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L’arte di dar voce a un sentimento

Nel documento biblioteca di testi e studi / 1461 musica (pagine 81-93)

A spanne6.1

Confidando a Chausson le difficoltà che stava incontrando nel delineare la fisionomia di Arkël, Debussy lamenta la scarsità di risorse a disposizione di chi sceglie di guadagnarsi il pane componendo musica. I tre punti esclama-tivi con cui Debussy cerca di porre argine al proprio disappunto non sono però in grado di contenere l’elencazione entro la settima nota («do ré mi fa sol la si do!!!»); essa prosegue infatti sino a quella successiva, concludendo la filastrocca col ritorno del suo primo componente. Ripetendo all’acuto il do iniziale Debussy sottolinea l’importanza della consonanza perfetta, quella che sul pianoforte si ottiene allargando la mano e agendo con le di-ta estreme su una coppia di di-tasti in posizione analoga. Per distinguere gli estremi di un intervallo di tale ampiezza la civiltà musicale dell’Occidente scelse in origine d’impiegare lettere analoghe, maiuscole per i suoni gravi e minuscole per i suoni acuti (A-a, B-b, C-c e così via). Oggi si tende invece a distinguere le altezze affiancando deponenti numerici ai nomi delle note, ma questo dipende da un cambio di prospettiva comportato dall’adozio-ne, quale base del ragionamento, di strumenti dall’estensione più ampia di quella della voce umana.

Il la che l’oboe “dà” all’orchestra è il la4 (440 Hz). Il la4 emesso dall’o-boe può essere prodotto anche da una voce umana, prova ne sia il fatto che la forcella tarata per emetterlo si chiama “corista”. Il corista in carne e ossa che non riesce a intonare tale suono emette quello che insieme a esso produce la consonanza perfetta al registro grave, il la(0 Hz). Nel tentativo di produrre il la qualche voce femminile stenta; in compenso, nessuna voce maschile è in grado di salire al la5 (0 Hz, il doppio del la4) se non adottando qualche tecnica speciale. Effettuando ulteriori spostamen-ti nell’una e nell’altra direzione si osserva come nessuna voce femminile

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riesce a scendere al la (110 Hz, un quarto) nonché come il la6 (1.760 Hz, il quadruplo) stia al di là delle comuni capacità umane1. Il pianoforte pro-duce invece senza problemi tutti questi suoni, e anche altri più gravi del la e più acuti del la6.

È quindi chiaro che il sistema basato sui deponenti progressivi funziona bene per la maggioranza degli strumenti meccanici ma non più che benino per le voci umane; soprattutto per quelle che non s’arrampicano nel blu cobalto del registro acuto e non si ingrottano nel nero seppia del registro grave. Chiunque legga questo libro può fare la prova, emettendo il suono più grave e il suono più acuto di cui è capace e verificando sul pianoforte le posizioni rispettive: a seconda dei casi la porzione di tastiera sarà legger-mente diversa ma la sua estensione non sarà mai di molto superiore alla spanna.

Divenuta col tempo un’unità di misura approssimativa, la spanna – co-me il piede, il pollice, il braccio e altre unità riferite a parti del corpo uma-no – aveva un tempo un valore preciso; con qualche differenza locale, ma pur sempre preciso. A onta del suo attuale declassamento (oggi misurare a spanne vuol dire farlo in modo scarsamente scientifico), sul pianoforte la spanna incassa una meritata riabilitazione poiché consente di produrre decine di consonanze perfette. Non esiste mano adulta che, aperta come per effettuare una misurazione a spanne, non riesca a schiacciare simulta-neamente due tasti corrispondenti a una coppia di suoni di nome uguale e deponente contiguo (do-do4, fa-fa4, la-la4 ecc.).

I semitoni che intercorrono fra un estremo e l’altro di un tale interval-lo prodotto “a spanne” sono dodici, come il numero di “dita” – intese come unità di misura – in cui la spanna si divideva nell’antichità4. È affascinante pensare che un semitono corrisponda a un dito, e che la consonanza per-fetta corrisponda alla spanna: anche il dito ha subito un declassamento (due dita di vino non corrispondono a un numero preciso in termini di centilitri), ma sulla tastiera si rende protagonista di un recupero prodi-gioso. Il pianoforte si permette un’unica variante, dipendente dalla sua disponibilità a essere suonato oltre che misurato: riduce la spanna di cir-ca un quarto della sua lunghezza. Per agire sui tasti che danno luogo alla consonanza perfetta occorre arcuare un po’ la mano, riducendo di circa un quarto la sua ampiezza potenziale. Se non lo si fa il rischio di schiac-ciare senza volerlo altri tasti, dando luogo a dissonanze urticanti, aumenta notevolmente. Dunque, ben venga la riduzione dell’ampiezza massima:

ancora una volta la scienza (metrologica, in questo caso) fornisce nozioni di cui l’arte si serve adattandole alle proprie esigenze. Volendo misurare

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il pianoforte lo si può fare anche a spanne, indifferentemente ateniesi o alessandrine, e pazienza se la tastiera geme; se invece s’intende suonar-lo occorre arcuare leggermente la mano, riducendo così l’ampiezza della spanna. Del resto anche Virgilio, quando si ritrovò a fronteggiare Cerbero con le fauci spalancate, avrebbe potuto limitarsi a misurarne le “sanne”, an-corché mettendo a repentaglio l’esistenza propria e altrui; invece, racconta Dante, «’l duca mio distese le sue spanne» e arcuando quanto basta le sue mani «prese la terra», quindi «con piene le pugna / la gittò dentro a le bramose canne»5.

Ottava vs ottava6.

Condiviso dalla gran parte degli umani, il concetto di “Capodanno” si tro-va riflesso tro-variamente ai quattro angoli del mondo. Se la base comune è l’idea di rinnovamento, di avvio di un ciclo nuovo, l’aspetto controverso è l’individuazione del discrimine. Nell’antica Roma, ma più di recente nella Repubblica Serenissima, l’anno cominciava in quello che è oggi il primo giorno di marzo. L’odierna fissazione al 1° di gennaio costituisce l’esito di un processo lungo e complicato. A tale data si allineano il calendario grego-riano e quello giapponese; ancorato all’antenato giuliano, quello ortodosso lo individua nel 14 gennaio; quello cinese considera il Capodanno una festa mobile, e come tale la celebra in una data compresa fra il 1 gennaio e il 0 febbraio; quello antico persiano lo individuava nel momento dell’equino-zio di primavera; collegato al ciclo lunare, quello islamico lo fissa al primo giorno di Muharram, suo mese inaugurale; quello ebraico celebra l’inizio dell’anno nuovo a cavallo di due giorni, il primo e il secondo di Tishri, il primo mese d’autunno. Le tendenze sono tante, e le date ancor di più;

quel che però interessa qui è considerare il Capodanno nel contesto di altre ricorrenze.

In ambito cristiano il Capodanno coincide con l’ottavo giorno dalla nascita di Gesù, ovvero con la ricorrenza della sua circoncisione, rito a cui gli ebrei associavano la scelta e l’attribuzione del nome. Visto da tale angolazione, il Capodanno sancisce l’inizio della vita “ufficiale” di Cri-sto, venuto alla luce intorno al solstizio d’inverno e destinato a crescere insieme all’angolo con cui i raggi del sole illuminano la Terra. Mone-ta corrente nel calendario cristiano, l’OtMone-tava definisce una festività che si protrae per otto giorni, per esempio da Natale a Capodanno. Oltre a

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quella della Natività, il calendario cristiano contempla anche l’Ottava di Pasqua e l’Ottava di Pentecoste, ambedue appartenenti alla prima classe, ovvero formate tutte da giorni di primaria importanza (ovvero, di prima classe). L’Ottava della Natività appartiene invece alla seconda classe; la differenza rispetto alle altre due sta nel fatto che alla prima classe appar-tengono solo i suoi giorni estremi – Natale e Capodanno – mentre i sei giorni intermedi (dal 6 al 1 dicembre) appartengono alla seconda classe e sono dunque celebrati con minor solennità.

In relazione alla musica l’aspetto qualificante del concetto di ottava (con l’iniziale minuscola) è la modalità di calcolo, la quale comprende – questa la cosa importante – il suono di partenza oltre al suono di arrivo.

Così come nel calendario liturgico il giorno conclusivo dell’Ottava cade nello stesso giorno della festa principale (se Natale è di martedì anche Ca-podanno è di martedì), nella musica l’ottava è l’intervallo che separa due suoni di nome uguale, uno più grave o più acuto dell’altro. I due “do” con cui Debussy apre e chiude il proprio elenco individuano un’ottava, e altret-tanto può fare, individuando una propria omonima al grave o all’acuto, la mezza dozzina di note che insieme al do rappresentano i ferri dell’esecrato métier.

Aprendo la mano e arcuandola leggermente è possibile produrre sul pianoforte un gran numero di ottave, intervalli preziosissimi poiché perfettamente consonanti; resta però da capire perché, se da un estremo all’altro conta dodici semitoni ovvero sei toni, tale intervallo debba chia-marsi ottava. Il motivo per cui il termine “ottava” adotta l’iniziale minu-scola non sta tanto nel rispetto che si deve all’Ottava del calendario litur-gico quanto nel fatto che l’ottava musicale non consta di otto elementi uguali. Detto in altri termini, mentre fra Natale e Capodanno intercor-rono otto giorni formati tutti da ventiquattro ore, fra un do, un re, un mi e i loro omonimi più prossimi intercorre un misto di unità differenti.

S’immagini la successione regolare dei pilastri di un ponte a sette arcate tutte identiche – ce n’è uno bellissimo costruito in Irlanda a fine Otto-cento –: l’Ottava con la O maiuscola è fatta come i piloni di quel ponte6. L’ottava con la o minuscola no: disponendo di dodici semitoni non c’è verso di aggregarli in modo tale da produrre l’equivalente del Seven-Arch Bridge: per coprire con sette arcate l’ampiezza dell’intervallo d’ottava occorre rassegnarsi a disporre gli otto piloni a distanza diversa, costruen-do un ponte con cinque arcate grandi (i toni) e due piccole (i semi- toni)7.

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La domanda che sorge spontanea però è questa: perché lambiccarsi il cer-vello per scandire con un misto di archi e cuspidi una distanza che si potreb-be comodamente scandire con sei archi o con dodici cuspidi? La risposta è: perché mescolare archi e cuspidi assicura alla sequenza una certa varietà, qualità che nell’ingegneria civile potrà essere un difetto ma che nell’arte musicale è senza dubbio una virtù.

Minaccia incombente6.

Considerando che dodici semitoni aggregati a coppie formano sei toni, nulla vieterebbe in effetti di scandire l’ottava con un Six, anziché con un Seven-Arch Bridge. Volteggiare sopra un ponte a sei archi era un’arte in cui era maestro Debussy, prova ne siano le sezioni iniziale e finale di Voiles – un preludio pianistico dal titolo poeticamente sospeso fra vele e veli – compo-ste proprio in base a tale suddivisione paritetica.

Nel capitolo precedente s’è fatto cenno alla scala cromatica, ovvero alla sequenza di semitoni producibile abbassando uno dopo l’altro tutti i tasti del pianoforte. Da un estremo all’altro la tastiera si può percorrere anche abbassando un tasto sì e l’altro no; il percorso è un po’ meno age-vole perché i tasti neri non si succedono con la regolarità di quelli bianchi, ma facendo un po’ d’attenzione ci si riesce. La cosa migliore è provare a compiere l’operazione su scala ridotta, partendo da do4 e puntando a rag-giungere do5. Schiacciando un tasto sì e l’altro no le dita finiscono prima su una terna di tasti bianchi e poi su una terna di tasti neri. L’esperimento si può ripetere percorrendo l’intera tastiera partendo da do1:quando si giun-ge a do si prova però, come quando i tasti li si schiacciava tutti, un senso

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di frustrazione. È un po’ come fare esercizio sulla step-machine, l’attrezzo che propone in palestra una serie infinita di gradini tutti maledettamen-te uguali: la sensazione di giungere in vetta e l’emozione di ammirare il panorama dall’alto non si prova mai; in compenso, il rischio di annoiarsi aumenta a ogni passo.

Nulla è più indesiderabile che arrecare noia. La prima accusa di ca-rattere “tecnico” con cui si è soliti bollare un pezzo noioso è quella di es-sere monotono. Noia e monotonia non sono sinonimi, ma condividono buona parte del loro campo semantico. La noia è una sensazione umana, mentre la monotonia è una condizione oggettiva che tende a procurare noia o, in casi estremi, assuefazione. Condizione a sua volta umana, l’as-suefazione comporta il recesso graduale dallo stato di coscienza verso quello d’incoscienza. Questo può essere anche il preludio al passo ul-teriore, la trance; uno stato non privo di attrattiva ma in cui la musica cessa di essere un fine per divenire un mezzo, smarrendo gran parte delle sue ambizioni artistiche; ma dato che qui si parla di musica con dichia-rate ambizioni artistiche, quella che in tedesco si chiama Kunstmusik, il rapporto fra musica e trance non rientra fra gli argomenti del presente volume.

L’insistenza su uno stesso tono – laddove per tono s’intende in que-sto caso non l’unità di misura delle altezze ma un qualunque suono d’al-tezza determinata – può essere anche un’azione creativa, come dimostra-no fra gli altri Berg, Ligeti e Scelsi10. A onta delle rispettive dichiarazioni, nessuno dei tre maestri lavora realmente con una nota sola: tutti e tre ne scelgono una (Berg il si, Ligeti il la, Scelsi una diversa per ogni pezzo) e ne fanno per qualche minuto il centro di gravità delle loro composizioni.

L’esempio più cristallino di declinazione artistica del concetto di mono-tonia viene da Ligeti, il cui pezzo crea tre minuti di musica fortemente ritmica basata su tutti i la del pianoforte, spesso impiegandone quattro alla volta ovvero chiedendo all’interprete di produrre un gran numero di ottave. Però, proprio per sottolineare la natura ludica del suo esperimen-to, l’autore lo conclude inserendovi una nota diversa. Ligeti dà scacco matto allo spettro della noia in tre mosse: 1. adoperando un’unica nota ma sfruttandone tutte le altezze, da la0 a la7; . distogliendo dalle altezze l’attenzione di chi ascolta e indirizzandola verso le durate, ovvero verso il ritmo; . smentendo con ironia il proprio intendimento ovvero mostran-do come non sia il caso di prendersi sempre terribilmente sul serio; per l’ottima ragione che un genio che produce un’opera di cui non riesce a celare il segreto rischia d’incappare nella peggior sventura che può

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re a un genio: quella di essere compreso11. Quello di Ligeti è chiaramente un caso-limite, ma per fortuna la musica non vive di sfide, tenzoni e casi-limite. Essa nasce e si sviluppa in sintonia con la natura umana, non in opposizione a essa. Assegnando alle mani il compito di far oscillare in crescendo due coppie di ottave su due ritmi diversi, in una sua ballata per pianoforte Brahms riesce a creare un effetto di sospensione per cui vale la pena di far ricorso per una volta alla parola “mozzafiato”; crean-do all’improvviso un vuoto melodico pieno di mistero, Brahms prepara magistralmente il ritorno del tema principale, una melodia pervasa da un calore umanissimo1.

L’individuazione in ogni suono delle quattro qualità illustrate nel cap. 4 costituisce un approdo importante: altezza, durata, intensità e tim-bro richiedono però approcci diversi anche in considerazione della natura anfibia della musica. In quanto scienza essa può far leva su strumenti ana-litici di grande precisione, ma in quanto arte deve far conto con quella macchina meravigliosamente imperfetta che è il corpo umano; tanto più in un’epoca in cui esso è assistito stabilmente da macchine di ogni tipo, le quali da un lato lo agevolano nella percezione del dettaglio e nell’e-mendamento dell’errore, ma dall’altro gli precludono l’accesso a buona parte degli spazi entro cui la musica vive e si diffonde. Basta ascoltare lo stesso pezzo eseguito da un essere umano e da un computer per rendersi conto della differenza; lo stesso pezzo eseguito dal vivo oppure registrato;

la stessa registrazione riprodotta da dispositivi diversi. La musica è sempre la stessa ma il modo in cui giunge alle nostre orecchie no, e la differenza si avverte con chiarezza.

nimie Piccoli e grandi eccessi

L’armonia del cosmo, la fraternità universale, la pace nel mondo sono temi che le opere di Haydn, Beet hoven e Lennon hanno celebrato esaltandone gli aspetti più diversi. Come e più della letteratura, o quanto meno con la sua complicità, l’arte dei suoni è in grado di dar voce anche a istanze e sentimenti schiettamente individuali, l’amore primo fra tutti. Facendo leva sulla voce umana, la canzone è il genere che asseconda meglio di altri l’espressione di un sentimento così irresistibilmente pervasivo. La canzone d’amore costituisce da secoli la quintessenza del discorso in prima persona;

compito dell’arte è incanalare tale discorso entro argini che, senza

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ne la spontaneità, gli consentano di acquisire forza e forma tali da generare in chi ascolta un senso di rispecchiamento. Tanto maggiore è il successo di una canzone d’amore quanto maggiore è la sua capacità di dar voce a un sentimento condiviso, ovvero di far sì che le parole e i suoni di chi canta e suona corrispondano a quelli che vorrebbe aver immaginato chi ascolta.

Nell’impossibilità di esaurire in poco spazio un argomento di tale ampiez-za, esamineremo tre canzoni incentrate su altrettante fasi di un rapporto amoroso: il sorgere del sentimento, lo spettro della sua estinzione e il su-bentro di una situazione nuova.

«Seit ich ihn gesehen, glaub’ ich blind zu sein», “da quando l’ho visto credo d’essere cieca”, canta sulle note di Schumann l’anonima giovane di Adelbert von Chamisso: queste le parole con cui si apre la più celebre rac-colta amorosa del Romanticismo, Amore e vita di donna (Frauenliebe und -leben, op. 4, 140). In otto brevi componimenti l’autore dei versi schizza un ritratto femminile di squisita fattura Biedermeier che, al di là di ogni stereotipo di genere e di epoca, la musica di Schumann eleva a paradigma dell’espressione spontanea. Da quasi due secoli chiunque ascolti questi Lie-der, una ventina di minuti di musica splendida eseguibile indifferentemente da interpreti maschili o femminili, non potrà non confessare di esservisi rispecchiato; magari compiacendosi dell’elementarità del lessico, ma senza dubbio ritrovando molto di sé stesso/a dentro la vicenda di questa anonima giovinetta dell’Ottocento.

Inaugurata da una dichiarazione irrobustita dalla forza dell’antinomia fra vista e cecità, la storia si distende per sette canti dando voce a tutta la varietà di sentimenti che una folgorazione del genere è in grado di suscitare, salvo precipitare nell’ultimo.

Seit ich ihn gesehen, glaub’ ich blind zu sein, Da quando l’ho visto, credo d’esser cieca, Wo ich hin nur blicke, seh’ ich ihn allein; ovunque io guardi, vedo solo lui;

Wie im wachen Traume schwebt sein Bild mir vor, come nel desto sogno mi compare la sua immagine, Taucht aus tiefstem Dunkel heller nur empor. dall’oscurità più profonda essa emerge più chiara.

Sonst ist licht- und farblos alles um mich her, Altrimenti tutto ciò che mi circonda è buio ed incolore, Nach der Schwestern Spiele nicht begehr’ ich mehr, non m’interessano più i giochi delle sorelle, Möchte lieber weinen still im Kämmerlein; preferirei piangere in silenzio nella cameretta;

Seit ich ihn gesehen, glaub’ ich blind zu sein. da quando l’ho visto, credo d’esser cieca.

Adeguandosi alla semplicità disarmante della poesia di Chamisso, nel suo primo Lied Schumann sceglie la forma strofica, intonando la seconda quar-tina sulle stesse note della prima. Perseguendo l’ideale della naturalezza, l’enunciazione dei versi ricalca le movenze del parlato. La linea vocale si

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effonde in un ambito corrispondente a un’ottava, come quella di Imagine, risultando eseguibile con facilità. L’accompagnamento pianistico non è difficile, tanto che il Lied può essere suonato e cantato dalla stessa persona, cosa che aumenta di parecchio le sue possibilità esecutive, proprio come nel caso della canzone di Lennon1. A differenza di Imagine, tuttavia, l’accom-pagnamento pianistico di “Seit ich ihn gesehen” non si limita a cambiare accordi nel corso del pezzo; quel che impreziosisce il pur elementare Lied

effonde in un ambito corrispondente a un’ottava, come quella di Imagine, risultando eseguibile con facilità. L’accompagnamento pianistico non è difficile, tanto che il Lied può essere suonato e cantato dalla stessa persona, cosa che aumenta di parecchio le sue possibilità esecutive, proprio come nel caso della canzone di Lennon1. A differenza di Imagine, tuttavia, l’accom-pagnamento pianistico di “Seit ich ihn gesehen” non si limita a cambiare accordi nel corso del pezzo; quel che impreziosisce il pur elementare Lied

Nel documento biblioteca di testi e studi / 1461 musica (pagine 81-93)