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L’arte di forgiare utensili

Nel documento biblioteca di testi e studi / 1461 musica (pagine 133-147)

10.1

Per una sillaba in più

Benché avesse compiuto da poco vent’anni, quando bussò a casa Schu-mann Brahms era già un pianista coi fiocchi, degno di prodursi al cospetto di due funamboli della tastiera come Robert e Clara. Nell’ampio novero delle opere da lui distrutte o mai portate a termine si conta anche una sonata per due pianoforti le cui origini risalgono con ogni probabilità al tempo del suo soggiorno a Düsseldorf. Il giovane Johannes ci lavorò nei mesi centrali del 154 contemplando la prospettiva d’imbastirci sopra una sinfonia; poi tornò sui propri passi e imboccò la strada che di lì a qualche tempo lo condusse al varo del suo primo concerto per pianoforte1. Di que-sto progetto aveva fatto parte per qualche tempo un pezzo la cui struttura metrica era analoga a quella del pannello conclusivo del Carnaval. Come la marcia di Schumann, quella che Brahms meditava d’inserire nel suo concerto avrebbe assunto un profilo incompatibile con la fisiologia del corpo umano. Essa avrebbe rappresentato piuttosto un atto d’adesione ideale alla Lega dei fratelli di Davide da parte di un giovane destinato a serbare per una vita, al netto di qualche deroga felice, una concezione sacrale dell’arte.

Espunta dal progetto del concerto, una dozzina d’anni più tardi la mar-cia di metro ternario trovò spazio nel suo capolavoro sacro, Un requiem tedesco. Concepito come un grande affresco per soli, coro e orchestra, Ein deutsches Requiem riunisce in sette pezzi una serie di testi liberamente trat-ti dalle Scritture. Nel secondo di essi, inaugurato dall’intonazione di un versetto tratto dalla prima Lettera di Pietro («Denn alles Fleisch es ist wie Gras»), Brahms recupera il materiale della marcia e vi deposita sopra una melodia vocale che ne mette a nudo la struttura, basata sull’alternanza fra una semiminima in levare e una minima in battere ( 𝅘𝅥  | 𝅗𝅥 ):

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accenti ˘ ˉ ˘ ˉ ˘ ˉ ˘ ˉ

testo Denn al- les Fleisch es ist wie Gras

figure 𝅘𝅥 𝅗𝅥 𝅘𝅥 𝅗𝅥 𝅘𝅥 𝅗𝅥 𝅘𝅥 𝅗𝅥

battute 0 1 4

tempi iii i ii iii i ii iii i ii iii i ii

(timpani) ××× × × ××× × × ××× × × ××× ×

Nella traduzione di Lutero le parole di Pietro recitano «Denn alles Fleisch ist wie Gras», letteralmente “Poiché ogni carne è come erba”. Come già per Mozart, per Brahms il testo presentava un problema. All’alternanza fra una nota breve e una nota lunga doveva corrispondere un’alternanza fra un ac-cento forte e un acac-cento debole. Purtroppo nella sua traduzione Lutero non solo aveva prodotto una frase di sette sillabe, numero notoriamente indivi-sibile, ma aveva anche lasciato uno a fianco all’altro il soggetto (“Fleisch”) e il predicato (“ist”). In tale versione la frase indirizzata da Pietro ai fedeli d’Oriente contrastava con la struttura della marcia ideata da Brahms. Se lavorando alle Nozze di Figaro Mozart non aveva avuto esitazioni, pur di ricavare la sillaba che gli serviva, nel trasformare il monosillabo “sei” nel bisillabo “se-i”, intonando un versetto delle Scritture Brahms dovette nu-trire qualche remora in più, anche perché i dittonghi convertibili in iati purtroppo latitavano. Una cosa era Beaumarchais versificato da Da Ponte, un’altra l’apostolo Pietro tradotto da Lutero; con la differenza non trascu-rabile che col suo librettista Mozart poteva discutere giocando a biliardo, mentre Brahms doveva fare i conti con diciotto secoli di ritardo sull’autore del testo e con tre sul suo traduttore.

La scelta non dovette essere facile, ma alla fine il musicista di professio-ne prevalse in Brahms sul biblista per diporto. Tra “Fleisch” e “ist” il com-positore inserì un pronome, “es”, che con la leggerezza del binomio formato da una vocale e da una sibilante mise a posto ogni cosa. «Denn alles Fleisch es ist wie Gras», “Poiché ogni carne essa è come erba”: senza musica la frase è ridondante, ma una volta calata dentro il ritmo asimmetrico della melo-dia brahmsiana ( 𝅘𝅥 | 𝅗𝅥 ) acquista una fisionomia regolare4; il tutto mentre gli strumenti eseguono la marcia estromessa a suo tempo dal concerto, salvan-do così una pagina che avrebbe rischiato di finire nel camino5.

Alla marcia subentra poi uno squarcio di musica paradisiaca costruita su un passo di una lettera di un altro apostolo, Giacomo, il quale esorta i fra-telli a esercitare la virtù della pazienza6. Per intonare questo passo Brahms conserva il metro ternario, ma anziché scandirlo alternando una nota lunga a una nota breve lo vivifica facendo roteare una dopo l’altra, in modo un po’

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più mosso (Etwas bewegter), le tre semiminime ( 𝅘𝅥 𝅘𝅥 𝅘𝅥 ). Poi, dopo aver ripre-so il monito di Pietro sulle note della marcia, il compositore cambia registro e incarica il coro di ricordare come, a differenza della vita umana, la parola del Signore duri in eterno: «Aber des Herrn Wort bleibet in Ewigkeit»7.

Compiuta questa svolta, con un gesto imperioso Brahms abbandona il metro ternario e conclude il suo pezzo con una pagina dal vigore analogo a quello infuso da Isaia nel suo libro: ritmo binario, stile imitativo, costru-zione a grandi blocchi e sonorità costantemente nella sfera del fortissimo conferiscono alla musica una veste consona all’intonazione di una profezia da cui emana una forza straordinaria. Il motivo del recupero della grande marcia in metro ternario si comprende a posteriori: col suo incedere fatico-so, di tipo processionale, essa fornisce a Brahms un materiale prezioso per preparare l’irruzione della sezione finale in metro binario, una tempesta sonora che avanza sospinta dalla forza esaltante della visione del trionfo di Gerusalemme.

10.

Pause

A seconda della lingua a cui lo si attribuisce, il sostantivo che dà il titolo al presente paragrafo può essere plurale, come in italiano, o singolare, come in inglese, in francese e in tedesco. Nei cataloghi di Schubert e di Schu-mann lo si ritrova come titolo per due pezzi inseriti in altrettante opere di cui abbiamo già avuto modo di parlare, il ciclo liederistico Die schöne Müllerin e la raccolta pianistica Carnaval. Curiosamente, esse condividono l’articolazione interna in venti numeri, ma fra i Lieder di Schubert Pause occupa il dodicesimo posto mentre fra i valzer di Schumann Pause occupa il penultimo. Nel primo caso il titolo dipende dal fatto che il testo riferisce un momento di sospensione nell’attività del mugnaio-poeta; il quale, sopraf-fatto dal sentimento amoroso al punto di non riuscire a esprimerlo, dopo aver gridato in Mein! che la mugnaia è sua ha ravvolto il proprio liuto in una fascia verde e lo ha appeso alla parete. Nel secondo caso il titolo allude invece a un momento di sosta prima dell’avvio della Marcia finale. Alla Pause non corrisponde una reale sospensione dell’attività ma il recupero di un’idea affacciatasi nel Préambule, il pezzo introduttivo della raccolta.

Lo sguardo retrospettivo e il conseguente repêchage hanno la funzione di arrestare la corsa verso la fine del Carnaval aumentando così la sorpresa dell’irruzione della marcia del Davidsbündler10.

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All’idea di pausa corrisponde però di norma il silenzio, ingrediente del pensiero musicale che condivide col suono la qualità della durata. Anche le pause, nello schema illustrato dal maestro dal dolcevita nero, sono normate da un sistema binario:

Pause Valori Nomi

1/1 semibreve

𝄽 1/41/ minimasemiminima

𝄾 1/ croma

𝄿 1/16 semicroma

𝅀 1/ biscroma

𝅁 1/64 semibiscroma

Sotto l’aspetto grafico l’analogia più evidente è quella con gli uncini, sosti-tuiti da riccioli che spuntano come germogli sul lato sinistro di una sbar-retta un po’ inclinata verso destra. Risalendo verso i valori più grandi, la pausa più curiosa è quella di semiminima, simile a un elemento decorativo.

Accomunate in quanto figure dalle teste bianche, minima e semibreve con-dividono in quanto pause la fisionomia di rettangolino nero. L’elemento che le differenzia è la posizione: nel caso della minima esso sta appoggia-to sulla terza riga del pentagramma, in quello della semibreve – o meglio, dell’intero – sta appeso sotto la quarta.

Il pentagramma. In senso proprio esso è il segno cabalistico che, trac-ciato sulla soglia dello studio di Faust, impedisce a Mefistofele di accomia-tarsi dopo avergli reso visita. Segno di origine orientale già adottato dai pitagorici, esso consta di cinque linee disposte in modo tale da formare una stella; una stella caricatasi, prima e dopo la stesura della tragedia da parte di Goethe, di una simbologia sterminata e ambivalente. A Mefistofele es-so appare come un Drudenfuß, un piede di strega1. Sovrapposte in senso orizzontale, le righe del pentagramma fanno in molti l’effetto procurato a Mefistofele dalle righe disposte a stella. Il pentagramma musicale fa paura;

non tanto di per sé (un foglio pentagrammato somiglia a un campo arato visto da un drone), quanto per le foreste a cui danno vita i segni che vi si depositano sopra. In realtà una volta superato il primo smarrimento le cose si semplificano, ma procediamo con ordine.

Il pentagramma è una delle forme che può assumere il rigo musicale.

Un rigo può constare di un numero variabile di righe; l’oscillazione a cui va soggetto il numero delle righe dipende dalla necessità di chi scrive, ovvero dalla natura del pensiero musicale destinato a esservi ospitato. In qualche

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caso bastano quattro righe, in qualche caso cinque sono poche; c’è stata un’epoca in cui se ne adoperava una sola, e una anteriore in cui le righe non c’erano proprio. Dipende. Non potendo raccontare qui la storia della notazione, faremo solo un tentativo per capire i presupposti di quella attua-le, quella dinanzi a cui si trova chiunque posi lo sguardo sullo spartito di Imagine, del Carnaval o di una qualunque delle opere musicali consegnate alla carta negli ultimi otto secoli.

Sul pentagramma le note si scrivono da sinistra a destra come le lettere nelle lingue occidentali. La necessità di disporre non di una ma di cinque righe non dipende solo dal desiderio di non andare storto, ma anche da quello di visualizzare le altezze dei suoni. La differenza fra testo musicale e testo verbale sta proprio in questo: composto da parole non intonate, il testo verbale può essere scritto su una riga sola, anche senza l’ausilio di una linea di riferimento; composto da suoni, per definizione intonati, il testo musicale deve invece rendere visivamente conto della diversità delle altezze.

Per fare ciò esso ha bisogno di un rigo formato da più righe, oggi di norma cinque, da cui il grecismo elegante ma equivoco di “pentagramma”. In altre lingue il rischio di confusione col segno che atterrisce Mefistofele è scon-giurato grazie all’uso di termini neutri quali Notensystem, -linie, -zeile (te-desco per sistema, linea, riga per le note), staff o stave (inglese per sostegno), portée o portada (francese e spagnolo per un termine di significato analogo).

Da noi si usa di preferenza pentagramma, perché il maschile di “riga” suona un po’ goffo; ma appena ci si imbatte in un tetragramma, come in un libro di canti liturgici, cominciano i problemi.

Ai segni musicali il pentagramma offre nove posizioni, cinque sulle righe e quattro sugli spazi fra una riga e l’altra. Nella parte bassa si dispon-gono le note che corrispondono ai suoni gravi e nella parte alta quelle che corrispondono ai suoni acuti; anche in questo senso la scrittura musicale tradisce la propria origine da un’esigenza pratica, quella di associare grave a basso e acuto ad alto. Facciamo adesso come il maestro dal dolcevita nero, prendiamo una matita e tracciamo un bell’ovale – ovvero una semibreve – sul terzo spazio (gli spazi, come le righe, si contano bottom-up, dal basso ver-so l’alto). Terminata questa operazione avremo collocato sul pentagramma un segno che esprime una sola delle quattro qualità del suono, la durata. Al-la semibreve corrisponde un valore lungo suddivisibile in un certo numero di valori più brevi. Il segno che abbiamo tracciato non ci dice nulla, però, in merito alle altre qualità del suono. Per attribuirgliene due su tre è sufficiente ricorrere alle lettere dell’alfabeto. Per indicare un’intensità forte o piano, in corrispondenza della nostra nota scriviamo una f o una p. Se dell’esecuzione

1

di questa nota vogliamo incaricare un determinato strumento, facendo sì che essa risuoni con un determinato timbro, scriviamo il nome di tale stru-mento a sinistra del pentagramma: violino, flauto, voce, quel che vogliamo.

A questo punto abbiamo definito tre variabili su quattro; resta da capire come fare per stabilire l’altezza. A quel suono potrebbe corrispondere una qualunque delle sette note; per stabilire quale, quindi, occorre dotarsi di un utensile ulteriore, cosa che faremo dopo una breve pausa.

10.

Chiave di volta

La breve pausa s’impone al fine di rispondere a una domanda verosimil-mente affacciatasi nella verosimil-mente di chi legge. Come fanno nove posizioni in tutto a ospitare le note corrispondenti non dico a tutti i tasti del pianoforte, ma anche solo all’estensione di una voce umana? La risposta è plurima, ov-vero corrisponde alle diverse soluzioni esperite nel tempo per far fronte al problema. Tanto per cominciare, si deve tener presente che un rigo formato da cinque righe è un buon compromesso fra l’esigenza di differenziare le al-tezze e quella di non perdersi in un ambiente troppo ampio. Per individuare la seconda riga o il terzo spazio dentro un pentagramma è sufficiente un col-po d’occhio; per individuare la settima riga o il nono spazio in un icol-potetico dodecagramma si fa invece una gran fatica. La soluzione di compromesso per notare le altezze eccedenti è l’aggiunta, là dove servono, di brevi fram-menti di riga al di sopra o al di sotto del pentagramma. Anche così, tuttavia, il rischio di perdersi non è scongiurato: finché si tratta di scrivere le note corrispondenti ai suoni che può emettere una voce umana, con un po’ di sforzo ci si può arrangiare; ma con quelle acute di un violino o quelle gravi di un bassotuba le probabilità di riuscirci diminuiscono di molto. E comun-que, anche così il problema di capire a quale suono corrisponda esattamente la nota collocata al disopra, al centro o al disotto del pentagramma rimane.

Torniamo al segno da noi tracciato in emulazione del maestro dal dol-cevita nero. Esso può indicare l’altezza di una qualunque delle sette note.

L’unico modo per stabilire quale è forgiare tanti utensili quante sono le note, in modo che a seconda di quello che si adopera il segno prescelto possa indicare una determinata altezza. Questi utensili si chiamano “chiavi”.

Ognuna di esse definisce la posizione di una determinata nota su una de-terminata riga. Una di queste chiavi, posizionata sulla seconda riga, indica la posizione del sol4; due, collocate sulla quarta e sulla terza, indicano la

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posizione del fa; quattro, posizionate sulle righe che vanno dalla quarta alla prima, indicano la posizione del do4.

Le sette chiavi consentono di attribuire un nome ogni volta diverso alla semibreve che, emulando il maestro dal dolcevita nero, abbiamo tracciato sul terzo spazio: do5 in chiave di sol; sol e mi nelle due chiavi di fa; la4, fa4, re4, si nelle quattro di do. In base all’adozione di una delle sette chiavi la semibreve sul terzo spazio assume il nome di una e una sola delle sette note.

do5 re4 mi fa4 sol la4 si

Attribuita mediante una chiave un’altezza determinata alla semibreve sul terzo spazio, le posizioni delle altre note si ricavano di conseguenza. Un po’

come quando su un edificio s’individua dalla strada un piano di cui si cono-sce il numero: per esempio, complice il tricolore che sventola dal pennone, il consolato italiano al trentatreesimo piano di un grattacielo; l’ufficio di nostro cugino, l’addetto dell’ufficio passaporti che ha promesso di salutar-ci dal suo uffisalutar-cio al trentaquattresimo, s’identifica alzando un pochino lo sguardo; quello del nostro amico che lavora nella redazione del giornale che ha sede al trentaduesimo, abbassandolo.

Grazie al sistema delle sette chiavi le nove posizioni del pentagramma diventano molte di più, consentendo di individuare le altezze delle note che formano le tre ottave centrali. Sulla prima riga di un pentagramma dotato della più grave tra le chiavi di fa – detta “di basso” – si trova il sol; sulla quinta di un pentagramma dotato della chiave di sol – detta “di violino” – si trova il fa5; dunque, facendo uso delle chiavi estreme è possibile scrivere gran parte delle note producibili dalla più grave e dalla più acuta delle voci umane, nonché da buona parte di quelle che può emettere la maggioranza degli strumenti.

Non è così difficile imparare a leggere le note scritte su un pentagram-ma. Si tratta di farci un po’ l’occhio: ma appena ci si abitua, leggere la mu-sica diventa come leggere questo libro. Compiamo l’esperimento con la chiave di sol, altrimenti detta “di violino”, tradizionalmente adoperata per scrivere le melodie delle canzoni. Imagine, per esempio.

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enigma Elementi di sistema

Nel concepire la melodia di Imagine – canzone del cui spartito è bene poter disporre durante la lettura di questo paragrafo – Lennon si limitò da prin-cipio ad assecondare la prosodia dei versi, prescrivendo alla voce di elevarsi un minimo solo sulle sillabe degne di una certa enfasi. In questo seguì l’e-sempio del cantus planus, tendente a valorizzare l’intima musicalità della parola. Sulle prime quattro sillabe del testo di Imagine Lennon itera sempre la stessa nota, sol4, salendo al si4 per l’intonazione di “no heav-“ e scendendo al la4 per quella di “-en”; quel sol4, si scoprirà, prevale di gran lunga nei versi iniziali, tutti intonati in base alla stessa idea. Da quel sol4, equiparabile alla corda di recita della cantillazione, l’antica modalità d’intonazione dei testi sacri, la voce si allontanerà solo al momento di spiccare il volo sulle parole

“Imagine all the people living for today, a-ha”.

Imagine costituisce un ottimo viatico per fissare nella memoria la po-sizione del sol4 in chiave di violino. Esso si trova sulla seconda riga, quella da cui si diparte il ricciolo della chiave omonima; quello è il punto di riferimento per le altezze di tutte le altre note: il si4 di “no heav-“ sta sulla riga appena sopra; e il la4 di “-en” sta nello spazio che separa la riga del sol4

da quella del si4. Adattando per quattro volte la stessa idea di fondo alla prosodia dei versi, Lennon ci aiuta a memorizzare la posizione di queste tre note.

Al momento d’invitare l’ascoltatore a compiere uno sforzo più grande di quello necessario per immaginare l’assenza del paradiso, quella dell’in-ferno nonché l’esclusiva presenza del cielo azzurro, Lennon abbandona la corda di recita ed eleva la curva del proprio canto. Per immaginare l’uma-nità semplicemente intenta a vivere il presente (“Imagine all the people living for today”) occorre in effetti uno sforzo non comune; ed ecco allora che anziché ripeterle sulla corda di recita, le tre sillabe del verbo “Imagine”, Lennon le intona prescrivendo alla voce un movimento pendolare fra gli estremi dell’intervallo la4-do5. Dopodiché riporta la voce sul do5 per into-nare “all” e di lì le fa spiccare un altro balzo verso l’alto, verso il mi5 di “the people”. Su quest’ultima parola (una parola sulla cui intonazione sghemba – “pi-pò-o-òl” – sarà il caso di ritornare) la voce effettua una discesa repen-tina, scivolando sul re5 per poi attestarsi sul la4. L’indugio non può essere lungo poiché l’ascoltatore attende ancora di capire cosa Lennon ritiene che

Al momento d’invitare l’ascoltatore a compiere uno sforzo più grande di quello necessario per immaginare l’assenza del paradiso, quella dell’in-ferno nonché l’esclusiva presenza del cielo azzurro, Lennon abbandona la corda di recita ed eleva la curva del proprio canto. Per immaginare l’uma-nità semplicemente intenta a vivere il presente (“Imagine all the people living for today”) occorre in effetti uno sforzo non comune; ed ecco allora che anziché ripeterle sulla corda di recita, le tre sillabe del verbo “Imagine”, Lennon le intona prescrivendo alla voce un movimento pendolare fra gli estremi dell’intervallo la4-do5. Dopodiché riporta la voce sul do5 per into-nare “all” e di lì le fa spiccare un altro balzo verso l’alto, verso il mi5 di “the people”. Su quest’ultima parola (una parola sulla cui intonazione sghemba – “pi-pò-o-òl” – sarà il caso di ritornare) la voce effettua una discesa repen-tina, scivolando sul re5 per poi attestarsi sul la4. L’indugio non può essere lungo poiché l’ascoltatore attende ancora di capire cosa Lennon ritiene che

Nel documento biblioteca di testi e studi / 1461 musica (pagine 133-147)