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L’arte di far musica con sei note

Nel documento biblioteca di testi e studi / 1461 musica (pagine 93-105)

L’arte di far musica con sei note

7.1 Contrafactum ii

“Imagine there’s no seventh, / nothing above A...”. Intonati sulla melodia di Imagine, questi versi apocrifi producono un nuovo Contrafactum dopo quello che, nel capitolo introduttivo, esortava a immaginarsi nelle vesti di pianista. Nel caso di “Imagine you are a player / whose fingers strike some keys” si trattava di un invito facilmente decifrabile; adesso, dopo sei capitoli di alfabetizzazione intensiva, siamo in grado di trastullarci anche con un messaggio un po’ più criptico. Decrittiamolo subito: “Immagina che non ci sia una settima (nota), / nulla al disopra del la”, dunque che la filastrocca reciti soltanto do-re-mi-fa-sol-la. Dando a Lennon ciò che è di Lennon si può constatare che «it’s easy, if you try»; il disagio che si prova recitando la filastrocca in versione monca è però analogo a quello che si prova dinanzi a una parola come “imagin”. Se limitarsi a scriverla non è difficile (io l’ho fatto a p. 10), è difficilissimo tenere a freno l’istinto di aggiungervi la e che trasforma la tozza “imagin” nella sognante Imagine.

Sulla scorta di questo esempio bizzarro, nelle pagine che seguono oc-corre tenere a freno l’istinto di aggiungere il si alla filastrocca, proiettandosi idealmente in un contesto in cui la musica era l’arte non delle sette ma delle sei note. Si tratta di uno sforzo notevole ma non superiore a quello sostenu-to da adolescenti al momensostenu-to di inoltrarsi nella selva dei numeri negativi.

Lì per lì sembrava di entrare in una dimensione altra, salvo poi rendersi conto di quanto i numeri negativi intridessero già la nostra quotidianità;

almeno da quando avevamo cominciato a sbirciare il termometro prima di uscire di casa nelle mattine d’inverno per correre in quell’aula in cui ci veniva incontro la storia delle civiltà antiche. A proposito di civiltà antiche, una ricostruzione del processo attraverso cui il sistema delle sette note s’è venuto configurando dovrebbe partire quanto meno dai Greci. Non

essen-4

do però questo un manuale di teoria ma un semplice invito alla riflessione sul panorama sonoro del nostro tempo, limiteremo la trattazione a qualche cenno, rimandando il lettore desideroso di approfondimenti alla ricchissi-ma bibliografia sull’argomento.

Osserviamo la tastiera nel punto in cui si trovano mi4 e fa4, le note su cui Brel intona le parole «ne me quitte pas». Si tratta di due note che il pianoforte emette nel momento in cui le mani agiscono su una determinata coppia di tasti bianchi contigui. Posizioniamo il pollice sinistro sul mi4 e quello destro sul fa4, e produciamo i suoni corrispondenti. Agendo con gli indici facciamo la stessa cosa su re4 e sol4, e poi coi medi su do4 e la4. Ognuna delle nostre mani agisce con le stesse tre dita su tre tasti contigui separati ognuno da un tasto nero: la sinistra suona mi4-re4-do4 e la destra fa4-sol4-la4. Dunque ai lati del semitono mi-fa si dispongono due coppie di toni:

do4 re4 mi4 fa4 sol4 la4

Attenzione adesso. Se, tenendo le mani nella stessa posizione, agiamo sui tasti sotto gli anulari, produciamo un si con la sinistra e un si4 con la destra.

C’è però una differenza: mentre fra la4 e si4 c’è un tasto nero, fra do4 e si

non c’è nulla. Dunque mentre fra la4 e si4 c’è un tono intero, fra do4 e si ce n’è solo mezzo. Fine della simmetria (osservando la disposizione di archi e cuspidi nello schema qui sotto la situazione risulta chiara).

 

si do4 re4 mi4 fa4 sol4 la4 si4

Ora, la simmetria è una gran bella cosa, ma non è un valore in sé. Esistono oggetti asimmetrici bellissimi (una Ferrari gran turismo ha il volante di la-to come la più brutta delle utilitarie) e oggetti simmetrici bruttissimi (un casermone di periferia può essere un cubo perfetto, ma il colonnato di San Pietro, il Duomo di Milano e il Ponte di Rialto sono bellissimi, oltre che simmetrici). Ritraiamo temporaneamente gli anulari e limitiamoci a consi-derare le note da do a la, prescindendo temporaneamente dalla loro posizio-ne sulla tastiera, ovvero omettendo l’indicazioposizio-ne numerica in pedice. Nel Medioevo il semitono mi-fa era l’intervallo intorno a cui gravitava l’intero universo sonoro, tanto che nella notazione del tempo la riga su cui esso interveniva aveva un colore diverso rispetto a quello delle altre1. Per capire il perché di tanta importanza occorre andare con la mente in direzioni op-poste, rispettivamente verso la Grecia antica e verso l’Andalusia moderna.

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Cominciamo con l’Andalusia moderna. Domanda: cos’è che ci dice che quello in cui ci imbattiamo grufolando fra i video circolanti in rete è un pezzo di flamenco? Gli afrori del tablao, la gonna a balze della danzatrice, il rumore sordo dei tacchi, quello asciutto delle nacchere, quello caldo delle palme, il suono avvolgente della chitarra, certo; ma l’elemento decisivo è il sistema su cui si fondano melodia e armonia, caratterizzate da cadenze che debbono la loro perentorietà alla forza di un semitono discendente.

Tutta la musica flamenca fa leva su un modello tale per cui le sue frasi si concludono con una discesa di semitono. La dimensione minima di questo intervallo conferisce alla conclusione un’inesorabilità che nacchere, tacchi, voce e palme non fanno altro che enfatizzare. Si pensi, per fare un esempio contrario, a quanto è spaziosa la cadenza che chiude il primo salmo del Vespro di Monteverdi: intessuta su un intervallo di quarta, essa insiste su un’ampiezza quintupla rispetto a quella della cadenza flamenca. Partendo dalla stessa nota, poniamo fa, la cadenza flamenca scende di mezzo tono (fa-mi) mentre quella di Monteverdi, detta plagale, scende di due toni e mezzo (fa-do): sulla prima echeggia ruvido un “olé!”, sulla seconda risuona morbido un “Amen”. Voilà la différence.

Il modello su cui si basa la civiltà musicale flamenca è riconducibile a un modello che proviene non solo da un passato lontano, ma anche dal capo opposto del Mediterraneo. I suoni che corrispondono alla sequenza discen-dente conclusa dal semitono fa-mi sono quelli che costituivano uno dei tre modelli in uso nell’antica Grecia. Trattandosi di modelli di quattro suoni, essi prendevano il nome di tetracordi ed erano orientati in senso discen-dente. All’interno del tetracordo, in uno spazio corrispondente a quello di un intervallo di quarta, i Greci disponevano quattro suoni, due esterni in posizione fissa e due interni in posizione mobile, dando così luogo a tre intervalli. Il primo dei tre modelli, i cui suoni corrispondevano a quelli che per noi sono la-sol-fa-mi, prendeva il nome di tetracordo diatonico.

Gli altri, chiamati rispettivamente tetracordo cromatico e tetracordo enar-monico, comprendevano intervalli rimasti ai margini della teoria musicale dell’Occidente moderno. Il primo tetracordo incontrò invece una fortuna tale da diventare in seguito il fondamento di uno dei modi adottati dai primi cristiani per l’intonazione dei loro canti.

Orientati in senso ascendente, i modi melodici medievali avevano per base le quattro note simmetricamente disposte intorno al semitono mi-fa.

I loro nomi corrispondevano ad altrettanti ordinali: protus (primo modo, di re), deuterus (secondo, di mi), tritus (terzo, di fa), tetrardus (quarto, di sol). Il primo, il terzo e il quarto cominciavano con un tono (re-mi; fa-sol;

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sol-la); il secondo con un semitono (mi-fa). Là dove il canto effettuava una cadenza, tre modi offrivano un intervallo di tono (protus, mi-re; tritus, sol-fa; tetrardus, la-sol) mentre uno – il deuterus – ne offriva uno di semitono (fa-mi). Proprio quest’ultima fu la cadenza adottata a fine Settecento dal-la nascente civiltà musicale fdal-lamenca; dal-la quale, ibridando dal-la cultura deldal-la Grecia antica ereditata dagli Arabi con quella dell’Occidente medievale irradiatasi dalla Francia, sviluppò il proprio modello sulla base del tetracor-do diatonico e del deuterus. La motivazione della scelta rimonta con ogni probabilità al carattere – l’ethos, dicevano i Greci – di questo modello, così diverso dagli altri e dunque adatto per esaltare gli oggetti e i temi fonda-mentali della cultura flamenca: il sole, la terra, il sangue, ovvero l’amore, la morte, la passione.

A proposito di amore7.

«El trigo entre todas las flores / ha elegido a la amapola / y yo elijo a mi Dolores, / Doló, Dolores, Lolita, Lola»: “come fra tutti i fiori il frumento ha scelto il papavero, così [fra tutte le donne] io [il gitano] scelgo Dolores, [alias] Doló, Dolores, Lolita, Lola”. Nulla meglio del testo di El porompom-pero sintetizza la costellazione di temi, colori e valori propri della cultura fla-menca: l’amore, il dolore che esso procura, il giallo del frumento irraggiato dal sole, il rosso che assimila il papavero al sangue4. Nel ritornello, basato su una formula onomatopeica, El porompompero presenta una melodia che di-scende un passo alla volta lungo il tetracordo diatonico (la-sol; sol-fa; fa-mi):

Po- rom- pom, po, mi4 do5 si4 la4

po- rom- pom, po- rom- pom pe- rom, pe- rom, la4 la4 la4 la4 si4 la4 la4 sol4 la4 sol4

po- rom- pom, po- rom- pom pe- rom, pe- rom, sol4 sol4 sol4 sol4 la4 sol4 sol4 fa4 sol4 fa4

po- rom- pom, po- rom- pom, po___

fa4 fa4 fa4 fa4 sol4 fa4 mi4

Trattandosi di una melodia facilissima, oltre che celeberrima, chiunque può provare a cantarla, possibilmente facendo attenzione agli intervalli su

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do grigio. Risulterà chiaro come, intonando su fa-mi le sillabe finali “pom, po___”, le labbra tendano ad aprirsi un po’ meno rispetto a quando intona-no le sillabe “pe-rom”, rispettivamente su la-sol e sol-fa. Mentre la-sol e sol-fa sono intervalli di tono, fa-mi è un intervallo di semitono: naturale che per intonare un intervallo meno ampio le labbra si schiudano un po’ meno.

Dunque, considerato in senso discendente al modo degli antichi Greci e dei gitani moderni, il tetracordo-base della musica flamenca allinea un tono, un tono e un semitono:

la sol fa mi

In termini retorici l’efficacia del tetracordo diatonico prescinde da qua-lunque limite geografico, prova ne sia il fatto che di esso si serve anche Brel, quando conclude la seconda parte della sua canzone ripetendo quattro volte «ne me quitte pas». È chiaro che, al di là delle peculiarità linguistiche e musicali, il modello retorico alla base dei refrain di Ne me quitte pas e del Porompompero è il medesimo, sintetizzabile nello schema A-A′-A′′: un’enunciazione, una sua variante e poi un’altra dal carattere risolutivo.

Come detto sopra, i Greci suddividevano l’intervallo di quarta anche in maniera diversa, sfruttando due intervalli – il tono e mezzo e il quarto di tono – che l’Occidente ha poco alla volta sospinto ai margini della propria cultura. Elemento inaugurale del tetracordo cromatico, il tono e mezzo è seguito da due semitoni:

 

la ? fa mi

L’allargamento di mezzo tono rispetto all’intervallo iniziale del tetracordo diatonico fa sì che il primo intervallo del tetracordo cromatico si estenda dal la a un suono collocato a metà strada tra sol e fa, producibile sul pia-noforte agendo sul tasto nero che si trova fra i due bianchi. Proviamo a schiacciare quel tasto. Non è la prima volta che schiacciamo un tasto nero ma è la prima volta che lo facciamo chiedendoci come si chiamerà il suono da esso prodotto. Proviamo ad abbassare quel tasto: il pianoforte emette un suono normalissimo, nulla che giustifichi un’opposizione cromatica così netta come quella fra bianco e nero. Qual è il problema? Il problema è che a quel suono non corrisponde alcuno dei sette nomi nella filastrocca no-strana né alcuna delle sette lettere della sequenza d’oltremanica. Che fare?

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Per adesso accontentiamoci del punto interrogativo che ci abbiamo messo, poi si vedrà.

Il terzo tetracordo greco, quello enarmonico, suddivide i due toni e mezzo dell’intervallo di quarta in modo ancor meno paritario. Allargando a due toni la dimensione del primo componente, esso obbliga gli altri due a spartirsi il mezzo tono residuo:

la ? ? mi 

Se nel caso del tetracordo cromatico il problema era dare un nome al tasto nero tra sol e fa, in quello del tetracordo enarmonico il problema è trovare un tasto che stia un quarto di tono sopra il mi5. La risposta è semplice: quel tasto non c’è. Il problema – ormai è chiaro – non sta nei suoni ma nelle note, e soprattutto nel pianoforte. Non sarà un caso che nell’antica Grecia il pianoforte non esistesse. Rovesciando la prospettiva, la centralità di questo strumento nella cultura musicale dell’Occidente moderno ha determinato il confinamento del quarto di tono fra gli arnesi di un repertorio – il blues – che ha messo radici nel Nuovo mondo grazie all’influsso di culture rimaste sostanzialmente estranee alle vicende storiche dell’Occidente nonché igna-re dell’esistenza del pianoforte.

Un esempio di strana e affascinante convivenza fra i due linguaggi viene dal secondo dei tre pezzi in cui si articola una sonata composta negli anni Venti da Ravel6. Significativamente, esso reca il titolo di Blues. Al suo interno il pianoforte appare rigido come uno stoccafisso e il violino flessuoso come un capitone. “Nostalgico”, scrive Ravel quando il violino comincia a muove-re sinuosamente la propria linea, dopo aver esordito con una sventagliata di accordi tale da farlo somigliare a un banjo. Il ricorso a questo aggettivo così estraneo alla poetica fredda e tendenzialmente oggettiva di Ravel è conse-guenza dell’impossibilità di prescrivere, coi mezzi della notazione occiden-tale, l’esecuzione dei quarti di tono. Suggerendo al violinista di dar voce a un sentimento di nostalgia, Ravel lo invita in realtà a indulgere ove possibile alla “stonatura”, ossia a dar vita a quei suoni calanti facilmente producibili sugli strumenti ad arco e impossibili da produrre sul pianoforte; quei suoni che il violinista può cavare dal suo strumento premendo un po’ più in alto sulle corde rispetto al punto in cui esse emettono i suoni corrispondenti a quelli del pianoforte. Tutto il Blues di Ravel vive sul confronto fra questi due strumenti, i quali in molti altri casi – uno per tutti: la sonata di Beet hoven detta La primavera, op. 4 (10) – tubano come due innamorati7.

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Amore e morte7.

Ereditate dal Medioevo cristiano e da quello islamico due culture musicali ricche e multiformi, quella flamenca ha adottato vari modelli riconducibili alla loro ibridazione. Il secondo, dopo quello appena visto, si può intendere come una variante del tetracordo cromatico. Gli intervalli sono gli stessi, ma cambia la loro disposizione: laddove per scendere da un estremo all’al-tro i Greci allineavano un tono e mezzo con due semitoni, i gitani collocano i semitoni ai lati e il tono e mezzo al centro:

 

la ? fa mi

Proviamo a suonare questo tetracordo. Il punto interrogativo corrisponde al tasto nero che separa la e sol. L’effetto ci parrà sorprendente per un verso e familiare per un altro. Nella nostra mente vedremo comporsi immagini di palmizi lussureggianti, nuvole d’incenso e serpenti incantati. Alle no-stre orecchie questo tetracordo suona infallibilmente “orientale”; il fatto che esso permei il linguaggio musicale flamenco ci aiuta a ricordare che, benché stanziati all’estremo lembo dell’Europa occidentale, i gitani pro-vengono dal cuore dell’Asia. Oltre a conservare il semitono finale (fa-mi), questo tetracordo colloca l’altro (la-?) all’estremo opposto; grazie alla sua simmetria, esso costituisce un mezzo ideale per evocare musicalmente la simmetria della coppia amore-morte, impersonata nella mitologia classica dalle figure di Eros e Thanatos.

Fra le innumerevoli elaborazioni a cui il binomio è andato soggetto se ne può citare una capace di trasformare un wag neriano fervente in un acceso sostenitore della solarità mediterranea. Entrato una sera in un po-liteama di Genova, Nietzsche ne uscì sconvolto: aveva assistito a una rap-presentazione di Carmen (175), un’opera che comincia con un’ouverture rutilante e finisce con un femminicidio perpetrato a coltellate. Mentre don José infierisce sul corpo dell’indomabile sigaraia, in orchestra risuona un motivo fatalistico che, subentrato ai colori sgargianti della prima parte dell’ouverture, aveva lasciato presagire che in scena si sarebbe consumata una tragedia. La sostanza di quel motivo è, manco a dirlo, il tetracordo flamenco. Iterato dieci volte a partire da altrettante altezze diverse a pochi istanti dal lever de rideau, esso risuona fortissimo tre ore più tardi, nella scena finale ambientata davanti alla plaza de toros di Siviglia. Mentre fra le

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urla degli spettatori l’ultimo dei sei novillos morde la polvere dell’anfiteatro, davanti al suo ingresso la gitana si accascia col ventre squarciato dall’uomo sconvolto più di tutti dal suo fascino.

imagin Note di san Giovanni

Nelle tre suddivisioni del tetracordo i Greci combinavano in vari modi cin-que intervalli, equiparabili in ordine crescente al quarto di tono, al semito-no, al tosemito-no, al tono e mezzo e al doppio tono. Impostosi in Occidente tra fine Cinquecento e inizio Seicento, il sistema rispecchiato dal pianoforte adopera solo due di questi intervalli, il tono e il semitono:

 

do re mi fa sol la si do

Fra l’antichità classica e l’era moderna si frappone però quella manciata di secoli che gli inglesi chiamano, non senza ragione, Middle Ages: età di mezzo, come Medioevo, ma al plurale. In effetti, anche volendo ridurne al minimo la durata collocandone l’inizio al 476 e la fine al 14, l’arco di tempo identificabile con l’età di mezzo ha un’ampiezza superiore al millen-nio, dunque ben venga una sua suddivisione ulteriore. Al centro di questo arco si colloca in Occidente la redazione dei primi documenti dedicati all’e-sposizione di alcuni principi di teoria musicale. Dialogando con la prassi esecutiva del tempo, le prime opere teoretiche consentono di farsi un’idea delle tendenze diffuse in Europa intorno all’anno Mille.

Collegata alla parola, la pratica vocale aveva per obiettivo un’enunciazio-ne spontaun’enunciazio-nea e retoricamente efficace del testo. La ricerca del difficile equili-bro fra natura e artificio è all’origine dei diversi tentativi di codificazione del linguaggio. Partendo dall’ampiezza media dell’ambito in cui una voce può muoversi senza forzare, all’incirca un intervallo di decima, i ragionamenti si sono incentrati sulle modalità della sua suddivisione. Messo al centro dell’u-niverso sonoro l’intervallo minimo, il semitono, intorno a esso si dispongono alcuni toni. Letto in ordine ascendente e con l’ausilio dei nomi poi assunti dalle note, il tetracordo diatonico greco costituisce il modello di base:



mi fa sol la

E F G a

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Dato che la voce umana riesce a valicare senza difficoltà ambedue i suoi estremi, il punto è stabilire l’entità dei passi da compiere nelle opposte di-rezioni. Volendosi astenere dall’introdurre novità eclatanti, la cosa migliore è riproporre il modello di base. Cominciando dal registro grave, l’affian-camento di un tetracordo dalla struttura analoga a quella del tetracordo precedente produce questa situazione:

 

si do re mi fa sol la

B C D E F G a

La stessa operazione si può compiere anche nel registro acuto. E qui viene il bello: vi faremo cenno adesso, ma ne parleremo più diffusamente nel ca-pitolo seguente:

 

mi fa sol la ? do re

E F G a ? c d

Domanda: a quale nota corrisponde il suono che si trova un semitono sopra il la? La risposta per adesso non l’abbiamo, perché osservando la tastiera vediamo che mezzo tono più in alto del la c’è un tasto nero. Però la nostra voce non ha alcuna difficoltà a intonare quel suono, dunque esso non solo esiste, ma esisteva anche quando il pianoforte non c’era. Per ora fermiamo-ci qui, distogliendo temporaneamente l’attenzione dal nome delle note e focalizzandola sulle distanze che intercorrono fra i suoni ovvero sulle lo-ro posizioni, indicate dalle lettere maiuscole e minuscole; come quando

Domanda: a quale nota corrisponde il suono che si trova un semitono sopra il la? La risposta per adesso non l’abbiamo, perché osservando la tastiera vediamo che mezzo tono più in alto del la c’è un tasto nero. Però la nostra voce non ha alcuna difficoltà a intonare quel suono, dunque esso non solo esiste, ma esisteva anche quando il pianoforte non c’era. Per ora fermiamo-ci qui, distogliendo temporaneamente l’attenzione dal nome delle note e focalizzandola sulle distanze che intercorrono fra i suoni ovvero sulle lo-ro posizioni, indicate dalle lettere maiuscole e minuscole; come quando

Nel documento biblioteca di testi e studi / 1461 musica (pagine 93-105)