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L’arte di azzerare i pregiudizi

Nel documento biblioteca di testi e studi / 1461 musica (pagine 161-200)

1.1 Sotto sotto

Attingendo da una cantata composta a inizio Settecento, nella sua ultima sinfonia Brahms volle testimoniare la propria devozione verso la civiltà musicale di cui si sentiva erede, quella che partendo da Bach era giunta a lui attraverso Beet hoven e Schumann. L’idea che tre “B” potessero com-pendiare in una triade la quintessenza della musica d’arte era stata mes-sa in circolazione da Peter Cornelius, un compositore dedito come altri all’attività critica, qualche mese dopo che il giovane Brahms aveva ricevuto da Schumann l’investitura formale ad artista del futuro1. Sulle colonne di un periodico berlinese nel gennaio del 154 Cornelius si era diffuso in un elogio non di Brahms ma di Berlioz, un compositore di trent’anni più an-ziano il cui talento drammatico s’era sviluppato a contatto con la musica di Beet hoven e col teatro di Shakespeare. Nella formula “B-B-B!” la presenza di Berlioz al fianco di Beet hoven si spiega con l’entusiasmo provato dal gio-vane transalpino per le sinfonie ascoltate a Parigi alla fine degli anni Venti.

La presenza di Bach si comprende invece alla luce di un passaggio indiret-to, il ritorno d’interesse per la sua figura – a lungo dimenticata – a partire dalla stessa epoca. Innescata dalla prima esecuzione moderna della Passione secondo Matteo, avvenuta a Berlino in occasione di quello che allora si rite-neva il centesimo anniversario del suo debutto (1), la Bach-Renaissance aveva raggiunto un traguardo importante nel centenario della scomparsa del compositore (150), anno della messa in cantiere a Lipsia della prima edizione completa delle sue opere.

A fondamento della triade di Cornelius stavano in sostanza due idee.

La prima era che a un quarto di secolo abbondante dalla scomparsa (17) l’Ottocento aveva finalmente trovato il successore di Beet hoven; sul fatto che esso fosse Berlioz – un musicista che suonava a stento la chitarra – si

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può eccepire, ma questa era l’opinione che circolava in Europa sin dagli anni Trenta, auspice un personaggio influente come Paganini. Molto più importante, la seconda idea era che la musica del presente non poteva più prescindere dalla lezione del passato; detta così può sembrare una banalità, ma basta guardare alla produzione musicale del Settecento per constatare come, al di fuori dell’ambito sacro, la lezione degli antichi fosse pressoché inavvertibile. Complice un altro paio di scadenze centenarie, dopo quella delle opere di Bach (150) sarebbero state varate le edizioni delle opere di Mozart (156) e di Händel (15), contribuendo così a creare il clima cultu-rale di cui Brahms divenne protagonista oltre che testimone, prova ne siano l’apporto scientifico e il sostegno economico dato alla pubblicazione delle opere complete di Scarlatti, Schubert e Schumann.

Sebbene la Germania sia stata più benevola della Francia nei confronti di un genio atipico come Berlioz, un ex studente di medicina imbevuto di cultura letteraria al punto da indurlo a inaugurare il proprio catalogo con otto Scene dal Faust (Huit Scènes de Faust, op. 1, 1-), è comprensibile come in un clima di nazionalismo montante la messa di un francese sulla scia di Bach e di Beet hoven destasse qualche perplessità. Ecco allora che all’indomani del varo lungamente atteso della sua Prima Sinfonia (176) un direttore famoso, Hans von Bülow, salutò in Brahms la terza “B” della storia musicale tedesca. Berlioz era scomparso nel 16, e nel 171 la vittoria nella guerra franco-prussiana aveva impresso una spinta decisiva alle riven-dicazioni di carattere nazionalistico. Dunque, la sostituzione di Berlioz con un artista frattanto assurto agli onori della fama come Brahms fu avvertita come una scelta strategicamente opportuna.

In realtà l’idea sottesa alla dichiarazione di Bülow, che la Prima Sinfo-nia di Brahms fosse da considerare la “Decima di Beet hoven”, non è che al suo autore piacesse granché. Certo nel lavoro di Brahms l’ossequio a Beet-hoven era palese ma s’inscriveva in un atto d’omaggio all’intera civiltà mu-sicale germanica, identificabile con una tradizione che dal canto di chiesa luterano giunge sino al Lied romantico. Formatosi in un clima di profonda riflessione sulle radici della cultura nazionale, Brahms si sentiva erede non tanto di Beet hoven quanto di una concezione sacrale dell’arte giunta a lui attraverso tutta la prima generazione romantica. Erano piuttosto le perso-ne intorno a lui a volerlo collocare perso-nella triade che, perso-nelle parole di Bülow, equiparava Bach al Padre, Beet hoven al Figlio e Brahms allo Spirito San-to4; una collocazione che oltre a essere sacrilega andava pure a detrimento del talento dei singoli, tre artisti colossali i cui profili finivano per essere appiattiti su quello di campioni rispettivamente della musica sacra, della

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musica sinfonica e della musica da camera. Come se le quattro sinfonie di Brahms fossero un mero tentativo di emulare le nove di Beet hoven e come se le sue opere corali su testi di Hölderlin, Goethe e Schiller non fossero mai state composte; come se i quartetti per archi o la Missa solemnis fos-sero escrescenze trascurabili nel catalogo di Beet hoven; come se i Concerti brandeburghesi e il Clavicembalo ben temperato fossero materiali di risulta nel catalogo di Bach. Ancora una volta, le formule mostrano la consistenza della neve di aprile: appena sfiorate da un raggio di sole perdono consisten-za perché la realtà, fatta com’è di relazioni, è molto più complessa di quanto la fanno apparire gli slogan.

Tornando al tema con cui s’inaugura il Finale della Quarta Sinfonia, occorre far presente come Brahms ne abbia modificato la funzione oltre che in parte la fisionomia. Laddove nel coro della cantata quella melodia svolgeva la funzione di basso, nel Finale della sinfonia essa diviene vettore tematico del discorso. Investita di tale compito, la melodia richiede un fon-damento, una linea di pensiero che ne sorregga l’armonizzazione. Facendo leva sulle regole auree dell’arte compositiva, Brahms sottopone al suo tema ascendente una linea di basso orientata in senso opposto: cinque note che scendono descrivendo intervalli di ampiezza compresa fra la terza minore e la quinta giusta (do4-la-mi-do-fa) seguite da tre note incaricate di re-alizzare la cadenza.

Malgrado la sua trasformazione da sostegno armonico a elemento melo-dico, nel Finale sinfonico la linea di basso attinta dalla cantata mantiene inalterata la propria chiusa, una cadenza tramite cui raggiunge il mi5. Do-vendo armonizzare una melodia che dichiara in modo palmare la propria appartenenza alla tonalità di Mi minore, concependo una nuova linea di basso Brahms avrebbe potuto adottare una formula standard. Invece no, come nel caso della melodia “sporcata” mediante l’introduzione di una nota estranea al suo modo (il la5), Brahms interviene anche sulla linea inferiore.

Dopo aver raggiunto il fa nella quinta battuta, nella sesta essa risale al sol. A quel punto mancano due sole note alla conclusione. L’ultima sa-rà necessariamente un mi, dovendo la cadenza mettere un punto fermo a un tema enunciato nella tonalità di Mi minore. Complice il si4 del tema,

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la penultima nota del basso dovrebbe essere un fa, ma Brahms intende conferire alla sua chiusa un tono assertorio. Ecco allora che nella penulti-ma battuta compare un bequadro (  ): in base all’armatura quel fa dovrebbe essere diesis, ma Brahms vuole che esso sia naturale, che risuoni mezzo tono più in basso, in modo tale da ridurre l’ampiezza dell’intervallo che lo separa dal mi. Dimezzando tale intervallo Brahms revoca per un attimo l’armonia di Mi minore sostituendola con quella del tetracordo diatonico; quella che nella terminologia grecizzante dell’età dell’Umanesimo si chiamava “armo-nia frigia”, eletta secoli dopo a proprio tratto distintivo dalla civiltà musicale flamenca.

Al di là delle etichette e delle connotazioni acquisite nel tempo, a Brahms quell’intervallo serve per aumentare l’espressività di una cadenza a cui intende far giungere il proprio tema con sforzo. Alla compressione e alla successiva liberazione dell’energia temporaneamente repressa Brahms provvede mediante due alterazioni: il la5 che spunta come uno sperone roccioso sul percorso ascendente della melodia e il fa che, dimezzando l’ampiezza dell’intervallo fra secondo e primo grado, rende perentorio l’ap-prodo del basso alla nota conclusiva. Nello spazio che si apre fra la melodia e il suo basso Brahms inserisce poi le altre note di questo attacco memorabile:

otto colpi di maglio incaricati di scolpire il carattere di una pagina il cui aspetto severo cela un forziere zeppo di pietre preziose.

1.

Una gemma

Oltre all’autore di questo libro, il 16 ha visto affacciarsi sulla scena mon-diale una creatura fantastica: la Pantera Rosa. La fortuna di questo perso-naggio disegna una parabola singolare, quella di un elemento accessorio che finisce per eclissare il soggetto da cui trae origine. Il protagonista della serie inaugurata dal film di Blake Edwards (The Pink Panther, 16) non è il felino metafisico dei cartoni animati ma la sua ombra; per la precisione una macchia a forma di pantera che s’intravede dentro un grosso diamante di colore rosa, una pietra dal valore inestimabile sulle cui tracce si mette, dopo il suo furto ai danni di una principessa persiana (Claudia Cardinale), l’ispettore Clouseau (Peter Sellers). Il contrasto fra la durezza della pietra e la flessuosità dell’animale di cui essa custodisce l’immagine è di per sé un’idea geniale; un’idea ulteriormente geniale fu quella di animare tale sa-goma facendone la protagonista dei titoli di testa del film: ne venne fuori

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un piccolo capolavoro a cui il disegnatore Friz Freleng e il produttore David DePatie diedero seguito negli anni successivi, sfornando una serie di carto-ni acarto-nimati dalla raffinatezza non inferiore alla comicità.

Alla fortuna del personaggio della Pantera Rosa contribuì da par suo la musica che ne accompagnò a lungo le avventure. L’invenzione del cosid-detto Pink Panther Theme si deve a un figlio di emigranti italiani, Henry Mancini, un musicista capace di concentrare in poche note tutti i tratti, op-portunamente antropizzati, di un animale intelligente, agile e soprattutto imprevedibile. Del Pink Panther Theme colpisce in primo luogo l’aspetto ritmico; intessuto sulla cellula-base dello swing ( 𝅘𝅥𝅮  𝅘𝅥𝅯), esso ritrae con effi-cacia la natura molleggiata del felino. Proprio il carattere imprevedibile del personaggio è però responsabile delle frequenti deroghe al ritmo di base, revocato mediante l’inversione delle sue figure ( 𝅘𝅥𝅯  𝅘𝅥𝅮 ) o mediante l’intro-duzione di figurazioni sovrabbondanti.

Sotto l’aspetto melodico il Pink Panther Theme è intessuto sulle note della triade di Mi minore (mi-sol-si), sempre precedute da una nota collo-cata appena sotto o appena sopra, al fine di evocare gli appoggi felpati delle zampe (ricorderete: ta-rà; ta-rà; ta-rà, ta-rà, ta-rà, ta-rà, ta-raaa...). Per sug-gerire l’imprevedibilità del suo comportamento, fra gli ingredienti del tema della Pantera Rosa non poteva mancare la risorsa resa immortale dall’attac-co icastidall’attac-co di Così parlò Zarathustra: il semitono che fa fare “ta-taaan” alla melodia di Strauss, e “ta-raaa...” a quella di Mancini.

Sotto l’aspetto armonico, infine, Mancini compie la scelta più trasgres-siva. Oltre a farsi beffe della “terza corda” di Zarlino, ovvero a far risuona-re vuoti gli intervalli di quinta sottoposti alla melodia, l’autorisuona-re del Pink Panther Theme fa quello che alla Juilliard School i suoi maestri gli avevano insegnato a evitare con cura: muovere in parallelo due parti a distanza di quinta. Detta così sembra una cosa incomprensibile, ma basta mettere una mano sul pianoforte e suonare in successione gli intervalli do-sol, re-la, mi-si e poi tornare indietro: mi-mi-si, re-la, do-sol. Si avvertirà una sensazione doppiamente strana: da un lato si avvertirà il vuoto causato dall’assenza della nota centrale, quella che determina l’appartenenza di un accordo al modo maggiore o al modo minore; dall’altro si avvertirà la durezza di un pensiero musicale le cui linee non convergono e non divergono mai.

Si osservi per converso l’esempio del Finale di Brahms: la melodia e il suo basso divergono a lungo per poi convergere sulla nota conclusiva. Volendo suggerire l’estraneità della Pantera Rosa al mondo reale (qualcuno ha mai visto una pantera di colore rosa andare in giro in posizione eretta?) Mancini elimina dalla sua musica i tratti fondamentali dell’armonia moderna: prive

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della nota centrale, le coppie di note che sostengono il suo tema si muovono in parallelo; non solo, si muovono in parallelo facendo su e giù per la scala cromatica, perché salgono e scendono muovendosi lungo i semitoni di una terza minore con la rigidità di un quad sulla superficie di Marte.

Il contrasto fra la flessuosità del tema e la rigidità dell’accompagnamen-to è alla base della fortuna di quesdell’accompagnamen-to pezzo geniale; un pezzo che se giudi-cato con le categorie della musica d’arte occidentale colleziona segnacci a lapis blu, ma intanto assicura da oltre mezzo secolo una gloria universale a quell’invenzione mirabile che è la Pantera Rosa.

1.

Contrafactum iii

Chissà se, dopo aver scritto «Leider nicht von mir!» (“Purtroppo non mio!”) sotto il tema del Bel Danubio blu, Brahms avrebbe fatto la stessa co-sa sotto quello della Pantera Roco-sa5. Se l’occhio gli fosse caduto sulle quinte parallele del basso Brahms se ne sarebbe certamente astenuto, ma se – co-me nel caso del valzer di Strauss – l’osservazione si fosse limitata alla linea melodica l’ipotesi non sarebbe da scartare. Anche a lui, negli ultimi anni, piaceva giocare col ritmo, mascherare il profilo della melodia, sfumare i contorni dell’armonia. Se una malattia non lo avesse rapito al mondo poco oltre i sessant’anni forse Brahms sarebbe arrivato a percepire la forza dello swing; invece non giunse nemmeno a cogliere i vagiti del rag-time, i quali giunsero a sfiorare appena Dvořák, rientrato nel 15 a Praga dal suo sog-giorno americano. La curiosità per la musica “altra” non era mai mancata a Brahms, soprattutto per quella che risuonava nei quartieri popolari di Vienna, alla cui elaborazione si era dedicato qualche volta come i suoi amici Joachim e appunto Dvořák.

Il tasso di alterità del Pink Panther Theme rispetto ai canoni della mu-sica d’arte di tradizione occidentale è molto elevato; volendosi procurare un’incisione del pezzo di Mancini, in un negozio di dischi reale o virtuale vien da cercarla nello scaffale del jazz piuttosto che in quello della “musica classica”. Però sugli scaffali della “classica” si trova tanta musica che rispetto ai canoni della musica d’arte di tradizione occidentale suona molto più

“altra” di quanto suoni il Pink Panther Theme. Avete letto bene, c’è scritto

“suona”, non “è”. Seguendone la vicenda storica si appura infatti come quella musica che suona così altra rispetto alle sinfonie di Brahms o ai valzer di Strauss sia stata composta in larga parte a Vienna proprio al tempo in cui

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oltreoceano impazzava lo swing. Il suo padre spirituale si chiamava Arnold Schönberg, un maestro formatosi negli anni Novanta dell’Ottocento nella stessa città in cui Brahms e Strauss componevano i loro ultimi capolavori.

Intitolato Notte trasfigurata (Verklärte Nacht), il primo lavoro impor-tante di Schönberg arrivò troppo tardi perché Brahms e Strauss lo potessero ascoltare, ma rappresenta il congedo di un’intera generazione dalla lezione dei grandi maestri dell’Ottocento. Si tratta di un lungo pezzo strutturato come una variazione continua di un’unica idea melodica, un frammento di scala discendente che ritorna in modo incessante erodendosi poco alla vol-ta6. L’erosione a cui le gerarchie distintive del linguaggio musicale andarono incontro nel primo quarto del nuovo secolo fecero sì che poco alla volta si diffondesse una mentalità (Schönberg parla proprio di habitus mentale, non di tecnica) che, sintetizzata nel terzo e ultimo Contrafactum di questo libro, suona

I- ma- gine there’s a sys- tem / in which the sounds are twelve

G G G G B B A / G G G G B B A

Ovvero: si immagini un ambiente in cui nessun suono esercita alcuna forma d’attrazione su qualunque altro. Nessun riferimento agli otto modi antichi o ai due moderni, con le loro funzioni, le loro fisionomie, i loro caratteri.

Nulla. Un ambiente in cui a forza di incrociare, sovrapporre, ibridare, me-scidare melodie e accordi ogni rapporto d’attrazione svapora perché ogni suono può essere indifferentemente chiamato in causa da un altro. Un am-biente in cui non c’è più bisogno di armare il pentagramma e di segnalare le alterazioni riguardanti le note del modo prescelto. Nulla. Tutto spazzato via da «un metodo per comporre mediante dodici suoni che», afferma Schönberg, «non stanno in relazione che fra loro»7. Dodici suoni dispo-sti come le stelle sulla bandiera dell’Unione Europea: a intervalli regolari lungo una circonferenza, luogo geometrico dei punti equidistanti da un centro; un centro che, per definizione essendo un punto, ha una natura fisicamente ineffabile.

Perché dodici suoni, e soprattutto quali? È presto detto: i dodici suoni che in un’ottava del pianoforte, do4-do5 o qualunque altra, corrispondono ai sette tasti bianchi e ai cinque tasti neri. Suoni, non note, si badi bene:

quei dodici suoni lì, indipendentemente da come li si chiami: do o re nel caso del tasto nero fra do e re, ma anche si nel caso del tasto bianco che di norma si chiama do o do in quello del tasto bianco che di norma si chiama si. Certo, per identificare e soprattutto indicare in forma scritta i

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suoni di cui intende far uso l’artista deve continuare a chiamarli in qualche modo. Ma chi compone può liberamente scegliere quale suono far entra-re in rapporto con gli altri undici. Per l’arte compositiva una novità del genere spalancava spazi di libertà inediti; ma per il pubblico prevedere e comprendere i rapporti immaginati dagli artisti divenne sempre più dif-ficile. All’ampliamento dell’orizzonte poetico di chi creava corrispose un offuscamento dell’orizzonte estetico di chi ascoltava. Oggi, a distanza di quasi un secolo da quella svolta, per il grande pubblico il problema risulta in larga parte irrisolto. La dodecafonia continua a far paura, più di una pantera che s’aggiri libera in città.

in me Infelici di stare lassù

Con l’intento di ribadire l’inesistenza di qualunque gerarchia fra i suoni, gli alfieri della nuova musica (Schönberg e i suoi allievi, Alban Berg e An-ton von Webern) s’ingegnarono di concepire delle serie tali per cui nessun suono poteva essere ripetuto prima che tutti i suoi compagni fossero stati adoperati. Non è difficile rendersi conto della distanza di una mentalità del genere da una in base a cui la musica si fa con sette suoni dalle funzioni pre-cise, la cui importanza è dichiarata da aggettivi quali tonica e dominante.

Nel caso di Imagine si nota come il sol4 su cui risuonano le parole “Ima-gine there’s” sia la nota largamente dominante nella melodia, e come nella parte pianistica il do funga da fondamento armonico dell’intera canzone.

Nell’ordine che vige nelle scale su cui si basa la gran parte della musica fiorita in Occidente dai tempi di Zarlino a oggi il suono che sta sul primo grad(in)o (nel caso di Imagine e di qualunque pezzo in Do maggiore, il do) svolge la funzione di nota tonica, mentre quello che sta sul quinto grad(in)o (il sol) svolge quella di nota dominante. Le denominazioni sottolineano l’importanza di due gradi che in precedenza, all’epoca degli otto modi, por-tavano rispettivamente i nomi latini di finalis e di repercussio: nota finale, che concludeva la melodia certificandone l’appartenenza a un modo dotato di un determinato carattere (ethos), e nota ripercossa, intonata più sovente delle altre a motivo della sua rilevanza all’interno del modo. Ecco, la Neue Musik, la nuova musica fiorita nel cuore della civiltà musicale basatasi per oltre un millennio su questi concetti, faceva tabula rasa di tutto ciò: abolita

Nell’ordine che vige nelle scale su cui si basa la gran parte della musica fiorita in Occidente dai tempi di Zarlino a oggi il suono che sta sul primo grad(in)o (nel caso di Imagine e di qualunque pezzo in Do maggiore, il do) svolge la funzione di nota tonica, mentre quello che sta sul quinto grad(in)o (il sol) svolge quella di nota dominante. Le denominazioni sottolineano l’importanza di due gradi che in precedenza, all’epoca degli otto modi, por-tavano rispettivamente i nomi latini di finalis e di repercussio: nota finale, che concludeva la melodia certificandone l’appartenenza a un modo dotato di un determinato carattere (ethos), e nota ripercossa, intonata più sovente delle altre a motivo della sua rilevanza all’interno del modo. Ecco, la Neue Musik, la nuova musica fiorita nel cuore della civiltà musicale basatasi per oltre un millennio su questi concetti, faceva tabula rasa di tutto ciò: abolita

Nel documento biblioteca di testi e studi / 1461 musica (pagine 161-200)