• Non ci sono risultati.

L’arte di far musica con otto note

Nel documento biblioteca di testi e studi / 1461 musica (pagine 105-119)

Sul confine.1

«Eccomi a Rovereto», appunta Goethe nel suo diario una sera, «punto divisorio della lingua; più a nord si oscilla ancora fra il tedesco e l’italiano.

Qui», soggiunge, «per la prima volta ho trovato un postiglione italiano autentico; il locandiere non parla tedesco, e io devo porre alla prova le mie capacità linguistiche», osserva ancora1.L’inattualità della figura del posti-glione colloca la testimonianza in un’epoca remota, ma l’osservazione di natura linguistica è attuale ancora oggi: basta imboccare l’A in direzione Brennero poco a nord del Lago di Garda per incontrare cartelli bilingui.

Il primo recita Egna – Ora / Neumarkt – Auer: quando lo si avvista si apprende di aver varcato non solo il confine geografico tra le province di Trento e di Bolzano, ma anche quello linguistico fra l’area italofona e quella germanofona. A differenza del primo confine, coincidente con un segno chiaramente individuabile sulla mappa, il secondo corrisponde a una fascia territoriale relativamente ampia punteggiata da borghi, cittadine e villaggi in cui sono distribuiti a macchia di leopardo gruppi di parlanti dell’uno o dell’altro ceppo. Rovereto, la cittadina in cui Goethe annotò l’osserva-zione riportata sopra, si trova una sessantina di chilometri a sud di Egna/

Neumarkt, in territorio linguisticamente italiano. Le oscillazioni a cui egli accenna riferendole all’area più a settentrione riguardavano probabilmente anche Trento, città a metà strada fra Rovereto ed Egna/Neumarkt. Come nell’odierna regione italiana, all’interno della parte meridionale dell’allora Contea del Tirolo la situazione era fluida e dava luogo a esiti diversi.

Per quanto attiene al lessico musicale, e nello specifico alla denomina-zione delle note, all’attraversamento del confine linguistico corrispondeva già al tempo un cambio di prospettiva. Un manifesto che annunciasse oggi un’esecuzione a Trento della grande messa composta da Bach qualche

de-106

cennio prima che Goethe prendesse la via del Brennero indicherebbe l’ope-ra col titolo di Messa in Si minore; se a beneficio dei turisti gli organizzatori volessero aggiungere il titolo in inglese, scriverebbero Mass in B-minor. Un manifesto che intendesse assolvere alle medesime funzioni in occasione di un’esecuzione della Messa in Si minore a Bolzano recherebbe in inglese sempre il titolo di Mass in B-minor, ma in tedesco quello di Messe in h-moll.

Derivati entrambi dalla lingua latina, l’inglese minor e il tedesco moll pun-tano con qualche approssimazione verso il medesimo ambito semantico, come d’altronde i rispettivi opposti major e dur. Più problematico è il caso di B e di h, lettere che nelle due lingue equivalgono al nostro si. Mentre per l’inglese ci si può riferire all’ormai familiare sequenza alfabetica da A a G, come si spiega per il tedesco l’entrata in scena dell’ottava lettera? Ver-rebbe da dire che “non c’entra un’acca”: invece l’h c’entra, e non riguarda solo la denominazione tedesca delle note, problema per noi relativamente trascurabile, bensì un aspetto costitutivo della teoria musicale moderna.

Per affrontarlo occorre rimettere sotto la lente il modello-base della teoria medievale: l’esacordo4.

Naturale e non solo.

  

SOL LA SI DO RE MI FA SOL la ? do re

Γ A B C D E F G a b c d

naturale

durum molle

Quello che si estende da C ad a (da DO a la) è l’esacordo-base, il quale assume il nome di hexachordum naturale. Valicandone il confine verso il grave la voce entra in un esacordo la cui metà superiore C-D-E (DO-RE-MI) coincide con la metà inferiore di quello naturale. Per la ragione che vedremo fra poco, questo esacordo prende il nome di hexachordum durum.

Valicando il confine opposto la voce entra invece in un altro esacordo, la cui metà inferiore F-G-a (FA-SOL-la) coincide con la metà superiore di quello naturale. Per la ragione speculare a quella che vedremo fra poco, questo esacordo prende il nome di hexachordum molle. La cosa notevole è che i tre esacordi sono disposti come i mattoni di un muro: il punto medio del mat-tone superiore (l’hexachordum naturale) coincide col punto di separazione fra i due mattoni della fila inferiore (l’hexachordum durum e l’hexachordum

107

molle). Non sono necessarie grandi esperienze di cantiere per capirlo, basta aver giocato una volta coi Lego. Il criterio musicale che sovrintende a questa disposizione è quello di evitare la successione, ritenuta inelegante, sgradevo-le e talvolta orrenda, di tre toni consecutivi; tanto che l’intervallo di tre toni, il cosiddetto tritonus, nel Medioevo prese il nome di diabolus in musica.

Con l’andar del tempo le opinioni si sono un po’ modificate, tanto che se oggi si desidera produrre una sequenza di tre toni consecutivi lo si può fare serenamente, intonandola con la voce o agendo sui tasti del pianoforte.

Se però si vuol comprendere perché una tale sequenza (per esempio: fa-sol-la-si) e soprattutto un intervallo di tre toni interi (per esempio: fa-si) fossero assimilati a creature infernali, si può provare ad abbassare simultane-amente i tasti corrispondenti ai suoni estremi. Anche a un orecchio abitua-to alle disabitua-torsioni più laceranti l’intervallo fa-si non risulterà consonante;

anzi, è prevedibile che gli risulterà piuttosto dissonante.

Se per effettuare un esperimento simile occorre disporre di uno stru-mento a tastiera o di un/a partner disposto/a a cantare, per effettuarne uno di tipo melodico è possibile agire da soli. Se non s’è ancora memorizzata la melodia dell’Inno a san Giovanni si può fare come i pueri cantores dell’Alto Medioevo, ovvero ci si può aiutare con uno strumento; allora il monocordo e oggi una tastiera, reale o virtuale. Si suonino in sequenza i tasti fa4-sol4, si memorizzino i due suoni e si provi a riprodurli con la voce: nulla di più facile. Si ripeta l’esperimento coi tasti fa4-la4: cosa relativamente facile. Lo si faccia coi tasti fa4-si4: cosa difficile. Provare per credere. Intonare con la voce l’intervallo fa-si o qualsiasi altro intervallo di tre toni è una cosa maledettamente difficile. Al momento di spiccare il balzo verso l’alto la voce avverte una mancanza di spinta che rende difficoltoso l’approdo, per-ché il suono d’arrivo non contiene alcuno dei cromosomi (tecnicamente:

degli armonici) di quello di partenza. Fra due suoni a distanza di tritono non s’instaura quel rapporto di simpatia di cui all’esperimento proposto nel cap. . Una conferma dell’estraneità reciproca fra suoni a distanza di tritono si ottiene producendoli insieme, ovvero producendo una sonorità che a un orecchio in cerca di consonanze risulta repellente.

Evitando con la loro struttura il tritono, gli esacordi duro, naturale e molle danno luogo a una sequenza che, facendo leva su quella dell’anti-co tetradell’anti-cordo diatonidell’anti-co ( / / ), alterna semitoni singoli a coppie di toni: / /  / / /  / / /  / / . Bene, ma attenzione adesso. L’espansione verso il grave fa sì che l’esacordo duro cominci con un suono che sta sotto il la in posizione A. Per indicare questo sol “gravis-simo” i teorici medievali ricorsero alla progenitrice greca della G, ovvero Γ

10

(gamma). Dunque, le sei posizioni dell’esacordo duro sono Γ-A-B-C-D-E, corrispondenti alle note SOL-LA-SI-DO-RE-MI. Osserviamo adesso l’e-sacordo molle. Le prime tre posizioni sono le ultime tre di quello naturale:

F-G-a, corrispondenti alle note FA-SOL-la. Dato che per uscire da un siste-ma perfetto come un esacordo occorre usar cautela, è consigliabile muoversi a piccoli passi. Scendendo di un semitono sotto C/DO, la posizione/nota più grave dell’esacordo naturale, s’incontra B/SI: benissimo. Salendo di mezzo tono sopra a/la, la posizione/nota più acuta dell’esacordo naturale, si finisce però nel vuoto, perché la prima posizione/nota a portata di... piede è b/si, la cui distanza da a/la è di un tono intero. Che fare?

  

SOL LA SI DO RE MI FA SOL la ? si do re

Γ A B C D E F G a ? b c d

La cosa da fare è far finta che dopo a/la si ripresenti un semitono: E-F/

MI-FA anziché l’enigmatico a-?/la-?. L’operazione in base a cui dopo il SOL rispunta il MI, e dopo ancora di conseguenza il FA, prende un nome che tradisce, ancora una volta, l’origine pratica di tanta teoria: solmisa-zione. L’unica cosa da fare sarebbe in realtà dimenticare i nomi delle note e concentrarsi soltanto sulle posizioni dei suoni, ricordando che mentre i suoni esistono in natura le note sono un’invenzione umana, e i loro nomi una conseguenza di certi fatti avvenuti in tempi lontani sotto la Torre di Babele. Però non si può, perché l’esigenza di dare un nome alle cose è ben più antica dell’inno attribuito a Paolo Diacono e Guido d’Arezzo. Per quanto concerne i suoni si può dire che l’esigenza cominciò a manifestarsi al tempo in cui Hermes costruiva la lira destinata ad Apollo. Non potendo quindi disfarci dei nomi delle note, cominciamo quanto meno a liberarci da quel punto interrogativo che occhieggia fra a/la e b/si. Mettiamo via le sillabe dell’Inno a san Giovanni e proviamo a ragionare con le lettere che, parlando di esacordi, s’adoperano maiuscole per i suoni gravi e minuscole per i suoni acuti.

Come si può chiamare un suono che sta più in basso di b ma più in alto di a? Alla risoluzione del problema contribuisce la forma stessa della b, una sbarretta verticale con una vescichetta sul lato destro. Dovendo dare l’idea di una versione calante del suono in posizione b si può far calare la lettera sul suo lato sinistro, facendo scendere un pochino la sbarretta ver-ticale. Visivamente, l’operazione trasformerà la b in una sua variante sgon-fia, cedevole, floscia: , una b con la pancia molle. Dunque, il suono che si trova un semitono sotto b si chiamerà be-molle. Di lì in poi la

configura-10

zione dell’esacordo superiore prevede due intervalli di tono: partendo da

e salendo di un tono si approda a c, poi continuando a salire di un altro tono si approda a d. Caratterizzato dal semitono a-, l’esacordo superiore è costituito dalle note F-G-a--c-d: siccome include il be-molle, esso prende il nome di esacordo molle. Se l’esacordo superiore prende il nome di esa-cordo molle, quale nome prenderà l’esaesa-cordo inferiore? Esaesa-cordo duro, ça va sans dire: non perché il suono in posizione B s’indurisca; no, lui resta immutato, sarà il suo segno ad assumere una fisionomia opposta a quella del gemello molle: anziché afflosciarsi, esso assumerà un profilo spigoloso: . Caratterizzato dal semitono A- , l’esacordo inferiore è costituito dalle note Γ-A- -C-D-E: siccome include un b spigoloso, il be-durum, esso prende il nome di esacordo duro.

A questo punto torniamo al tempo in cui l’arte della stampa comin-ciava a porsi il problema di soddisfare le esigenze della musica. All’epoca di Petrucci, per intenderci. Distinguere un be-molle da un be-durum non era visivamente agevole. Nel paese di Gutenberg qualcuno fece osservare che, eliminando il lato inferiore del suo quadratino, il be-durum (   ) acqui-sisce le sembianze di una h. E dato che guarda caso l’acca è l’ottava lettera dell’alfabeto, quale soluzione migliore per designare l’ottava nota? A quel punto non occorre più nemmeno il be-molle (  ), bastano la b e l’h! Ecco, in versione tedesca del tempo di Lutero, le posizioni dei suoni che formano la catena degli esacordi:

  

SOL LA SI DO RE MI FA SOL la ? do re

Γ A h C D E F G a b c d

naturale

durum molle

Inevitabilmente, uno slittamento imputabile a una mera somiglianza grafi-ca determina in un sistema razionale un’incongruenza di tipo logico. Volta dall’inglese al tedesco, la sequenza a-b-c-d-e-f-g diventa a-h-c-d-e-f-g. Le note sono sempre sette, ma in tedesco la loro sequenza è alfabeticamente illogica perché presenta l’ottava lettera (h) là dove ci si attenderebbe la se-conda (b); la quale non solo non esce dai radar, ma va a gravare con la sua pinguedine su un suono che non trova riscontro nella sequenza inglese:

quello che Lennon chiamava B-flat e noi chiamiamo “si bemolle”, ovvero be con la pancia molle.

Detto in estrema sintesi: i tedeschi mantengono viva la memoria dell’e-sacordo sebbene esso sia stato soppiantato da secoli dalla scala di sette note.

110

Per loro, come per Guido e i per teorici del Medioevo, il punto di partenza non è la nota ma il suono; o meglio, la posizione occupata da un suono in un dato contesto. Nel caso dell’esacordo duro e dell’esacordo naturale il semitono cade fra suoni facilmente identificabili anche coi nomi delle note odierne, rispettivamente si-DO (h-C) e MI-FA (E-F); in quello dell’esa-cordo molle esso cade invece fra il la e la versione molle del si, ovvero fra a e . Dunque quand’anche si voglia disporre i suoni per altezza crescente il criterio alfabetico non è l’unico da considerare; la storia della musica recla-ma visibilità e i tedeschi volentieri gliela accordano, ammettendo ambedue le versioni del si, il be-molle ( , tipograficamente b) e il be-durum (  , tipo-graficamente h):

  

a b h c d e f g

Ecco perché a Berlino, dove si conserva la partitura autografa, quella di Bach si chiama Messe in h-moll mentre a Londra, come a New York o a Sydney, si chiama Mass in B-minor5. In Italia, e con minime varianti negli altri paesi in cui è prevalso l’insegnamento di Guido, essa prende il nome di Messa in Si minore. Strano però che, a differenza di quelli delle prime sei, il nome della settima nota non derivi da una sillaba dell’Inno a san Giovanni.

Top di gamma.

Dopo lunghi anni di onorato servizio, qualche tempo fa la mia lavastoviglie ha cessato di funzionare. Dovendola sostituire, mi sono recato in un iper-mercato e mi sono messo alla ricerca di una sostituta. Sono stato avvicinato da una gentile signora che mi ha illustrato con grande professionalità le caratteristiche dei modelli prodotti dalle varie case. Per ognuna di esse l’il-lustrazione cominciava dalla macchina che la signora battezzava con una parola per me incomprensibile. Solo alla terza o alla quarta occorrenza, grazie al fatto che a essa si accompagnava sempre un’indicazione di prezzo elevata, ho capito che quella stringa di suoni corrispondeva a tre parole:

“top di gamma”, un sintagma che per indicare il modello eccellente attin-geva a ben tre lingue. Inutile dire che all’avvilimento per la constatazione della mia ignoranza s’è accompagnato l’acquisto di una macchina di fascia media. A onta di ciò, non solo le mie stoviglie risplendono pulite, ma il mio

111

arsenale di espressioni mistilingui ne annovera oggi una al top – è il caso di dirlo – della popolarità.

Il terzo componente del sintagma “top di gamma” designa la terza lette-ra dell’alfabeto greco, adopelette-rata come detto per indicare il suono più glette-rave dell’esacordo duro. Oltre a rendere omaggio a una scienza musicale antica quanto Pitagora, la scelta dei teorici medievali discende da esigenze squi-sitamente pratiche: se le lettere latine minuscole si adoperano per i suoni acuti e le lettere latine maiuscole per i suoni gravi, per scendere un gradi-no sotto il suogradi-no più grave (A) occorre trovare una soluzione diversa; per esempio ricorrere all’alfabeto greco e scegliere la lettera da cui deriva la G.

Posto a fondamento della sequenza, il gamma (Γ) finì non solo per indi-carla tutta, ma anche per assurgere a un livello di significazione ulteriore.

Pur derivando dalla teoria musicale, il termine circola oggi per lo più al di fuori di essa, prova ne siano la gamma dei colori, quella delle onde radio e quella dei modelli di lavastoviglie. Nondimeno la sua memoria è rimasta viva proprio nella lingua di Debussy: il quale, recriminando sull’esiguità dei ferri del suo esecrato métier, sciorinava quella che in tutto l’Occidente si chiama scala (scale, escala, [Ton-]Leiter ecc.) ma che in Francia si continua a chiamare gamme.

Bene. Domanda: perché nella nostra lingua come in quella di Debussy il top di gamme, ovvero l’ultima nota della scala musicale, si chiama si? Istin-tivamente, la ragione verrebbe da cercarla nel testo dell’Inno a san Giovan-ni. L’invocazione messa in bocca a Zaccaria prosegue, dopo “solve polluti labii reatum”, con la menzione esplicita del suo destinatario: “Sancte Iohan-nes”. Naturalmente all’età di otto giorni il frugoletto non era ancora santo, ma occorre tener presente che Paolo Diacono scriveva a grande distanza dagli avvenimenti, quando l’attributo di santità onorava da secoli la figura di Giovanni. Quando sull’orizzonte della civiltà musicale dell’Occidente il profilo dall’esacordo cominciò a perdere nitidezza in favore della scala, gli eredi di Guido si trovarono ad affrontare il problema del nome da assegnare al settimo suono.

Dal punto di vista musicale l’Inno a san Giovanni non era granché d’a-iuto, poiché l’intonazione di “Sancte Iohannes” non comincia da un suono di altezza superiore a quella del suono su cui comincia l’intonazione di “la-bii reatum”. Anzi, dato che con la menzione del dedicatario la strofa finisce, la melodia dell’inno tende a scendere, preparando la cadenza finale; infatti la sillaba “San-[cte]” è intonata su un suono alla stessa altezza di quello della sillaba “sol-[ve]”. Per forza: Guido, o chi per esso, ragionava per esacordi;

sarebbe stato anomalo che una melodia scelta per insegnare a intonare un

11

esacordo si concludesse valicando i limiti dell’esacordo. Nondimeno, verso fine Cinquecento qualcuno (i candidati sono almeno due, un italiano e uno straniero) trovò una soluzione, a forza di arzigogolare sulle parole dell’In-no: prese le lettere iniziali di “Sancte” e di “Iohannes”, le unì, trasformò le maiuscole in minuscole e produsse il nome della settima nota: s + i = si.

egna Bottom-up

Il fatto che il nome della settima nota sia comparso verso fine Cinquecento non è casuale. Quella è infatti l’epoca in cui i contorni dell’esacordo comin-ciano a sfocarsi e in cui altri modelli di organizzazione dei suoni si profilano all’orizzonte. L’opera che sintetizza questo processo si deve a un teorico chioggiotto, Gioseffo Zarlino, autore di un trattato dal titolo eloquente:

Istitutioni harmoniche. Apparso a Venezia nel 155, esso fu integrato nel 1571 dalle Dimostrazioni harmoniche e nel 15 dai Sopplimenti musicali. L’insi-stenza dei due primi titoli sulla dimensione armonica della musica schiude da sola la prospettiva da cui muove l’autore. Nel momento in cui la polifo-nia sacra e quella profana celebravano i propri fasti, trovando proprio grazie agli editori veneziani il loro maggior canale di diffusione, è naturale che il centro dell’interesse di chi vi ragionava su fosse la scientia bene componendi, l’arte di por bene i suoni in relazione fra di loro.

L’osservazione storicamente importante di Zarlino si trova nella terza parte del primo trattato, per la precisione nel capitolo 16. In esso l’autore afferma che la varietà dell’armonia «non consiste solamente nella varietà delle consonanze [di quinta] che si fa tra due parti». Per orecchie abituate ad ascoltare le combinazioni prodotte nei madrigali e nelle messe del Rina-scimento dagli intrecci di quattro, cinque o sei parti le sonorità degli inter-valli prodotti da semplici coppie di suoni a distanza di quinta cominciavano ad apparire vuote, diafane, prive di corpo. Dunque, soggiunge Zarlino, la varietà dell’armonia «consiste nella [ovvero: dipende dalla] posizione della corda mezzana che si pone tra la quinta nella composizione; ovvero consiste nella composizione della corda che fa la terza». Per capire il significato di questa importante affermazione proviamo a osservare l’esacordo da un punto di vista “harmonico”:

DO RE MI FA  SOL la

C D E F G a

11

Individuiamo i due soli intervalli di quinta che un singolo esacordo è in gra-do di ospitare. In una successione di sei suoni tali intervalli si estenderanno fra il primo e il quinto (nell’esacordo naturale fra C e G) e fra il secondo e il sesto (nell’esacordo naturale fra D e a).

Proviamo a suonare questi intervalli, do4-sol4 e re4-la4. Le loro sonorità ci risulteranno vuote. Facciamo adesso quel che suggerisce Zarlino: osservia-mo la posizione della “corda”, ovvero del suono “che fa la terza”. Nel caso della quinta C-G (= do4-sol4) esso corrisponde a E (= mi4); in quello della quinta D-a (= re4-la4) esso corrisponde a F (= fa4). Suoniamo una dopo l’altra queste due triadi, do4-mi4-sol4 e re4-fa4-la4. Avvertiamo subito una

Proviamo a suonare questi intervalli, do4-sol4 e re4-la4. Le loro sonorità ci risulteranno vuote. Facciamo adesso quel che suggerisce Zarlino: osservia-mo la posizione della “corda”, ovvero del suono “che fa la terza”. Nel caso della quinta C-G (= do4-sol4) esso corrisponde a E (= mi4); in quello della quinta D-a (= re4-la4) esso corrisponde a F (= fa4). Suoniamo una dopo l’altra queste due triadi, do4-mi4-sol4 e re4-fa4-la4. Avvertiamo subito una

Nel documento biblioteca di testi e studi / 1461 musica (pagine 105-119)