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L’arte di esplorare il suono

Nel documento biblioteca di testi e studi / 1461 musica (pagine 57-69)

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ai suoni, basti pensare all’istante di silenzio che s’impone al termine dell’e-secuzione di un inno nazionale. La storia della musica propone vari esempi, tutti a loro modo istruttivi: uno bellissimo si trova nell’ultima sinfonia di Haydn, un lavoro in grande stile composto a fine Settecento per un’orche-stra di Londra1. Nel più sorvegliato dei suoi pezzi, il Minuetto, Haydn dà una prova magistrale dell’arte di combinare i suoni coi silenzi. Dopo aver asse-gnato all’orchestra una melodia dal ritmo scandito con assoluta regolarità, Haydn prescrive a tutti gli strumenti un istante di silenzio. Brevissimo, ma generale. Tutti fermi. Per quanto lo si ascolti, quel passaggio genera da secoli un effetto infallibile: in quel secondo di silenzio il ritmo della danza conti-nua a rintoccare nella testa dell’ascoltatore anche se il direttore e gli esecutori restano immobili come statue. Il tempo di accorgersi che tutto è silenzio e gli strumenti riprendono, assecondando il ritmo instillatosi nella mente di chi ascolta. Ovviamente è vero il contrario, è chi ascolta che asseconda gli stru-menti facendosi trascinare dalla melodia; ma la sensazione di aver udito an-che nel silenzio la musica risuonare dentro di sé è impossibile da reprimere.

Haydn lo sa, infatti non perde occasione per ripetere il giochetto su grande scala. Il silenzio è sempre lo stesso ma, quando dura sei volte tanto, quello che era un piccolo moto di sorpresa diventa un autentico tuffo al cuore.

«Que de choses dans un menuet!» esclamò un giorno Marcel, un ce-lebre maestro di ballo parigino, osservando i gesti di un’allieva impegnata a eseguire la danza-simbolo dell’ancien régime. Non è dato sapere a quale minuetto si riferisse maître Marcel; Haydn non aveva ancora composto il suo, ma a Parigi la danza furoreggiava. Le cronache riportano che Marcel si vantava di riconoscere il carattere di una persona dall’attitudine fisica, osservandola esibirsi nella danza più incipriata del mondo; una danza in cui il corpo si muove appena, à pas menu, a piccoli passi su un ritmo moderato e scandito con una precisione opprimente come il peso di una parrucca. C’è davvero tanto da imparare da un pezzo così stretto da regole, anche da uno meno geniale di quello di Haydn.

Resi i dovuti omaggi alle potenzialità artistiche del silenzio passiamo adesso a considerare quelle, manco a dirlo più vaste, del suono.

Quattro qualità primarie4.

Illustrando l’abilità di Haydn nel combinare i suoni coi silenzi s’è fatto leva su alcuni concetti su cui è bene ritornare. La sinfonia è il genere

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cipe della musica strumentale dell’età classica e romantica, quello che dà modo a quell’organismo fantastico che è l’orchestra di risplendere in tutti i suoi colori. Combinando i suoni emessi dagli strumenti a fiato, da quelli a corde e da quelli a percussione l’orchestra produce un amalgama di timbri – questa la parola giusta – che, se creato da un genio, è in grado di eserci-tare un fascino irresistibile. Ogni strumento ha la propria voce, un proprio timbro: prodotto da un violino o da un flauto, lo stesso suono mostra un aspetto diverso. Per questo si può decidere di assegnare una nota a un de-terminato strumento, proprio per sfruttarne il timbro; o, se lo si ritiene utile, assegnare la stessa nota a più strumenti, prescrivendo loro di emettere il suono da essa designato ciascuno col proprio timbro, producendo un impasto originale.

Il timbro è una delle quattro qualità primarie del suono. Le altre so-no l’altezza, la durata e l’intensità. Un suoso-no, distingue Boezio, può essere acuto o grave. Difficilmente recepita in senso oppositivo, questa coppia esemplifica la necessità per ogni disciplina di precisare i propri termini di riferimento. In geometria ad acuto si oppone ottuso, in tema di angoli; in medicina lieve a grave, in tema di malanni; in musica acuto a grave, in tema di suoni, mentre a lieve non si oppone ottuso. Acuto è il suono di una voce argentina, grave quello di una voce cavernosa. Grave e acuto sono in musica gli indici dell’altezza dei suoni. Combinando le nozioni di timbro e altezza, si può pensare al suono grave di un trombone o a quello acuto di un violino;

senza dimenticare che, pur avendo timbri assai diversi, trombone e violino possono anche emettere suoni di pari altezza. Certo, un violino non ne emetterà mai uno grave come quello grave di un trombone, e un trombone non ne emetterà mai uno acuto come quello acuto di un violino; ma a una certa distanza dai rispettivi estremi anche due strumenti così diversi posso-no emettere suoni analoghi: la differenza la farà il timbro.

La terza qualità del suono è la durata, concetto per la cui illustrazione il linguaggio musicale fa leva su una coppia oppositiva affatto elementare, lungo e breve: un suono dotato di un certo timbro e di una certa altezza può essere lungo o breve; quanto lungo o quanto breve lo vedremo più avanti. La quarta qualità è l’intensità. Anche qui la musica attinge al les-sico comune senza imprimervi impronte peculiari: un suono con un certo timbro, una certa altezza e una certa durata può essere emesso piano o forte; quanto piano o quanto forte è un problema che ammette diverse soluzioni.

Oltre a essere qualità del suono, timbro, durata e intensità lo sono anche del rumore; l’altezza no, quella è prerogativa esclusiva del suono. L’opposto

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vale invece per il silenzio, il quale di qualità ne ha una sola: la durata, prova ne sia il fatto che Haydn inserisce nel suo minuetto due pause di durata di-versa, la seconda sei volte più lunga della prima. Quando però dai rispettivi estremi si passa a considerare i gradi intermedi – un suono lungo quanto?

una pausa quanto breve? – le cose si complicano. Ma per fortuna le cose si complicano a fin di bene, ovvero al fine di semplificare la comprensione di chi la musica ha il compito di eseguirla. A patto, ancora una volta, di essere disposti a contare.

Avanti per gradi4.

Prettamente individuale, il timbro non prende parte al gioco delle coppie (grave-acuto, lungo-breve, piano-forte): il violino ha il suo timbro specifi-co, simile a quello della viola ma diverso da quello del corno; la tromba ha il suo, simile a quello del corno ma diverso da quello del contrabbasso; la chi-tarra elettrica ha il suo, diverso da quello della chichi-tarra acustica, se no nessu-no si sarebbe preso la briga d’inventarla. Più strumenti un gruppo accoglie, più ampia è la sua gamma timbrica, e più vasto è il numero di combinazioni possibili. Per l’intensità, che parte invece da una coppia oppositiva, non esiste una scala di valori misurabili: partendo da “piano” e “forte” si lavora nelle due direzioni con arnesi linguistici come avverbi e suffissi: “mezzo forte”, “mezzo piano”, “pianissimo”, “fortissimo”; e volendo descrivere livelli variabili si adotta una coppia di gerundi, “crescendo” e “diminuendo”. Per la definizione delle altezze e delle durate esistono invece due sistemi fissi da sette unità ciascuno; due sistemi che, se affrontati criticamente, mostrano ambiguità significative schiudendo orizzonti d’indubbio interesse.

La premessa di tutto questo discorso è l’esigenza, ampiamente diffusa, di comunicare le proprie idee per iscritto. Esiste tanta musica non scritta che pure è vivissima; il suo grande limite è il fatto di essere trasmissibile solo per mezzo di un’esecuzione dal vivo o di una registrazione, e di essere eseguibile solo per imitazione. Assistendo all’esibizione, ascoltando il disco o guardando il video di un grande chitarrista si può cercare di imbracciare una chitarra e di fare come lui, ma le possibilità di apprendimento finiscono lì. Se consegnate a un supporto scrivibile, invece, le possibilità di compren-dere le intenzioni di chi inventa o esegue la musica aumentano, soprattutto se la possibilità d’interloquire direttamente con l’autore è preclusa dal cor-so della storia. Tenendo fermo l’esempio del Minuetto infarcito di pause, il

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fatto che Haydn abbia messo il suo testo su carta ne ha reso possibile l’ese-cuzione quella sera a Londra nonché la successiva trasmissione ai posteri, tanto che a distanza di due secoli e passa quella sinfonia fa parte oggi del repertorio di tutte le grandi orchestre del mondo.

In assenza di documenti come le particelle che i professori tengono sui leggii e la partitura che il direttore sfoglia sul podio, l’esecuzione di un pez-zo a cui partecipano con ruoli diversi decine di strumenti è semplicemente impossibile. Il limite più vistoso della musica non scritta è infatti quello del-la difficoltà, per non dire dell’impossibilità, di un’esecuzione e di una tra-smissione accurata; laddove per accurato s’intende un esito il più possibile vicino alle intenzioni dell’autore, a maggior ragione se complesse. Il pro-blema, sempre per restare al Minuetto, non è la distanza spazio-temporale fra l’Inghilterra di fine Settecento e questo libro; se Haydn non avesse con-segnato le sue idee alla carta la sua sinfonia non sarebbe stata eseguita nem-meno quella sera del 174, perché un grande artista può fare tante cose ma suonare tutti insieme gli strumenti di un’orchestra proprio no.

Detto in altri termini, cantare in coro Fratelli d’Italia stando schierati a centrocampo non è difficile, perché si tratta d’intonare una linea di pen-siero musicale facilmente memorizzabile. Eseguire la musica composta da Michele Novaro coordinando l’azione degli strumenti con quella delle voci che intonano i versi di Goffredo Mameli è invece difficile, perché le linee di pensiero sono molte (oltre alla melodia ce ne sono altre che l’orecchio non percepisce subito ma che formano la base su cui la melodia si dispiega) e senza un coordinamento adeguato la loro esecuzione diventa impossibile.

Dunque, se Novaro non avesse messo per iscritto le proprie intenzioni, a noi di Fratelli d’Italia sarebbero giunte forse le parole e la melodia princi-pale, ma di certo non le parti assegnate al grosso degli strumenti; i quali, in assenza di notazione, non avrebbero mai potuto suonare in modo coordi-nato, né fra di loro né tanto meno in relazione alle voci. E considerando che questa sarebbe stata la sorte di un pezzo relativamente facile come Fratelli d’Italia, non è difficile immaginare quale sarebbe stata la sorte di pezzi un po’ meno facili, dalle sinfonie di Beet hoven a quelle di Čajkovskij.

Esaurita questa premessa veniamo al problema della durata, qualità pri-maria non solo dei suoni ma anche dei silenzi. Per brevità puntiamo i riflet-tori solo sui suoni producibili con lo strumento più diffuso: la voce4. Pro-viamo a emettere un suono qualunque, per esempio quello che emettiamo quando il dottore, scrutandoci in gola, ci invita a dire “aaaaaa”. In genere il dottore ci chiede di protrarre il suono per qualche secondo; bene, in musica un suono di quella durata è considerato un suono lungo. Uno breve, tanto

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per intenderci, è quell’“a!” secco che emettiamo quando, entrando in una caverna o in una sala da concerto vuota, proviamo a verificare se c’è l’eco.

Volendo misurare la lunghezza del primo e la brevità del secondo suono si può far uso del cronometro: quando raccogliamo l’invito del dottore il nostro “aaaaaa” dura circa tre secondi, mentre quando proviamo a verificare la presenza dell’eco il nostro “a” ne dura circa mezzo. Dal rapporto fra le due durate scaturisce la proporzione 6 : 1, la stessa istituita da Haydn fra le pause del suo Minuetto. Qual è, però, la differenza fra noi e Haydn? Due considerazioni: la prima è che noi abbiamo istituito un rapporto fra suoni, mentre lui lo aveva istituito fra silenzi; la seconda è che noi abbiamo crono-metrato i nostri suoni, mentre lui fra i suoi silenzi s’è limitato a stabilire un rapporto. “Tre secondi contro mezzo” vuol dire una cosa, “sei volte tanto”

ne vuol dire un’altra; o meglio, “tre secondi contro mezzo” è una delle in-finite esemplificazioni del rapporto “sei volte tanto”. Ecco, per definire le durate dei suoni la musica non adopera il cronometro ma si limita a istituire rapporti. Quantità assolute (ore, minuti, secondi) contro quantità relative (doppi, interi, metà).

Per le altezze si può fare un ragionamento simile ma non identico. Sem-pre facendo uso della nostra voce, proviamo a emettere prima il più acuto e poi il più grave dei suoni di cui siamo capaci. Noteremo che oltre a quei due siamo in grado di emetterne molti altri, meno acuti del più acuto e meno gravi del più grave. Il problema è misurarne l’altezza: mentre per accertare la durata di un suono basta disporre di un cronometro, per fare altrettanto con la sua altezza occorrono strumenti che non si portano al polso o nel taschino (tutt’al più stanno nel cellulare, ma occorre conoscere e installare l’applicazione corrispondente). Oltre che per la difficoltà di effettuare la misurazione senza entrare in un laboratorio di fisica, quantificare le altezze non è cosa facile anche per via dell’unità; la quale, a differenza del secondo adoperato per le durate, non è fra quelle a cui si ricorre nella vita di tutti i giorni.

Di per sé la misurazione dell’altezza è un’operazione scientifica, tanto da apparire superflua a chi intenda combinare suoni e silenzi per finalità artistiche. Questo è vero a patto che l’artista intenda limitarsi a cantare o a suonare da solo; ammesso che abbia una bella voce, due mani d’oro e una fantasia feconda, un artista (con e senza l’apostrofo) può riuscire a creare anche in autonomia diversi istanti di bellezza pura. Le cose però si com-plicano appena l’artista cerchi di unire la propria voce a quella di un’altra persona o a quella di uno strumento. Nel momento in cui due o più suoni sono prodotti in modo simultaneo, nel cervello umano scatta un

meccani-6

smo di decodificazione basato su un’altra importantissima coppia opposi-tiva: quella che distingue un effetto di consonanza da uno di dissonanza. I concetti di “consonanza” e “dissonanza” hanno senz’altro un fondamento fisico, oggettivo, misurabile; ma su tale fondamento s’innestano elementi di natura culturale tali per cui determinati aggregati risultano consonan-ti ad alcuni e dissonanconsonan-ti ad altri; e addirittura consonanconsonan-ti o dissonanconsonan-ti al medesimo individuo, qualche volta, a distanza di tempo. Anche di questo fatto ci occuperemo a suo tempo; qui occorre completare il discorso rela-tivo all’altezza.

Combinando fra loro due o più suoni si tende a cercare un rapporto di consonanza; non è detto che ci si riesca subito, ma la tendenza è quella.

Prima di ottenere una consonanza si produce in genere un buon numero di dissonanze, ma poi poco alla volta l’obiettivo si raggiunge. Fra i rapporti di consonanza il più facile da ottenere è quello di identità: essendo in due, si può provare a produrre con la voce un dato suono invitando il/la partner a fare lo stesso. Se non ci si arrampica troppo verso l’acuto e non ci si spinge troppo verso il grave le chances di successo aumentano. Magari non subito, ma dopo un po’ le voci si attestano alla stessa altezza ed emettono lo stesso suono. Detto in termini musicali, le due voci cantano all’unisono. Quale sia l’altezza di quel suono non è facile dire, ma quel ch’è certo è che le voci dan-no luogo a un rapporto di consonanza. Affinché tale rapporto venga medan-no basta che una delle due si spinga leggermente verso il grave o verso l’acuto;

se il movimento è minimo, da consonante il rapporto diviene dissonante, anche molto dissonante. Poi però – l’esperimento è istruttivo, val la pena di compierlo – se una voce continua a star ferma e l’altra continua a salire o a scendere i rapporti si modificano alternando consonanze a dissonanze.

Il tratto che distingue lo spettro sonoro da quello dei colori è che al distanziamento progressivo dall’unisono, rapporto consonante per defini-zione, non consegue un affievolimento della consonanza in favore di un irrobustimento della dissonanza. Per intenderci, non è come nelle scatole delle matite, in cui agli estremi si trovano il bianco e il nero e da un estremo all’altro si dispongono colori via via più chiari o più scuri; no, allontanan-dosi gradualmente dal suono comune si determinano rapporti ora disso-nanti ora consodisso-nanti secondo una successione non facile da preconizzare.

Una delle cose belle della musica è che la consonanza è un risultato tanto gratificante quanto difficile da conseguire. Occorre però mettere in chiaro una cosa: le coppie oppositive sono utili per definire un campo di variabi-lità, ma i fenomeni più interessanti si producono nell’ampio spazio com-preso fra gli estremi.

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Consonanza e dissonanza sono concetti che aiutano a mettere ordine fra i rapporti, ma esistono vari gradi di consonanza e di dissonanza. Per ren-dersene conto la cosa più facile è mettersi davanti a una tastiera e schiacciare un qualunque tasto coi pollici di entrambe le mani: il suono che si produce è uno solo, ma dato che le mani sopra il tasto sono due lo consideriamo un unisono. Dopodiché una delle due mani continua a schiacciare quel tasto col pollice, mentre l’altra comincia a schiacciare uno dopo l’altro quelli sotto le altre dita. La distanza aumenterà progressivamente, ma le combi-nazioni che si avvicenderanno daranno luogo a rapporti di maggiore o di minore consonanza (o di maggiore o minore dissonanza). Provare a capire i meccanismi che regolano questi rapporti vuol dire predisporsi a varcare la soglia di un regno meraviglioso, quello la cui sovrana è la settima, splendida ospite della festa descritta da Marziano Capella: Armonia.

mega Due accordi e via

Il titolo di questo paragrafo rispecchia un modo di dire diffuso fra i cosid-detti “animali musicali”, quelli che strimpellando a orecchio qualunque strumento sono capaci d’inventare una canzone nel giro di pochi istan-ti. Anche Beet hoven con due soli accordi scrisse la melodia di un inno, dando una veste musicale a un testo che gli frullava in mente da quando, matricola all’università di Bonn, studiava i classici antichi insieme a quelli del suo tempo. La decisione d’intonare l’Inno alla Gioia con una melo-dia facile da memorizzare fece il paio con l’idea di calarla dentro la più universale delle sue opere: la Nona (14), sinfonia che affida alle voci umane il compito d’immortalare una quarantina di versi culminanti in un appello accorato alla fraternità universale: «Abbracciatevi, moltitudini!

Questo bacio al mondo intero!»5. Ai versi iniziali dell’inno Beet hoven premette una dichiarazione enunciata con voce stentorea da un solista che, rivolto al coro, esordisce dicendo: «O amici, non questi suoni!», intendendo quelli puramente strumentali echeggiati sino a quel momen-to, incapaci di farsi latori del messaggio affidato ai versi; «Intoniamone altri», prosegue, «più piacevoli e pieni di gioia!»6. Conclusa l’esorta-zione, il baritono fa appello alla Freude, la Gioia destinataria dell’elogio di Schiller, e intona quindi una melodia dal respiro talmente ampio da indurre l’Europa ad adottarla nel 17 quale inno rappresentativo della propria Unione.

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Prima di essere intonata dal solista, e poco alla volta da tutte le forze convocate da Beet hoven, nel Finale nella Nona la Freudenmelodie è espo-sta senza accompagnamento da un gruppo di strumenti timbricamente uniforme. Violoncelli e contrabbassi la enunciano con la sobrietà di un coro di monaci, senza infondervi pathos e senza mai abbandonare la sfera del piano. L’assenza di altri suoni fa sì che l’ascoltatore percepisca chia-ramente la fisionomia regolare della melodia, fatta di durate molto simili e di altezze molto prossime7. Quel che Beet hoven persegue forgiando la melodia dell’Inno alla Gioia è un’enunciazione fortemente cadenzata del-le parodel-le, come si conviene a queldel-le di un inno; poi, nel corso del pezzo,

Prima di essere intonata dal solista, e poco alla volta da tutte le forze convocate da Beet hoven, nel Finale nella Nona la Freudenmelodie è espo-sta senza accompagnamento da un gruppo di strumenti timbricamente uniforme. Violoncelli e contrabbassi la enunciano con la sobrietà di un coro di monaci, senza infondervi pathos e senza mai abbandonare la sfera del piano. L’assenza di altri suoni fa sì che l’ascoltatore percepisca chia-ramente la fisionomia regolare della melodia, fatta di durate molto simili e di altezze molto prossime7. Quel che Beet hoven persegue forgiando la melodia dell’Inno alla Gioia è un’enunciazione fortemente cadenzata del-le parodel-le, come si conviene a queldel-le di un inno; poi, nel corso del pezzo,

Nel documento biblioteca di testi e studi / 1461 musica (pagine 57-69)