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L’arte di muovere cuori e corde

Nel documento biblioteca di testi e studi / 1461 musica (pagine 35-47)

Contare e raccontare.1

Il titolo del capitolo appena licenziato ricalca una formula assai diffusa nella trattatistica antica: ars bene dicendi, ars bene vivendi, ars bene moriendi, un repertorio di testi orientati a fornire istruzioni per far bene le cose più varie, dal vivere al morire, dal parlare al tacere, dal misurare al commuovere. Qui però l’intento era solo far cenno a qualcuno dei numeri che, dalla notte dei tempi, orientano l’umana lettura del mondo. Due di essi, il 10 e il 1, sono intimamente legati alla fisiologia della mano; l’altro, il 7, le si oppone reci-samente. Variamente divisibili, il 10 e il 1 agevolano la prassi distributiva;

il 7 la ostacola, elevando al rango di valore la propria indivisibilità. Tutti e tre questi numeri individuano insiemi famosi: in un libro fatto di libri, uno dei quali intitolato Numeri, ci s’imbatte in dodici tribù e in dodici apostoli, in dieci comandamenti e in dieci flagelli, in sette angeli e in sette sigilli.

L’obiettivo del capitolo era avviare una riflessione sull’atto di contare.

Contare è un’occupazione più elementare rispetto a calcolare: si conta con le dita, ma si calcola con la mente. “Contare” è la contrazione di “computa-re”, un composto di cum e putare, un verbo dall’origine incerta derivante da un presunto antenato *puere, derivante a sua volta da una radice attestata in area baltica: peu- (“tagliare”, e poi “distinguere”), una radice mal adattatasi al clima mediterraneo, prova ne sia il fatto che il suo unico frutto in lin-gua latina fu il verbo da cui deriva l’italiano “potare”1. Dunque, nel dna di

“contare” sta l’atto di tagliare; tagliare per poi distinguere e mettere ordine.

Verbo dal profilo squisitamente intellettuale, “calcolare” ha un’origine di-versa e meno oscura: raccolta intorno alle proprie calcagna (calcanea) una manciata di sassolini (calculi, poiché composti essenzialmente di calx, cal-ce), per calcolare ci si mette comodi, se ne dispone un certo numero su un piano e si comincia a ragionarci su.

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Per tagliare, distinguere e mettere ordine non è obbligatorio sporcarsi le mani di calce: si può fare anche a mente selezionando fatti, indagando dettagli e concependo racconti. “Raccontare” deriva da “contare” con l’ag-giunta del prefisso ra(d)-, un composto di ripetizione (re-) e avvicinamento (ad). Dunque, “raccontare” sta a “contare” come “raccogliere” sta a “coglie-re”: designa un’azione ripetuta nel tempo e orientata a ridurre le distanze.

Se costruito in base ai precetti dell’ars bene loquendi, il racconto avvicina vicende e figure lontane nello spazio e nel tempo.

Anche nel caso di raccontare, come in quello di contare, è possibile sali-re di livello: narrando. “Narrasali-re” deriva da (g)narus, informato, esperto; di suo ci mette il raddoppio, con finalità espressivo-durative, della consonante centrale: “narrare” – rrrrrr! – ha tutta un’altra forza rispetto a un ipotetico

“*narare”, oggettivamente scialbo, o a un improbabile “*gnarare”, oggettiva-mente ruvido. Analogaoggettiva-mente a “raccontare”, col surplus di energia sprigio-nata dal raddoppio consonantico, “narrare” suggerisce un’azione protratta nel tempo, ma, come “calcolare”, denota la propria appartenenza a un rango superiore: laddove “raccontare” significa riferire parole o avvenimenti per lo più a voce, “narrare” significa «esporre o rappresentare, a viva voce o con scritti e altri mezzi, vicende, situazioni, fatti storici e reali, oppure fantasti-ci, vissuti o, più spesso, non vissuti in prima persona, riferendoli in modo ampio e accurato nel loro svolgimento temporale». “Contando”, nell’uno e nell’altro senso, queste pagine proveranno a narrare come, mettendo ordi-ne fra i numeri, alcuni artisti di genio hanno compiuto l’impresa non facile d’infondere vita al silenzio.

Dovendo immaginare un rapporto fra numeri e silenzio, il primo che viene in mente è quello fra pecore e addormentamento. In senso proprio, ovvero svolgendola all’ombra di un sughero, contare le pecore è un’attività che richiede una vista da rapace e un’agilità da felino. In senso traslato, ov-vero in assenza di luce e soprattutto di pecore, essa richiede capacità d’astra-zione e disponibilità al fallimento: nel “contare le pecore”, infatti, il succes-so si ottiene rinunciando a priori al successucces-so. Abbandonarsi all’abbraccio di Morfeo vuol dire silenziare temporaneamente i sensi al fine di varcare la soglia oltre la quale esistono solo il sonno e il sogno.

Per infondere vita al silenzio occorre forza, la qualità che secondo l’e-vangelista Giovanni il Verbo possedeva grazie al fatto di essere Dio. Ma la forza da sola non basta, insegna la Creazione: occorre disciplina. «Musica scientia est disciplina quae de numeris loquitur», affermava Cassiodoro, un intellettuale squillacese al servizio di re Teodorico. In questa definizio-ne, formulata quindici secoli fa, spicca il fatto che musica (= delle muse) è

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aggettivo di scientia (= sapere, da scio), che tale scientia è disciplina (= dot-trina), e che tale disciplina parla de numeris; di numeri intesi in funzione dell’esigenza di misurare. La musica è «scientia bene modulandi», un sa-pere che consente di misurare correttamente secondo un ritmo, aveva detto Agostino; perché no, esaminando, col senso e con la ragione, la differenza fra suoni acuti e suoni gravi, aveva soggiunto Boezio4. Anche nel caso della musica, arte del disporre i suoni nello spazio e nel tempo, la scientia consiste nel contare, ovvero nel tagliare, distinguere e mettere ordine.

In un’opera composta un secolo prima che Cassiodoro compilasse le sue Institutiones, Marziano Capella – un contemporaneo e compatriota di Agostino – aveva proposto uno schema organizzativo del sapere destinato a grandi fortune. Facendo leva su un orientamento ereditato dalla cultura classica, Marziano aveva compiuto l’impresa nel quadro di una narrazione immaginifica delle nozze tra Filologia e Mercurio. Amante del discorso, Filologia ottiene da Febo il permesso di ascendere al cielo per sposare Mer-curio, personificazione dell’eloquenza, a patto di abbandonare il sapere terreno, esposto in sette libri dedicati ad altrettante scienze. In realtà i libri avrebbero dovuto essere nove, ma la festa stava andando per le lunghe e Marziano decise di accorciarla, tralasciando architettura e medicina, i ri-spettivi luminari non gliene vogliano. Dopo due libri dedicati alla cornice, le scienze sono illustrate nei sette che vanno dal terzo al nono, riservati nell’ordine a grammatica, dialettica, retorica, geometria, aritmetica, astro-nomia e musica5.

Non è difficile intravedere in questo elenco il modello educativo dell’Europa medievale. Il raggruppamento delle artes sermocinales nel Tri-vium e delle artes reales nel QuadriTri-vium determina una bipartizione la cui asimmetria instilla qualche dubbio a proposito dell’ultima arte. L’apparte-nenza delle prime tre alla sfera del sermo, del discorso, è fuori discussione;

idem quella delle successive tre alla sfera delle res, delle cose di cui discorrere.

L’ultima, la musica, appare un po’ in bilico: in quanto scienza del disporre suoni nello spazio si configura come ars realis, confermando la propria ap-partenenza al Quadrivio; in quanto scienza del disporre suoni nel tempo si configura invece come ars sermocinalis, dimostrando un’affinità con le arti del Trivio. Indicativa è la sua apparizione alla festa di Filologia e Mercurio, agghindata nei panni di Armonia: «il suo capo risuonava perché adorno di lamine d’oro corrusco, e la veste, pure essa rigida per il metallo tagliato e laminato, tinniva dolcemente anche per i blandi sonagli, tutti quanti armo-nizzati al movimento e all’incedere di lei, temperati da un ritmo preciso»6. Corroborando la descrizione con svariati dettagli, Marziano tratteggia la

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facoltà della musica di mostrare affinità con le arti del Quadrivio grazie alla capacità di creare armonia e con le arti del Trivio grazie alla capacità d’incedere a ritmo: davvero un’ospite di riguardo, alle nozze di Filologia e Mercurio.

Esperienza memorabile.

Nel linguaggio quotidiano “armonia” delinea le condizioni propizie alla conclusione di un accordo; ma laddove l’accordo si sigla in un momento preciso, solennizzato da firme, sorrisi e strette di mano, l’armonia si crea con tempi e modi indefinibili, mediante un processo di convergenza a cui concorrono le cause più diverse. Con la sua capacità di mettere ordine nello spazio e nel tempo, la musica rappresenta un terreno privilegiato per ri-flettere su due concetti intimamente correlati come “accordo” e “armonia”.

Proviamo a farlo mediante un paio di esperimenti.

La prima volta in cui passate davanti a un pianoforte provate a fermarvi.

Non importa se non avete idea di come si suona, e men che meno se non avete mai visto un libro di musica. L’importante è che abbiate modo di sedervi davanti alla tastiera e che intorno a voi il rumore non sia eccessivo.

Sedetevi in posizione centrale e appoggiate la mano destra sui tasti bianchi.

Posizionate un dito su ogni tasto, assegnando al pollice il do4, all’indice il re4, al medio il mi4, all’anulare il fa4 e al mignolo il sol4 (se non vi ricordate dove si trova il do4 e avete con voi questo libro, apritelo a p. 14). Prova-te a schiacciare: se lo faProva-te con tutProva-te e cinque le dita produceProva-te un suono sgradevole; se lo fate soltanto con qualcuna l’esito può migliorare, basta capire quali e quante dita adoperare. Provate con tre, pollice, medio e mi-gnolo. Curvatele dolcemente, estendendo al contempo l’indice e l’anulare.

Schiacciate tutti e tre i tasti, do4-mi4-sol4: il risultato è gradevole. Siete da soli, non avete firmato alcunché, non vi hanno abbagliato coi flash, non avete stretto la mano ad alcuno ma avete creato un bell’accordo. Un esem-pio contrario? Anche tre. Rimettete la mano dov’era e schiacciate i tre tasti sotto le prime tre dita, do4-re4-mi4: risultato sgradevole. Riprovate con le tre dita centrali, re4-mi4-fa4: risultato diverso, ma analogamente sgradevole;

con le ultime tre, mi4-fa4-sol4: risultato ancora e sempre sgradevole. Dentro questi aggregati non c’è accordo; i suoni che li compongono non stanno bene insieme, fra di loro non c’è armonia.

Secondo esperimento. Appoggiate la mano destra sugli stessi cinque

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tasti (do4-re4-mi4-fa4-sol4). Con lo sguardo individuate il do e preparatevi a colpirlo con un dito della mano sinistra. L’importante è che per adesso non suoniate. Guardate sotto il pianoforte. Ci sono dei pedali. A seconda dei casi ce ne possono essere due o tre. State pronti col piede destro a schiacciare quello più a destra, come se foste al semaforo e stesse per scattare il ver-de. Torniamo alla tastiera. Mano destra. Abbassate lentamente i tasti sotto pollice (do4), medio (mi4) e mignolo (sol4), in modo tale che lo strumento non emetta alcun suono, e tenete la mano ferma. Abbassate poi il pedale di destra e confidate in qualche istante di silenzio. Se l’ambiente non vi è ostile state per compiere un’esperienza memorabile.

Tasti abbassati, pedale abbassato, silenzio possibilmente assoluto. Mano sinistra. Sollevatela di una spanna, fate il pugno, estroflettete l’indice e puntate il do. Lasciateci cadere il dito su, sollevatelo e aprite le orecchie.

Udirete un suono forte tendente a svanire. Mentre starà svanendo – atzione! – udrete spandersi nell’area, tenuissimi, altri suoni. Anche loro ten-deranno a svanire, ma in quei pochi istanti in cui saranno stati udibili lo saranno stati distintamente. Corrisponderanno ai tre tasti che avete abbas-sato, senza suonare, con la mano destra. L’esperimento – sveliamo l’arca-no – consisteva nel suscitare determinati suoni mediante un altro. Ci siete riusciti, vi sarà parso di possedere doti sciamaniche: non è vero, ma avete fatto un’esperienza indimenticabile.

Anche in questo caso è possibile fare una prova contraria. Riabbassate gli stessi tre tasti con la mano destra, riabbassate il pedale, rialzate la mano sinistra e colpite un tasto diverso da quello di prima; uno qualunque, sem-pre lì intorno, ma non il do. Udrete di nuovo un suono forte e tendente a svanire, ma nell’aria non se ne spanderanno altri. Il problema non è il vostro orecchio: è il rapporto fra il suono che avete prodotto con la sinistra (ponia-mo che abbiate schiacciato il re) e i tre (do4-mi4-sol4) che avete abbassato con la mano destra; su di essi il re non produce effetti, su altri sì, ma su quei

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tre nulla che l’orecchio sia in grado di percepire. La questione, è chiaro, è di ordine fisico. Ci sono corde che vibrano se percosse e corde che vibrano anche se non percosse, a patto che a essere percosse siano quelle per cui esse provano simpatia. Ingrediente fondamentale dell’armonia, la simpatia (dal greco syn, “con”, e pathos, “sentimento”, più il suffisso d’astrazione -eia) è la premessa di qualunque accordo, sonoro o diplomatico che sia: il concetto accomuna l’ars musica e l’ars rhetorica. D’accordo Trivio e Quadrivio, ma la realtà è fatta di relazioni, e la scienza armonica aiuta a comprenderle: sem-pre tagliando, distinguendo e mettendo ordine. In una parola, contando.

Numero da circa.

È inevitabile, scrivendo, che prima o poi qualcosa sfugga. Il cacciatore di refusi che veglia acquattato nell’animo di chi legge attenda un istante, però, prima di balzar fuori al grido di eureka. Un refuso in questo libro ci sarà senz’altro, anzi c’è da sperare che ce ne sia solo uno; ma di certo non si trova qui. Chi avesse pregustato il racconto di un numero da circo si armi di pazienza e vada a cercarselo altrove; qui si parla di un numero da circa.

“Circa” appartiene alla grande famiglia che, discendendo dal latino circus (erede a sua volta del greco kirkos, “anello”) comprende il circo, il circolo, il cerchio e, ampliando un po’ il raggio, la circolazione, la cerchia e l’accerchiamento. Però, a differenza di costoro, “circa” non è un sostantivo;

può essere una preposizione o un avverbio. In quanto preposizione fornisce un’indicazione di massima relativa a un oggetto: “sto cercando informazio-ni circa lo sciopero”, “sto leggendo un articolo circa il cambiamento clima-tico” eccetera. In quanto avverbio la fornisce a proposito di una quantità:

“per diventare sodo l’uovo deve bollire circa sei minuti”, “per ottenere il rimborso ci vogliono circa due mesi” eccetera. In entrambi i casi “circa” dà un’idea generica, disegna una circonferenza di raggio indefinibile intorno a un oggetto o a una sua dimensione ma non traccia solchi, non segna confini, non sancisce patti. Per questo è una parola che si adopera sovente, anche più del necessario.

A prima vista una parola come “circa” appare estranea al mondo lucen-te dei numeri inlucen-teri e lontana anni-luce da quello adamantino dei numeri primi; essa diventa però utilissima quando si cerca un modo per dividere questi ultimi. La cultura dell’Occidente medievale insegna che, distinguen-dole in Trivio e Quadrivio, le arti liberali si possono dividere circa a metà;

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e, considerando la natura un po’ anfibia della musica, si può immaginare per esse una partizione in odor di simmetria. Non è questo, tuttavia, il fine dell’osservazione: Trivio e Quadrivio sono tali da secoli e non è il caso di metterne in dubbio adesso i fondamenti. Quel che interessa qui è capire come il numero 7, duro come uno stoccafisso se si prova a suddividerlo e viscido come un capitone se si tenta di moltiplicarlo, sia divenuto il numero collettivo per antonomasia.

Dai re di Roma ai nani di Biancaneve la cultura occidentale ha prodotto un numero impressionante di insiemi composti da sette unità. La musica, come altre discipline, non ha saputo sottrarsi alla furia ordinatrice del 7:

ne è uscita impoverita ma anche rafforzata, come vedremo. Quel che inte-ressa è però evidenziare il senso di compimento, di pienezza, di perfezione suggerito dal 7. Le possibilità sono due: il 7 può definire un insieme che si forma di colpo o un insieme che si forma per gradi. Nel primo caso – i nani di Biancaneve sono un ottimo esempio – il 7 imprime sull’insieme tutta la forza che gli deriva dall’essere un numero primo; nel secondo – i re (ma meglio ancora i colli) di Roma sono un ottimo esempio – nel 7 s’insinua la forza destrutturante del circa.

I nani sono sette e non si discute. Hanno tutti caratteristiche peculia-ri, portano nomi diversi a seconda delle lingue in cui si racconta la loro storia ma una cosa è certa, il loro numero è sette. Veniamo invece ai re di Roma. Sono sette, d’accordo, ma sono sette perché sette sono i nomi giunti alle orecchie di Dionigi di Alicarnasso, di Tito Livio e di altri sto-rici antichi. Però, facendo due conti, qualche dubbio s’insinua. Roma fu fondata nel 75 a.C. e Tarquinio il Superbo fu cacciato nel 50 a.C.: dun-que, il regime monarchico vi durò 44 anni. Dividendo questo numero per 7, si constata come ogni re abbia regnato in media per 5 anni: un po’

tanti, considerando la durata della vita umana a quel tempo, un tempo in cui peraltro la vita finiva spesso in maniera cruenta; si pensi alla vicenda di Remo, che se quel giorno avesse visto sfilare in cielo il doppio degli uccelli visti da Romolo avrebbe fatto forse una fine e di certo una vita diversa.

E poi, detto e ribadito che la storia non si fa coi “se”, quand’anche i re di Roma siano stati sette, abbiano goduto sempre di ottima salute e non abbiano mai dato luogo a pulsioni omicide, occorre considerare che per qualche tempo Romolo condivise alcune funzioni con Tito Tazio, una sorta di coreggente. Dunque, è più prudente affermare che i re di Roma furono circa sette.

Più interessante è il caso dei colli. A differenza dei re, succedutisi in ordine progressivo, al netto di sbancamenti che pure ci furono, i colli di

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Roma esistono tutti insieme fin dai tempi più remoti. Il problema, però, sta... a monte: si tratta di capire quali, fra i cocuzzoli dell’area in cui sorge l’Urbe, possono ambire allo status di Colle. Cicerone e Plutarco concorda-no nell’attribuire tale status ad Aventiconcorda-no, Campidoglio, Viminale, Palaticoncorda-no, Quirinale, Celio ed Esquilino; ma le modifiche subite da Roma nel corso dei secoli indussero i funzionari di Costantino a rivedere l’elenco, un paio di secoli dopo, escludendone Quirinale e Viminale e includendovi Vaticano e Gianicolo. E dunque quanti sono, in conclusione, i colli su cui sorge la Città eterna? Circa sette.

mane Suoni dell’alba

Düsseldorf, ottobre 15. Nella casa di un artista borghese, animata da una moglie concertista e allietata da un manipolo di marmocchi, circola da qualche tempo un giovane biondo, introverso e bellissimo. S’è presentato un giorno d’inizio autunno per una breve visita, ma quando s’è seduto al pianoforte ha incantato i padroni di casa al punto da indurli a chieder-gli di trattenersi. Sono ormai due settimane che Brahms soggiorna a casa Schumann, e Robert e Clara lo stanno praticamente adottando: suonano insieme, compongono insieme, conversano appassionatamente; entusiasta, Robert gli dedica un articolo destinato ad aprirgli una carriera luminosa7. A casa Schumann Brahms resterà ancora tre settimane, legandosi ai suoi ospiti per tutta la vita. Come quella di Clara, la sua si concluderà a fine se-colo; quella di Robert purtroppo di lì a breve, in uno stato di oscuramento mentale manifestatosi a più riprese già durante il soggiorno di Brahms e certificato qualche mese dopo da un maldestro tentativo di suicidio nelle acque del Reno.

Al pianoforte in quelle settimane di residuale lucidità Schumann con-duce a termine una raccolta destinata ad assumere il titolo di Gesänge der Frühe, canti dell’alba. Quanto a densità concettuale e ispirazione poetica il primo pezzo svetta di una spanna sopra gli altri. Si tratta di una pagina con-cepita in base a un’unica idea, una melodia di un lirismo sognante variata in modo magistrale, elaborata a maglie strette in un passaggio memorabile e suggellata da un accordo terso come la luce dell’alba. Non si hanno notizie precise sulla prima esecuzione di questi canti. Di solito le opere pianistiche di Robert le faceva conoscere Clara, che a differenza di lui aveva perseguito una fulgida carriera di interprete; ma per questa raccolta non esistono

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tizie certe, si sa solo che Clara volle sempre eseguirne i pezzi esclusivamente in occasioni private.

tizie certe, si sa solo che Clara volle sempre eseguirne i pezzi esclusivamente in occasioni private.

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