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Ne nimia religionum diversitas: il mondo dei religiosi nella Cronica di frate Salimbene da Parma

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di Laurea Magistrale in Storia e Civiltà

TESI DI LAUREA

Ne nimia religionum diversitas: il mondo dei religiosi nella

Cronica di frate Salimbene da Parma

Candidato Relatore

Simone Barlettai Prof. Mauro Ronzani

Correlatore

Prof.ssa Cecilia Iannella

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Indice

TESI DI LAUREA ... 1

Anno accademico 2017-2018 ... 1

Introduzione ... 4

Capitolo 1. Ordini regolari approvati ... 7

1.1 Le istituzioni religiose medievali ... 7

1.2 L’ordo monasticus ... 7

1.3 L’ordo canonicorum ... 11

1.4 L’ordo eremitarum ... 12

1.5 Le forme di vita religiosa dei laici ... 12

1.6 I Mendicantes ordines ... 14

1.7 I frati Predicatori ... 15

1.8 I frati Minori ... 18

1.9 Le dispute tra clero secolare e Ordini Mendicanti ... 26

Capitolo 2. Movimenti religiosi non approvati ... 38

2.1 L’eresia dalle origini della Chiesa fino al XIII secolo ... 38

2.2 I Gioachimiti ... 44

2.3 I Saccati ... 55

2.4 I Frati Gaudenti ... 62

2.5 Gli Apostolici ... 70

Capitolo 3. L’Ordo sanctae Clare nella Cronica ... 82

3.1 Le origini delle forme di vita religiose femminile ... 83

3.2 Gli ordini femminili nella Cronica ... 94

Conclusioni ... 107

Bibliografia ... 112

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Introduzione

Ne nimia religionum diversitas gravem in Ecclesia Dei confusionem inducat firmiter prohibemus ne quis de cætero novam religionem inveniat sed quicumque voluerit ad religionem converti unam de approbatis assumat.1

in questo modo si apre la tredicesima costituzione del IV Concilio Lateranense del 1215 riguardo alla proliferazione di nuove formazioni religiose, ripresa nuovamente, in maniera quasi letterale, da un’altra costituzione del Concilio Lionese II nel 12742.

Il Duecento è il secolo in cui si assiste ad un proliferare in tutta Europa di nuove esperienze di vita religiosa, in alcuni casi positive, come i due principali Ordini Mendicanti, Predicatori e Frati Minori, che sono nati, sono stati riconosciuti (la definitiva approvazione avvenne proprio a Lione nel 1274) e sono diventati un riferimento ed un valido aiuto per la Chiesa nella lotta all’eresia; in altri casi negative e che la Chiesa avvertiva come minacce alla sua autorità; solo per citare due esempi, ricordiamo i Catari3

e il movimento degli Apostolici, ed il fatto che due differenti concili ecumenici abbiano sentito la necessità di stabilire delle norme precise in merito a tale questione per porvi un freno, non fa altro che confermare la portata di questo fenomeno durante questo secolo.

Le testimonianze giunte sino a noi, che riguardano questi ordini e movimenti religiosi, non si limitano però unicamente agli atti ufficiali dell’autorità ecclesiastica; infatti sono abbastanza frequenti riferimenti a queste esperienze anche all’interno di opere letterarie composte sia da religiosi che da laici, tra la seconda metà del XIII e la prima metà del XIV secolo; proprio un’opera di questo genere è l’oggetto di studio di questo mio elaborato: la Cronica di Salimbene de Adam da Parma. Si tratta di un’opera molto

1 Il testo è ripreso da: J. Alberigo, P. P. Joannou, C. Leonardi, P. Prodi, H. Jedin, Conciliorum

Oecumenicorum Decreta, Herder ed., Freiburg, 1962, pp.

2 Ibid. pp.

3 In realtà le origini dei Catari sono molto più antiche: le prime attestazioni risalgono infatti all’anno Mille

ed il movimento raggiunse il suo apogeo nella seconda metà del XII secolo. È tuttavia il Duecento il secolo della vera lotta contro questo movimento da parte della Chiesa, che prima cercherà di sconfiggerli sfruttando i Predicatori, ma poi, non ottenendo i risultati sperati, indirà una vera e propria crociata (che durò dal 1213 al 1228). La sconfitta militare e la successiva persecuzione da parte dell’Inquisizione segnò la fine dei Catari, che scomparvero definitivamente nella prima metà del Trecento.

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vasta, con un’impostazione per lo più annalistica, che tratta le tematiche più varie: dalla politica (con una particolare attenzione alle vicende emiliane, ma non solo) a questioni religiose, alle genealogie di famiglie di spicco, ma anche cibo, vino e molto altro ancora. Salimbene era un frate minore, nato a Parma intorno al 1220 da una delle più importanti famiglie della città emiliana, che durante la sua vita ebbe modo di viaggiare molto sia in Italia che all’estero (principalmente in Francia), soprattutto nei primi anni dopo il suo ingresso nell’Ordine dei Frati Minori, incontrando vari personaggi di primo piano come: Ministri dell’Ordine, re, papi, cardinali e vescovi importanti e anche l’imperatore Federico II. Va da sé che l’aver incontrato personalità del genere, oltre a tutte le varie figure di spicco di cui ci parla, gli hanno fornito moltissimo materiale di cui parlare.

In questo elaborato mi concentrerò soltanto sui religiosi presenti nella Cronica, tentando di ricostruire quello che era il loro mondo nel XIII secolo, attraverso le descrizioni che ci ha trasmesso uno di loro.

Il primo capitolo sarà dedicato ai due principali Ordini Mendicanti riconosciuti dalla Chiesa, Predicatori e Minori: partendo da una rapida descrizione della nascita e dello sviluppo dei due ordini, passerò poi a considerare alcuni brani dell’opera in cui i due Ordini vengono citati, con particolare attenzione ai rapporti che intercorrevano tra questi ordini e il clero regolare.

Il secondo capitolo si concentrerà su alcuni movimenti religiosi che non ottennero il riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa. Anche in questo caso dopo una breve introduzione storica passerò al testo della Cronica, per vedere in che modo Salimbene ci descrive questi movimenti, che di fatto nascevano ad imitazione degli Ordini Mendicanti, ma, in certi casi, potevano diventarne dei diretti concorrenti.

Il terzo ed ultimo capitolo invece sarà incentrato sulle monache che, pur godendo di minore spazio rispetto agli Ordini e ai movimenti religiosi maschili, sono comunque presenti all’interno dell’opera del frate parmense. Sarà interessante notare che Salimbene presenta tutte le monache come appartenenti all’Ordine di Santa Chiara, anche se questa definizione non è corretta, come avremo modo di vedere nel capitolo.

Non è stato ovviamente possibile considerare tutti gli esempi di religiosi che Salimbene cita nella sua opera; è questa è un ulteriore conferma dell’enormità di informazioni che tale testo può fornirci: per questo motivo ho deciso di fare una selezione abbastanza ristretta delle parti del testo da analizzare, cercando di prendere in

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considerazione i principali ordini e movimenti religiosi presenti nella Cronica, tentando tuttavia di non diventare eccessivamente ripetitivo.

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Capitolo 1. Ordini regolari approvati 1.1 Le istituzioni religiose medievali

L’istituzione ecclesiastica nell’epoca medievale, in particolare quella che ha caratterizzato il XIII secolo, può essere configurata come un corpo sociale in cui le articolazioni più eminenti, attive e privilegiate, sono costituite dalle varie entità religiose istituzionali, sia quelle tradizionali, come gli ordini monastici, che quelle di nuova formazione, rappresentate dagli ordini mendicanti. Ognuna di queste istituzioni ha una tipologia propria e specifica, i cui elementi costitutivi fondano la “cultura di gruppo”: dai valori di riferimento, passando per i modelli di comportamento, fino ad arrivare agli obiettivi da raggiungere. Ciascuna entità ha una propria struttura, formata da modelli e modalità di rapporto interpersonali, articolazione in ruoli, gerarchie e funzioni. Le modalità di relazione sia con altri gruppi sociali, istituzionalizzati o meno, che con la Chiesa, sono elementi importanti che permettono di definire la specificità delle singole entità. Elementi utili ai fini di questa ricerca sono gli strumenti e i simboli di distinzione, quali ad esempio: le strutture abitative; le mura dei conventi – o i terreni incolti e abbandonati intorno agli eremi –, la cui funzione era difensiva, di separazione, talvolta addirittura di segregazione; gli ambienti concepiti per l’accoglienza, come le foresterie e le chiese nei conventi dei Mendicanti; senza dimenticare i vari abiti che ciascuna istituzione religiosa sceglieva di adottare.

All’interno della chiesa medievale erano presenti numerose forme di vita religiosa associata; la maggior parte di queste era confluita all’interno delle istituzioni canonizzate, cioè quelle ufficialmente approvate e autorizzate dal diritto canonico medievale. Tutte queste istituzioni possono essere divise in: ordo monasticus, ordo canonicorum, ordo

eremitarum e ordines mendicantes.

1.2 L’ordo monasticus

Si tratta di un’istituzione sostanzialmente costituita da non chierici: solo ad alcuni monaci era permesso accedere agli Ordini sacri, che davano a quella persona la qualifica di chierico, per le necessità liturgico-sacramentali presenti all’interno del monastero. L’istituzione monastica, nell’Occidente medievale, era principalmente di tipo cenobitico, e i suoi caratteri fondamentali erano la vita communis e la fuga mundi.

La condivisione dei beni, degli intenti, dei momenti di preghiera, dei pasti e di un ritmo comune per lavoro e riposo, sono gli elementi costitutivi della “cultura monastica”. Per quanto riguarda la fuga dal mondo, essa non viene intesa soltanto come ritiro e

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segregazione dalla società, bensì anche come una proposta di valori alternativi, che dovevano incarnarsi in una convivenza idealmente perfetta e ordinata, che ruotava intorno all’obbedienza alla regola e all’abate, oltre che nella tensione verso il perfezionamento personale, sia morale che spirituale, da perseguire in un contesto di vita comunitaria.

La vita del monaco è legata inscindibilmente al monastero. Egli era tenuto a rispettare la norma della stabilitas loci, che significava vivere nel e per il monastero in cui era stato iniziato ed aveva professato la sua vita monastica. Tutta la sua vita si svolge

inter septa monasterii, cioè strettamente nell’ambito dello spazio, dei ruoli e delle

funzioni del monastero stesso. Dunque, almeno in linea teorica, i suoi rapporti sono limitati ai membri della propria comunità, oltre ad essere regolati dai ritmi e dalle norme stabilite dalla stessa.

Le strutture abitative sono la base per l’esistenza della comunità monastica; devono essere ben articolate in modo tale da poter accogliere e racchiudere al loro interno l’intera giornata della comunità. Tali strutture, ovviamente riservate ai monaci, sono collocate all’interno di uno spazio ben delimitato e protetto, definito dalle mura del convento, che rappresentano, in modo tangibile, la separazione del monaco dal mondo esterno. È ovviamente presente una chiesa, che spicca sugli altri edifici, ed è il luogo in cui si svolge il compito precipuo del monaco: l’opus Dei, la preghiera comunitaria e l’azione liturgica. Intorno alla chiesa si trovano poi gli altri edifici, funzionali al lavoro personale, che viene però sempre svolto secondo le esigenze e gli impegni dell’abbazia. Un altro edificio che è sempre presente in un monastero è la biblioteca – anche se molto spesso il numero di libri è talmente ridotto, che vengono contenuti in un armadio: l’armarium; nello scriptorium invece vengono ricopiati i codici. Per quanto riguarda le officine, la loro funzione è quella di approntare quanto necessario alla sussistenza dei monaci: dal vestiario, per cui i monasteri si dotano di macchine da filatura e tessitura; al vitto, che richiede macine, torchi e a volte mulini; alla produzione di calzature; attrezzi da lavoro ecc...

Il complesso monastico è dunque concepito in modo tale da assorbire totalmente al proprio interno l’intera giornata del monaco, organizzandola secondo i ritmi e i tempi previsti dalla norma di vita che regola ogni comunità, adattando alle esigenze e agli ideali il testo normativo, che dall’epoca carolingia in poi divenne il riferimento per la vita monastica: la Regula Benedicti.

Tra XI e XII secolo si formarono grandi aggregazioni monastiche, che potevano essere composte anche da centinaia di monasteri, tutti ispirati, con opportune modifiche,

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alla spiritualità stabilita dall’abbazia madre, cui facevano capo. La spiritualità veniva espressa in vari modi, andando a toccare diversi ambiti: tipo e colore dell’abito, modalità e strutture architettoniche, fino alla scelta dell’habitat in cui collocare il monastero. Il collegamento tra i vari monasteri era garantito dai rapporti sistematici con l’abate dell’abbazia madre e da incontri periodici tra i vari abati dei singoli monasteri, che, dopo essere stati sistematizzati dai cistercensi, presero il nome di “capitoli generali”.

Le due congregazioni monastiche più importanti del Medioevo furono: i Cluniacensi, che facevano capo all’abbazia di Cluny, e i Cistercensi, che invece si riferivano all’abbazia di Cîteaux. Queste due istituzioni esemplificano perfettamente le differenze cui facevamo rifermento in precedenza. Se la spiritualità cistercense prevedeva un impegno quotidiano nel dissodamento dei terreni incolti, talvolta persino insalubri, su cui era ricaduta la scelta di costituire la comunità, le cui dimensioni erano volutamente ridotte – solitamente non superavano i 12 o 13 monaci –; quella cluniacense veniva invece espressa nella solennità del culto liturgico e della preghiera comunitaria, le comunità erano molto più ampie rispetto a quelle cistercensi, il che esigeva dunque chiese più grandi e riccamente ornate. Un’altra differenza tra le due congregazioni era rappresentata dal monastero: mentre quello cistercense, almeno alle origini, era piuttosto semplice e dalle dimensioni contenute; quello cluniacense era ampio ed articolato, in modo da poter accogliere la numerosa comunità di monaci. Spesso tali complessi si dotavano di ampie proprietà fondiarie, lavorate da coloni e servi, che avevano sia lo scopo di rendere autosufficiente dal punto di vista economico l’abbazia4, ma soprattutto quello di lasciare

liberi i monaci di dedicarsi al loro compito specifico: la laus Dei.

Ad ogni modo, al di là delle differenze presenti, in alcuni casi profonde al punto da portare ad un duro scontro5, le due congregazioni avevano comunque connotazioni

fondamentali comuni, che le assimilavano all’essenza della cultura monastica.

4 Per approfondire questo argomento, è molto interessante il testo di G. Boy, The trasformation of the year

one thousand. The village of Lounard from antiquity to feudalism, trad. it. a cura di M. Garin, L’anno mille, il mondo si trasforma, Laterza, Roma 1991.

5 Un esempio ci è fornito dalla polemica tra Bernardo di Chiaravalle, probabilmente il principale

protagonista della riforma monastica cistercense, e Pietro il Venerabile, abate di Cluny. I testi prodotti dai due abati si possono trovare in P. Zerbi, Vecchio e nuovo monachesimo alla metà del secolo XII, in Istituzioni monastiche, pp. 3-16

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Salimbene dedica un passaggio6 della sua Cronica all’abbazia di Cluny e ai suoi

monaci. Prima elogia il monastero, sottolineandone le dimensioni e dicendo che avrebbe potuto tranquillamente accogliere il Papa e l’Imperatore, con le rispettive corti, negli stessi giorni, senza che l’uno arrecasse disturbo all’altro; successivamente elogia anche i monaci neri che vi abitano, sottolineando come l’Ordine Benedettino, almeno per quel che riguarda i monaci neri, si conservi meglio in Francia che in Italia.

Oltre alle due congregazioni cui ho fatto riferimento in precedenza, all’inizio degli anni ’90 del XII secolo comparirono le prime fondazioni florensi7 sulla Sila, nel sud Italia.

Alla base di tale iniziativa ci fu la rottura tra Gioacchino da Fiore e l’Ordine Cistercense avvenuta tra il 1192, anno del famoso richiamo di Gioacchino da parte del capitolo di Citeaux, e il 1194, quando Enrico IV indirizza un privilegio a Ioachim abbas de Flore e non più di Corazzo. Lo sviluppo della congregazione florense è quello tipico di molte altre esperienze eremitiche: si avvia in seguito alla scelta di ritirarsi a vita solitaria una figura carismatica; per via del numero crescente di seguaci, attirati dalla fama del fondatore, il locus eremitico deve allargarsi; ciò comporta però: da un lato la necessità di acquisire nuove terre da coltivare o da adibire a pascolo; dall’altro il bisogno di definire una serie di regole per la vita comunitaria e di creare rapporti stabili con le varie istituzioni (locali, civili e religiose), che siano in grado di superare le fisiologiche resistenze che si presentano ogniqualvolta sorge una nuova realtà istituzionale.

All’inizio del XIII secolo esistevano anche comunità che, pur somigliando esternamente a quelle dei religiosi, e conducendo in alcuni casi forme di vita più ascetiche in monasteri isolati, ne erano ben distinte, in quanto non appartenevano a nessuna delle congregazioni di cui abbiamo parlato finora. Papa Innocenzo III cercherà, fin dai primi anni del Duecento, con diversi tentativi di riforma della vita religiosa, di far rientrare tutte queste comunità all’interno degli altri Ordini approvati, non riuscendo però ad attuare completamente questo suo proposito8.

6 Cronica: 306:911-307:914.

7 A tale proposito si veda: V. De Fraja, Le prime fondazioni florensi, in Gioacchino da Fiore tra Bernardo

di Clairvaux e Innocenzo III, atti del 5° Convegno Internazionale di studi gioachimiti, San Giovanni in Fiore 16-21 settembre 1999, a c. di R. Rusconi, Viella 2000, pp. 105-128.

8 Di questo e più in generale della costituzione Ne nimia religionum ne parla: M. Maccarone, Studi su

Innocenzo III, Italia Sacra, studi e documenti di storia ecclesiastica, Editrice Antenora, Padova 1972, pp. 223-340.

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1.3 L’ordo canonicorum

Il secondo modello cui abbiamo fatto riferimento in precedenza, pur ispirandosi alla stessa cultura monastica, costituì un modello alternativo di riferimento per la vita religiosa comunitaria: le cosiddette istituzioni dei canonici regolari. Si tratta di organizzazioni create da e per chierici, che vivevano comunitariamente. Sono istituzioni che risultano certamente funzionali all’espletamento più organico, rigoroso ed esemplare del ruolo e delle mansioni del clero, per di più la vita communis, fu uno degli strumenti preferiti dalla Chiesa, in quei momenti in cui la vita dei chierici doveva essere risanata e la loro attività pastorale riorganizzata. Tali strumenti – “risanamento” e “riforma” – furono sfruttati dai vescovi per riorganizzare l’attività pastorale nelle proprie diocesi, ma anche alcuni papi vi ricorsero per realizzare la riforma della chiesa: uno su tutti Gregorio VII.

Se i chierici potrebbero essere assimilati ai monaci per la loro vita comune, differiscono tuttavia da questi ultimi proprio in virtù del loro essere chierici. Anche se l’istituzione canonicale prende alcuni spunti da quella monastica, si differenzia da questa, oltre che per la componente interamente clericale, anche e soprattutto per i suoi obiettivi. Le attività pastorali, precluse dal diritto canonico ai monaci, erano il principale, anche se non l’unico, obiettivo dell’ordine canonicale. In questo senso l’esempio dei

Premostratensi è chiarificatore, anticipando peraltro gli orientamenti che saranno fatti

propri successivamente dai Predicatori, che si ispireranno del resto proprio a quest’ordine per l’elaborazione della loro prima norma. Il modello di base per i canonici regolari di Prémontré, almeno per quanto riguarda l’organizzazione interna e la vita delle singole canonie, riprende quello cistercense; però l’attività preminente, fissata dal fondatore Norberto di Xanten, divenuto arcivescovo di Magdemburgo nel 1226, fu quella della cura pastorale, talvolta persino missionaria, fra le popolazioni dei Wendi.

Anche l’attività scolastica, che aveva rappresentato uno dei filoni più prestigiosi della tradizione monastica, fu ripresa da più di un’istituzione canonicale nel momento in cui si avviò un generale movimento di riforma che tendeva a precludere ai laici l’accesso alle scuole monastiche. La scuola canonicale più celebre è sicuramente quella dei canonici regolari di San Vittore di Parigi, fondata da Guglielmo di Champeaux – il famoso, anche se poco stimato dal discepolo, maestro di Pietro Abelardo.

Le strutture abitative dei canonici regolari, benché in più di un caso fossero molto simili ai monasteri, differivano da questi, oltre che nel nome (che è infatti “canonica

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regolare”), anche nell’articolazione degli ambienti, i quali dovevano essere funzionali

alle attività clericali che ciascuna comunità di chierici regolari svolgeva.

1.4 L’ordo eremitarum

Già il nome definisce le connotazioni specifiche della scelta di vita, caratterizzata da solitudine e ascesi individuale. Anche quando un eremita era integrato in un gruppo istituzionalizzato, all’interno di spazi circoscritti e riservati a un gruppo – o “colonia” –, che poteva essere formato anche da molte unità, la sua rimaneva comunque una vita solitaria, che solo raramente registrava incontri comuni. La preghiera, le sue attività, il tempo dedicato al riposo e ai pasti sono interamente vissuti nell’isolamento individuale; il gruppo di cui fa parte serve a fornirgli le regole che scandiscono la sua esperienza di ascesi solitaria. Il nucleo abitativo fondamentale dell’eremitaggio è la cella, piccola e semplice, che poteva essere ricavata da grotte e anfratti naturali. Le celle potevano essere disposte lungo tutto lo spazio dell’eremo, ed erano corredate di servizi elementari, come un piccolo orto o una cisterna; spesso erano concentrate intorno a uno spazio comune, ad esempio un chiostro, o raggruppate in struttura unitaria. I luoghi d’incontro degli eremiti sono proporzionati allo spazio che la regola o le consuetudini prevedono per i tempi di ritrovo comunitario. Non è raro che tali regole, o consuetudini, prevedano un’alternanza tra l’esperienza eremitica e quella cenobitica.

1.5 Le forme di vita religiosa dei laici

Quelli che abbiamo visto finora sono modelli di vita comunitaria regolarmente riconosciuti, ma la chiesa medievale conobbe anche esperienze di vita religiosa che non subirono un processo di istituzionalizzazione, arrivando a ciò solo molto tempo dopo la loro prima formazione. L’ambiente in cui si svilupparono di più tali esperienze fu quello dei laici, tra coloro che, potremmo dire, costituivano un terzo status, accanto a quello dei monaci e dei chierici; per questo motivo vengono definiti: ordo laicorum9. La principale caratteristica di queste esperienze sembra essere la permanenza nel mondo – saeculum – ; in altre parole: aumentare la propria esperienza religiosa, senza però abbandonare fisicamente l’ambiente quotidiano, sia familiare che sociale.

9 Per quanto riguarda gli ordo laicorum, si veda G.G. Meersseman, Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà

dei laici nel medioevo, in collaborazione con G.P. Pacini, Heder Editrice, Roma 1977, (Italia Sacra. Studi e Documenti di Storia ecclesiastica 24-26), Vol. I, parte II, pp. 217-573.

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Dalla fine dell’XI secolo è documentata una serie di questi tentativi, ai quali viene anche dato un nome specifico: poenitentes, cioè persone dedite alla penitentia, da intendersi come impegno di vita, di pratica religiosa e ascetica, vissuta però rimanendo nel proprio ambiente familiare, senza rinunciare al proprio stato, né al proprio ruolo, né allo specifico lavoro esercitato nella società laica.

Alla fine del XII secolo, e ancor di più nel corso del XIII, si registra la tendenza da parte di tali laici dediti alla vita religiosa a riunirsi in gruppi, creando forme associative il cui obiettivo è condurre uno stile di vita più aderente ai precetti del Vangelo, secondo le esigenze e la mentalità religiosa dell’epoca. I poenitentes si trovavano in periodici incontri di preghiera, di ascolto dei testi biblici, di refezioni comuni. Molto spesso tutto questo si trasformava in una vera e propria scelta di vita, che veniva vissuta negli hospitia destinati loro, con l’intento di una pratica religiosa, di un lavoro e di una vita comunitaria più intensa.

L’ispirazione alla vita comunitaria dedita alla preghiera e al lavoro sarà la principale caratteristica del movimento religioso delle Beghine10, le quali, diversamente dai penitenti domestici, si costituirono in comunità con unità abitative proprie e riservate, che presero appunto il nome di beghinaggi, ma che non raggiunsero comunque il riconoscimento ufficiale di Ordine religioso, appoggiandosi successivamente ai grandi Ordini religiosi, in particolare ai Mendicanti, per ottenere un’approvazione ufficiale.

Oltre alla penitenza, sempre nel secolo XI, alcuni laici cominciarono anche a predicare, attività, questa, riservata alla cosiddetta Chiesa docente e vietata ai laici, come i chierici ci tenevano a sottolineare, spesso con un certo disappunto, e come viene confermato anche negli Statuta Ecclesiae antiqua:

«Laicus praesentibus clericis, nisi ipsis iubentibus, docere non audeat»11.

Per Onorio di Autun12, invece, sia i monaci che i chierici regolari hanno uguale

diritto alla predicazione13; il religioso porta a sostegno della sua tesi esempi di monaci

divenuti vescovi famosi, come S. Girolamo, S. Gregorio Magno, Sant’Agostino di

10 Informazioni più accurate e approfondite riguardo all’ordine delle Beghine si trovano in: H. Grundman,

Movimenti religiosi nel medioevo, Il Mulino, Bologna 1974.

11 Mansi, III, 959, can. 98.

12 Nome volgare di Honorius Augustodunensis; fu monaco, teologo e filosofo tedesco, proveniente da

Ratisbona.

13 H. Augustodunensis, Quaestio «quod monachis liceat praedicare», ed Endres, Honorius

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Canterbury… Onorio sostiene che i laici predicano illecitamente a causa dei cattivi chierici, i quali, trascurando il loro compito, li costringono a disobbedire alle leggi canoniche. Dunque, pur non approvando la predicazione dei laici indotti, Onorio la spiega con la carenza di predicatori, poiché vescovi e parroci trascurano questo compito.

Abbiamo delle fonti che dimostrano come in questo periodo, oltre ai predicatori gregoriani legittimati, alcuni laici praticassero la predicazione in forma apostolorum, in particolare in una predica papa Callisto II (1119-22)14 condanna tutti i falsi predicatori,

anche se probabilmente generalizza eccessivamente la sua accusa, arrivando a confonderli con gli onesti predicatori itineranti.

1.6 I Mendicantes ordines

Tra XII e XIII secolo si assistette a una vera e propria proliferazione di ordini religiosi. Tra tutti questi movimenti religiosi di nuova formazione, due emersero con forza: i Predicatori e i frati Minori. Questi due ordini, nati pressoché contemporaneamente nel primo decennio del XIII secolo, almeno inizialmente erano caratterizzati da profonde differenze: dall’ambiente in cui sorsero, alla qualità delle persone che li componevano, al ruolo che andarono a ricoprire nel contesto sociale, passando per i destinatari del loro messaggio e anche per le modalità di vita. La denominazione di Ordines Mendicantium, o Mendicantes ordines, si consoliderà solo successivamente, orientativamente nei decenni centrali del XIII secolo, in seguito ad una progressiva assimilazione fra i due gruppi, che sarà un carattere fondamentale dello sviluppo soprattutto dopo la loro diffusione al di fuori dei luoghi d’origine: la Francia meridionale per i Predicatori, l’Italia centrale per i Frati Minori.

È interessante notare brevemente una cosa: le fonti medievali indicano tutte le istituzioni religiose di monaci, canonici ed eremiti con un’espressione al singolare, per sottolineare la comune regola di riferimento – quella di Benedetto per i monaci e quella di Agostino per i canonici – e i tratti comuni. Per quanto riguarda invece gli Ordini Mendicanti, l’espressione usata è al plurale e l’intento era quello di sottolineare la pluralità delle istituzioni – gli ordines – accomunate da una caratteristica, che aveva una presa notevole sugli osservatori della vita religiosa dell’epoca: il vivere di mendicità -

mendicantes.

14 J.P.Migne, Patrologiae cursus completus, serie prima (graeca), 161 voll., Parisiis 1844-1864, 163, 1389

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Salimbene nella Cronica15, ricorda come Papa Gregorio X, durante il Concilio di

Lione del 1274, si impegnò a porre un freno alla proliferazione di nuovi ordini che si ispiravano a Frati Minori e Predicatori16, decidendo di proibire la nascita di novellae

religionis e di sopprimere diversi ordini che erano nati in quegli anni – il nostro frate

indica in particolare Apostolici e Saccati, anche se per i secondi il provvedimento di scioglimento rimase in sospeso –, confermando però il riconoscimento ufficiale a tutti gli ordini approvati prima del IV Concilio Lateranense (1245): ai Frati Minori e ai Predicatori, per la loro indiscutibile utilità per la cristianità il riconoscimento fu confermato, mentre per Agostiniani e Carmelitani – che potremmo definire come Ordini Mendicanti minori – il riconoscimento fu con riserva: furono infatti confermati nella loro forma attuale, ma in attesa di ulteriori eventuali provvedimenti da parte della chiesa. Ciò nonostante questi quattro ordini divennero una presenza pressoché costante, con i loro monasteri e le loro chiese, in molte città italiane.

Nelle prossime pagine analizzeremo lo sviluppo dei Predicatori e dei Frati Minori.

1.7 I frati Predicatori

La prima comunità di Predicatori – dal latino ordo fratrum predicatorum – fu avviata da Diego, vescovo di Osma, e Domenico di Guzman (o di Caleruega) nella Francia meridionale, precisamente nella diocesi di Tolosa, nel 1205. Era costituita esclusivamente da chierici, il cui compito era quello della predicazione diretta contro gli eretici, in particolare contro i catari, conosciuti anche come albigesi – dal nome della regione in cui erano più saldamente insediati, ossia nel territorio di Alby. L’approvazione della forma di vita condotta, presso la Chiesa di San Romano a Tolosa, da Domenico e dai chierici che si erano stretti intorno a lui dopo la morte del vescovo Diego, avvenuta nel 1207, fu approvata dalla Santa Sede nel 1216. Formalmente l’ordine avrebbe adottato

15 Cronica: 368:1144.

16 […] cunctas affatim religiones et ordines mendicantes post dictum concilium adinventos qui nullam

confirmationem sedis apostolicae meruerunt perpetuae prohibitioni subicimus et quatenus processerant revocamus. […] Sane ad praedicatorum et minorum ordines quos evidens ex eis utilitas ecclesiae universali proveniens perhibet approbatos praesentem non patimur constitutionem extendi. Ceterum Carmelitarum et eremitarum sancti Augustini ordines quorum institutio dictum concilium generale praecessit in suo statu manere concedimus donec de ipsis fuerit aliter ordinatum. Intendimus siquidem tam de illis quam de reliquis etiam non mendicantibus ordinibus prout animarum saluti et eorum statui expedire viderimus providere. [...]; Concilium Lugdunense II, Documenta.

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la regola di S. Agostino17, tuttavia in breve tempo i predicatori si dotarono di un corpo di

Costituzioni, inizialmente ispirate all’ordine dei Premostratensi, che gli permisero di

creare uno stile di vita del tutto originale. La comunità fu ampiamente dotata di beni attraverso donazioni di signori locali, tra cui troviamo anche Simone di Montfort, il quale, dopo aver guidato la crociata contro gli Albigesi, era riuscito a costruirsi un ampio feudo nel sud della Francia. Nonostante questo il primo gruppo di Predicatori assunse uno stile di vita evangelicamente povero e funzionale all’efficacia della predicazione contro gli eretici, che avevano gioco facile nell’additare l’incoerenza della vita degli ecclesiastici in confronto al messaggio evangelico, di cui sarebbero dovuti essere gli esponenti.

Alla luce di quanto detto fino ad ora riguardo al compito principale dei Predicatori, fin da subito fu chiara l’importanza di una profonda conoscenza della teologia per i membri dell’ordine, che conferisse alla predicazione quella correttezza dottrinale necessaria per avere la meglio sugli eretici. Per questo motivo, fin da subito, ogni convento doveva essere dotato di un lettore, che insegnasse teologia, coadiuvato da un

magister studentium, che aveva il compito di seguire passo passo le attività degli studenti.

Oltre a questo, Domenico decise di inviare alcuni frati a Parigi, dove si trovavano le più importanti scuole di teologia d’Europa, mentre a Bologna, dove si studiava il diritto, sia civile che canonico, fu fondato un convento, che in seguito diventerà il più importante al di qua delle Alpi. Questo inserimento in ambito universitario non serviva soltanto ad aumentare l’istruzione e il livello culturale dei frati, ma aveva anche il preciso scopo di attrarre nell’Ordine nuove reclute, che fossero già dotate di una solida preparazione. Tale progetto, per altro appoggiato anche da papa Onorio III, ebbe successo; molti universitari decisero infatti di entrare a far parte dell’Ordine, che in pochi anni poté contare anche una cattedra di teologia a Parigi.

Quantificare i numeri dell’ordine dei Predicatori non è semplice; secondo alcuni calcoli, alla morte di Domenico, avvenuta nel 1221, se ne potevano contare circa trecento, che divennero quasi quattromila nel 1237, per toccare quota diecimila nel Trecento. Per quanto riguarda l’insediamento, essi predilessero le città episcopali, in modo da poter

17 Nella Bolla di approvazione si legge: «ordo canonicus qui secundum Deum et beati Augustini regulam»

in M.H. Laurent, Monumenta Historica S.P.N. Dominici, I Historia diplomatica S. Dominici (Institutum Historicum FF. Predicatorum Romae, ad S. Sabinae, Monumenta Ordinis F. Predicatorum Historica XV), Parigi 1933, 84-85, num. 76. Si tratta di un passaggio necessario, infatti dopo il IV concilio lateranense del 1215, fu stabilito che nessun ordine di nuova fondazione potesse dotarsi di una regola propria, ma obbligatoriamente doveva scegliere se rientrare nella regola di S. Benedetto o in quella di S. Agostino.

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coadiuvare l’operato dei vescovi, come da progetto iniziale; in pochi anni furono centinaia i monasteri domenicani sparsi per l’Europa. Le loro scuole erano aperte a tutti, chierici e laici, e contribuirono in maniera determinante al miglioramento della preparazione teologica di coloro che dovevano occuparsi della cura delle anime.

Il successo ottenuto dai Predicatori, in aggiunta ai privilegi conferiti all’ordine dalla Chiesa18, comportò non di rado degli scontri con il clero secolare, che temeva di

perdere il proprio ascendente sui fedeli, vedendo minacciato il tradizionale assetto della Chiesa e subendo anche dei danni economici per il calo delle donazioni, che sempre più confluivano verso gli ordini dei Predicatori e dei Minori.

Quanto al processo di canonizzazione di Domenico, ormai promosso a fondatore dell’Ordine, non è semplice stabilire se si trattò di un’iniziativa di papa Gregorio IX o della volontà dei frati predicatori di porsi sullo stesso piano dei minori, il cui fondatore era stato canonizzato nel 1228, a soli due anni dalla morte. Il corpo del futuro santo fu traslato nel 1233, cioè proprio nella fase più importante, sia a livello politico che emotivo, del movimento. Dopo due inchieste informative su “vita e miracoli” di Domenico, svolte a Tolosa e Bologna, nel 1234 Domenico venne ufficialmente iscritto nel catalogo dei santi.

Salimbene parla abbastanza spesso dei Predicatori nella sua Cronica ed essendo un ordine regolarmente riconosciuto dalla Chiesa, ne parla praticamente sempre in maniera positiva, ne è un esempio il caso di Fra Bartolomeo da Vicenza, che viene definito: «[…] bonus homo, discretus et honestus.»19, che in seguito divenne addirittura

vescovo della sua città20, costruendo un convento per i Predicatori, che prima non

avevano.

Nell’opera è, però, presente anche una certa ironia nei confronti dei domenicani, diciamo che in alcuni passi è come se Salimbene ritenesse che prendere in giro i Predicatori, non fosse una cosa poi così sbagliata. Particolarmente utile a chiarire questo concetto è l’episodio che vede protagonista un certo frate minore fiorentino, che si chiamava Detesalve (Diotisalvi). Questo frate era particolarmente amante delle burle e

18 All’Ordine fu concesso di confessare i fedeli, celebrare messa nelle proprie chiese e anche accogliervi

dopo la morte i corpi dei loro devoti.

19 Cronica: 104:346.

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Salimbene ce ne racconta alcune21: una di queste ha come vittime proprio i frati

Predicatori di un convento presso cui frate Diotisalvi si era recato. Questi, rispettando le regole dell’ospitalità lo invitarono a fermarsi a mangiare con loro, il frate fiorentino accettò solo a patto di ricevere qualche pezzetto della tonaca di frate Giovanni da Vicenza (che si trovava in quel convento) da conservare come reliquia. I frati erano così felici che il loro confratello venisse venerato, che gliene diedero un bel pezzo. Dopo il pranzo, Diotisalvi si recò alle latrine e una volta esplicate le sue funzioni fisiologiche, utilizzò il pezzo di tunica per ripulirsi gettandola poi nella latrina. A questo punto, urlando, invocò l’aiuto dei frati del convento per poter recuperare la pezzuola, i quali accorsero e infilarono la testa nell’orifizio per vedere se ci fosse modo di recuperarlo, ma quel burlone di Diotisalvi, ogni volta che i frati si chinavano, grazie ad una pertica di legno, rimestava energicamente il contenuto della latrina, smuovendo il fetido odore affinché i frati potessero sentirlo per bene. Solo dopo vari tentativi di recupero i frati si resero conto di essere stati giocati dal frate minore, desistendo infine dal tentativo di recupero.

1.8 I frati Minori

Pur risalendo allo stesso periodo di formazione, l’origine dei frati Minori è decisamente diversa rispetto a quella dei Predicatori – la conversione di Francesco e la rinuncia a tutti i suoi beni donati ai poveri avvenne nel 1205 (o nel 1206). Grazie a due fonti del XII secolo22, sappiamo che i primi componenti della fraternitas si definivano

“poenitentes de Assisio”. Questa espressione è estremamente importante per almeno due ragioni: innanzitutto perché colloca il gruppo francescano nel suo specifico contesto geografico d’origine – l’Umbria in generale, Assisi in particolare –; inoltre lo ricollega ai movimenti laici penitenziali dell’epoca.

Alle origini si trattava dunque di un gruppo di laici dediti alla penitenza, i quali non avevano nessun interesse ad assumere alcun ruolo all’interno della Chiesa, se non quello di vivere secundum formam sancti Evangelii – come farà scrivere Francesco nel

21 Cronica: 111:361.

22 Le due fonti sono: l’Anonimo Perugino, il cui autore, pur essendo ignoto, doveva essere comunque molto

vicino ai primi compagni di Francesco, e la Leggenda dei tre compagni di S. Francesco, i frati Leone, Angelo e Ruffino. Tale espressione si trova rispettivamente al 19c dell’Anonimo e al n° 37 della Leggenda. Le fonti sono edite in: Fontes franciscani, a cura di E. Menestò e S. Brufani, e di G. Cremascoli, E. Paoli, L. Pellegrini, Stanislao da Campagnola. Apparati di G.M. Boccali, Assisi 1995 (Medioevo Francescano. Testi 2), pp. 1311-1351, 1373-1445.

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suo Testamentum. L’azione dei primi seguaci dell’Assisiate non ha un destinatario specifico, come era invece per i Predicatori: si tratta solo di un’azione improntata alla “penitenza evangelica”, che può essere condotta personalmente o in gruppo, realizzata attraverso una radicale scelta di povertà individuale e comunitaria, caratterizzata dalla decisione di non possedere alcunché. Tale scelta si concretizza nel rendersi uguali ai membri più poveri della società dell’epoca, spiegando così la denominazione “fratelli minori”. Povertà e minorità si realizzano in una vita senza fissa dimora, che si serve di alloggi provvisori come gli ospizi per i poveri, i malati o i viandanti presso cui i primi componenti dell’ordine prestano servizio, ma anche di case di privati, sia laici che ecclesiastici, ai quali offrono la propria opera.

Nonostante, come detto, non avessero l’interesse a rivestire ruoli all’interno della Chiesa, nel 1210 Francesco e il piccolo gruppo di suoi seguaci si recarono a Roma, per ottenere l’approvazione del loro stile di vita da parte di papa Innocenzo III: la ottennero, ma solo in forma orale. Questo incontro fu comunque importante sia per la Chiesa che per Francesco: per la prima si trattava di un’altra dimostrazione di disponibilità e apertura verso i gruppi evangelico-pauperistici; per il secondo era un compimento istituzionale: in pratica il piccolo ordine si garantiva il diritto di esistere all’interno della cristianità cattolico-romana. Ovviamente non dobbiamo pensare che la disponibilità da parte della Chiesa fosse totale; esistono diverse fonti che riportano l’incontro tra Francesco e il papa, e alcune di queste testimoniano più di un dubbio da parte della curia e del pontefice stesso, ma, nonostante questo, in breve tempo si stabilì un nesso molto stretto tra frate Francesco e il pontefice romano, quindi per estensione anche tra frati Minori e ambienti curiali. Di questo abbiamo una dimostrazione inequivocabile sia nella regola del 1221, che recita:

Haec est vita evangelii Iesu Christi quam frater Franciscus petiit a domino papa concedit et confirmari sibi; et ille concessit et confirmavit sibi et suis fratribus futuris. Frater Franciscus et quicumque erit caput istius religionis promittat obedientiam domino Innocentio papae et reverentiam et suis successoribus. Et omnes alii fratres teneantur obedire fratri Francisco et eius sucessoribus23;

sia in quella del 1223:

Regula et vita Minorum fratrum haec est, scilicet Domini nostri Iesu Christi sanctum Evangelium observare vivendo in obedientia, sine proprio et in castitate. Frater

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Franciscus promittit obedientiam et reverentiam domino papae Honorio ac successoribus eius canonice intrantibus et ecclesiae Romanae. Et alii fratres teneantur Franciscus et eius successoribus obedire 24.

Stimare i tempi precisi in cui avvenne il passaggio da fraternità ad ordine è molto difficile; è però indubbio che si trattò di un’evoluzione: consideriamo il testo della Regula

sine bulla, cioè senza l’approvazione pontificia, del 1221; essa è composta da una serie

di decisioni normative prese per rispondere ai problemi che i frati via via si trovarono ad affrontare e a dover risolvere. La si può intendere come un testo di transizione dalla fluidità dei primi anni alla rigidità definitiva della formulazione della Regula bullata, approvata da Onorio III con la lettera Solet annuere nel novembre 1223. Per altro la

regula sine bulla è di poco successiva alla decisione di Francesco di rinunciare al governo

dell’Ordine, passato in mano prima a frate Pietro Cattani e poco dopo a frate Elia. Alla base di questa decisione vi erano i forti contrasti tra Francesco e i maestri di teologia e di diritto e con i frati dirigenti dell’Ordine, già emersi tra il 1219 e il 1220: mentre il primo voleva che l’Ordine rimanesse conforme alla forma della povertà evangelica iniziale, i frati “letterati” non volevano rotture con la tradizione monastica e canonicale. La Regula

bullata, che è risultato di un intreccio in cui intervengono Curia Romana, Francesco e

gruppo dirigente dell’Ordine, può essere considerato un testo di mediazione: i contenuti sono in gran parte francescani, ma la sua natura di complesso di norme stabilite in maniera definitiva stravolge il rapporto dinamico e aperto che la fraternità aveva mantenuto per circa un decennio con le proprie leggi, cristallizzandolo.

L’ordine sarà oggetto di rilevanti cambiamenti nel corso degli anni, messi in atto già prima che Francesco morisse e verso cui l’assisiate mostrava una certa insofferenza, come testimoniato dal suo Testamentum; i più rilevanti riguardano il coinvolgimento pastorale dei frati e il loro inserimento negli ambienti universitari.

Per quanto concerne il coinvolgimento pastorale, i frati avrebbero dovuto abbandonare la precarietà in favore di sedi stabili; ciò andava però contro espressioni del

Testamentum, che invitava i frati a non accettare edifici e chiese che non fossero coerenti

con la promessa di povertà compiuta. Dopo la canonizzazione di Francesco tale cambiamento sarà ancora più evidente, poiché inizieranno a sorgere dovunque chiese e conventi dedicati a San Francesco, il che significava sviluppare un’attività pastorale, che

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inizialmente era composta da predicazione e confessione, ma che rapidamente si sviluppò come concorrenziale rispetto alle tradizionali strutture della cura delle anime.

L’inserimento dei Minori nella vita universitaria fa entrare in gioco componenti più complesse. Fino al 1219 non sembrano esserci stati problemi all’interno della fraternità, che accoglieva sia laici che chierici, sia poveri che ricchi. I primi problemi sembrano verificarsi quando iniziò a svilupparsi una sorta di gruppo dirigente, in cui a prevalere erano i maestri di diritto e di teologia, i quali interpretano la presenza dei frati Minori nella Chiesa, ma anche nella società, partendo da una cultura che non era quella di Francesco. Nel frattempo, anche l’attività di predicazione continuava ad aumentare e a perfezionarsi: non si trattava più di annunciare in modo semplice e diretto elementari messaggi etico-religiosi, ma stava avvenendo un’evoluzione in senso dottrinale. Ciò rendeva, di conseguenza, necessario lo studio della teologia, creando dunque dei rapporti intensi, se non in certi casi perfino strutturali, con gli ambienti scolastici, in particolare quelli universitari, che proprio nel XIII secolo si trovavano al centro di una crisi di crescita, con studenti e maestri che erano in cerca di una nuova collocazione sociale ed ecclesiastica, ma anche di un nuovo rapporto con le forme di vita religiosa canonicamente ordinate: tutto questo, in molti casi, lo ritrovavano proprio negli Ordini Mendicanti.

Le metamorfosi dell’Ordine spesso dipesero dal ruolo eminente assunto dai maestri di teologia e di diritto al suo interno; se pensiamo ai membri che composero la delegazione che il capitolo generale invia a Gregorio IX nel 1230, per risolvere dei dubbi relativi alla Regula e al Testamentum, vi troviamo: il ministro generale Giovanni Parenti, frate Antonio da Padova – che Francesco aveva autorizzato ad insegnare teologia ai frati –, frate Aimone di Faversham, già maestro a Parigi, e altri illustri membri dell’ordine dotati di grandi capacità pastorali ed operative, per lo più provenienti dal mondo padano, in collegamento con la Curia e (probabilmente) graditi a Gregorio IX, ma non troviamo nessuno dei frati della prima fraternità o quelli rimasti più vicini a Francesco, che forse avrebbero potuto interpretare meglio le volontà e le intenzioni espresse nel Testamentum e formalizzate nella Regula.

Il segno però più decisivo della metamorfosi definitiva dell’ordine, in direzione di una maggiore omologazione con i Predicatori, è l’elezione di frate Alberto da Pisa a ministro dell’ordine nel 1239, in quanto si tratta del primo caso di un ministro generale che è anche un sacerdote; fino a quel momento, infatti, l’Ordine era stato guidato solo da frati-laici. Questa elezione sancì la vittoria del partito, per così dire, “sacerdotale” su

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quello dei frati-laici, a cui fece seguito l’approvazione di una norma decisamente esplicita in merito:

Ordinamus quod nullus recipiatur in ordine nostro, nisi sit talis clericus qui sit competenter instructus in gramatica vel logica: aut sit talis laicus de cuius ingressu esset valde celebris et famosa aedificatio in populo et in clero25.

Anche Salimbene affronterà la questione dei laici nell’Ordine nella Cronica all’interno del Liber de prelato, in cui sono presenti, tra l’altro, numerose accuse contro frate Elia.

Il liber è la più lunga digressione presente nel testo, si potrebbe addirittura definire come un’opera all’interno dell’opera, di cui Salimbene ci indica sia l’inizio che la fine26,

in cui la descrizione cronologica degli eventi lascia il posto ad un trattato teologico-filosofico, realizzato in forma di sermone, in cui il frate parmense dice di voler delineare il profilo del prelato ideale. In verità, più che indicare quali debbano essere le virtù di un buon prelato, Salimbene si concentra molto di più sulle colpe di cui si era macchiato Frate Elia quando era ministro dell’ordine, individuandone addirittura tredici27 (una in più di

quelle imputate in seguito a Federico II).

La prima accusa che Salimbene muove contro Elia, è quella di non essersi comportato in maniera adeguata in occasione di una visita del podestà di Parma, Ghirardo da Modena. Quest’ultimo, conoscendo l’aura di santità che circondava il ministro dell’Ordine dei Frati Minori e il suo seguito, si era recato da lui per rendergli omaggio, venendo tuttavia ricevuto senza alcun riguardo; addirittura Salimbene ci dice che frate Elia, non solo non si tolse il cappello, ma non interruppe il suo pranzo, né si alzò in segno di reverenza verso un ospite così importante, compiendo in questo modo un atto di

25 M. Bihl, Statuta generalia Ordinis edita in apitulis Generalibus celebratis Narbonae an. 1260, Assisi an.

1279 atque Parisiis an. 1292 (Editio critica et synoptica), 1941, XXXIV, p. 39.

26 Cronica: 136:258-239:462

27 Per un elenco completo delle accuse che Salimbene muove a Frate Elia, rimando a S. Nobili, Elia come

antimodello nella Cronica di Salimbene de Adam, in Elia di Cortona tra realtà e mito, atti dell’Incontro di Studio Cortona 12-13 luglio 2013, Società internazionale di studi francescani - Centro interuniversitario di studi Francescani, Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, Spoleto 2014, pp. 145-160.

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«rusticitatem»28, che in italiano moderno potrebbe essere resa con i termini “rozzezza”,

oppure ancora meglio “villania”.

Un’azione del genere, che oltretutto rivelava la vera natura del Ministro dell’Ordine, per un uomo come Salimbene, proveniente dai ranghi più alti della società – come lui stesso ci ricorda più volte nella Cronica, per esempio quando dice che suo padre, Guido de Adam, riuscì ad ottenere una lettera dell’Imperatore Federico II29, con la quale

richiedeva a Frate Elia di concedergli il permesso di uscire dall’Ordine e farlo tornare da suo padre – non poteva essere accettata, né tantomeno tollerata. Ad ogni modo, almeno secondo Salimbene, non si tratta di una cosa così sorprendente; la rusticitas di Elia viene spiegata dal frate con la descrizione delle sue origini umili: questi infatti, prima di diventare ministro dell’Ordine, era stato un materassaio e insegnava ai bambini di Assisi a leggere il salterio30. Agli occhi del nostro frate, insomma, Elia non è altro che un

uomo che non ha saputo stare al proprio posto della gerarchia sociale.

Il termine rusticitas, e i suoi derivati, accompagnano spesso l’operato di Elia nel

Liber, probabilmente perché tutti i difetti che Salimbene elenca, sono, secondo il frate,

sostanzialmente riconducibili ad essa, ma cosa si intendeva nel Medioevo con questo termine? Nei suoi studi sul mondo rurale occidentale, Le Goff31 ha individuato tre diverse

accezioni del termine: la prima è paganus, in quanto legato alle superstizioni contadine, che si ricollegavano al paganesimo della Roma antica; la seconda assimila il contadino al povero (pauper), facendo poi sviluppare anche la contrapposizione, in senso figurato,

urbanus-rusticus come civile-incolto; la terza è quella di ignorante e illetterato, in

contrapposizione con l’élite clericale istruita (di cui per altro fa parte Salimbene). C’è però anche un'altra accezione del termine, la cui formulazione la dobbiamo a Peter

28 Et primo dicamus de rusticitate quam fecit erga dominum Ghirardum de Corigia, qui cum esset nobilis

homo et positus in dignitate sublimi (erat enim potestas Parmensium) et venisset eum honorabiliter cum militibus ad visitandum, debebat ei assurgere, et fecisset sibi ipsi honorem. Honor enim non tantum est illius cui impenditur, quantum etiam illius, immo plus, qui eum impendit. Hoc non consideravit frater Helyas et ideo rusticitatem fecit.; Cronica: 139:418.

29 Cronica: 54:219 30 Ibid.: 137:414

31 J. Le Goff, I contadini e il mondo rurale nella letteratura dell’alto Medioevo (secoli V e VI), in Agricoltura

e mondo rurale in Occidente nell’alto medioevo. Atti della XIII Settimana di studio (Spoleto, 22-28 aprile 1965), Spoleto, 1966, pp. 723-745 e 759-770, ora in ID., Tempo della Chiesa e tempo del mercante e altri saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, Torino, 1977, pp. 99-113.

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Brown32, che contrappone la rusticitas alla reverentia per il culto divino in generale, e

per quello dei santi in particolare. Secondo questa definizione, il rusticus è uno zotico che si espone a credenze indecorose, spinto dall’istinto e culturalmente inferiore, che si lascia sedurre facilmente da nemici di Dio quali: indovini, guaritori e profeti popolari. Quindi, per quanto abbiamo appena detto, il termine non si sovrappone più solamente con le abitudini della popolazione rurale, ma si estende anche a soggetti appartenenti ad altri strati sociali.

Proprio quest’ultima contrapposizione viene utilizzata da Salimbene nella sua

Cronica in riferimento a Elia, per spiegare la scelta del ministro di non allinearsi

all’ortodossia dell’Ordine, e più in generale a quella cristiana. La contrapposizione tra

rusticus e buon cristiano compare, per altro, diverse volte nell’opera, per fare un esempio,

basta pensare alle invettive mosse contro Gherardino Segalelli e i suoi Apostolici. È però importante ricordare che non tutti i pauper sono rustici, ne è un esempio Benvenuto Asdenti, di cui riporto la descrizione di Salimbene:

Item his diebus erat in civitate Parmensi quidam pauper homo operans de opere cerdonico (faciebat enim subtellares), purus et simplex ac timens Deum et curialis, id est urbanitatem habens, et illitteratus, sed illuminatum valde intellectum habebat, in tantum ut intelligeret scripturas illorum qui de futuris predixerunt, scilicet abbatis Ioachim […]33

Benvenuto pur avendo origini umili come Elia, è ammirato da Salimbene34, ed è

interessante notare che tra i vari apprezzamenti che vengono rivolti all’Asdenti35 ci sia il

possedere la “urbanitas” e soprattutto che fosse “curialis”. Il nostro frate propone l’opposizione tra rusticus e urbanus, di cui parla anche Le Goff, ma aggiunge un terzo elemento molto più importante in questo contesto specifico: la curialitas.

32 P. Brown, «Reverentia, rusticitas»: da Cesario di Arles a Gregorio di Tours, in Id., La formazione

dell’Europa cristiana. Universalismo e diversità (The Rise of Western Christendom. Triumph and Diversity, London 2003), Bari, 2006, pp. 177-203; e Reliquie e status sociale nell’età di Gregorio di Tours (1976), in ID., La società e il sacro nella tarda antichità (Society and the Holy in the Late Antiquity, London, 1982), Torino, 1988, pp. 180-207.

33 Cronica: 749:2423.

34 Dante invece lo colloca all’Inferno nel canto XX (118-120) insieme a Michele Scoto, nella quarta bolgia

dell’ottavo cerchio, insieme ai maghi, gli indovini e gli astrologi.

35 Letteralmente “senza denti”, anche se Salimbene ci dice che in realtà aveva molti denti e che erano così

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La rusticitas non è solo riluttanza a seguire i dettami della Chiesa, ma è soprattutto l’esatto contrario della curialitas36, virtù fondamentale secondo Salimbene, il quale arriva a paragonarla ad una virtù teologale37, che però manca completamente a Frate Elia e che

sarà una sua colpa imperdonabile.

Altre due gravi colpe che Salimbene imputa ad Elia, derivanti dalla sua rusticitas, sono: che da Ministro abbia permesso di accedere nell’Ordine a troppi frati laici (definiti dal cronista «multos inutiles»38); e che abbia affidato loro ruoli che invece sarebbero

dovuti spettare ai chierici.

Secondo quanto dice il nostro frate, i laici erano decisamente troppo numerosi nei conventi, lui ne trovò venticinque nei due anni in cui abitò presso il convento di Siena e addirittura trenta nei quattro anni a Pisa. Ovviamente Salimbene spiega le varie ragioni, quattro per la precisione, per cui l’ammissione di laici all’interno dell’Ordine non fosse una cosa positiva, riportando numerosi esempi presi dalla Bibbia39, tra cui, a mio parere,

è interessante sottolineare la metafora utilizzata da Salimbene per far capire al lettore perché non debbano esserci troppi laici all’interno dell’Ordine:

Prima, quia, cum palatia edificantur vel ecclesie vel alie domus, primitus in fundamentis lapides impoliti sternuntur, postquam autem fundamenta super terram apparent, ponuntur lapides dolati et pulchri ad pulcritudinem operis sive edificii ostendendam40.

I laici dunque, secondo il nostro frate, sono come le pietre utilizzate per gettare le fondamenta, indispensabili all’inizio, ma che non possono conferire lustro e bellezza all’edificio; così facendo loda l’operato di Francesco, il quale ha gettato solide fondamenta per l’Ordine, e allo stesso tempo critica Elia, il quale, con il suo operato, non fa niente per aumentarne il prestigio, aggiungendo anzi l’ulteriore aggravante che questa scelta sia fatta con l’intenzione di poter esercitare meglio il suo potere su queste persone41,

36 Il tema della contrapposizione tra rusticitas e curialitas viene affrontato da: S. Vecchio, Valori laici e

valori francescani nella «Cronica» di Salimbene da Parma; in Salimbeniana, atti del convegno per il VII centenario di Fra Salimbene, Parma 1987-1989, Radio Tau, Bologna 1991, pp. 254-265.

37 A curialitate humana etiam habetur quod proximus diligi debet. Caritas enim et curialitas sorores sunt;

Cronica: 161:463.

38 Cronica: 141:422. 39 Ibid.: 141:423-143:425. 40 Ibid.: 142.423.

41 Si quis autem querat quis ergo defectus fuit ex parte fratris Helye in laicorum receptione, si fecit quod

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meritandosi per questo – oltre che per le altre colpe che gli vengono attribuite nella

Cronica – la deposizione da Ministro dell’Ordine.

Un’altra grave conseguenza delle azioni e dell’esempio di frate Elia, fu che i frati cominciarono a disprezzare lo studio e la cultura, in nome di una semplicitas, che Salimbene condanna aspramente, ricordando a tal proposito un episodio che lo vide protagonista in Toscana, quando intervenne in difesa di un giovinetto, il quale era stato ripreso da un laico poiché parlava in latino:

Si videbat et audiebat aliquis frater laycus aliquem iuvenculum Latinis verbis loquentem, redarguebat eum et statim dicebat sibi: «Ha miser, vis dimittere sanctam simplicitatem pro tua sapientia Scripturarum?. Quibus e diverso taliter respondebam: «Sancta rusticitas solummodo sibi prodest, et quantum edificat ex vite merito Ecclesiam Christi, tantum nocet, si destruentibus non resistat». Vere unus asinus vellet quod omnia que videt asini essent42.

È interessante notare come anche in questo caso si ritrovi il termine rusticitas, per indicare l’inadeguatezza del laico che riprende il giovane che aveva parlato in latino.

1.9 Le dispute tra clero secolare e Ordini Mendicanti

Gli scontri tra clero secolare e ordini mendicanti si fecero sempre più frequenti nel corso del Duecento. Alla base di tali conflitti c’era l’aumento dell’importanza e della considerazione tra i fedeli di Predicatori e Minori, i quali cominciarono ad essere preferiti ai chierici per la cura animarum, attività che, fino a quel momento, era appartenuta loro in maniera esclusiva. Quando poi Gregorio IX autorizzò ufficialmente anche agli ordini mendicanti ad occuparsi della cura delle anime, la situazione non poté che peggiorare.

Se noi guardiamo le fonti di questo periodo in nostro possesso, potremmo pensare che ci fosse una conflittualità permanente fra clero secolare e Ordini Mendicanti. La realtà era probabilmente diversa43, sicuramente ci furono zone in cui tali scontri si verificavano

e furono anche particolarmente violenti, come ad esempio in Francia, dove le rappresaglie

frater Helyas propter hoc recipiebat multitudinem laicorum ea intentione qua posset melius talibus dominari, vel ut recepti ab eo manus eius implerent pecuniam tribuendo, dicimus revera quod dignus erat propter hoc de ministerio suo deponi; Cronica: 143:425.

42 Cronica: 146:435.

43 L. Pellegrini, Mendicanti e parroci: coesistenza e conflitti di due strutture organizzative della «cura

animarum», in Francescanesimo e vita religiosa dei laici nel ‘200, atti dell’VIII Convegno internazionale, Società internazionale di studi francescani, Assisi 1981, pp. 131-167.

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del clero furono drammatiche; ma ce ne furono altre in cui si instaurò una convivenza pacifica, per esempio in alcune regioni dell’Inghilterra.

Le ragioni di questi scontri devono essere ricercate nell’incontro, su uno stesso terreno, di strutture diverse per: origini, tradizioni, obiettivi e modalità di azione e organizzazione. Queste due strutture potevano coesistere, se non addirittura collaborare, nei casi in cui:

- avevano a che fare con destinatari diversi;

- a capo delle strutture territoriali c’erano dei personaggi il cui principale obiettivo era una collaborazione armonica, che erano disposti ad ignorare le pressioni conflittuali emergenti nel proprio ambiente e a mettere in secondo piano i veri o supposti diritti della propria parte, arrivando perfino a riconoscerne gli abusi nell’esercizio delle funzioni;

- riuscivano a concordare le rispettive sfere di azione e le modalità di rapporto. Senza dubbio sui rapporti tra Mendicanti e clero secolare influirono molti elementi, spesso collegati a situazioni locali a vario livello: la benevolenza di un prelato o di un signore nei confronti dei frati, sicuramente aveva ripercussioni sull’atteggiamento del clero locale, che poteva essere ulteriormente esasperato in caso di tensioni tra il clero stesso e signori laici (o anche ecclesiastici). Un caso del genere si verificò nell’Italia Meridionale nel 1245 in una fase di aperto scontro tra Federico II44 e gli Ordini

Mendicanti di quella regione, costringendo il papa Innocenzo IV ad intervenire in soccorso dei frati, rieditando, nell’agosto dello stesso anno, la bolla «Nimis iniqua», spedendola ai vescovi di Napoli, Messina e Siponto, i quali vennero nominati tutori dei diritti dei frati dalle varie angherie commesse dal clero locale nei loro confronti.

Ad ogni modo non sono rari i casi di prese di posizione da parte dei responsabili degli ordini mendicanti, contro frati che si rendevano protagonisti di abusi nell’esercizio delle funzioni spettanti al clero locale; così come furono molti i prelati, anche tra quelli di rango minore, che difesero i mendicanti con azioni concrete. Per tutte queste ragioni, l’immagine di uno scontro totale e senza quartiere, trasmessaci dalle fonti del periodo

44 Per quanto riguarda i rapporti tra Federico II e gli Ordini Mendicanti, si veda: G. Barone, Federico II di

Svevia e gli Ordini Mendicanti, in Mélanges de l’ecole francaise de Rome- Moyen ages Temps modernes, 90/2 1978, pp. 607-626; EAD., La propaganda antiimperiale nell’Italia federiciana: l’azione degli Ordini mendicanti, in Federico II e le città italiane, a cura di P. Toubert e A. Paravicini Bagliani, Palermo 1994, pp. 278-289.

(28)

sembra essere eccessiva, non dobbiamo poi dimenticarci anche che una caratteristica dei mezzi d’informazione (di ogni tempo) è quella di selezionare gli avvenimenti che fanno più notizia. Questo non deve però neppure farci sottovalutare, o addirittura ignorare, le tensioni e i tentativi, talvolta radicali, di soluzione: che questi non abbiano avuto successo, lo si deve più alla volontà generale, o quantomeno abbastanza diffusa, di stabilire i rapporti in base a un diritto che regolasse e salvaguardasse le aspettative di ciascuna parte, piuttosto che alla volontà di qualche alto esponente.

Salimbene nella sua Cronica ci fornisce diverse testimonianze di queste dispute, contenute in una sezione interamente dedicata a tale questione; in un passo del testo ricorda un episodio avvenuto durante un sinodo convocato nel 1254 dall’arcivescovo di Ravenna Filippo, su richiesta di Papa Alessandro IV, per via di alcune voci in merito ai Tartari:

Tunc insurrexerunt clerici congregati contra fratres Minores et Predicatores, dicentes quod ipsi non predicant decimas, quod audiunt confessiones, quas ipsi audire deberent, et quod sibi commissos ad sepulturam recipiunt, cum decedunt, et quod offitium predicationis exercent, quod ipsi exercere deberent, et quod omnia ista quatuor quibus privantur, impediunt eos ne possint dare pecuniam.45

In questo breve estratto della Cronica vediamo tutte le principali accuse che il clero secolare muoveva contro i frati Predicatori e Minori, ossia: che non predicavano le decime; che confessavano i fedeli; che facevano i funerali ai fedeli, seppellendoli anche nelle loro chiese; che predicavano e che per questo motivo i chierici avevano avuto anche una notevole perdita di denaro, che gli impediva di rispondere alla richiesta d’aiuto dell’arcivescovo di Ravenna.

Contro queste accuse si erge a difensore dei due Ordini il vescovo di Parma Obizzo di Sanvitale, il quale attacca duramente i chierici con un discorso che ci viene riportato da Salimbene:

Miseri et insani, non congregavi vos ut contra istos duos Ordines insurgatis, qui dati sunt a Deo Ecclesie in adiutorium vestrum et in salutem populi Christiani et omnium salvandorum, sed congregavi vos ut de facto Tartarorum aliquid ordinemus, sicut michi et aliis metropolitanis dominus papa mandavit […]46;

45 Cronica: 581:1907. 46 Ibid. 582:1909.

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il vescovo prosegue poi dicendo:

Miseri et insani, cui committam confessiones secularium personarum, si fratres Minores et Predicatores non audiunt eas? Vobis secura conscientia eas committere non possum, quia, si veniunt ad vos et petunt tiriácam volentes confiteri, venenum eis datis. Ducitis enim mulieres post altare causa confitendi et ibi eas cognoscitis: quod nefas est dicere et peius operari. […]47;

e conclude la sua invettiva affermando:

Committam ergo presbitero Gerardo, qui est hic, quod confessiones audiat mulierum, cum constet michi quod totam domum filiabus et filiis plenam habeat? Cui etiam illud propheticum non incongrue dici potest: Filii tui sicut novelle olivarum in circuitu mense tue. Et utinam presbiter Gerardus solus esset et in consimili negotio socios non haberet!48.

Il fatto che Salimbene ritenga giusto che la cura animarum venga affidata ai Predicatori e ai Francescani è abbastanza ovvio. È invece, a mio parere, interessante notare il fatto che Salimbene sottolinei che anche un vescovo importante come Obizzo, nipote di un papa (Innocenzo IV) e membro di una potente famiglia di Parma – tutti argomenti per il frate francescano avevano un certo rilievo–, ritenesse giusto che i compiti di cura delle anime fossero svolti anche, se non soprattutto, dai frati. L’invettiva del vescovo, che tra le altre cose gli comportò più di un’inimicizia tra i chierici, offre a Salimbene la possibilità di dimostrare come anche gli alti gradi della Chiesa fossero favorevoli all’attribuzione della cura delle anime agli Ordini Mendicanti.

Sempre in merito alle dispute tra chierici e frati, nella Cronica troviamo un altro episodio che è interessante analizzare: si tratta dell’invito che alcuni chierici fecero a Salimbene, chiedendogli di recarsi da loro per parlare delle quattro accuse, che i secolari mossero contro i due ordini durante il sinodo.

Salimbene, dopo aver accettato l’invito, risponde punto su punto alle accuse, partendo da quella relativa alla predicazione delle decime. Il frate parmense afferma chiaramente che questa attività non rientra dei compiti dei Minori (né dei Predicatori), ma che spetta ai chierici ricordare alla gente che le decime devono essere versate, senza

47 Ibid. 582:1909. 48 Ibid. 582:1910.

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