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L’arte di distinguere note e suoni

Nel documento biblioteca di testi e studi / 1461 musica (pagine 47-57)

Fuori dal cesto.1

Nel tentativo di contrastare l’impazienza dei giovani smaniosi di ottenere tutto e subito, i meno giovani ricorrono spesso a un detto che ricorda come Roma non sia stata fatta tutta in un giorno. Giusto. Sbagliato – o meglio, giusto solo in termini poetici – è invece definire “eterna” una città avvezza a contare gli anni a partire dalla propria fondazione. Qualche anno dopo essere stata celebrata da Tibullo in quanto aeterna urbs, Roma fu magnifi-cata da Livio in una sintesi che prende le mosse ab urbe condita1. Dunque, dal momento che essere eterno vuol dire non avere inizio né fine, Roma non può essere definita “eterna”.

Se per rendere l’Urbe caput mundi i Romani ci misero ben più di un giorno, per creare l’universo mondo Dio ce ne mise non più di sei; dopodi-ché, se ne prese uno di riposo: «Allora Dio nel settimo giorno portò a ter-mine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro.

Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto». Sembra quasi, dal racconto della Genesi, che la cessazione dell’attività creatrice superi per importanza l’atto della creazione. D’altronde qualche tempo dopo, incidendo le tavole della Legge, Dio comanderà di celebrare i giorni festivi, non di lavorare in quelli feriali; quello di guadagnarsi il pane, dal giorno in cui Adamo ed Eva condivisero il frutto della conoscenza, è per gli umani un dovere il cui assolvimento non comporta esortazioni di sorta.

Dispiegatosi lungo sei giornate seguite da una di riposo, il processo rife-rito dalla Genesi è divenuto un paradigma della scansione ciclica del tempo.

Sue ambasciatrici sono state, auspice Gutenberg, le religioni basate sul libro che s’inaugura con quel racconto. Islam e cristianesimo sembrano dissen-tire dall’ebraismo nell’individuazione del giorno dedicato al riposo, ma in

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realtà cercano solo di celebrarlo evitando attriti, scegliendo l’uno il giorno precedente e l’altro il giorno successivo allo shabbat. Su una cosa, tuttavia, le tre religioni monoteistiche concordano: il ciclo della Creazione consta di sei giorni più uno, quello che, corrispondendo al riposo, dà modo alla formula di predisporsi all’iterazione.

Dal momento che nella vicenda della Creazione il giorno del riposo sta in coda ai sei d’attività, la formula adottata nella Genesi (6 + 1 = 7) co-stituisce una scomposizione ideale per descrivere un processo finalizzato al compimento. Anche qui si può fare un esempio contrario, ricorrendo non tanto a un processo ispirato alla formula opposta (1 + 6 = 7) quanto a uno analogo a quello della Creazione ma concluso da una catastrofe: Sette piani, il racconto in cui Buzzati narra lo sprofondamento di un individuo nel ventre di un ospedale. Il protagonista vi si reca per un semplice control-lo da effettuare all’ultimo dei suoi sette piani, un ambiente confortevole, arioso e inondato di luce. Per le cause più diverse, tutte indipendenti dalla sua volontà, con l’andare dei giorni è però costretto a cambiare piano, e a scendere sempre a quello sottostante. Quando giunge ormai esausto al pian terreno – un’infilata di stanze buie che mentre era al settimo osservava con quieto distacco –, vede calare rapidamente le avvolgibili mentre fuori splende il sole. Fine.

C’è però una prospettiva meno angosciante per guardare alla scompo-sizione del 7: quella in cui l’1 non rappresenta il punto d’approdo ma un elemento eterodosso dalla posizione indefinita: la pecora nera, l’anello che non tiene, l’uovo fuori dal cesto. Scovare tale elemento in qualche insieme famoso è un esercizio piacevole, e nel contempo istruttivo.

Tre casi.

Le culture che adottarono il modello cosmologico proposto dalla Genesi dovettero far presto i conti col problema di distinguere i giorni. La soluzio-ne che prevalse fu, almeno in Occidente, individuare per ognuno un rap-porto con uno dei corpi luminosi ospiti del cielo delle stelle fisse. Compatto se osservato in base alle nozioni dell’astronomia antica, l’insieme formato da Luna, Marte, Mercurio, Giove, Venere, Saturno e Sole mostra qualche crepa se osservato alla luce delle acquisizioni della scienza moderna; la qua-le, oltre ad aver revocato la nozione di cielo delle stelle fisse, ha anche sco-perto che fra i corpi luminosi che ne trapuntavano l’azzurro uno, il Sole, è

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il centro del sistema a cui dà il nome, mentre gli altri gli orbitano intorno, cinque con moti simili a quello della Terra e uno, il più piccolo, orbitando intorno a quest’ultima4.

La coerenza del sistema antico doveva scendere a patti con la presenza di un giorno diverso dagli altri, quello che per gli ebrei corrisponde alla cessazione (shabbat), che i cristiani dedicano al Signore (Dominica [dies]) e che gli islamici chiamano “Giorno dell’assemblea” (yawm al-jum). La scel-ta cadde rispettivamente sui giorni di Saturno, del Sole e di Venere. Dagli astri agli dèi il passo è breve, ma quando entrano in gioco la religione e la mitologia le cose si complicano perché i caratteri si affinano, le storie si intrecciano, le versioni contrastano e i legami s’incrinano. Un caso interes-sante viene dal Nord Europa, un’area in cui gli dèi locali hanno soppiantato quelli mediterranei anche nella denominazione dei giorni, pur senza alte-rare le corrispondenze con gli astri. Anche nei paesi dalle ombre lunghe, infatti, il lunedì è il giorno della Luna (moon + day per l’inglese Monday, Mond + Tag per il tedesco Montag) e il martedì quello di Marte (oggi Mars in entrambe le lingue, ma Tìwaz in lingua norrena, da cui rispettivamente Tuesday e Dienstag)5. Il sistema incomincia però a scricchiolare se si conside-ra il giorno che i Greci collegavano a Hermes e i Romani al suo equivalente Mercurio. A nord delle Alpi, infatti, gli orientamenti divergono. Gli inglesi lo collegano alla corrispondente divinità locale (Óðinn in lingua norrena, Wōden in antico inglese, da cui il moderno Wednesday), una divinità che i tedeschi onorano tacendone il nome, da cui pure non sarebbe stato difficile ricavare un *Wodentag. Niente da fare, la principale divinità nordica ha un carattere difficile – mercuriale, per l’appunto – meglio lasciarla tranquilla:

ecco quindi che per indicare il giorno al centro della settimana i tedeschi sal-dano Mitte (metà) a Woche (settimana) forgiando il più neutro Mittwoch6. Superato questo scoglio, il discorso torna a filare liscio: gli astri e gli dèi a cui le lingue nordiche associano i giorni da giovedì a domenica corrispon-dono a quelli delle antiche culture mediterranee: Zeus-Giove, Afrodite-Ve-nere, Crono-Saturno ed Elio-Sole. Resta però il fatto che nella sua versione tedesca la settimana mostra un componente eterodosso, un giorno il cui nome non ha rapporti con quello di un astro o con quello di un dio: Mitt-woch. Dunque, nella settimana dei tedeschi i nomi dei giorni sono 6 + 1.

Anzi, scorrendo la serie da lunedì a domenica,  + 1 + 4: una stringa che sarebbe stata simmetrica ( + 1 + ) se essi avessero conservato come i cugini d’oltremanica l’uso d’inaugurare la settimana col giorno del Sole; ovvero con quello in cui Dio cominciò a creare, ovvero con quello che faceva sì che Mittwoch si trovasse in der Mitte der Woche.

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Parlando di antica Grecia vien bene affrontare adesso un caso dalle oggettive implicazioni musicali. Secondo il mito le mura di Tebe furono costruite grazie all’arte dei suoni; o meglio, grazie alla bravura di Anfione, abile nel ricavare dalla lira sonorità affascinanti al punto da riuscire a smuo-vere le pietre, oltre che a commuosmuo-vere gli animi. Animate dai suoni della lira, le pietre si disposero ordinatamente intorno alla città, assicurandole la protezione che le mancava. Questa è la parte edificante, in tutti i sensi, del racconto. Poi c’è però il risvolto tragico. Anfione aveva un gemello, Zeto, con cui condivideva il potere sulla polis, la quale in origine non si chiamava Tebe ma Cadmea in onore del suo fondatore, Cadmo. Il nome di Tebe, coincidente con quello della moglie di Zeto, fu attribuito alla città proprio in seguito alla costruzione delle mura, impresa che aveva ampliato l’area urbana rispetto a quella originaria, sviluppatasi intorno alla rocca Cadmea.

Zeto e Anfione governavano la città dopo averla strappata allo zio Lico, che la reggeva durante l’infanzia di Laio dopo la morte del padre Labdaco.

A differenza di Anfione, che aveva studiato musica presso i Lidi dopo aver ricevuto una lira in dono da Apollo come ricompensa per avergli innalzato un altare, Zeto si era dedicato alle arti della guerra e al mestiere dell’alleva-tore. Non è difficile immaginare con quale perplessità i fratelli giudicassero l’uno le scelte dell’altro, e in particolare quale fosse il giudizio di Zeto sui trastulli di Anfione; il quale, tuttavia, dimostrandosi capace di costruire le mura della città facendo muovere le pietre al suono della lira, era riuscito a convincere il gemello dell’utilità dei propri studi. Poi le cose si complicaro-no a causa dei figli; quelli di Zeto complicaro-non amavacomplicaro-no i cugini cosicché, in vista della successione, pensarono bene di sterminarli. Non è chiaro se Anfione sia morto di dolore o ucciso anch’egli da un nipote, finito a sua volta am-mazzato; né se Zeto sia morto in modo analogo o ucciso per errore dalla moglie. Sta di fatto che fecero entrambi una brutta fine.

Nel quadro di un discorso incentrato sui numeri, e in special modo sul numero 7, la storia di Tebe è interessante nel segmento successivo. Per eter-nare il ricordo della propria impresa Anfione aveva disposto che nelle mura fossero aperte tante porte quante erano le corde del suo strumento; sette, ovvero le quattro di cui la lira era dotata al momento del dono da parte di Apollo più le tre che le aveva aggiunto lui durante i suoi anni di studio in Lidia. Molto tempo dopo, quando Anfione e Zeto erano ormai scomparsi e la città era passata prima sotto il comando di Laio e poi sotto quello di Edipo, a Tebe s’instaurò nuovamente una diarchia: governatori erano di-ventati Eteocle e Polinice, due dei figli di Edipo, i quali si erano accordati per regnare un anno a testa. Alla scadenza del suo mandato però Eteocle

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non ne volle sapere di cedere il potere a Polinice, divenuto nel frattempo genero di Adrasto, re di Argo. La situazione si fece tesa al punto che Polini-ce rePolini-cepì l’esortazione del suoPolini-cero, il quale lo aveva indotto a presentarsi in armi alle porte di Tebe. Radunati un po’ di uomini, mosse alla volta della città ordinando ai più valorosi di presidiarne gli accessi.

L’episodio costituisce la materia di una delle più celebri tragedie gre-che, Sette contro Tebe. Annunciato l’argomento nel prologo e illustrata la situazione nel primo episodio, nel secondo Eschilo passa in rassegna gli eroi destinati a fronteggiarsi, descrivendo una dopo l’altra le coppie antagoniste formate dagli uomini agli ordini di Eteocle e da quelli agli ordini di Poli-nice. Fra questi si contano Tideo e Anfiarao, due guerrieri oggi famosi per il fatto di essere effigiati, a quanto pare, nei Bronzi di Riace7. Nel secondo episodio Eschilo descrive sei delle sette coppie. L’ultima, quella destinata a scontrarsi alla settima porta, non la descrive in dettaglio perché i conten-denti sono notissimi, essendo i governatori della città. All’inizio del terzo episodio un corriere informa il corifeo dell’esito fausto degli scontri alle altre sei (porte di Preto, Elettra, Nuova, Atena Onca, Nord e Omoloide), esito che assicura alla città la salvezza dagli invasori; ma – e qui sta il proble-ma – il settimo scontro ha provocato la morte sia di Eteocle sia di Polinice, circostanza che oltre al vuoto di potere genera il problema delle sepolture, e con esso il dramma di Antigone.

Ecco che ancora una volta il numero 7, quello che eterna la fama dei Sette contro Tebe, si rivela un composto di 6 + 1: sei guerrieri più il loro capo, un uomo costretto a rivendicare con la forza quello che gli sarebbe spettato di diritto. All’interno dello stesso insieme esiste anche un’altra possibilità di distinguervi un elemento discordante: più sottile, essa concerne Anfia-rao, l’unico a prevedere che l’impresa sarebbe fallita e che tutti gli assalitori sarebbero morti. Sette eroi, uno solo in grado di presagire la disfatta: ancora una volta 7, ma in realtà 6 + 1.

Il terzo caso di eterodossia si riscontra in un insieme non meno famoso, quello delle sette Meraviglie del mondo antico. La Piramide di Cheope, i Giardini pensili di Babilonia, il Tempio di Artemide a Efeso, la Statua di Zeus a Olimpia, il Mausoleo di Alicarnasso, il Colosso di Rodi e il Faro di Alessandria si trovano tutti all’interno dei territori conquistati da Ales-sandro Magno: due in Grecia, due in Egitto, due in Asia Minore e uno in Mesopotamia. Ultimo a essere costruito, fra il  e il 0 a.C., il Colosso di Rodi – un’enorme statua bronzea dedicata a Helios, il dio del Sole – fu anche il primo a essere distrutto, nel 6 a.C. Le sette Meraviglie furono dunque sette solo per circa due terzi di secolo, dopodiché continuarono

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a esistere nei racconti orali, nelle narrazioni scritte e nelle testimonianze iconografiche. Osservato dalle rive dell’attualità, anche questo insieme evi-denzia un componente eterodosso: la Piramide di Cheope, Meraviglia che si distingue dalle altre per il fatto di essere l’unica a offrirsi ancora oggi allo sguardo umano con la sua muta, severa imponenza. Ancora una volta, 7 = 6 + 1.

Altri scenari.

I tre casi illustrati sin qui mostrano come in un insieme di sette unità il com-ponente atipico possa essere l’ultimo, quello in cui culmina un processo lineare come la Creazione, o uno che occupa una posizione interna; come il Mittwoch tedesco. La simmetria di tale disposizione corrisponde a quella della menorah, la lampada in uso presso gli ebrei sulla cui fisionomia con-vergono varie ipotesi, una delle quali individua nel braccio centrale il giorno del riposo e nei sei ai suoi lati quelli dedicati all’attività. Anche quella sim-metrica è però una disposizione particolare. La collocazione dell’elemento eterodosso in un punto imprecisato dilata invece a dismisura il numero de-gli insiemi rubricabili. Un esempio valido per chiudere la rassegna è quello delle Pleiadi, creature figlie di Atlante e di Pleione identificate fin dall’an-tichità con un ammasso di stelle che secondo Ovidio «si dice siano sette, e sogliono invece essere sei». In questo caso l’eterodossia discende dal grado di luminescenza, fenomeno verificabile osservando la parte di cielo in cui le stelle si dispongono nei pressi della costellazione del Toro. Osservate a occhio nudo le Pleiadi mostrano gradi di luminosità molto diversi, tanto da apparire sovente una di meno rispetto alle sette che compongono l’am-masso. Sull’identità della Pleiade incline a scomparire si riversa la forza del mito, narrazione secondo cui essa potrebbe essere una fra Asterope, Elettra e Merope, con quest’ultima in lieve vantaggio per il fatto di aver sposato un mortale, scelta che la farebbe sentire indegna di mostrarsi in cielo accanto alle sorelle. Dunque, anche qui 7 = 6 + 1.

È però giunto il momento di affrontare la questione dal punto di vista della settima arte. Nel Novecento questo appellativo è stato attribuito al Cinema, ma tenendo ferma la classificazione invalsa nel Medioevo il riferi-mento è alla Musica, arte che procura alle sorelle del Quadrivio un ampio affaccio sulle arti del Trivio. Fra i suoi tratti peculiari la Musica annovera un’associazione pressoché automatica col numero sette, tanto da essersi

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guadagnata – per lo più in Occidente nonché ad opera di chi la conosce poco – l’appellativo di “arte delle sette note”. Sette note, si badi, non sette suoni; perché se anziché di note si parla di suoni il discorso cambia. È in-tuitivo come i suoni siano più di sette: basta che un dito sfiori una serie di corde e che una voce intoni un canto ed ecco che i suoni diventano otto, dieci, quindici o chissà quanti. Ma anche senza porre mente a uno stru-mento desueto come la lira, basta considerare la tastiera del pianoforte: fra tasti bianchi e tasti neri se ne contano quasi novanta. E non è detto che non possano essere di più: il pianoforte moderno è l’erede di uno strumento che al tempo di Mozart aveva una ventina di tasti in meno; non è perciò da escludere che in futuro esso possa contarne anche qualcuno in più, ma il di-scorso non cambierebbe. L’importante è distinguere la nozione di nota da quella di suono, così come quella di pausa da quella di silenzio; una risorsa, quest’ultima, dalle grandi potenzialità musicali.

magie Diverse volte sette

L’idea di narrare in musica la storia della Creazione non poteva che venire a due uomini formatisi nel clima dell’Illuminismo. Infatti, la stesura del te-sto verbale e la composizione della musica della Creazione (Die Schöpfung, 17) si debbono a un diplomatico olandese di stanza a Vienna, Gottfried van Swieten, e a un maestro che a Vienna era giunto bambino dal contado, Joseph Haydn; nati agli inizi degli anni Trenta, s’erano affacciati entrambi sulla scena culturale mentre a Parigi uscivano i volumi dell’Encyclopédie.

Combinando il racconto della Genesi coi versetti di un paio di salmi e qual-che passo del Paradiso perduto, il bibliofilo Swieten produsse, lavorando su un vecchio canovaccio inglese, un testo diviso in tre parti, l’ultima più breve delle precedenti; un po’ come nell’opera, in cui il picco drammatico giungeva al termine del secondo atto e lo scioglimento del nodo – il dénoue-ment, nella lingua di Diderot e d’Alembert – segue rapido nel terzo. Il ge-nere in cui la vicenda della Creazione, affascinante ma scevra di elementi drammatici, avrebbe potuto essere narrata in musica non era però l’opera;

Swieten e Haydn puntarono infatti sull’oratorio, genere storicamente nato per presentare in musica le più edificanti storie bibliche in tempo di Qua-resima, quando i teatri d’opera restavano chiusi.

Dal momento che il giorno in cui Dio smise di creare non offriva ele-menti granché interessanti, Swieten e Haydn decisero di chiudere la

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da parte dell’oratorio con la contemplazione del creato, per poi dedicare la terza ai primi passi di Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre. Niente di inte-ressante in confronto allo sfarzo di “Vollendet ist das große Werk”, il coro che celebra il compimento della grand’opera, o all’immaginifica rappre-sentazione del caos primigenio. Die Vorstellung des Chaos, proprio questo è il titolo del pezzo, rigorosamente strumentale, con cui Haydn inaugura la Creazione. Ancora una volta il modello è quello del teatro musicale in cui un pezzo strumentale, la sinfonia d’opera (o, nella lingua degli enciclopedi-sti, l’ouverture), funge da richiamo per il pubblico e da introduzione per la vicenda. Haydn si trova qui dinanzi al compito non facile di premettere un pezzo di musica all’inizio della Genesi: facendo leva su un magistero affina-to in centinaia di lavori strumentali, Haydn compie l’operazione opposta rispetto a quella che compirà Wag ner. Laddove a metà Ottocento Wag ner farà cominciare la storia del mondo da un suono unico, a fine Settecento Haydn rappresenta il caos come un denso banco di nebbia da cui poco alla volta la mente (la sua, facente le veci di quella dell’autore del Libro) distilla suoni di purezza consona all’intonazione di una frase come «Im Anfange schuf Gott Himmel und Erde» (“All’inizio Dio creò il cielo e la terra”)10.

Oltre due secoli prima che a Vienna Swieten e Haydn inaugurassero il cantiere della Creazione, Palladio aveva progettato a Vicenza un edificio che non avrebbe purtroppo fatto in tempo ad ammirare. Completato dal

Oltre due secoli prima che a Vienna Swieten e Haydn inaugurassero il cantiere della Creazione, Palladio aveva progettato a Vicenza un edificio che non avrebbe purtroppo fatto in tempo ad ammirare. Completato dal

Nel documento biblioteca di testi e studi / 1461 musica (pagine 47-57)