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L’arte di dar forma a un canto

Nel documento biblioteca di testi e studi / 1461 musica (pagine 69-81)

Matite e acquerelli5.1

Sulla tastiera del pianoforte l’esperimento di partire da un unisono e au-mentare progressivamente la distanza fra due suoni può essere fatto, entro limiti fisiologici, anche con una mano sola. Se da un lato ciò impedisce di agire in modo simultaneo su due tasti a grande distanza, dall’altro consente di compiere su scala ridotta diverse osservazioni importanti. Proviamo a usare la mano destra, posizionando il pollice sul solito tasto bianco (do4) e le altre dita sui primi quattro alla sua destra. Agendo col pollice e a turno con una delle altre dita si creano quattro intervalli di ampiezza diversa, do4 -re4, do4-mi4, do4-fa4, do4-sol4; man mano che l’ampiezza aumenta il grado di consonanza cresce, raggiungendo il massimo con l’intervallo do4-sol4. Sempre tenendo il pollice sul do4 proviamo poi a spostare il mignolo un po’ più a destra; si produce un intervallo più ampio e ancora consonante, do4-la4, ma un po’ meno consonante del precedente. Spostando il mignolo ancor più a destra se ne produce uno, do4-si4, molto meno consonante. Spo-standolo ancor più a destra ne viene fuori d’incanto uno, do4-do5, che dà luogo a una consonanza perfetta. Se proviamo ad allargare ulteriormente la mano (ce ne vuole una un po’ grande; se la si ha piccola lo si faccia con due) e a schiacciare il tasto ancor più a destra si riaffaccia lo spettro di una disso-nanza tremenda, do4-re5, stridente al punto da indurci a ritrarre il mignolo e a riportarlo sul tasto di prima, ridando così luogo alla consonanza do4 -do5. Confortati dalla riconquista di una sonorità gradevole, disponiamoci adesso a compiere una riflessione tanto breve quanto cruciale.

La tastiera del pianoforte consta di due file di tasti, rispettivamente bianchi e neri. L’opposizione cromatica è però ingannevole perché masche-ra una situazione di fatto omogenea. Mettendo la mano sulla tastiemasche-ra si nota come sui tasti bianchi arrivano comodamente tutte le dita, mentre su

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quelli neri arrivano meglio le dita interne; più corte – e nel caso dei pollici anche ruotate di 0° – le dita esterne stentano a raggiungerli. Per piccola che sia, la mano di chiunque abbia l’età per leggere questo libro è in grado di schiacciare con pollice e mignolo i tasti che producono una consonanza perfetta: non solo do4-do5, ma anche re4-re5, mi4-mi5, e così via. Occorre però chiedersi perché i tasti bianchi formino una successione continua e quelli neri no. Per provare a capirlo la cosa migliore è allontanarsi tempora-neamente dal pianoforte e osservare altri strumenti.

Provvisto di un puntale che consente di suonarlo offrendone la parte anteriore allo sguardo altrui, il violoncello è uno strumento facile da osser-vare. L’esecutore lo regge con una mano facendo appoggiare il manico fra palmo e pollice e premendo le corde con le altre dita sulla tastiera, ovvero al-lungando o accorciando il segmento di corda messo in vibrazione dall’arco.

Può sembrare strano che il termine “tastiera” indichi a un tempo l’insieme degli ottantotto tasti di un pianoforte e un pezzo di legno su cui sta tesa – nel violoncello come nel violino, nella viola e nel contrabbasso – la miseria di quattro corde. L’anomalia si chiarisce gettando uno sguardo sull’origine del termine, derivante come per “tasto” dal supino del verbo latino taxare:

taxatum. Più che il tasto, taxatum fa venire in mente il tassato, e con esso il tartassato: taxare è un frequentativo di tangere, toccare, dunque significa

“toccare ripetutamente”. Il taxatum è un oggetto o un individuo toccato ripetutamente, come un legno dal dito o un contribuente dal fisco. Con la differenza che il contribuente trasforma la -x- in -ss- e conserva la seconda delle due -a- restando trisillabo (“tas-sa-to”), mentre il legno perde la secon-da -a- e ricava -st- secon-dal contatto fra -x- e -t- diventando bisillabo (“ta-sto”).

La tastiera è difatti una superficie pensata per essere toccata ripetutamente, ovvero tastata: dunque, sotto questo aspetto violoncello e pianoforte sono strumenti meno diversi di quanto sembra.

Se messe in vibrazione in tutta la loro lunghezza, le corde del violoncel-lo producono un suono ciascuna. Per ottenerne altri, l’esecutore deve agire sulla tastiera premendo con le dita sulle corde: più la mano scende, più il segmento vibrante si accorcia, più il suono tende a divenire acuto. Il primo dovere del violoncellista, come quello di chiunque maneggi un qualunque strumento, è produrre suoni in grado di amalgamarsi l’uno con l’altro. Oc-corre un certo esercizio e un ottimo orecchio, ma con un po’ di applicazio-ne si ottengono risultati apprezzabili. Sul pianoforte l’operazioapplicazio-ne è molto più facile perché le corde, percosse dai martelletti, vibrano sempre in tutta la loro lunghezza; ma, come spesso capita, il prezzo della facilità è la modestia del risultato. Sulla tastiera del violoncello uno spostamento anche minimo

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del polpastrello che preme la corda produce un suono nuovo; questo fa sì che dal violoncello si possa ricavare un numero pressoché infinito di suoni.

Dai tasti del pianoforte no, il numero delle altezze è stabilito a priori ed è pari al numero dei tasti: tanti tasti tanti suoni, ognuno con la sua altezza, punto. La differenza fra pianoforte e violoncello somiglia a quella che passa fra le matite colorate, le quali forniscono un colore immodificabile ciascu-na, e gli acquerelli, che se schiariti col bianco, scuriti col nero o mescolati fra loro offrono una gamma virtualmente infinita. La tastiera di un piano-forte è come una grande scatola di matite: dal primo all’ultimo tasto offre ottantotto colori diversi; tanti, tantissimi, ma solo quelli. La tastiera del violoncello è invece una scatola di acquerelli con quattro colori-base, corri-spondenti alle quattro corde, e una serie di colori ottenibili accorciando la lunghezza del segmento da mettere in vibrazione; a seconda del punto in cui premono, le dita determinano le gradazioni pressoché infinite di questi colori.

Ora, lasciando vibrare liberamente la corda più grossa si ottiene il suono più grave che il violoncello è in grado di emettere. Accorciando al massimo la corda più fine si ottiene il più acuto. L’estensione complessiva di questo strumento è inscrivibile in quella di un pianoforte. Cercando sul pianoforte i tasti che emettono i suoni equivalenti al più grave e al più acuto del vio-loncello si osserva come questi si trovino al di fuori della zona centrale della tastiera ma a una certa distanza dai suoi estremi. Fra l’uno e l’altro intercor-rono, fra bianchi e neri, poco meno di cinquanta tasti. Eppure – questo è il punto – il violoncello è in grado di produrre ben più di cinquanta suoni;

è il pianoforte a decidere che da un capo all’altro di quell’estensione ce n’è solo una cinquantina.

Il problema, sia chiaro, non sta nel pianoforte. Anzi, paradossalmen-te il problema sta nel violoncello. A meno che sia scordato, il pianoforparadossalmen-te non stona mai; il violoncello, invece, anche se accordato rischia di stonare sempre, se l’esecutore preme la corda nel punto sbagliato. Il pianista non cerca mai la nota, il violoncellista la cerca sempre. Il discorso vale anche per violino, viola e contrabbasso. A differenza del pianoforte, questi strumenti sono in grado di produrre una gamma sbalorditiva di suoni di altezza di-versa, tutti di per sé intonati (o nessuno di per sé stonato). Il problema è stabilire quali, fra i suoni di diversa altezza producibili su uno strumento ad arco, sono in grado di combinarsi in modo armonico con gli altri. La ri-sposta è: pochissimi. Quali? Nella cultura musicale prevalente in quell’area del mondo in cui si suona il pianoforte, quelli che è in grado di emettere il pianoforte. Perché? Perché la scienza è una gran bella cosa, ma l’arte ha le

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sue esigenze, e per soddisfarle sfrutta una selezione assai ridotta delle risorse che la scienza le mette a disposizione.

La ristretta area del mondo in cui si suona il pianoforte è un’area in cui si praticano anche altri strumenti, dalla voce umana al violoncello, dal vio-lino al basso-tuba, dall’ottavino alla chitarra elettrica. Con la sua estensione il pianoforte riesce a emettere, sia pur sempre col proprio timbro, l’equiva-lente di tutti i suoni di pari altezza che questi strumenti sono in grado di emettere individualmente, per di più visualizzando la loro successione in modo chiaro, dal più grave al più acuto. Per questo per ragionare sui suoni e sui loro rapporti conviene fare riferimento alla tastiera del pianoforte.

L’estensione di un contrabbasso starà nella zona di competenza della mano sinistra, quella di un flauto nella zona di competenza della mano destra;

quelle della viola e del clarinetto nella zona centrale. Stesso discorso per le voci, quelle maschili prevalentemente a sinistra, quelle femminili prevalen-temente a destra, senza distinzione fra tasti bianchi e tasti neri.

Se suonati uno dopo l’altro, indifferentemente partendo dal registro grave o dal registro acuto, tasti bianchi e tasti neri sciorinano un’ampia gamma di colori, sgranando quella che prende il nome di “scala cromatica”.

Si tratta di una scala molto facile da eseguire, basta partire da un estremo e andare verso l’altro schiacciando uno dopo l’altro tutti i tasti che s’incon-trano, bianchi o neri che siano. Si udrà un’ascesa o una discesa del tutto uni-forme, tale per cui quando si sarà giunti in cima o in fondo verrà spontaneo chiedersi perché non si possa proseguire, già che la strada verso gli infra e gli ultrasuoni è ancora lunga. La risposta, una volta di più, sta nella distin-zione fra arte e scienza: la scienza si occupa di tutti i suoni, anche di quelli che l’orecchio umano non percepisce; l’arte si limita a far uso di alcuni fra gli oggetti di cui si occupa la scienza, nello specifico disinteressandosi non solo degli infra e degli ultrasuoni, ma anche di un gran numero di suoni.

Non si tratta, beninteso, di una mossa pregiudiziale: è solo un modo per selezionare un numero di oggetti gestibile da un corpo che, disponendo solo di una voce, due mani e dieci dita, deve produrre musica da ascoltare con due orecchie1 .

Tutto e mezzo5.

Quando, replicando a un invito a cantare, qualcuno si schernisce dichiaran-do di essere stonato, rivela in realtà una qual confidenza con una nozione

7

fondamentale: quella di tono. Nel linguaggio corrente essere intonati signi-fica saper riprodurre con la voce alcuni suoni ritenuti degni di tale qualisigni-fica;

chi non si sente in grado di farlo si ritiene stonato. Basta aver cantato in un coro da piccoli per ricordarsi come prima di cominciare chi lo dirigeva producesse un suono, con la voce o con uno strumento, invitando tutti a ri-produrlo. La stessa cosa si fa in orchestra, dove il compito è svolto dall’oboe, strumento a cui compete produrre il suono di riferimento, dare quel “la”

divenuto proverbiale nelle situazioni in cui si parla dell’avvio di un proces-so. È palese che l’operazione discende da un (pre)giudizio estetico, basato sulla condivisione dell’idea che il la e pochissimi suoi simili (do, re, mi, fa, sol, si) sono i suoni buoni per produrre musica, mentre gli altri non lo sono.

A prescindere dalla sua validità, il (pre)giudizio estetico è basato su un fatto oggettivo: la misurabilità delle altezze ritenute intonate. La scienza rileva le altezze con strumenti complicati e le calcola adoperando l‘unità di misura della frequenza, lo Hertz. L’arte si serve invece di un’unità più grossolana: il tono, l’unità di misura della musica praticata in quella ristret-ta area del mondo in cui si suona il pianoforte. Oltre a non avere multi-pli il tono ( ) ha un unico sottomultiplo, il semitono (). Il semitono è la distanza minima che intercorre fra due altezze determinate, ovvero la distanza che si percepisce schiacciando sul pianoforte due tasti contigui.

L’acustica suddivide ulteriormente il semitono in centesimi, individuando un’unità di misura – il cent – corrispondente a una differenza non perce-pibile dall’orecchio umano. Ma questo lo fa la scienza; dovendo scendere a patti con la pratica, l’arte si accontenta di nozioni più grezze.

Coi suoi ottantotto tasti, la tastiera del pianoforte offre ottantasette semitoni, ma per amor di chiarezza noi continuiamo a ragionare su scala ridotta. Partendo dal solito do4 proviamo a raggiungere il do5 schiacciando in sequenza tutti i tasti. Poi schiacciamo solo il primo e l’ultimo e provia-mo a contare: da un estreprovia-mo all’altro ci sono dodici semitoni, ovvero sei toni.

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La consonanza perfetta è l’intervallo di riferimento dell’acustica, che divi-dendolo in 1.00 parti individua quale propria unità di misura la centesima parte di un suo dodicesimo: appunto il cent, un centesimo di semitono.

Riducendo l’estensione della mano e assegnando un tasto a ogni dito possiamo compiere la stessa operazione su intervalli più piccoli. Fra pollice e indice ci sono due semitoni, dunque fra do4 e re4 c’è un tono; fra pollice e medio quattro, dunque fra do4 e mi4 ci sono due toni; fra pollice e anulare cinque, dunque tra do4 e fa4 ci sono due toni e mezzo; fra pollice e mignolo sette, dunque fra do4 e sol4 ci sono tre toni e mezzo. Poi, se come prima allarghiamo un po’ la mano e col mignolo ci spostiamo gradualmente verso destra, produciamo prima un intervallo di nove semitoni, verificando come fra do4 e la4 ci sono quattro toni e mezzo, e poi uno di undici, verificando come fra do4 e si4 ce ne sono cinque e mezzo; spostando ulteriormente il mignolo riapprodiamo alla consonanza perfetta: dodici semitoni, dunque fra do4 e do5 ci sono sei toni. Vien da chiedersi perché in tre casi i semitoni sono pari e dunque i toni sono interi, mentre negli altri quattro i semitoni sono dispari e i toni sono decimali. È una domanda importante ma che con-viene porsi più avanti; per adesso è sufficiente aver messo a fuoco la nozione di tono e di semitono, le unità di grandezza con cui la musica in quanto arte misura gli intervalli che la musica in quanto scienza misura con i cents.

Dare il la5.

L’individuazione delle altezze discende dal desiderio di combinare i suoni in modo armonico sia nel tempo, come in una melodia, sia nello spazio, co-me in un accordo. Quando dalla casa di fronte giungono i suoni prodotti da un violinista in erba, dopo un po’ viene voglia di alzarsi e andare a chiudere la finestra: la melodia risulta sfocata, stonata, in breve molesta. Quando sul pianoforte da cui ci siamo allontanati dimenticandoci di abbassare il copritastiera balza quel diavolo di un gattaccio – sciò! –, i tasti comincia-no a gemere emettendo aggregati difficilmente associabili alla comincia-nozione di accordo. Eppure, quelli prodotti dal violinista in erba e dal felino malcre-ato sono tutti suoni; con la differenza che quelli prodotti dal violinista al-le prime armi sono suoni “sbagliati” destinati con l’esercizio a diventare

“giusti”, mentre quelle prodotte da Fufi sono combinazioni repellenti fra suoni “giusti”; suoni che, se assemblati con raziocinio, produrrebbero ac-cordi di grande bellezza. Per creare musica degna di trovar posto nel regno

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di Armonia occorre dunque saper fare due cose, selezionare alcuni suoni e disporli in modo conveniente nel tempo e nello spazio. Per questo si va a scuola. Cercando di mediare fra l’esigenza di varietà e l’esigenza di prati-cità, la civiltà musicale della ristretta porzione di mondo in cui si suona il pianoforte ha deciso d’individuare a un certo punto sette suoni: un numero che – come detto – per un verso suggerisce pienezza e per l’altro sottende instabilità, due proprietà endemiche di un’arte perennemente in bilico fra regole e libertà.

Attribuire un nome ai sette suoni individuati selezionando determinate altezze equivale a iscrivere tali altezze nel registro delle risorse: collegato al verbo notare, appunto “registrare”, il nome nota non subisce alterazio-ni nel passaggio dal latino all’italiano, e un’alterazione affatto trascurabile nel passaggio ad altre lingue (note in inglese e francese, Note in tedesco).

Compreso nell’orizzonte confortante del notum, esso serve per distinguere un’altezza determinata, proteggendo così l’insieme dalle insidie del novum, ovvero dall’infiltrazione di suoni d’altezza diversa4. Per la precisione notare vuol dire registrare mediante un segno, e implica perciò l’atto di scrivere:

prendere nota, annotare, appuntare su un notes sono tutti atti di registra-zione. In ambito musicale le note sono i segni mediante i quali si registra una delle quattro qualità del suono: l’altezza. Di per sé la nota individua un suono più grave o più acuto di un altro, non la sua durata, la sua intensità o il suo timbro. Quando in orchestra si fa silenzio per consentire all’oboe di “dare il la[4]”, oltre all’altezza di 440 Hz il suono che si spande nell’aria ha di norma una durata medio-lunga e un’intensità mezzoforte. Nessuna di queste variabili (la terza, il timbro, è ovviamente quello dell’oboe) di-pende dal nome “la”: un la4 può essere anche un suono breve e fortissimo prodotto da un violino, così come un suono medio-lungo e mezzoforte prodotto dall’oboe può avere un’altezza diversa da quella del la4. Più ancora che avviare un processo, “dare il la” vuol dire fare in modo che un processo – nella fattispecie, l’esecuzione – cominci in un clima di generale sintonia;

in questo la musica ha molto da insegnare anche a chi non ha modo, per sua sventura, d’apprezzarla in termini estetici.

mein

«Imagine no possessions...»

Dopo una prima strofa la cui melodia è sostenuta da sonorità lievemente ve-late, ideali per creare l’atmosfera onirica suggerita dai versi iniziali, Imagine

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ne presenta due musicalmente identiche sostenute da un’armonia più lim-pida. A differenza della prima, incentrata sulla posizione dell’essere umano nell’universo, la seconda e la quarta strofa auspicano un miglioramento nei rapporti fra gli esseri umani. Entrambe denotano una forte carica utopica:

una esorta a immaginare un mondo senza confini («Imagine there’s no countries»), l’altra addirittura un mondo ignaro della nozione di proprietà («Imagine no possessions»). La differenza sta nel prosieguo: immaginare un mondo senza confini «isn’t hard to do», non è difficile; immaginarne uno senza proprietà non altrettanto, infatti «I wonder if you can», sog-giunge Lennon, chiedendosi se chi ascolta ne sia capace.

Intonate sulla stessa melodia sostenuta dagli stessi accordi, due frasi così diverse generano un effetto destabilizzante poiché la musica non aiuta a mettere a fuoco la differenza, anzi tende ad annullarla. Questo è il limite delle canzoni in forma strofica, in cui diverse porzioni di testo verbale so-no intonate su un identico testo musicale5. Un’intonazione congruente col contenuto di una determinata porzione di testo lo diventa un po’ meno con quello di un’altra. Le sezioni musicali sono concepite in genere in rapporto alla prima strofa; se le successive hanno un contenuto diverso, il composi-tore può intonarle sulla stessa melodia, mettendo nel conto le probabili incongruenze, o intonarle ciascuna in modo autonomo, adeguando di volta in volta la musica al contenuto. Per distinguere questa seconda modalità da quella strofica i tedeschi hanno inventato una parola, durchkomponiert, intraducibile in italiano se non con una perifrasi, appunto “composto/a adeguando la musica al contenuto delle parole”.

Negli oltre mille Lieder ricordati nel capitolo introduttivo, il massimo chansonnier dell’Ottocento – Franz Schubert – ha adottato sia l’uno sia l’altro modello, variandoli a seconda delle necessità e qualche volta ibri-dandoli. Dimostrandosi suo buon allievo, Lennon adotta per Imagine una forma strofica variata. Alla prima sezione (A = strofa i, «Imagine there’s no heaven») caratterizzata dall’accompagnamento velato ne fa seguire una (A′ = strofa ii, «Imagine there’s no countries») che riprende in parte la precedente depurandola sotto l’aspetto armonico; nella sezione successiva (B = strofa iii, «You may say I’m a dreamer») introduce materiale nuovo.

La strofa che segue (iv, «Imagine no possessions») è intonata di nuovo sulla sezione A′; l’ultima (v, «You may say I’m a dreamer»), praticamen-te identica alla praticamen-terza sotto l’aspetto verbale, è intonata sulla spraticamen-tessa musica,

La strofa che segue (iv, «Imagine no possessions») è intonata di nuovo sulla sezione A′; l’ultima (v, «You may say I’m a dreamer»), praticamen-te identica alla praticamen-terza sotto l’aspetto verbale, è intonata sulla spraticamen-tessa musica,

Nel documento biblioteca di testi e studi / 1461 musica (pagine 69-81)