradizioni primordiali di
convivenza solidale. Ciò dà luogo anche ad una distinzione
geografica, che presuppone anche una differenza di prospettive
etico-sociali.12
Si è quindi creata una forte polarizzazione tra un Occidente accecato
dal guadagno, utilitarista e ossessionato dal profitto, e un resto del
mondo che sembra più propenso al dono, essendo l’economia indissolubilmente intrecciata al tessuto sociale.
Ma anche in una società in cui i valori predominanti sono l’agire
economico e l’ottimizzazione del profitto, possono esserci esempi di lavoro volontario e di solidarietà che normalmente non ci si
aspetterebbe di trovare. Marco Aime, nella sua Introduzione al Saggio
11 J.D. Godbout, Il linguaggio del dono, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, pp. 9-11.
22
sul dono di Marcel Mauss, spiega come il lavoro volontario sia esso stesso un dono, sotto forma di servizi, o ancora spiega come anche noi
siamo propensi al dono, anche se non ne siamo consapevoli: “E che dire dei moltissimi ‘donatori’ di sangue e di organi che consentono di
salvare numerose vite, senza guadagno materiale alcuno?”13
.
Il dono si nasconde tra le pieghe più profonde dei nostri gesti, che non
sono sempre innescati da una logica utilitaristica. Come Mauss tiene a
specificare, il dono non risponde ad una logica mercantile, ma non è
neanche puramente gratuito. Il dono si presenta come una specie di
‘ibrido’, che contiene in sé l’azione del dare e la speranza di ricevere un altro dono in cambio. L’elemento sostanziale che fa sì che il dono non faccia parte della sfera della logica economica è quindi la
mancanza di coercizione, di un contratto, ossia la libertà che ognuno
può esercitare – o non esercitare – di contraccambiare ad un dono
ricevuto.
13 M. Aime, Op. Cit.
23
1.3.1 IL PARADIGMA DEL DONO
Il paradigma del dono permette di concepire la storia e le società non
dal punto di vista dell’individualismo sfrenato, ma dal punto di vista di un diverso e più umano tipo di scambio, non necessariamente
basato sul lucro e sull’ambizione al guadagno..
1.3.2 L’IMPORTANZA SOCIALE DEL DONO
Nell’ambito delle scienze sociali sono stati elaborati diversi paradigmi che rifletterebbero il comportamento sociale dell’uomo. Il primo riguarda la sua natura egoistica, o per meglio dire,
individualistica, inserendosi quindi all’interno di un paradigma utilitaristico.
24
Durkheim è invece uno dei maggiori fautori del paradigma collettivista, il quale asserisce che l’uomo, in realtà, è intrinsecamente legato alle regole sociali della cultura di cui fa parte, ed è quindi
spinto naturalmente al dono per far sì che la società continui ad
esistere attraverso la creazione di una fitta rete di interazioni sociali.
Se da un lato quindi si pone l’individuo, il singolo, e dall’altro la collettività, si torna ancora una volta ad una dicotomia di tipo “io” – “loro”, uno o tutti. Alain Caillé nel suo libro Il terzo paradigma spiega come in realtà questo tipo di rapporto dicotomico non scandagli a
fondo la questione che riguarda la nascita dei legami sociali. Infatti,
pensando ad un individuo teso solo a soddisfare il proprio interesse,
gli attribuiamo inconsciamente caratteristiche considerate addirittura
genetiche, come ad esempio l’egoismo. Caillé propone un altro paradigma, oltre a quello utilitarista e collettivista, ossia il paradigma
del dono. Il dono deve quindi essere considerato il fattore catalizzatore
delle società? L’elemento attraverso il quale gli uomini esercitano la loro volontà di creare rapporti sociali? In conclusione, sono gli
25
Partendo da queste basi, il concetto di ‘dono’ viene riattualizzato e
rimesso in discussione dal MAUSS (Mouvement Anti-utilitariste dans
les Sciences Sociales).
1.3.3 IL M.A.U.S.S.
Il MAUSS nasce a Parigi nel 1981, grazie alla spinta di diversi
intellettuali provenienti dai background più diversi: vi presero parte
economisti, giuristi, sociologi e antropologi. Uno dei punti sui si sono
concentrati gli studiosi è la rilettura in chiave moderna delle teorie di
Mauss. Infatti, il riferimento del nome è ovviamente all’opera di
Marcel Mauss, di cui non a caso il mouvement parlerà come di una
découverte. Si trattava di un tentativo di esumazione, di riscoperta del continente del dono per giungere a nuove conclusioni intellettuali e
26
La sfida che gli studiosi avevano accettato era quella di misurare lo spazio dell’utilitarismo, non solo nella società moderna, ma nel complesso della cultura occidentale.
L’articolo 2 dello statuto del MAUSS è esplicativo degli obiettivi e dei contenuti. Eccolo parzialmente di seguito:
Quest’associazione ha per oggetto, nelle scienze sociali, nel campo della filosofia morale e politica, o più generalmente nei terreni politico, sociale e culturale di lottare contro la colonizzazione delle menti da parte dell’immaginario economicista e utilitarista.
Essa si richiama all’ideale di una scienza sociale rispettosa della pluralità dei suoi dati antropologici, economici, filosofici, storici o sociologici, ma preoccupata ugualmente, nel solco della tradizione sociologica classica, ed in particolare maussiana, rispettivamente della sua unità asintotica e della sua efficacia politica.
Aperta a ogni dibattito in buona fede, essa assicura la sua autonomia materiale e opera in piena indipendenza di spirito.
La riflessione sulle dimensioni non monetarie e non mercantili dello scambio che costituiva l’oggetto primo del MAUSS, ancora attuale, si inscrive oramai in questo quadro più generale.
Le differenze all’interno del gruppo erano considerevoli, e non solo per la grande varietà degli ambiti di ricerca, ma anche in relazione a
27
Il movimento è retto comunque da un obiettivo comune, ossia il
tentativo di smascherare gli idola delle scienze sociali contemporanee,
con la volontà di studiare a fondo le ragioni dell’agire umano, per comprenderne la ricchezza e la complessità al di là del paradigma
utilitaristico e individualistico. Questo paradigma infatti, descrive
l’uomo come un freddo calcolatore, profittatore sociale ed egoista, teso unicamente alla soddisfazione dei propri bisogni personali
seguendo i paradigmi dell’utilitarismo.
Ma perché l’utilitarismo sembra aver assunto tale vigore nel corso
della storia economica (e non) dell’uomo? Perché l’utilitarismo, costituisce la modalità di pensiero naturale e spontanea delle società
moderne, ossia di quelle società che hanno interrotto ogni legame con
il dono. L’utilitarismo resiste in quanto il mondo modernizzato non offre altra alternativa, poiché l’universo del dono non esiste più e di conseguenza volgere lo sguardo al profitto diventa sintomo proprio di
modernità.
L’idea di fondo è quindi quella di ripensare l’azione sociale degli uomini, inserendola in un contesto in cui, oltre al valore di scambio e
al valore d’uso, si accetta l’esistenza di un altro tipo di valore, legato alla volontà di creare e riprodurre relazioni sociali: si tratta del valore
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di legame, che permette agli uomini di “fare” la società, di allearsi e ad-sociarsi.
1.3.4 IL DONO GENERA LEGAMI SOCIALI
Jacques T. Godbout ben sintetizza il carattere del dono in questa
definizione: “Definiamo dono ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o
ricreare il legame sociale tra le persone”14
.
Mauss ritaglia, attraverso questa definizione, uno spazio per la libertà
d’azione che caratterizza l’atto stesso del donare. Il dono, infatti, implica una forte dose di libertà. È vero che nel momento in cui
riceviamo, ci sentiamo in dovere di contraccambiare, di restituire, che
non è però obbligato e discende quindi dalla sfera morale di ogni
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individuo. Per questo motivo il dono assume un valore maggiore
rispetto a qualsiasi altro gesto, bene, servizio, dato a qualcuno in
cambio di qualcos’altro. Il valore del dono quindi risiede nell’assenza di garanzie e di coercizione, un’assenza alla cui base risiede una grande fiducia negli altri.
Secondo Mauss negli oggetti donati esisterebbe una specie di “anima” che mantiene vivo il legame con colui che li ha donati. Questo legame
fa sì che prima o poi il dono, nella sua veste originaria o sotto altra
forma, torni a chi lo ha inizialmente donato. Mauss faceva riferimento
ad un concetto tipico della cultura del popolo Maori, denominato hau.
La parola hau esprime per i Maori un soffio vitale, un’essenza di vita
che risiede in ogni elemento ed ogni cosa che ci circonda, compresi gli
esseri umani.
A volte queste “economie del dono” potevano assumere caratteri estremamente competitivi, ma in maniera diametralmente opposta
rispetto alle moderne società occidentali. I vincenti non erano coloro
che accumulavano di più, ma coloro che al contrario, donavano di più.
Un esempio concreto di ciò può essere rinvenuto nella popolazione dei
Kwakiutl, della Columbia Britannica: le persone erano spinte da grande generosità e per questo non accadeva di rado che si lanciassero
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in vere e proprie sfide, nelle quali ognuno cercava di prevalere sull’altro distribuendo centinaia di braccialetti d’argento, coperte ricamate a mano o addirittura strumenti per il cucito. A volte i
contendenti arrivavano anche ad arrecare danno a loro stessi,
disperdendo le loro ricchezze e i loro beni in mare.
Questo tipo di usanza esasperata del donare può sembrare molto
distante dalla nostra cultura e dal nostro modo di esprimerci. Eppure
nella nostra società il dono continua a svolgere una funzione
aggregante, ma molto spesso sottovalutata. Il donare rientra tra i
sentimenti umani universali, che il mondo high-tech considera poco
importanti, ma che altre società invece rappresenta un atto socialmente
irrinunciabile.
“E persino nel sistema capitalistico occidentale, gli impulsi e i criteri morali di questo tipo non sono forse alla radice delle aspirazioni a
visioni alternative del mondo e a una politica socialista?”15
Secondo Mauss, al contrario di quanto avviene nel mondo
capitalizzato, nelle economie fondate sul dono gli scambi non hanno
un carattere sterile e impersonali. Infatti, quando un oggetto, che sia o
meno di valore, passa di mano in mano a partire da un primo donatore,
15 M. Aime, Op.cit.
31
quello che maggiormente conta è che lungo questa catena nascono e si
rafforzano i legami personali e sociali gli individui. Ciò che realmente
è importante quindi non è il far circolare una merce per ottenere un
profitto, quanto piuttosto la creazione di un sentimento di amicizia ed
empatia, e ad un livello più profondo, di condivisione.
In una economia di mercato un tale processo non avrebbe ragion
d’essere, ed anzi avviene esattamente l’opposto: le transazioni solo soltanto il mezzo per appropriarsi di beni materiali. Di conseguenze
gli oggetti diventano l’elemento principale degli scambi, lasciando in secondo piano le persone, trattate come se fossero cose.
La maggior parte delle cose che scambiamo, inizialmente soddisfa l’impellenza della volontà – o della necessità – del donare, eppure il desiderio continua ad essere vivo e a non sopirsi. Ecco, spiega Anna
Cossetta, docente dell’Università degli Studi di Genova, dove si trova uno dei momenti topici del valore di legame: proprio nel momento in
cui sperimentiamo dentro di noi un desiderio che ci lega all’altro e
32
movimento e un dolce indugiare di cui non possiamo fare a meno, di
cui abbiamo bisogno”16.
Il legame trova quindi il suo valore nella stabilità, perché il dono si
autoalimenta e prosegue attraverso il proprio rinnovato desiderio del
dare e attraverso il nuovo desiderio dell’altro di fare altrettanto.
La catena del donare-ricevere innesca quindi una sorta di circolo della
riconoscenza, per cui chi risponde al dono ricevuto con un altro dono,
non chiude il cerchio. E allora vale la pena avere dei “conti in sospeso” con l’altro, seppur dovuti a scelte spontanee?
La restituzione, il “controdono”17
, avviene in un periodo di tempo
diluito, per esempio una o due volte all’anno in occasioni di compleanni o festività, ed è proprio grazie a questo ‘debito’ stirato nel tempo, che i legami tra le parti continuano e si preservano. Si tratta
quindi di un sistema di equilibri spontanei.
16 A. Cossetta, Il dono: valore di legame e valori umani. Un dialogo interdisciplinare, Università
degli Studi di Macerata, fonte http://www.philosophicalnews.com/wpcontent/uploads/2.13.pdf
33
1.4 L’ECONOMIA COOPERATIVA DI MARINALEDA
Un esempio lampante delle teorie fin qui descritte è Marinaleda, un
piccolo comune nel cuore dell’Andalusia, una regione che tutt’ora conserva i tratti della vecchia Spagna latifondista.
In questa piccola oasi di democrazia, alcuni aspetti della vita delle
persone, e le persone stesse, vengono sottratti alla logica imperante
della domanda e dell’offerta, creando i presupposti per un nuovo collante sociale. Quest’ultimo consiste nel lavoro cooperativo e orizzontale, dove non esistono gerarchie e non si creano meccanismi
di prevaricazione.
Un dato importante, che rende tutto ciò possible e sostenibile, è la
gestione pubblica della cooperativa Humar, la quale aumenta il senso
35
CAPITOLO II: BREVE STORIA DELL’ANDALUSIA
Questo capitolo sarà interamente dedicato alla delineazione del quadro
storico entro il quale l’esperienza di Marinaleda ha preso forma. Verranno ripercorse le tappe fondamentali della storia andalusa, a
partire dalla società rurale arcaica e dai processi che hanno portato,
negli anni, ad una diversa gestione della terra, per giungere infine alle
contingenze dell’Andalusia attuale.
2.1 CHI ERANO I JORNALEROS?
La denominazione di “jornaleros” è eccessivamente semplice per poter riflettere la realtà sociale che si nasconde dietro di essa, facendo
riferimento in senso stretto a tutti gli uomini, le donne e i giovani che
traggono le proprie risorse dal lavoro a giornate, assicurato loro
soltanto in certe stagioni dell’anno. La figura del jornalero è profondamente legata alla struttura della terra, in Andalusia come nel
36
resto della Spagna. Sin dal XVIII secolo la popolazione rurale attiva
rivestiva un ruolo predominante nell’economia dell’epoca, tanto che
numerosi storici hanno ipotizzato che la proletarizzazione della
manodopera rurale fosse iniziata decenni addietro. In anni recenti
questa ipotesi è stata fortemente messa in discussione e la critica
principale parte dalla constatazione che i lavoratori che riuscivano a
vivere esclusivamente del proprio salario erano pochi e mal distribuiti.
Il numero di jornaleros variava molto da zona a zona, ma la bassa
Andalusia ne registrava una forte concentrazione. Il rapporto
lavorativo veniva regolato attraverso ordinanze municipali e
controllato da un ristretto gruppo di grandi proprietari terrieri, che si
assicuravano così una manodopera a basso prezzo.18
Durante il XVIII secolo la situazione in Andalusia ed Estremadura si
fa insostenibile a causa della concentrazione delle terre e della
formazione di sconfinati latifondi coltivati da una manodopera povera,
che chiamata a lavorare durante la stagione del raccolto, rimaneva
inattiva– e senza salario – durante l’inverno. In sostanza, per la
dedizione al lavoro, per il tramandarsi di generazione in generazione
18 Domínguez Ortiz, Antonio, El Antiguo Régimen: Los Reyes Católicos y los Austrias, Alianza
37
del mestiere, il jornalero deve essere considerato a tutti gli effetti un
contadino, in questo caso, un contadino senza terra.
2.2 LA PROLETARIZZAZIONE
Le condizioni in cui versa il lavoro salariato fa sì che solo a partire dal
processo di industrializzazione e urbanizzazione si possa parlare di
proletarizzazione. Secondo alcuni studiosi, come Puntas e Martìnez, si
sarebbe meglio parlare di una “asalarizacíon imperfecta de la mano de
obra”19
, ma non di un proletariato composto da contadini senza terra.
In realtà diventavano sempre più numerose le famiglie andaluse che
ancora vedevano lontana la possibilità di possedere una porzione di
terra, per piccola che fosse, e che come si specificherà in seguito,
erano disposte a lasciare l’Andalusia per offrire la propria forza lavoro
19 A.F. Puntas e A.L. Lòpez Martinez, El trabajo asalariado en la agricoltura de la Baja
38
in altre regioni o provincie dove la domanda di manodopera era
elevata.20
A partire dal XVIII secolo nella bassa Andalusia si generò una
copiosa offerta d’impiego grazie allo sfruttamento agrario dei grandi latifondi, che sebbene non fossero in numero elevato, coprivano però
la maggior parte della superficie produttiva della regione.21
La rapida proletarizzazione della manodopera rurale in Andalusia
occidentale è stata quindi motivata da una forte e continua offerta di
lavoro da parte dei grandi latifondisti, che miravano alla
commercializzazione dei prodotti agrari e non alla semplice
sussistenza.
Questo fenomeno porta, in conseguenza, alla formazione di un
mercato regionale del lavoro, cui i contadini provenienti
dall’Andalusia orientale apportavano manodopera soprattutto durante la stagione della raccolta. Le migrazioni stagionali dovute al lavoro
rinforzano il sistema cosiddetto minifondista22, generando anche un
notevole dinamismo demografico nella zona.
20
L.G. Gonzàlez, La configuracion de una clase obrera agricola en la Andalucia contemporanea:
los jornaleros, Historia Social n°28, 1997.
21 A. M. Bernal, Economia y historia de lo latifundo, Estudios regionales N°25, 1989.
22 In Andalusia coesistono due modalità di accumulazione e gestione della proprietà terriera. Nella
zona occidentale predomina la struttura latifondista, mentre la parte orientale della regione presenta una struttura prevalentemente minifondista.
39
I contadini si spostavano quindi da una zona all’altra della regione a seconda del’offerta di impiego, che rimaneva però limitata a periodi specifici dell’anno. Secondo Puntas e Martìnez, questo ha generato una segmentazione del mercato del lavoro, essenzialmente di due tipi:
temporale, poiché mentre ai jornaleros locali era riservato un impiego
salariato stabile per la maggior parte dell’anno, ai contadini provenienti da altre zone veniva assicurato il lavoro solo durante il
periodo della raccolta; sociale, perché una diminuzione della domanda
di lavoro avrebbe potuto generare forti tensioni sociali tra la
manodopera locale e quella proveniente da altre zone, che vedeva
drasticamente ridotte le possibilità di essere richiamata a lavorare23.
23 Puntas e Martinez, Op. cit.
40
2.3 IL MERCATO DEL LAVORO IN ANDALUSIA
2.3.1 LE POSSIBILITÀ DI IMPIEGO
Ad analizzare la struttura dell’agricoltura della bassa Andalusia dell’epoca moderna, si individuerebbe una caratteristica rischiosa: il dilagare della grande proprietà e le modalità di sfruttamento delle
terre. Questa non era una prerogativa della sola regione andalusa, in
quanto i grandi latifondi erano presenti, in altre regioni spagnole ed europee, con un’unica differenza. Diversamente che in Andalusia, le loro modalità di impiego della terra delle altre regioni erano basate
sulla parcellizzazione ed assegnazione delle grandi aziende agricole a
coloni e mezzadri, e questo ha condotto alla predominanza di aziende
a conduzione familiare, sia in relazione al numero, sia in relazione al
totale delle superfici coltivabili di queste regioni.
Al contrario, nella Valle del Guadalquivir, la permanenza di alcuni
fattori ha facilitato l’esistenza di immense proprietà ed aziende agricole, che sebbene non fossero in maggioranza numerica, sono
41
riuscite ad impossessarsi della maggior parte della superficie
coltivabile della regione.
La grande proprietà e il rapace sfruttamento della terra costituivano
quindi le discriminanti principali nel lavoro agricolo dell’Andalusia.
In effetti, molti agricoltori riuscirono ad ottenere il possesso di
notevoli appezzamenti di terra, che sfruttarono direttamente senza
prendere in considerazione la divisione dei terreni tra altri agricoltori
né la cessione della gestione a terzi. La gestione di queste terre
prevedeva, principalmente, coltivazioni di cereali, zone dedicate al
pascolo di animali utili per il lavoro nei campi, e in misura minore,
filari di ulivi.
Tutto questo permise al singolo potente agricoltore, unico possessore
di centinaia di ettari di terra, di crearsi una proprietà terriera immensa,
coltivata sotto la sua unica guida. Si tratta di un sfruttamento
marcatamente capitalista, orientato unicamente al mercato e alla
possibilità di guadagno. Casi in cui otto proprietari gestiscono una
superficie coltivabile pari a più di 18.000 ettari, non possono in
42
autoconsumo, mentre, al contrario, appare chiaro l’orientamento
meramente commerciale.24
Le cifre che riguardano la produzione o la quantità di grano presente
nei grani mostrano inequivocabilmente che la destinazione di questi
beni e prodotti era il mercato.
Gli studiosi Puntas e Martinez sono riusciti a consultare dei
raccoglitori di un archivio privato, e quindi a quantificare la
percentuale della produzione destinata alla commercializzazione. Per
esempio, il cortijo di Espartinas de Jerez, appartenente ai gesuiti, i
quali si occupavano direttamente della sua gestione, destinò alla
vendita, tra il 1711 e il 1766, il 49% della farina e il 49% dell’orzo che
producevano grazie ai loro settecento ettari di terra. Inoltre
destinarono alla vendita più del 60% dell’olio, prodotto su circa cinquanta ettari di terra, e il 62% del vino prodotto da vigneti che
occupavano invece circa trenta ettari di superficie. Nella zona di Ècija,
tra il 1772 e il 1796, un proprietario destinò al commercio l’85% dei prodotti totali derivanti dai suoi duecento ettari.
Come esempio lampante di produzione per il mercato nella zona di
Siviglia, Puntas e Martinez citano il caso di Vicente José Vazquez,
24 Puntas, Martinez, Op cit., pp. 102-103.
43
morto nel 1830. Tra i beni da lui lasciati furono rinvenuti 49.792
sacchi di farina, 11.109 sacchi di orzo e 7.290 contenitori di olio. Dal
canto suo, José M. Benjumea lasciò, dopo la sua morte, avvenuta nel
1859, circa 1.400 ettari di terra, 5.309 capi di bestiame e più di un
milione di reales25.
È vero che la semplice presenza di grandi quantità di prodotti e di
bestiame, inclusa la loro circolazione, non implica l’esistenza di uno
sfruttamento capitalista, in quanto la ricchezza diventa capitale
quando è ottenuto attraverso un sistema basato sul salario come forma
retribuzione di un lavoro liberamente acquisito attraverso il mercato
del lavoro. E in effetti, uno dei tratti distintivi dell’agricoltura
basso-andalusa è l’uso massiccio di manodopera retribuita 26
. Tra il
personale fisso e i lavoratori stagionali, le grandi aziende andaluse
davano lavoro a decine e decine di persone in maniera quasi
permanente.
La manodopera era composta da lavoratori fissi, che di solito nei
cataloghi venivano posti nella categoria degli asalariados. Questi si
25 Ivi, p.104.
26 Sul carattere capitalista delle colture intensive nella Bassa Andalusia esiste una controversia tra
chi, come Bernal o Mata Olmo, ne ribadisce il carattere capitalista e chi, di contro, lo nega del tutto, partendo dal presupposto che in quei casi il profitto era più importante dei benefici collettivi. Un latifondo può però essere considerato come un’impresa capitalista, in particolar modo a partire dai casi analizzati.
44
occupavano di mansioni direttamente collegate alla gestione della
terra: la raccolta delle olive, la guardia ai terreni, la gestione delle
vigne, etc.
La maggior parte dei contratti avevano la durata di anno, anche se
spesso i lavoratori venivano assunti anche solo per pochi mesi,
specialmente durante quelli primaverili. I libri contabili rinvenuti negli
archivi danno, approssimativamente, un’idea del numero di lavoratori
presenti in una singola azienda agricola: era certa la presenza di
almeno dieci lavoratori fissi, con contratto permanente, ma il numero
saliva, oscillando tra dieci e sedici, se venivano loro affiancati altri
lavoratori con contratto annuale o mensile, chiamati a svolgere altre
mansioni soprattutto durante la stagione della semina e della raccolta.
Un’altra categoria, la più numerosa, era composta da lavoratori occasionali, come coloro che venivano assunti a giornate (è il caso dei
mietitori dei cereali). il numero totale di questi lavoratori occasionali
non superava i 10.600, secondo una media annuale.
Senza dubbio la distribuzione dei jornaleros non era omogenea, sia se
si tiene in conto la tipologia di coltivazione, sia la distribuzione delle
45
2.3.2 IL LAVORO AGRICOLO NELL’ANDALUSIA DELL’ETÀ MODERNA
A partire dal secolo XVI, fino al XVIII, si delineano le linee guida
dell’attività agraria in Andalusia, soprattutto dal punto di vista delle coltivazioni e dell’allevamento. I segmenti più dinamici erano costituiti dai cereali, dalla presenza massiccia di bestiame, dagli
sterminati vigneti e dagli uliveti.
L’espansione agraria dell’Età Moderna si realizzò attraverso l’ampliamento delle terre destinate alle coltivazioni e al pascolo, per far fronte alla mancanza di strade alternative per incrementare la
produzione e la commercializzazione. Questa tendenza ad aumentare
gli ettari di terra arabile indica una tendenza che iniziò nel secolo XVI
e che subì un’impennata nel XVIII secolo.
I dati disponibili, secondo la Junta de Andalucía, permettono di avere
un quadro generale delle superfici e dell’uso primario che se ne faceva. Un 54,4% del territorio della regione corrispondeva ai campi
coltivati e lavorati, un 14,3% era destinato ai pascoli, e comprendeva
le aree montane e i boschi, mentre le terre incolte e improduttive
46
regione di queste porzioni di terra con relativo utilizzo, emergeva un palese squilibrio tra la bassa e l’alta Andalusia, con un bilanciamento decisamente favorevole alla prima, che possedeva quindi una
maggiore percentuale di terra coltivabile e produttiva.
Le terre de pan llevar27 e le terre destinate alle coltivazioni di cereali,
che erano alla base dell’alimentazione dell’epoca, erano quelle più diffuse durante l’Età Moderna, ed erano caratteristiche soprattutto delle campagne intorno Jaén, Córdoba, Sevilla, Jerez, Tierra Llana de
Huelva e Granada.
L’agricoltura dei regadíos, ossia tramite irrigazione, che riguarda i cereali, gli alberi da frutto e prodotti piú commerciali come la canna
da zucchero , era molto diffusa soprattutto sui terreni bassi, fertili e
che si trovavano nelle vicinanze di un fiume o di un corso d’acqua,
quindi sia nelle campagne intorno le città di Granada e Almería, sia
lungo la costa mediterranea.
L’agricoltura irrigua consiste nel somministrare la necessaria quantità d’acqua alle coltura attraverso metodi artificiali. Questo tipo di agricoltura richiede una infrastruttura idrica ben architettata: canali,
27 http://www.juntadeandalucia.es
47
fossati, tubi di smistamento, che esigono, a loro volta, un’avanzata conoscenza tecnica.
2.3.3 LE GRANDI PROPRIETÀ TERRIERE
La grande proprietà si affermò, anche se tra mille contraddizioni,
come fattore determinante nell’ambito agrario dell’Andalusia, sotto il dominio delle classi privilegiate, della nobiltà e della Chiesa. Infatti, a
partire dal secolo XVI iniziano a configurarsi e stabilizzarsi, in
Andalusia, i principali modelli di sfruttamento agrario, come riflesso
dei regimi di proprietà e dei sistemi di possesso della terra
preponderanti.
Nelle aree destinate alla coltura cerealicola predominano i cortijos,
che rappresentavano l’archetipo del latifondo e della grande proprietà (nel XVIII secolo la superficie media dei grandi casali oscilla tra i 680
48
ettari nella zona di Siviglia e i 320 in quella di Granada). I grandi
cortijos sono affiancati dalle grandi proprietà dette agroganaderas, dedite principalmente all’allevamento del bestiame e al pascolo, che coprivano ampie estensioni di terra, fino a raggiungere i mille ettari.
Le aziende agricole, o haciendas, sorsero come grandi strutture
agroindustriali, ed essendo legate ai circuiti commerciali di prodotti
agricoli come vino e olio, si trovavano principalmente nelle aree più
spiccatamente influenzate dal mercato e dal commercio, dove c’era la possibilità di fare approvvigionamento di vari beni e prodotti. Le
haciendas avevano una superficie variabile tra gli 80 e i 189 ettari, e comprendevano mulini, strutture per lo stoccaggio e altre installazioni.
Meno estese sono altre proprietà che si occupano della raccolta e della
lavorazione delle olive.
I regimi di proprietà e il possesso della terra, il carattere più o meno
intensivo delle colture e altri fattori tipici dello sfruttamento
tradizionale della terra, hanno generato diversi modelli territoriali con
notevoli differenze riguardanti l’estensione, quindi la superficie, le modalità di gestione dei lotti di terra, la densità della popolazione
49
2.3.4 IL PROCESSO DI DESAMORTIZACIóN CAMBIA GLI
SCENARI LAVORATIVI
Lo scenario è ancora quello della bassa Andalusia, una regione a
prevalenza agricola che riflette, nel corso della sua storia, quel gioco
di forze sociali, politiche ed economiche che hanno agito sulla base di
un interesse per la gestione delle risorse naturali presenti sul
territorio. La struttura agraria spagnola affonda le sue radici
nell’immensa operazione di trasferimento di proprietà che avvenne durante il XIX secolo (precisamente tra il 1836 e il 1876) e riguardò
principalmente le terre della Chiesa. Nel corso dei secoli quindi, lo
status che viene attribuito alla terra comunale cambia, fino a generare
un sistema di proprietà privata della terra di stampo capitalista.
Ancora oggi nel panorama degli studi sul tema si possono ritrovare
divergenze e ambiguità: non è del tutto chiaro se l’origine della
proprietà comunale affondi le sue radici nell’influenza che romani e visigoti ebbero nella regione, né è chiaro se queste terre comunali
fossero considerate per loro stessa natura inalienabili, nonostante l’uso
specifico che ne veniva fatto cambiasse a seconda della dicitura
50
dell’epoca si riferiscono alla terra comunale risultavano estremamente vaghi ed era per questo difficile capire della terra di quale cittadina si
stesse trattando, dato che spesso la proprietà comunale si estendeva
ben oltre il ristretto ambito di un unico municipio. Quando si parla di
comunales, ci si riferisce a realtà molto diverse fra loro, e come spiega
Bernal28, sarebbe il risultato di un conformismo acritico credere di
essere giunti alla chiarificazione di una questione così evanescente
adottando un termine così generico. Nella regione del Guadalquivir si
possono enucleare nello specifico due tipi di “aree”: la cosiddetta campiña, definita storicamente come una distesa di terreno pianeggiante o con deboli ondulazioni, adatta ai raccolti; la “valle”, un’area irrigata adoperata per l’orticultura.
Di fatto, il possesso della terra ha fortemente segnato la storia della
bassa Andalusia, generando un gap quantitativo e qualitativo tra i
grandi possidenti terrieri e i piccoli e medi poderi. Alla fine del XVII
secolo la terra era quasi interamente posseduta della Chiesa, della
Corona e della nobiltà. Le terre ecclesiastiche erano definite bienes de
manos muertas (beni di mano morta); le terre appartenenti alla corona erano note come tierras de realengo, mentre le terre garantite alla
28 Antonio- Miguel Bernal Rodrìguez, La tierra comunal en Andalucia durante la edad moderna,
51
nobiltà dalla corona erano dette tierras de los señoríos, ossia le terre
signorili. In questo variegato scenario si collocano finalmente le terre
comunali, che venivano coltivate e utilizzate dagli abitanti che vi si
erano stabiliti. Queste erano affiancate da terre definite bienes de
propios, i cui diritti d’uso erano appannaggio della municipalità cui
facevano capo, e infine dai cosiddetti baldíos, le terre del maggese,
gestite dai villaggi che si occupavano di coltivarle e gestirle, ma che
da un punto di vista giuridico erano ancora sotto il controllo della
corona.
Il panorama appena descritto non è statico e riflette i cambiamenti
socio-politici che la storia porta con sé. Un duro colpo fu inflitto ai
beni comuni con l’inizio del processo di desamortización29
. Questo fu
un lungo processo storico, politico e sociale che prende avvio nel
XVIII secolo con la cosiddetta desamortización de Godoy (1798) e
che vedrà la fine solo nel 1924. Addentrandoci nel concreto, la
desamortización consiste nel porre sul mercato, attraverso pubbliche aste, quei beni posseduti dalla Chiesa e dagli ordini religiosi e quelle
terre che fino a quel momento erano considerate inalienabili ed
intoccabili. A partire dal XVI secolo, a causa della messa in vendita
52
dei terreni comunali dei baldíos e a causa della successiva vendita e
ripartizione delle terre durante il XVII e XVIII secolo, si generarono
dispute e controversie a partire dalle quali si espresse la volontà di
proclamare il trionfo della proprietà privata come forma unica e
incontestabile di proprietà agraria. La desamortización dei beni del
clero sarebbe potuta essere una riforma agraria volta a migliorare la
situazione della classe contadina, ma si limitò ad essere un
trasferimento di beni ecclesiastici alle classi economicamente più
forti: i grandi proprietari, l’aristocrazia e la borghesia, che hanno
trovato nel processo di desamortización il lasciapassare per prendere
possesso in modo legittimo di altre terre e allargare i loro
possedimenti, generando una polarizzazione sociale ancora più forte.
Di fatto l’immediata conseguenza di questo processo fu l’espansione del latifondismo, che si presenta con caratteristiche anche più avare di
quello dei secoli XIII e XV. La terra quindi, viene ripartita in modo
iniquo, ma legittimo, tra i grandi possidenti e i poteri forti, in modo
da favorire un allargamento delle proprietà già possedute, e ciò porta
con sé la conseguenza di una ulteriore limitazione delle tierras de
53
Lo scopo dello Stato era inoltre quello di assicurarsi, dietro
pagamento delle fasce economicamente più forti, un introito extra per
coprire i costi del debito pubblico. Allo stesso modo si cercò di
stimolare la formazione di una borghesia nazionale conservatrice e di
una classe media che potessero definirsi proprietarie a tutti gli effetti
delle terre che coltivavano, così da gettare le basi per una società
regolata da principi capitalisti, in cui l’interesse privato potesse prendere il sopravvento sul bene pubblico.
Il fallimento di questa iniziativa contribuì al rafforzamento del
processo di restaurazione borbonico (1875- 1923), che andava sempre
più allontanandosi dalle istanze democratiche che caratterizzavano il
resto dell’Europa.30
Il comune denominatore del periodo a cavallo tra XIX e XX secolo è,
per la Spagna, l’urgenza di varare una riforma agraria, per la quale si dovrà attendere il ritorno della Repubblica del 1931.
30
I.C. Olivan, Studi Storici, Anno 36, No. 1, La storiografia spagnola dal "Secolo d'oro" alla
54
2.3.5 LA DESAMORTIZACIÓN TRA CAMPI E CITTÀ
Il processo di desamortización (principalmente la desamortización di
Mendizábal del 1836 e quella di Madoz del 1855) sia di stampo
religioso che civile, ebbe un notevole impatto in Andalusia. Concepito
inizialmente come un processo di liberalizzazione del mercato della
terra, come sostegno alla produzione agraria e come strumento di
redistribuzione dei terreni, funzionò in realtà come un meccanismo di
finanziamento dello Stato. Per quanto riguarda i terreni agricoli, si
stima che l’area delle terre confiscate tra il 1820 e il 1900 raggiunga gli 800mila ettari, ossia quasi il 20% del totale della terra coltivata alla
fine del secolo.
Nelle campagne andaluse, soprattutto nelle province della Valle del
Guadalquivir, la desamortización altro non fu che il lasciapassare alla
consolidazione della grande proprietà terriera, a discapito ovviamente
dei beni comunali.
Si generò inevitabilmente una situazione di dualismo economico e
55
jornaleros e che fece da miccia alle lotte sociali che affollarono tutto il XX secolo.
Per quanto riguarda la configurazione del paesaggio rurale, la
desamortización favorì l’espansione delle terre messe a coltura, a discapito delle foreste e dei terreni da pascolo.
A seguito delle iniziative desamortizadoras che si succedono tra la
seconda metà del XVIII secolo e la metà del XIX i bienes de propios
dei comuni andalusi e i beni comunali furono drasticamente ridotti. La
privatizzazione di queste terre fu attuata più di una volta attraverso
mezzi e modalità poco trasparenti e di fatto privò un’ampia fetta della
popolazione rurale del suo unico mezzo di sussistenza. La riforma
liberare che fu attuata negli anni successivi anziché lenire i problemi,
aggravò le condizioni dei jornaleros e dei piccoli agricoltori della
regione.
Dopo aver fornito un quadro generale degli effetti della
desamortización nelle aree rurali, è necessario volgere lo sguardo ai suoi effetti nel contesto urbano. Nelle città la confisca dei beni
ecclesiastici svolse un ruolo fondamentale nel processo di
56
L’impatto della confisca dei beni ecclesiastici sullo scenario urbano assume dimensioni tanto più importanti quanto più si osservano le
carte delle città risalenti a quell’epoca: i conventi e le chiese, eredità dell’Ancien Regime, occupavano buona parte dello spazio cittadino, sia all’interno che all’esterno delle mura di cinta.
I due casi di Siviglia e Malaga forniscono esempi concreti che
possono essere utilizzati per inquadrare la situazione del resto delle
medie e grandi città dell’Andalusia del XIX secolo.
Grazie alla ingente quantità di suoli e terreni sgomberati e liberati, si
riuscì a far fronte alla grande crescita demografica, facendo in modo
che questo ‘eccesso’ di popolazione confluisse, all’interno delle città, proprio su quei suoli e quelle terre.
Un altro aspetto di non poco conto fu che i beni urbani
desamortizados e la secolarizzazione dei conventi offrirono a molti appaltatori la possibilità di condurre operazioni di speculazione
edilizia sui suoli confiscati.
Questo fenomeno contribuì in parte al processo di modernizzazione
delle città, poiché, proprio su quei terreni confiscati vennero poste le
57
posto della vecchia città conventuale: mercati, quartieri, uffici
amministrativi.
2.4 IL VENTESIMO SECOLO
Agli albori del XX secolo l’Andalusia era ancora fortemente in crisi, a causa del permanere di una iniqua struttura agraria.
La restaurazione della Monarchia portò con sé una forte tendenza al
dispotismo come pratica politica generalizzata, sebbene durante gli
anni Venti si cercò di alleviare la disoccupazione attraverso opere e
infrastrutture che furono volute dalla dittatura capeggiata da Primo de
Rivera. Nel 1929 si celebrò a Siviglia la grande Exposición
Iberoamericana, che costituì per la città, l’occasione per appropriarsi dei progressi della modernizzazione. Nonostante gli sforzi per