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biblioteca di testi e studi / 1461 musica

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Academic year: 2022

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musica

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pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a:

Carocci editore Viale di Villa Massimo, 47

00161 Roma telefono 06 4 1 4 17

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www.carocci.it

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(3)

Ascoltar leggendo

Un viaggio d’istruzione musicale sulle note di Imagine

(4)

1a edizione, marzo 0

© copyright 0 by Carocci editore S.p.A., Roma Impaginazione e servizi editoriali:

Pagina soc. coop., Bari Finito di stampare nel marzo 0

dalla Litografia Varo (Pisa)

isbn 7--0-14-0 Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge  aprile 141, n. 6)

Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno

o didattico.

Dipartimento di Studi Umanistici.

(5)

5

Imagine 

1. A me gli occhi 

. Incipit, dogma e Contrafactum i 11

. Le immaginifiche sette 1

ameni. Questi dodici capitoli 16

1. L’arte di contare bene 

1.1. Sulla punta delle dita 

1.. Fuori mano 5

1.. Calcolatrici digitali 7

game. De do dadi 0

. L’arte di muovere cuori e corde 5

.1. Contare e raccontare 5

.. Esperienza memorabile 

.. Numero da circa 40

mane. Suoni dell’alba 4

. L’arte di distinguere note e suoni 47

.1. Fuori dal cesto 47

.. Tre casi 4

.. Altri scenari 5

magie. Diverse volte sette 5

(6)

6

4. L’arte di esplorare il suono 57

4.1. Suono e silenzio 57

4.. Quattro qualità primarie 5

4.. Avanti per gradi 60

mega. Due accordi e via 64

5. L’arte di dar forma a un canto 6

5.1. Matite e acquerelli 6

5.. Tutto e mezzo 7

5.. Dare il la 74

mein. «Imagine no possessions...» 75

6. L’arte di dar voce a un sentimento 1

6.1. A spanne 1

6.. Ottava vs ottava 

6.. Minaccia incombente 5

nimie. Piccoli e grandi eccessi 7

7. L’arte di far musica con sei note 

7.1. Contrafactum ii 

7.. A proposito di amore 6

7.. Amore e morte 

imagin. Note di san Giovanni 100

. L’arte di far musica con otto note 105

.1. Sul confine 105

.. Naturale e non solo 106

.. Top di gamma 110

egna. Bottom-up 11

. L’arte di marciare insieme 11

.1. Trauma infantile 11

.. Doppio e metà 11

.. Punti di vista 1

agmen. Marce, valzer e cori da stadio 17

(7)

7

10. L’arte di forgiare utensili 1

10.1. Per una sillaba in più 1

10.. Pause 15

10.. Chiave di volta 1

enigma. Elementi di sistema 140

11. L’arte di dominare i sensi 147

11.1. Musicus, cantor, bestia 147

11.. Alterazioni 14

11.. Modi, metri, armature 15

animi. «Siate felice» 155

1. L’arte di azzerare i pregiudizi 161

1.1. Sotto sotto 161

1.. Una gemma 164

1.. Contrafactum iii 166

in me. Infelici di stare lassù 16

Note 175

Bibliografia 11

Opere musicali 15

Indice dei nomi 1

(8)
(9)

Imagine

A me gli occhi1

Raccontando storie dotate di un certo fascino, questo libro si propone di mettere chi legge nelle condizioni di fruire in modo critico della musica, facendosene un’idea basata su elementi oggettivi oltre che su emozioni in- dividuali; suffragando le proprie opinioni con dati concreti, utili per capire perché un pezzo di musica piace o non piace e perché il proprio e l’altrui giudizio possono divergere e talvolta mutare. Questo libro non è però un manuale di teoria, né una storia della musica bensì un invito a interrogare musicalmente il mondo; con acume, sensibilità e un tocco di leggerezza.

Il presupposto da cui esso muove è che il modo migliore per imparare è divertirsi. Parlando di musica, divertimento e apprendimento scaturiscono dal contrasto fra una materia impalpabile come il suono e i diversi sistemi inventati nel tempo al fine di comprenderla. Riflettere su questo contrasto vuol dire guardare alla musica in prospettiva storica considerando come ogni creazione, sia essa una canzone di tre minuti o un’opera di tre ore, nasca e compia la sua parabola in un campo di forze assai vasto.

Oltre a essere arte la musica è scienza, e in quanto tale fa leva su siste- mi basati su parole e numeri. Nessuna paura, però: per affrontare queste pagine non occorrono conoscenze avanzate, basta un po’ di dimestichezza con le lettere dell’alfabeto e con i numeri da 1 a 1. L’importante è che non manchino la disponibilità al gioco e uno sguardo critico sulle regole.

Sovente, infatti, queste condensano in poco spazio e con un certo grado d’approssimazione realtà stratificatesi in tempi lunghi e in base ad apporti assai disparati. Far tornare i conti non è sempre facile, ma è divertente os- servare le acrobazie che la mente umana è capace d’inventare nel tentativo di riuscirci.

Facciamo un esempio. Consideriamo il titolo di questa introduzione,

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10

preso in prestito da una canzone famosa. Inno pop alla cultura della pace, Imagine fu composta al pianoforte da John Lennon una mattina del 171.

Anche senza disporre della voce e dello Steinway del suo autore, chiunque può provare a canticchiare Imagine: la melodia è talmente orecchiabile che per impararla basta davvero poco. Meno facile è memorizzarne i versi, un po’ perché sono in inglese, un po’ perché qualche termine non è del tutto intuitivo. Più difficile è suonarne la parte strumentale; a tutta prima sembra facile, ma aguzzando la vista si nota come Lennon vi abbia profu- so un sapere non comune. Imagine si può anche cantare strimpellando la chitarra davanti al falò; ma per rendere onore a ogni suo pregio occorre studiarne a fondo il testo verbale e il testo musicale. Solo grazie al fatto che le parole e le note di questa canzone sono state scritte, stampate e pubbli- cate è possibile eseguirla oggi, a mezzo secolo di distanza, valorizzandone ogni aspetto; non solo l’afflato ideale e l’impegno civile, ma anche i tratti più squisitamente musicali come la curva melodica, l’impianto armonico e l’assetto formale.

Ecco, scopo di questo libro è persuadere chi legge del fatto che la musica risulta infinitamente più godibile se affrontata con l’occhio, oltre che con l’orecchio. Se ascoltare un pezzo di musica è più gratificante che limitarsi a udirlo, ascoltarlo leggendone il testo è molto più gratificante che limitarsi ad ascoltarlo, per non dire quant’è appagante cantarlo, suonarlo o addirit- tura fare insieme le due cose. Non si tratta di un atteggiamento elitario, si tratta solo di constatare il vantaggio che deriva dall’avvicinare un oggetto attivando due sensi anziché uno; tre, includendo il tatto, se nel farlo si met- te mano a uno strumento.

L’auspicio è che queste pagine riescano a mettere chi legge nelle condi- zioni di capire perché, al netto delle sue qualità lato sensu culturali, Imagine è un capolavoro dell’arte musicale1. Ascoltare Imagine leggendone il testo aumenta il godimento in modo esponenziale perché lo estende dalla sfera sensoriale a quella intellettuale. Non solo: una volta acquisita la capacità di leggere uno spartito come quello di Imagine diventa leggibile lo spartito di molte altre canzoni. Dalle chansons medievali al rap odierno la canzone è sempre stata un genere tendenzialmente semplice, cosa che spiega la con- tinuità e l’universalità del suo successo. Questo libro affronta anche generi più complessi, ma solo in termini discorsivi. Il suo percorso d’istruzione punta a mettere chi legge nella condizione di decifrare il testo di una canzo- ne; una condizione che procura l’accesso a una fonte di piacere straordina- riamente prodiga, considerando il numero e il pregio delle canzoni apparse sulla Terra negli ultimi millenni.

(11)

11

Incipit, dogma e Contrafactum i

I- ma- gine there’s no heav- en, / it’s eas- y if you try__

G G G G B B A / G G G G B B A

Ai versi iniziali di Imagine sono sottoposte qui le lettere che, nella lingua di Lennon, corrispondono alle note su cui risuonano le loro (7 + 6 =) 1

sillabe. Una di queste note (G) ricorre più spesso delle altre due (A, B).

Facendo attenzione si osserva come le due sequenze alfabetiche, aperte en- trambe da quattro G, siano simili ma non identiche: la seconda sottopone infatti due note (B, A) all’ultima parola (try) poiché questa, a differenza del precedente heav-en, è un monosillabo. Volendo impiegare la stessa me- lodia per due versi differenti Lennon deve scendere a patti con le rispettive strutture. Il primo (Imagine there’s no heaven) conta sette sillabe, il secon- do (it’s easy if you try) sei; desiderando intonare sei sillabe con le stesse sette note di prima Lennon non può far altro che sottoporre due note (B, A) a un’unica sillaba (try). L’analisi potrebbe andare avanti, ma fermiamoci qui. È venuto il momento di siglare fra Autore e Lettrice/Lettore un patto indispensabile.

Cara Lettrice / Caro Lettore, dopo averti lusingato con la promessa d’insegnarti ad apprezzare la musica in modo critico

l’Autore ti chiede adesso

di accettare in modo acritico (ma – giura – transitorio) nientemeno che un dogma. Questo:

Le note sono sette e si chiamano do, re, mi, fa, sol, la, si.

Fine del dogma. Nulla di impegnativo; nondimeno, l’autore di Imagine obietterebbe che sì, le note sono sette, ma si chiamano A, B, C, D, E, F, G.

E avrebbe ragione, perché per dare un nome alle note l’inglese ha scelto un sistema diverso. Considerando che la lingua di Lennon è una delle più diffuse al mondo, e che il suo modo di chiamare le note è adottato da miliardi di persone, può essere utile imparare anche la versione inglese del dogma:

Le note sono sette e si chiamano A, B, C, D, E, F, G.

(12)

1

C’è però un problema. Benché al di qua e al di là della Manica si affermi concordemente che le note sono sette, le due sequenze non partono dallo stesso punto; un po’ come la settimana, che per noi comincia di lunedì e per gli inglesi di domenica: i giorni sono sempre sette, ma quello che per noi è il primo per loro è il secondo, e così via. Ora, vista dalle rive del Tevere la sequenza delle note è

do re mi fa sol la si

C D E F G A B

Vista dalle rive del Tamigi essa è invece

A B C D E F G

la si do re mi fa sol

Lo scarto è più marcato rispetto a quello fra i giorni della settimana. Lad- dove per questi esso è di una sola posizione, fra le note è di due: infatti, quello che per noi è do per gli inglesi è C. Per non fare confusione, la cosa migliore è mettere a fuoco l’unico caso in cui i due sistemi attribuiscono allo stesso suono un nome che comincia con la stessa lettera, f. Quello che per noi è fa per gli inglesi è F, e viceversa; tenendo fermo questo punto le corrispondenze si ricavano facilmente, basta seguire l’ordine alfabetico A- B-C-D-E-F-G o la filastrocca do-re-mi-fa-sol-la-si: se dopo F c’è G, dopo fa c’è sol; se prima di F c’è E, prima di fa c’è mi, e così via.

A proposito della filastrocca, per adesso impariamola a pappagallo, come i nomi dei sette nani. Il vantaggio è che, a differenza di quelli dei compagni di Biancaneve, i nomi delle note sono corti; lo svantaggio è che i nomi dei nani ritraggono i caratteri dei loro titolari, mentre quelli delle note non dicono niente sui caratteri dei rispettivi suoni. Brontolo si chiama così perché brontola, Pisolo si chiama così perché pisola, mentre do non si chiama così perché dà, se no gli inglesi lo chiamerebbero I give, e re non si chiama così perché porta la corona, se no gli inglesi lo chiamerebbero king.

In queste pagine cercheremo di capire perché le note sono sette, perché han- no determinati nomi e perché si succedono in un certo ordine. Qui basti aver messo in chiaro un concetto basilare: mentre i suoni esistono in natura, le note sono un’invenzione umana. È sufficiente prendere il traghetto da Calais a Dover per scoprire che quel suono che in Italia – ma anche in Fran- cia e negli altri paesi in cui risuonano lingue romanze – si chiama fa, dalle bianche scogliere del Kent a quelle grigiastre delle isole Shetland non solo

(13)

1

si chiama F, ma diventa anche la sesta anziché la quarta nota della sequenza.

Questione di punti di vista, come nel caso di quell’imponente piramide di roccia che gli svizzeri chiamano Matterhorn e gli italiani Cervino, o di quella regione incantevole che gli austriaci chiamano Südtirol e gli italiani Alto Adige.

Che li si chiami al modo degli inglesi o al modo degli italiani, i suo- ni possono essere emessi da vari strumenti, dalla voce umana al contrab- basso, dal timpano al flauto dolce. Tutti questi aggeggi producono suoni mettendo in vibrazione l’aria. Per ragionare sui suoni la cosa migliore è produrli mediante uno strumento in grado di emetterli con facilità. Per suonare il pianoforte occorrono anni di studio, ma per fargli emettere un suono basta schiacciare un tasto. Sembra una banalità, ma non lo è: la prova contraria si ottiene tentando di ricavare il suono desiderato da un violino; basta aver avuto per vicino un violinista alle prime armi per capi- re l’entità del problema. L’altro grande vantaggio del pianoforte è quel- lo di presentare i suoni nell’ordine dell’alfabeto ovvero della filastrocca.

Sul pianoforte i tasti che corrispondono alle sette note sono allineati co- me soldatini, uno di fianco all’altro. Sembra un rilievo superfluo ma, di nuovo, la prova contraria consiste nel tirar fuori la sequenza delle sette note da un violino o da un flauto: un compito non facile, provare per credere.

Ora, non è detto che tutti abbiano a disposizione un pianoforte. Chi ce l’ha legga queste pagine tenendolo a tiro; chi non ce l’ha ne visualiz- zi la tastiera sul computer o sullo smartphone: esistono in rete diversi servizi gratuiti (ad esempio virtualpiano.net) che consentono di suonare una tastiera direttamente online. Chi non ha un pianoforte, un com- puter o uno smartphone, o magari ce li ha ma sta leggendo queste righe su un’isola deserta, può raccogliere l’esortazione contenuta nel seguente Contrafactum:

I- ma- gine you are a player / whose fin- gers strike some keys__

G G G G B B A / G G G G B B A

Le immaginifiche sette

A beneficio di chi ha difficoltà a immaginarsi dinanzi a una tastiera ecco un piccolo appoggio su cui far leva durante la lettura:

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14

La tastiera del pianoforte consta di due serie di tasti. Mentre quelli bianchi – lunghi e larghi – si succedono in modo continuo, quelli neri – corti e stretti – alternano gruppi di due a gruppi di tre. Per adesso ignoriamo i tasti neri, o meglio, serviamocene solo per fissare qualche riferimento sui tasti bianchi. Quello che per Lennon era F e per noi è fa è il suono che si produce agendo sul tasto bianco subito a sinistra di un gruppo di tre tasti neri. Fissato questo riferimento, a ciascun tasto bianco è possibile associare un nome. Un do, per dire, sta a sinistra di un gruppo di due tasti neri; un mi e un si stanno a destra rispettivamente di un gruppo di due e di un gruppo di tre tasti neri; un re, un sol e un la sono invece chiusi da tasti neri su entrambi i lati. Non ci vuol molto per farci l’occhio.

Quella della tastiera coi nomi “inglesi” e “italiani” è l’unica immagine destinata a ricorrere in questo libro. Se pensata come il risultato dell’ag- giunta di una m a Imagine, la parola “immagine” è un sostantivo italiano ricavato da un verbo inglese. Non è arduo immaginare il disagio che un’a- crobazia del genere potrà suscitare in un/una etimologista; essa esemplifica bene, però, la razionalizzazione ex post di un fenomeno prodottosi in modo non lineare. La musica è piena di casi del genere: come vedremo, la filastroc- ca do-re-mi-fa-sol-la-si è il prodotto di tre apporti succedutisi in tempi e modi diversissimi.

Continuando in questo gioco vagamente dadaista possiamo notare co- me l’aggettivo al centro del titolo di questo paragrafo – immaginifiche – sia un’immagine con cinque fichi. L’acrobazia comporta il balzo all’indietro di una delle vocali di fichi; nel momento in cui fichi diventa ifich e va a infilarsi dentro immagine ecco che vien fuori immaginifiche. Voilà. Del resto an- che Stelio Effrena, il protagonista del Fuoco, il romanzo in cui d’Annunzio si autoritrasse nel 100 quale artista immaginifico, sostiene di aver fatto parte del drappello di uomini che avevano portato il feretro di Wag ner da

do

C

fa

F

fa4

F4

si

B

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B4

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D

sol

G

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G4

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C4

do5

C5

mi

E

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E4

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A

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A4

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D4

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Ca’ Vendramin alla stazione ferroviaria. Nel racconto non c’è nulla di vero, ma il senso di devozione che promana dall’immagine letteraria è ben più potente del semplice dato cronachistico. Non solo il Vate non fu tra i ne- crofori di Wag ner, ma non si trovava nemmeno a Venezia in quel giorno di febbraio del 1. Però l’infatuazione wag neriana sua, del suo personaggio e della loro generazione è una testimonianza eccellente del clima culturale che regnava in Europa all’alba del nuovo secolo.

Effettuata con la complicità dei fichi un’operazione additiva sul sostan- tivo immagine, con l’ausilio di un numero romano ne possiamo compiere una sottrattiva sull’aggettivo immaginifiche. Il numero è mii, corrispon- dente all’anno in cui l’ultimo degli Ottoni, Enrico ii, ascese al trono del Sacro Romano Impero (100). Sottraendo una m e due i da immaginifiche si ottiene magnifiche. Le magnifiche sette di questo libro sono le note, i sette colori-base della tavolozza con cui generazioni di artisti hanno impresso, imprimono e imprimeranno immagini sonore nella memoria del mondo.

Dalla melodia sognante di Imagine a quella solenne dell’Inno alla Gioia, dall’armonia sensuale di Tristano e Isotta a quella diafana di Apollon mu- sagète, dal ritmo cullante di una barcarola veneziana a quelli sovreccitati che schiantano Elettra nella reggia di Micene e l’Eletta in una landa desolata della Russia, le magnifiche sette sono immaginifiche non tanto per la loro capacità di creare immagini, quanto per la loro capacità d’incendiare l’im- maginazione. Con sette note Lennon ha scritto Imagine, Beet hoven nove sinfonie, Palestrina oltre cento messe, Bach centinaia di cantate, Scarlatti 555 sonate, Vivaldi più di seicento concerti, Schubert un migliaio di Lieder, tutti combinando i suoni che gli inglesi denominano con sette lettere e gli italiani con sette sillabe.

Muovendo da tale constatazione questo libro prova a indagare i pre- supposti su cui l’arte musicale si fonda, fornendo qualche strumento per estendere lo sguardo a diversi generi e periodi della storia della musica. In queste pagine si partirà da opere che, per i motivi più disparati, sono entrate a far parte del canone occidentale; non per rivendicare un loro qualche pri- mato ma per semplice comodità di riferimento a fonti sonore e documenti scritti. Di tale canone fa parte Pelléas et Mélisande (10), l’opera con cui Debussy diede vita al genere per cui la storiografia musicale ha coniato il termine Literaturoper: opera basata su una fonte letteraria – nello specifico il dramma omonimo di Maeterlinck (1) – e non su una sua rielabora- zione librettistica4. Un esempio contrario è costituito dalla Traviata (15), opera composta da Verdi intonando i versi di un libretto ricavato da un romanzo in prosa5. Malgrado la folgorazione provata da Debussy nel teatro

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16

parigino in cui era andato in scena il dramma di Maeterlinck, la compo- sizione di Pelléas et Mélisande si protrasse per quasi un decennio. Dopo i primi entusiasmi la composizione aveva subìto un rallentamento testimo- niato da una confidenza resa all’inizio del 14 all’amico Ernest Chausson.

Creatura evanescente, Mélisande gli aveva procurato diversi grattacapi; ma a togliergli il sonno era in quei giorni un personaggio secondario, l’anziano sovrano del regno d’Allemonde: «Adesso è Arkël che mi tormenta», scrive Debussy, «costui è d’oltretomba, e ha questa tenerezza disinteressata e pro- fetica di quelli che vogliono scomparire al più presto, e occorre dire tutto ciò con do re mi fa sol la si do!!! Che mestiere!»6.

ameni Questi dodici capitoli

Ameni (a-moeni) sono i luoghi esterni alle mura urbane (moenia) in cui Al- fredo sogna, in apertura di secondo atto della Traviata, di trascorrere giorni felici in compagnia di Violetta, la donna da lui salvata dal vortice mortifero del démi-monde7. Ci penserà il padre di lei a far presto svaporare l’idillio, in nome della morale severa di cui si erge a paladino. Quel confronto memo- rabile fra una giovane mantenuta che finalmente avverte l’amore sbocciarle in seno e un uomo anziano aggrappato a valori che ritiene inderogabili sarà materia del cap. 11. Qui s’intende gettare invece uno sguardo sulla struttu- ra generale del libro, formato da dodici capitoli che, ispirandosi a un’altra definizione di “ameno”, mirano ad attrarre e a dilettare il lettore. Essi si articolano tutti in quattro paragrafi: i primi tre affrontano un problema in termini analitici e il quarto lo illustra in termini narrativi. Accomunati dalla formula L’arte di..., i rispettivi titoli dichiarano il tema generale del discorso. Quelli dei paragrafi conclusivi sono invece preceduti da parole a prima vista enigmatiche, tutte composte da lettere derivanti dal titolo della canzone di Lennon. L’idea di costruire i capitoli, e nello specifico le storie che li coronano, intorno ad argomenti sintetizzabili con parole ricavate da un’unica matrice rimonta al proposito di garantire al libro un certo grado di coesione. Un primo esempio si trova qui: ricavato da cinque delle sette lettere di Imagine, ameni è un aggettivo che, alludendo ai luoghi in cui Alfredo sogna di vivere con Violetta, indica in realtà la natura dei capitoli che formano questo libro.

Il cap. 1 ha la funzione rivestita nello sport dagli esercizi di riscalda- mento. I primi tre paragrafi propongono una serie di riflessioni sull’atto di

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contare basate da un lato sulla fisiologia del corpo umano e dall’altro su tre numeri dalla natura spiccatamente collettiva: il 7, il 10, e il 1. Messo sotto l’egida della parola game, formata da quattro delle sette lettere di Imagine, il paragrafo finale racconta la storia di una messa in cui una voce canta una melodia di origine profana dilatandone le dimensioni in rapporto ai nu- meri mostrati di volta in volta dalle facce di due dadi. Unica nel suo genere, l’opera assume il nome di Missa di dadi e risale agli albori di una vicenda – quella dell’editoria musicale – che prende avvio da Venezia all’inizio del Cinquecento.

Il cap.  allarga la riflessione dall’atto di contare a quello di raccontare e propone due piccoli esperimenti; quindi offre un primo esempio di os- servazione di insiemi apparentemente stabili come quelli dei re e dei colli di Roma, uomini e luoghi i cui nomi sono mandati universalmente a me- moria come quelli delle note. La labilità che questi insiemi denotano nel momento in cui su di loro si appunta uno sguardo critico è la dimostrazione del fatto che la loro esistenza dipende più da esigenze classificatorie che da affinità oggettive. Questa constatazione schiude a cascata una prospetti- va d’indagine che, applicata alla sfera sonora, consente di far luce su tanti aspetti della scienza e dell’arte. Intitolato mane, il paragrafo narrativo si occupa di musica collegata a una fase del giorno ontologicamente immagi- nifica. All’alba hanno dedicato opere memorabili artisti come Schumann, Wag ner e Richard Strauss, quest’ultimo autore di una pagina che, divenuta colonna sonora della scena iniziale di 2001: Odissea nello spazio, esemplifica una delle alternative di base del linguaggio musicale moderno: quella fra modo maggiore e modo minore.

Il cap.  si apre con una riflessione sull’articolazione più diffusa del- l’“insieme 7”, quella che conferisce a un dato elemento uno status diverso da quello degli altri sei. Partendo dalla storia della Creazione, in cui a sei giorni di attività ne seguì uno di riposo, nei paragrafi iniziali il capitolo getta uno sguardo su altri insiemi problematici come quelli dei giorni della settimana, delle porte di Tebe, delle meraviglie del mondo, delle Pleiadi e delle arti liberali; divise, queste ultime, in Trivio e Quadrivio, ma a ben guardare di- visibili anche in altro modo proprio grazie alla natura anfibia della musica.

Le magie evocate dal titolo del paragrafo narrativo sono quelle della Crea- zione di Haydn, del Castello del duca Barbablù di Bartók, della danza nella Salome di Strauss e soprattutto della scena, fondatrice di un nuovo genere teatrale, della fusione delle palle franche nel Franco cacciatore di Weber.

Il cap. 4 esplora il suono nelle sue quattro qualità primarie senza tra- scurare il fatto che una di esse, la durata, è prerogativa anche del silenzio.

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1

Esemplificato mediante il ricorso a un minuetto di Haydn, il ruolo giocato dal silenzio nell’economia della composizione consente di effettuare una precisazione importante, che estendendo lo sguardo al di là dei suoni defi- nisce la musica come arte del tempo. Oltre alla durata, l’altezza, l’intensità e il timbro sono qualità alla cui individuazione, definizione e gerarchizza- zione la teoria e la notazione musicale hanno contribuito come la pratica della voce o quella di uno strumento. Proprio partendo da questo rapporto di sostegno reciproco fra teoria e prassi il paragrafo narrativo, rubricato alla voce mega, si diffonde sull’elementarità di concezione di una delle pagine più grandiose della storia della musica: l’Inno alla Gioia, pezzo che condi- vide con Imagine il proprio fondamento armonico su due semplici accordi.

Il cap.  5 focalizza all’inizio l’attenzione sull’altezza dei suoni e sui rapporti di consonanza e dissonanza; quindi introduce l’unità con cui la musica misura le distanze: il tono. Partendo dalla locuzione “dare il la”, il terzo paragrafo affronta il problema della fissazione di un’altezza da cui far dipendere le altre al fine di conseguire l’intonazione, condizione indispen- sabile per la pratica dell’arte musicale. Nel paragrafo mein il ragionamento si concentra sulla melodia di Imagine nel punto in cui Lennon esorta the people a immaginare un mondo ignaro dell’idea di possesso; un’idea ben presente sia a un povero diavolo come il mugnaio di Schubert sia al conte falsamente illuminato delle Nozze di Figaro, un uomo che non esita a ri- pristinare lo ius primae noctis pur di andare a esercitarlo su una donna che gli attizza il desiderio: Susanna, presentata da Mozart nell’atto di rimirarsi in uno specchio mentre il suo futuro sposo prende le misure della camera destinata ad accoglierli.

Il cap. 6 affronta il problema di dar voce a un sentimento cercando di individuare lo spazio entro cui una voce si muove. Nel corso dell’indagine a poco a poco si delinea lo scenario assai mutevole dei rapporti intrattenuti da toni e semitoni nel tempo e nello spazio. Questi rapporti sono colti nel- la duplice prospettiva della speculazione teorica e dell’attività pratica, con l’intento di mostrare le influenze reciproche. La natura umana e le carat- teristiche degli strumenti meccanici pongono limiti sovente invalicabili ai desideri di precisione, raffinatezza e complessità concepibili in sede teorica.

Suggerito dal titolo nimie, il “troppo che stroppia” è il tema del paragrafo narrativo. L’esemplificazione è condotta su tre canti incentrati sul senti- mento amoroso, fucina eccellente di impulsi incontrollabili: due Lieder di Schumann e una canzone di Brel, pezzi accomunati dallo sfruttamento di una formula melodica tanto semplice quanto infallibile, naturalmente igna- ra di distinzioni di genere.

(19)

1

Giunti a metà della ricognizione panoramica è utile compiere una di- gressione sintetizzabile con un numero di parole pari a quello delle dita di una mano:

La musica “classica” non esiste.

Esiste solo la musica dell’età classica (ca. 1770-10), identificata con la produzione di Haydn, Mozart, Beet hoven e Schubert dalla generazione di quanti vi riconobbero un repertorio di modelli di riferimento per il varo di idee nuove. La nascita della musica “classica” nel senso di musica alter- nativa a quelli che impropriamente si chiamano “altri generi” (jazz, pop, rock, leggera, etnica, fusion ecc.; laddove in senso proprio il genere defi- nisce piuttosto i tratti strutturali di un’opera: canzone, sinfonia, sonata, quartetto ecc.) si deve invece all’industria discografica d’oltreoceano. Essa, promuovendo all’alba del xx secolo i nuovi, sfavillanti prodotti autoctoni, non si fece scrupoli nel museificare il patrimonio precedente, definendolo

“classico” e consegnandolo a supporti prevalentemente incapaci di acco- glierlo. Potendo ospitare non più di qualche minuto di musica, agli albori della fonografia i dischi non erano infatti in grado di riprodurre in maniera integrale opere che duravano decine di minuti quando non un certo nu- mero di ore; dunque, operando selezioni tanto forzate quanto arbitrarie i dischi diedero vita a un affascinante paesaggio con rovine. Nobilitante non meno che ghettizzante, la qualifica di “classica” investì così la musica con cui quella sostenuta dalla fiorente industria della gommalacca e poi del vinile si trovava a competere. A tale qualifica riuscì a sottrarsi – e, nella percezione generale, si sottrae tuttora – solo la musica che innerva il teatro d’opera;

ovviamente conosciuta solo per accenni (arie scelte, greatest hits) e in pre- valenza da persone che, oggi come allora, “la classica” non la ascoltano. Il melomane medio sa a memoria tutte le arie dell’Elisir d’amore ma non ha mai ascoltato uno dei tanti quartetti per archi composti dal suo autore; per non dire un trio di Brahms, un quintetto di Mozart o una messa di Du Fay:

più facilmente, avrà ascoltato una canzone di Sanremo.

Fine della digressione, a cui occorre aggiungere una glossa, un corollario fondamentale al punto di meritare un’ulteriore giustificazione a epigrafe:

Questo libro non si rivolge agli amanti della musica “classica”.

La quale, come detto, non esiste. Bach, Mozart, Beet hoven, Schumann – e l’elenco potrebbe continuare – non hanno mai saputo di essere autori di

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musica classica. Più semplicemente, questo libro si rivolge a chi, ascoltando qualunque tipo di musica, vuol provare a farsene un’idea che gli/le consen- ta di formulare un giudizio meno grossolano di “mi piace”/”non mi piace”.

Fine – fine davvero, a questo punto – della digressione.

Il cap. 7 si apre con un nuovo Contrafactum: un invito, ricalcato sui versi iniziali di Imagine, a proiettarsi in un contesto in cui la sequenza delle note finisce col la. Lo sforzo è notevole, uguale e contrario a quello necessario per contemplare, osservando il mondo fisico, la presenza della quarta dimensione; ma è uno sforzo che val la pena di compiere poiché consente di affondare lo sguardo nella storia della musica dal punto di vista del linguaggio. In questo e nel capitolo successivo il libro illustra diversi concetti essenziali per la lettura di uno spartito. La storia del linguaggio è presa volutamente contropelo, partendo da una canzone moderna come El porompompero per rintracciarne l’origine nella musica dell’antica Grecia.

Per quanto possa apparire bizzarra, la scelta è in linea con quella generale del libro, che non si ripropone di illustrare la storia plurimillenaria del linguag- gio musicale ma solo di offrire qualche strumento per orientarsi nel panora- ma sonoro del nostro tempo. Messo sotto l’egida di una parola inesistente ottenuta sottraendo l’ultima lettera da una che invece esiste, il paragrafo narrativo sintetizza la storia dell’inno da cui derivano in linea diretta i no- mi delle prime sei note, disegnando un contesto in cui la filastrocca appare monca, come Imagine senza e: imagin.

Il cap.  propone il cimento più arduo, quello che in una tappa del Giro d’Italia sarebbe il Gran Premio della Montagna. Non a caso lo scenario è quello del valico del Brennero, attraversato a fine Settecento da un gran nu- mero di viaggiatori fra cui uno egregio, nel senso etimologico del termine:

Goethe, che, giunto a Rovereto, annotò nel suo diario l’osservazione da cui muove il capitolo. Il titolo annuncia l’ampliamento dell’orizzonte a un’ot- tava nota, ma il ragionamento continua in realtà quello svolto nel cap. 7 a proposito di un contesto il cui sistema di riferimento constava di sole sei note. Nelle sue tre diverse configurazioni (naturale, molle, duro) l’esacor- do medievale è l’oggetto di una trattazione orientata a preparare il terreno all’illustrazione del sistema che lo soppiantò dal Cinquecento in avanti: la scala diatonica, quella in base a cui Beet hoven e Lennon composero la loro musica. La sua origine è illustrata nel paragrafo narrativo, intitolato col no- me italiano (egna) del paese a maggioranza germanofona (Neumarkt) in cui la nostra lingua e quella di Goethe convivono attribuendo nomi diversi a tutte le cose, note comprese.

Inaugurando la discesa verso il traguardo, il cap.  affronta il problema

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del metro, e dunque quello del valore temporale delle note. I suoni posso- no essere lunghi o corti, e per convivere devono definire le proprie durate.

Anche in questo caso un sistema in apparenza coerente mostra presto le sue crepe, schiudendo uno scenario la cui osservazione consente di far luce su alcune incongruenze significative. Messo sotto l’egida della parola ag- men – latino per “schiera”, “esercito” – il paragrafo narrativo si concentra sulla distinzione fra metro binario, tipico delle marce, e metro ternario, ti- pico dei valzer; con l’obiettivo di illustrare gli orizzonti di senso schiusi da un’ibridazione che produce una marcia di metro ternario: un’apparente contraddizione in termini esemplificata da due opere sommamente imma- ginifiche, la marcia inserita da Schumann nell’ultima scena del Carnaval e quella con cui Brahms inaugura il secondo pezzo di Un requiem tedesco.

Il cap. 10 è dedicato alla fabbricazione di utensili indispensabili per la pratica e la lettura della notazione: righi, chiavi, figure, pause, i segni che consentono al pensiero musicale di diffondersi nel tempo e nello spazio. Il fuoco dell’attenzione è come di consueto il rapporto, problematico quanto fecondo, fra istanze teoriche ed esigenze pratiche: quello di scrittura è sem- pre un atto di mediazione, e l’atto di scrittura musicale non fa eccezione.

Lo spartito di Imagine non è la canzone scaturita dal genio di Lennon, è un documento che contiene alcune informazioni utili per eseguirla in modo compatibile con le intenzioni del suo autore. Nessuno spartito in cui com- paia l’indicazione di suonare forte dirà mai quanto si deve suonare forte;

nessuno spartito che prescriva un andamento veloce dirà mai quanto l’ese- cutore dovrà andare veloce. Si tratta di dare un’idea, di creare rapporti, non di scolpire rune; di dar modo all’interprete d’immaginare la ricreazione di un’opera che in assenza d’esecuzione rimane lettera morta. Imagine costi- tuisce in questo senso un’ottima palestra per allenare l’occhio, l’orecchio, la voce e, disponendo di uno strumento, le dita.

Il cap. 11 affronta il problema dell’evocazione dei moti dell’animo me- diante l’arte dei suoni. In particolare, esso prende in esame le alterazioni che i suoni possono subire al fine di rendere melodia e armonia funzionali a tale scopo. Lavorare coi suoni somiglia sotto certi aspetti a lavorare coi colori; l’affinità è talmente forte che in ambito musicale il processo di arric- chimento dello spettro sonoro prende il nome di “cromatismo”. A seconda della tonalità prescelta (quella di Imagine, per restare al nostro esempio- guida, è Do maggiore) i suoni si gerarchizzano: alcuni sono più importanti, ricorrono più spesso, compaiono negli snodi cruciali; altri intervengono per aggiungere colore, per conferire varietà, per ritrarre i sommovimenti dell’animo. Un caso esemplare è costituito dalla scena, già ricordata, in cui

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

Violetta riceve la visita del padre di Alfredo. Memorabile, il confronto si apre in un clima di aperta ostilità per trasformarsi in breve nell’abbraccio sincero fra due persone che solo una morale ottusa ha messo l’una contro l’altra.

L’ultimo capitolo, il numero 1, conclude il libro con l’esortazione a cui il vecchio Germont si dimostra sordo: quella di azzerare i pregiudizi.

A differenza di quanto accade nella Traviata, il discorso non riguarda la sfera morale; o per lo meno, non la riguarda nei termini dell’etica borghese.

L’azzeramento dei pregiudizi, perseguito lungo tutto il libro e sollecitato senza ambagi nel paragrafo conclusivo (in me), concerne la necessità di andare oltre le posizioni di comodo, di infrangere le barriere che impedisco- no la circolazione, l’ibridazione e lo sviluppo delle idee. Rinchiudersi nella gabbia dorata della musica “classica” è altrettanto nocivo che squassarsi i timpani ascoltando esclusivamente musica techno. La musica vive di rela- zioni, e solo per il loro tramite acquista importanza nella vita delle persone.

Mettendo a confronto un tema di Brahms con quello della Pantera Rosa s’imparano cose che a uno sguardo puntato solo sull’uno o sull’altro si sten- ta a cogliere. Se da un lato è illusorio pensare che la musica sia una soltanto e che tutte le creazioni musicali abbiano pari importanza e complessità, dall’altro è sbagliato ritenere che una danza di corte composta controvoglia da Mozart sia di per sé superiore a una bella canzone presentata a Sanremo o a una pietra miliare della storia del rock. Può darsi, ma meglio verificare.

Prima di sparare sentenze conviene capire; col senso e con la ragione, come suggeriva Boezio, o quanto meno attivando la vista oltre all’udito.

Ascoltar leggendo è una pratica salutare; leggere ascoltando anche, a patto che quel che si legge sia la versione scritta di quel che si ascolta. Do- podiché nulla vieta di leggere Proust ascoltando gli ac/dc né di ascoltare Chopin progettando un’astronave. Ma questo è un altro discorso.

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

L’arte di contare bene

Sulla punta delle dita1.1

In una scena esilarante, entrata da tempo nella storia del cinema, Mosè scen- de dal monte Sinai e si presenta al popolo d’Israele con tre lastre di pietra in mano. Su di esse Dio ha inciso il testo dei Quindici Comandamenti.

Mentre annuncia il prodigio, sopraffatto dall’emozione il vecchio ha un cedimento; è un attimo, ma una delle tavole gli scivola, cade a terra e va in frantumi. L’incidente avviene nel momento in cui Mosè sta specificando il numero dei Comandamenti («The Lord Jehova has given unto you these Fift...»); constatato mestamente il danno, il vecchio si fa forza, prende fiato e proclama: «Ten Commandments!»1. Al di là della sua comicità irresisti- bile, la scena si presta a due riflessioni. Innanzitutto, l’andata in frantumi è un accenno al racconto biblico, secondo cui Mosè distrusse, e di proposito, entrambe le tavole quando vide il popolo d’Israele intento ad adorare il vitello d’oro anziché ad attendere il suo ritorno. In secondo luogo, la scena pone il problema del numero dei Comandamenti; il testo delle prescrizioni – alcune succinte, altre diffuse – varia fra l’Esodo e il Deuteronomio, pre- sentando differenze sensibili anche nella loro formulazione. Solo in sede di commento i libri fissano entrambi a dieci il numero delle norme, incise da Dio su due nuove tavole portategli da Mosè qualche tempo dopo. L’inter- rogativo suscitato dal film concerne quindi il contenuto della tavola andata in pezzi, ovvero il testo dei cinque Comandamenti perduti; e, di riflesso, le trasgressioni che l’umanità, rimasta all’oscuro di un terzo del sacro dettato, compie senza volerlo.

Per la formalizzazione definitiva dei Comandamenti si possono invoca- re le ragioni più diverse; una plausibile è la riconducibilità del loro numero a quello delle dita delle mani. La scelta in favore del dieci acquista di riflesso le sembianze di un monito, in base a cui ogni figlio d’Israele deve avere

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la Legge sulla punta delle dita; quelle delle mani, le parti più versatili del corpo, gli strumenti indispensabili per larga parte delle attività umane. Alla natura prevalentemente digitale del nostro corpo, ovvero all’articolazione delle mani in cinque più cinque dita, sembra far cenno anche il Decalogo, i cui Comandamenti attengono per metà al rapporto dell’individuo col Creatore e per metà a quello dell’individuo coi propri simili.

I Comandamenti che Dio avrebbe scolpito non su due ma su tre ta- vole trovano corrispondenza, con un paragone solo in apparenza blasfe- mo, nei numeri che assicurano il successo nella tombola. La cartella che ogni giocatore ha dinanzi contiene quindici numeri, cinque per ogni riga, inframezzati da dodici caselle vuote, quattro per ogni riga. Le colonne ospitano invece numeri appartenenti a una delle prime nove decine, di- sposte in ordine crescente da sinistra a destra. L’obiettivo di chi gioca – o meglio la speranza, essendo impossibile influire sull’estrazione – è dapprima formare un ambo, un terno, una quaterna o una cinquina; in ultimo, diviene posare per primo un fagiolo secco su tutti i numeri della propria cartella. Anche in questo caso l’idea di completezza è associata, come nella scena della Pazza storia del mondo, a cinque testi (numeri) scritti su tre tavole (righe). Con la differenza che diversamente da Dio, il quale assolve Mosè consentendogli di recare al popolo d’Israele anche solo due terzi dei suoi Comandamenti, la tombola non perdona: avendo in cartella dieci fagioli in tutto si può aver fatto anche ambo più terno e cinquina; ma tombola no.

Parlando di giochi, non si può non far cenno all’invenzione di un po- stino di Canastota, un piccolo centro dello stato di New York in cui a fine Ottocento il lavoro lasciava tempo per cimentarsi in progetti originali.

Un po’ di miglia più a nord i filosofi trascendentalisti sognavano un’i- dea diversa di mondo, ma Noyes Palmer Chapman era una testa quadra che si guadagnava il pane recapitando lettere e cartoline. L’umanità deve a quest’umile impiegato l’idea di pensare il 15 non in quanto moltipli- cazione di 5 × , come l’inventore della tombola e come il Dio di Mel Brooks, ma in quanto sottrazione di 1 da 16; o meglio, già che l’invenzione di Chapman s’inscrive in un quadrato, come 4 – 1. S’immagini un retico- lo di 4 × 4 posizioni occupate tutte meno una da tessere numerate da 1 a 15. La mancanza della sedicesima consente di scombinare le altre quindici (inizialmente ordinate su quattro file in modo progressivo: 1-4, 5-, -1 e 1-15) e di ricomporre il loro ordine facendole scorrere nello spazio creato a ogni spostamento. Il gioco consiste in sintesi in un movimento pendolare dall’ordine al caos e dal caos all’ordine. Ci sarebbe voluto il cubo di Rubik,

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un secolo dopo, per mettere in ombra il Fifteen Puzzle di Chapman, il Gioco del quindici, un rompicapo a cui si deve l’affinamento delle menti di parecchie generazioni.

Lasciando i giochi da tavolo, il 15 lo si incontra moltiplicato per due in alcuni spazi aperti di forma rettangolare: quelli su cui due orde di ragaz- zoni si affollano intorno a una palla che rimbalza ubriaca. Inventato sulla sponda orientale dell’Atlantico al tempo in cui su quella occidentale veniva al mondo il futuro postino, il rugby si gioca in 15 contro 15. Ogni squadra si divide in attaccanti e difensori, con la differenza che le posizioni degli attaccanti sono definite da uno schema relativamente semplice, mentre quelle dei difensori sono definite da uno schema estremamente complesso.

Schemi a parte, il fascino di questo gioco, in cui la palla si può prendere sia con le mani sia coi piedi e il cui fine è condurla al di là della linea bianca dietro l’ultimo avversario, nasce dal varo di una regola tanto semplice quan- to illogica: avanzando verso la meta i giocatori possono sì passarsi la palla al fine di sottrarla alle grinfie degli avversari ma – e qui sta il bello – devo- no passarsela lanciandola in direzione opposta a quella in cui corrono. Nel rugby, infatti, il giocatore corre in avanti, ma la palla viaggia all’indietro:

una regola assurda, e per questo geniale. Chapeau.

Fuori mano1.

È pressoché fatale che in un gioco come il rugby, praticato su campi spes- so fradici di pioggia, nella furia dello scontro la palla scivoli via come la tavola dalle mani del Mosè di Mel Brooks. Irruenza giovanile in un caso, incertezza senile nell’altro, entrambi gli incidenti sono imputabili alla na- tura imperfetta del corpo umano. C’è però un modo non accidentale per sfuggire di mano, indipendente da qualunque imperfezione fisica o tur- bamento emotivo. Osserviamo le nostre mani: focalizzando l’attenzione sulle dita possiamo visualizzare i numeri da 1 a 10. Ci sono delle differenze curiose presso i vari popoli: c’è chi comincia a contare dal pollice e chi dal mignolo; chi forma il  adoperando il pollice, l’indice e il medio, chi lo fa estendendo le dita centrali, chi le ultime tre, e gli esempi potrebbero continuare. Indipendentemente da ogni stato emotivo e da qualsiasi codice di significazione, le dita agevolano anche la messa a fuoco di una natura singolarmente sfuggente: quella di un numero divenuto, quasi per assurdo, un’icona della pienezza: il 7.

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6

Si considerino i numeri da 1 a 10 e si provi a moltiplicarli o a dividerli, visualizzando sulle mani l’operazione relativa. Per abbreviare la procedura si escludano a priori la moltiplicazione e la divisione per 1, nonché la divisio- ne di un numero per sé stesso. Allora: l’1 è moltiplicabile per , , 4, 5, 6, 7, ,

 e 10: tante possibilità ma tutte invalidate dall’esclusione a priori. Dunque, si proceda oltre. Il  è moltiplicabile per , , 4 e 5; se lo si moltiplica per 6, il prodotto (= 1) non è più visualizzabile sulle dita di due mani. Per lo stesso motivo il  è moltiplicabile per  e per  ma non per 4 e per i numeri successivi. Fin qui si sono considerati soltanto tre numeri, tutti e tre primi e quindi indivisibili se non per sé stessi e per l’unità. Andando avanti comin- ceranno ad affacciarsi numeri non solo moltiplicabili ma anche divisibili, e il risultato dell’una o dell’altra operazione sarà sempre visualizzabile sulle dita delle mani. Per rendersene conto, si consideri la terna successiva.

Il 4 è sia moltiplicabile sia divisibile per : in un caso produce  e nell’al- tro . Quarto numero primo, il 5 non è divisibile, però è moltiplicabile per :

il prodotto dà 10 e corrisponde al numero totale delle dita. Da qui in avanti qualunque moltiplicazione richiederebbe la chiamata in causa di almeno un piede, perché se per visualizzare il numero di partenza occorre già ricor- rere a una seconda mano non ci sarà modo di effettuare una moltiplicazio- ne, sia pur minima, senza evitare che il prodotto superi il 10. Limitandosi a considerarne la divisibilità, del 6 si registrano due esiti,  se diviso per  e

 se diviso per : due quozienti per cui una mano basta e avanza. Giacché d’ora in poi non sarà più possibile moltiplicare ma solo dividere, si continui considerando la terna che culmina col numero più grande, il 10.

La prima possibilità di divisione del 10 la suggeriscono le mani: diviso per  il 10 dà 5, infatti la mano ha cinque dita; dopodiché vale anche l’in- verso, diviso per 5 il 10 dà , infatti le cinque dita si distribuiscono parita- riamente su due mani. Numero dispari, il  non è divisibile per ; però lo è per , e, dato che il quoziente è , si può osservare come sulle dita siano visualizzabili due quadrati,  =  e  = 4. Prospere sotto l’aspetto geo- metrico non meno che sotto quello aritmetico, le mani accolgono anche un cubo: l’, numero divisibile per  e per 4 e pertanto esprimibile come

 ×  × , ovvero come : appunto un cubo, contiguo al quadrato ottenibile mediante lo scambio fra base ed esponente,  = .

Per fare chiarezza, proviamo a schematizzare. Due avvertenze: nella tabella il corsivo evidenzia le operazioni escluse a priori (moltiplicazioni e divisioni per 1, divisione di un numero per sé stesso) mentre il trattino (–) sostituisce i quozienti decimali (ad es.  : 4 = 0,75) e i prodotti “sfuggenti”

(ad es.  × 4 = 1).

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7

moltiplicazioni divisioni

4 5 4 5

1 2 3 4 5

4 6 10 1

6 1

4 1

5 10 1

6

7

4

10 5

La tabella evidenzia per ogni numero la possibilità di compiere tutte le di- visioni e tutte le moltiplicazioni visualizzabili sulle punte delle dita. Il nu- mero più vivace è il , protagonista di quattro operazioni; i più calmi il 5 e il

, protagonisti di una ciascuno; il , il 4, l’ e il 10 lo sono di due; nessuno, curiosamente, lo è di tre. Resta da esaminare il comportamento del 7. Es- sendo dispari, il 7 non è divisibile per ; inoltre, è anche un numero primo:

non potendolo dividere, l’unica cosa da fare è moltiplicarlo ma, se lo si fa anche solo per , il prodotto (= 14) balza fuori dalle mani; se lo si fa per , per visualizzarlo (= 1) non bastano nemmeno le dita dei piedi. Disastro.

Infatti il 7 è l’unico, fra i numeri da 1 a 10, a non poter prendere parte al gioco. Soggetto incoercibile, il 7 non si lascia dividere e, appena si tenta di moltiplicarlo, sfugge come il capitone di casa Cupiello. L’unico modo per ammansirlo – il 7, non il capitone – è valorizzarne le qualità innate: confe- rendogli l’attributo, sacro per molti versi, della pienezza.

Calcolatrici digitali1.

La palla da rugby deve l’originalità della propria fisionomia a un insieme di ragioni. Da un lato la forma ovale agevola il gioco in tre situazioni: quan- do, stringendo la palla al petto con una mano, l’atleta corre verso la me- ta tenendo con l’altra gli avversari a distanza; quando, afferrando la palla con entrambe le mani, la passa al compagno che lo segue; e infine quando, nell’atto di segnare una meta, la inchioda a terra al di là della linea. D’altro lato, nel momento in cui la palla rimbalza sul terreno la sua forma deter- mina traiettorie bizzarre, introducendo un elemento di incertezza da cui

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

deriva la necessità di operare continui cambi di direzione, moltiplicando così le occasioni di scontro.

Passando dalla palla da rugby all’oggetto che ne ispira la forma, può essere interessante affrontare il problema di come effettuare un trasporto di uova. Il mezzo più iconico è il cestino di vimini, cosparso di paglia e infilato nel braccio coperto dalla manica del camicione a quadri; ma gli svantaggi sono molti, dall’ingombro materiale alla necessità di dedicargli stabilmente un arto, dal rischio del cozzo fatale al numero esiguo di unità trasportabili. All’estremo opposto, quanto a poesia, si colloca la confezio- ne che occhieggia dagli scaffali dei moderni supermercati, un capolavoro d’ingegneria applicata la cui descrizione in termini matematici comporta il ricorso a concetti superiori. A metà fra i due estremi rifulge una soluzione che abbina un’efficacia notevole a un valore formativo inestimabile: il con- fezionamento con carta di giornale.

L’aspetto didatticamente premiante di questo esercizio è l’immediata messa a fuoco della coppia oppositiva pari/dispari: laddove sulla paglia del cestino il numero di uova può essere indifferentemente pari o dispari, a patto che non sia eccessivo, nella carta di giornale un numero dispari di uova – provare per credere – non è allocabile; a meno di voler sacrificare un intero quotidiano per garantire la materia prima a una banale frittata.

Dunque, e la confezione del supermercato ne è la conferma, in assenza di cestino le uova s’impacchettano in numero pari: ma qual è il numero ideale?

Nei supermercati si trovano cofanetti da 4, 6, , 10 e 1 uova sempre disposte su due file, accorgimento che conferma la bontà dell’impacchet- tamento more antiquo. Confezionare 1 (= 6 × ), 10 (= 5 × ) o anche  (= 4 × ) uova con carta di giornale è semplicemente impossibile poiché a differenza del cartone o della plastica la carta non è rigida: se riunite in numero superiore a 6, dunque, le uova sono destinate a finire come la tavola del Mosè di Mel Brooks. Ecco allora profilarsi l’elevato valore formativo dell’avvolgimento con carta di giornale: la disposizione secondo il modello

 ×  = 6 coniuga il massimo grado di sicurezza con un impiego virtuoso del mezzo, idealmente il mezzo bifolio formato lenzuolo; genere oggi purtrop- po raro, ragion per cui l’operazione si effettua spesso, non senza difficoltà, ricorrendo a un bifolio intero formato tabloid.

Dove si trova, in natura, il modello che ispira la confezione ideale in carta di giornale? La risposta non è dentro di noi, ma addosso a noi. Osser- viamo ancora le nostre mani, rivolgendo le palme verso lo sguardo e foca- lizzando l’attenzione non tanto sulle dita quanto sulle falangi4. Le quattro

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

dita diverse dal pollice constano di tre falangi ciascuna; dunque, esse offro- no una magnifica calcolatrice in base 1 su cui il pollice è invitato ad agire come su uno smartphone. Su questa calcolatrice integralmente digitale non è difficile individuare il modello ispiratore della confezione ideale del do- no delle galline: divaricando medio e anulare e serrandoli rispettivamente contro indice e mignolo s’intravede addirittura una coppia di cofanetti da sei. E, a cascata, si mette a fuoco la straordinaria versatilità del numero 1, divisibile per  (divaricare medio e anulare e contare le falangi di ogni cop- pia di dita: quoziente 6), per  (riunire le dita e osservare trasversalmente falangi, falangine e falangette: quoziente 4), per 4 (divaricare tutte e quat- tro le dita e contare le falangi di una di esse: quoziente ) e per 6 (questa è l’operazione meno intuitiva perché occorre considerare prima le falangi e poi le dita: ma l’azione da compiere è sempre divaricare medio e anulare serrandoli rispettivamente a indice e mignolo: quoziente ). Alzi la mano chi s’era accorto di avere in mano due calcolatrici digitali; fra lettori stupiti e lettori annoiati finisce come se l’autore di questo libro anziché a studiare in biblioteca andasse a servire al Roland Garros: 6-0.

Quindi, il 1 è un numero tanto splendido da generare un concetto fatto apposta per comunicarlo, la dozzina; ma in questa sede, o per lo meno per il momento, è più utile riflettere sulla sua metà. Al fine di assicurare il miglior esito al trasporto delle uova tramite carta di giornale conviene, soprattutto se si dispone di mani piccole come da bambini, afferrare il pa- rallelepipedo sui suoi lati corti. La richiesta d’attenzione che il pacchetto esige durante il trasporto può essere esaudita in due modi: o mediante una generosa donazione di tempo e neuroni o mediante una soluzione negozia- le del tipo “io ti porto a casa incolume e tu intanto m’insegni qualcosa”. Nel secondo caso la riflessione può partire da una domanda in apparenza facile:

le uova sono disposte in tre file da due o in due file da tre? A giudicare dalla posizione delle mani in due file da tre, come un sestetto di pallavolo; ma quando il trasporto si sarà concluso, il pacchetto sarà stato posato sul tavolo e la confezione sarà stata aperta, le uova potranno apparire anche disposte in tre file da due. Anzi, sarà istintivo vederle così, giacché un ovale si tende a concepirlo come un cerchio allungato e non come un cerchio allargato5. Svaporata l’angoscia del cozzo, la superficie della tovaglia diverrà lo sce- nario di un confronto serrato, destinato a esaurirsi dinanzi al problema di come dividere la frittata. Con un unico taglio corrispondente al diametro, ossia in due metà? O con tre tagli a partire dal centro, ossia in tre terzi?

Sullo sfondo s’intravede l’antitesi fra sacro e profano, oggetto del nostro primo racconto.

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0

game De do dadi

1501. Carlo v ha un anno di vita e l’America dieci scarsi di storia, dicono i Conquistadores. La città in cui Lennon comporrà Imagine, oggi centro del mondo, non esiste ancora; l’Oceano sulla cui sponda occidentale la sua antenata Nieuw Amsterdam prenderà forma oltre un secolo dopo è solca- to da imbarcazioni che entrano ed escono dai porti affacciati sulla sponda orientale. Nel Mediterraneo la Serenissima contende al Turco il primato negli scambi, e a Venezia come a Bisanzio convergono navi sfarzose, merci preziose e menti briose. Una di queste appartiene a un suddito del duca di Urbino, Ottaviano Petrucci. Desideroso di perfezionarsi nelle arti della stampa, praticate in laguna sulla scorta del magistero di Gutenberg, Petruc- ci vi si era trasferito circa dieci anni prima. Mentre Colombo navigava hacia el Oriente por el Occidente, Petrucci aveva provato ad adattare la tecnica dei caratteri mobili alle esigenze della musica: aveva messo a punto un sistema grazie a cui, imprimendo in tre fasi prima il rigo, poi le note e poi le parole, riusciva a stampare canzoni. Spacciata per un’invenzione epocale quella che era in realtà un’applicazione alla musica di una tecnica in uso da tempo in altri settori, l’astuto forestiero aveva chiesto al doge il privilegio di eser- citare in modo esclusivo la sua professione nei territori della Repubblica.

Ottenutolo nel 14 per un termine di vent’anni, Petrucci s’era rimboccato le maniche e nel 1501 aveva impresso il primo libro musicale della storia:

un’antologia che, senza peritarsi di scomodare le lingue classiche, aveva in- titolato Harmonice Musices Odhecaton; tradotto, Cento canzoni di musica armonica.

Le cento canzoni erano in realtà 6 ma questo non importa, conside- rando come il titolo assolva spesso la funzione di specchietto per le allodole.

Quel che importa è che la raccolta, compilata con l’aiuto di un collabora- tore e stampata con grande eleganza, riuniva il meglio della produzione vocale del tempo: non una serqua di cicalate o di stornelli a voce sola ma un florilegio di canzoni armoniche ovvero polifoniche, in buona parte su testi francesi. La lista degli autori comprende nomi che hanno fatto la storia della musica, da Antoine Busnoys a Loyset Compère, da Jacob Obrecht a Johannes Ockeghem, da Heinrich Isaac a Josquin des Prez. La cosa sor- prendente non è tanto l’assenza di nomi italiani – peraltro celati, c’è da supporre, dietro alcune delle canzoni adespote – quanto la presenza di un mercato disposto ad accogliere un prodotto di tale pregio ed esclusività. I riscontri dovettero essere lusinghieri, tanto che nel giro di pochi anni Pe-

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trucci non solo ripubblicò l’Odhecaton due volte, ma mise in cantiere anche altri volumi collettanei e monografici6.

All’inizio del Cinquecento era all’apice della carriera uno dei più gran- di maestri del Rinascimento, Josquin des Prez (ca. 1440-151). Attivo in Ita- lia da decenni in qualità di cantore e di compositore, Josquin aveva lasciato tracce importanti a Milano, Roma e Ferrara producendo – e, per quanto si possa accertare, cantando – di tutto, in ambito sacro come in ambito pro- fano. Dopo aver ospitato alcune delle sue chansons all’interno dell’Odhe- caton, l’intraprendente Petrucci non si fece sfuggire l’opportunità di pub- blicare le sue messe. Dopo aver spedito sotto i torchi un paio di volumi, nel 1514 ne pubblicò un terzo, Missarum Josquin liber tertius, contenente una messa la cui attribuzione desta forti perplessità. Senza voler insinuare alcunché, è comprensibile che un imprenditore scaltro come Petrucci non si facesse troppi scrupoli nello sfruttare il nome di un grande maestro come Josquin per far circolare anche opere di compositori non altrettanto famosi.

A prescindere dall’identità del suo autore, la quarta delle sei messe è interessante per diversi motivi. Uno in particolare: essa utilizza al proprio interno la melodia di una chanson composta su testo francese da un autore inglese, Robert Morton, attivo nel Quattrocento alla corte di Borgogna. Il primo verso della chanson, un elogio dell’amata in forma di rondeau, reci- ta «N’aray je jamais mieulx» (“Non avrò giammai di meglio”). In genere quando i compositori basavano una messa su una melodia precedente, sa- cra o profana che fosse, l’opera traeva nome dal suo incipit verbale. Tito- li come Missa Pange lingua, Missa Caput, Missa de Beata Virgine o come Missa L’homme armé, Missa Faisant regretz, Missa D’ung aultre amer sono frequentissimi in tutto il Rinascimento. In teoria, una messa basata sul ron- deau di Morton avrebbe dovuto intitolarsi Missa N’aray je jamais; invece no, nel terzo libro lato sensu josquiniano l’opera s’intitola Missa Di dadi7.

Il motivo di questa anomalia va cercato in un dettaglio strutturale evidenziato nella stampa mediante un accorgimento grafico. Come le sue compagne, la messa è scritta per quattro voci, denominate rispettivamente Suprano, Altus, Tenor e Bassus. Nelle pagine che ospitano la parte del Te- nor alcuni righi sono preceduti dalla riproduzione delle facce sovrapposte di una coppia di dadi. Il dado inferiore mostra sempre la faccia 1; quello superiore nell’ordine le facce , 4, 6 e 5, dunque le quattro coppie generano nell’ordine le somme (1 +  =) , (1 + 4 =) 5, (1 + 6 =) 7 e (1 + 5 =) 6. Dal mo- mento che l’intonazione polifonica era prerogativa solo dei più importanti fra i testi dell’ordinario, quelli che ricorrono indipendentemente dall’occa- sione liturgica, la musica della Missa Di dadi consta di cinque pezzi: Kyrie,

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Gloria, Credo, Sanctus e Agnus Dei. Nella stampa di Petrucci le coppie di dadi adornano la parte del Tenor nei primi quattro. La loro assenza nel quinto e ultimo ha sollecitato l’attenzione di vari studiosi; secondo una tesi abbastanza recente il motivo dell’esclusione rimonterebbe alla centra- lità attribuita nel Cinquecento al momento dell’Elevazione, collocato fra il Sanctus e l’Agnus Dei. Quello in cui il rito eucaristico culmina è infatti il momento al cui proposito, meditando l’incipit del rondeau di Morton, il fedele può affermare di non poter giammai sperare in qualcosa di meglio:

«N’aray je jamais mieulx». L’operazione ricalca un copione le cui origini risalgono al Medioevo, la rilettura in termini sacri di testi di natura profana.

Il tratto singolare di questa messa, indipendentemente da chi ne sia l’autore, è che tale rilettura passa attraverso i dadi.

Il testo intonato da Morton è l’elogio di una donna meravigliosa al punto da indurre l’amante a dichiarare di non poter sperare in alcunché di meglio. Calato dentro una messa, il concetto di bene supremo riguarda Cristo: ottenere il corpo di Cristo dopo averne ammirato l’elevazione è per il fedele il massimo del desiderio. Fin qui tutto chiaro; resta da capire cosa c’entrino i dadi. La sequenza con cui le coppie si succedono è particolare non tanto per il fatto che le somme crescono per poi diminuire (, 5, 7, 6) quanto perché capita abbastanza di rado che un dado mostri a ogni getto una faccia diversa (, 4, 6, 5) mentre il suo compagno mostra sempre la stes- sa (1). La sequenza persegue infatti due scopi: i dadi servono da un lato per individuare il momento culminante del rito e dall’altro per determinare il rapporto fra le durate della parte del Tenor e quelle della melodia originale.

Il primo scopo è raggiunto col prodursi della somma 6: secondo le re- gole del tempo, il gioco dei dadi finiva nel momento in cui usciva il 6 o, volendo rendere l’esito meno frequente, il 1; incassando la somma, l’autore del getto vincente maturava la persuasione di non poter giammai sperare in alcunché di meglio, proprio come l’amante in estasi dinanzi all’amata o il fedele rapito dallo spettacolo dell’Elevazione10. Il secondo scopo è raggiun- to nel momento in cui il Tenor intona la melodia di Morton dilatandone proporzionalmente i valori. Nel Kyrie, pezzo in cui i dadi mostrano le facce 1 e , il Tenor deve cantare la melodia di N’aray je jamais mieulx a valori doppi. Rispetto a un elogio appassionato dell’amata, un’invocazione di mi- sericordia al Signore ha tempi più dilatati; e così la celebrazione della sua grandezza (Gloria, 1 : 4), per non dire della professione di fede nelle sue tre persone (Credo, 1 : 6). La lieve contrazione del rapporto nel pezzo succes- sivo (Sanctus, 1 : 5) si spiega da un lato con la minor estensione di questo testo rispetto a quello del Credo, e dall’altro con l’esigenza di far quadrare i

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