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L’arte di contare bene

Nel documento biblioteca di testi e studi / 1461 musica (pagine 23-35)

L’arte di contare bene

Sulla punta delle dita1.1

In una scena esilarante, entrata da tempo nella storia del cinema, Mosè scen-de dal monte Sinai e si presenta al popolo d’Israele con tre lastre di pietra in mano. Su di esse Dio ha inciso il testo dei Quindici Comandamenti.

Mentre annuncia il prodigio, sopraffatto dall’emozione il vecchio ha un cedimento; è un attimo, ma una delle tavole gli scivola, cade a terra e va in frantumi. L’incidente avviene nel momento in cui Mosè sta specificando il numero dei Comandamenti («The Lord Jehova has given unto you these Fift...»); constatato mestamente il danno, il vecchio si fa forza, prende fiato e proclama: «Ten Commandments!»1. Al di là della sua comicità irresisti-bile, la scena si presta a due riflessioni. Innanzitutto, l’andata in frantumi è un accenno al racconto biblico, secondo cui Mosè distrusse, e di proposito, entrambe le tavole quando vide il popolo d’Israele intento ad adorare il vitello d’oro anziché ad attendere il suo ritorno. In secondo luogo, la scena pone il problema del numero dei Comandamenti; il testo delle prescrizioni – alcune succinte, altre diffuse – varia fra l’Esodo e il Deuteronomio, pre-sentando differenze sensibili anche nella loro formulazione. Solo in sede di commento i libri fissano entrambi a dieci il numero delle norme, incise da Dio su due nuove tavole portategli da Mosè qualche tempo dopo. L’inter-rogativo suscitato dal film concerne quindi il contenuto della tavola andata in pezzi, ovvero il testo dei cinque Comandamenti perduti; e, di riflesso, le trasgressioni che l’umanità, rimasta all’oscuro di un terzo del sacro dettato, compie senza volerlo.

Per la formalizzazione definitiva dei Comandamenti si possono invoca-re le ragioni più diverse; una plausibile è la riconducibilità del loro numero a quello delle dita delle mani. La scelta in favore del dieci acquista di riflesso le sembianze di un monito, in base a cui ogni figlio d’Israele deve avere

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la Legge sulla punta delle dita; quelle delle mani, le parti più versatili del corpo, gli strumenti indispensabili per larga parte delle attività umane. Alla natura prevalentemente digitale del nostro corpo, ovvero all’articolazione delle mani in cinque più cinque dita, sembra far cenno anche il Decalogo, i cui Comandamenti attengono per metà al rapporto dell’individuo col Creatore e per metà a quello dell’individuo coi propri simili.

I Comandamenti che Dio avrebbe scolpito non su due ma su tre ta-vole trovano corrispondenza, con un paragone solo in apparenza blasfe-mo, nei numeri che assicurano il successo nella tombola. La cartella che ogni giocatore ha dinanzi contiene quindici numeri, cinque per ogni riga, inframezzati da dodici caselle vuote, quattro per ogni riga. Le colonne ospitano invece numeri appartenenti a una delle prime nove decine, di-sposte in ordine crescente da sinistra a destra. L’obiettivo di chi gioca – o meglio la speranza, essendo impossibile influire sull’estrazione – è dapprima formare un ambo, un terno, una quaterna o una cinquina; in ultimo, diviene posare per primo un fagiolo secco su tutti i numeri della propria cartella. Anche in questo caso l’idea di completezza è associata, come nella scena della Pazza storia del mondo, a cinque testi (numeri) scritti su tre tavole (righe). Con la differenza che diversamente da Dio, il quale assolve Mosè consentendogli di recare al popolo d’Israele anche solo due terzi dei suoi Comandamenti, la tombola non perdona: avendo in cartella dieci fagioli in tutto si può aver fatto anche ambo più terno e cinquina; ma tombola no.

Parlando di giochi, non si può non far cenno all’invenzione di un po-stino di Canastota, un piccolo centro dello stato di New York in cui a fine Ottocento il lavoro lasciava tempo per cimentarsi in progetti originali.

Un po’ di miglia più a nord i filosofi trascendentalisti sognavano un’i-dea diversa di mondo, ma Noyes Palmer Chapman era una testa quadra che si guadagnava il pane recapitando lettere e cartoline. L’umanità deve a quest’umile impiegato l’idea di pensare il 15 non in quanto moltipli-cazione di 5 × , come l’inventore della tombola e come il Dio di Mel Brooks, ma in quanto sottrazione di 1 da 16; o meglio, già che l’invenzione di Chapman s’inscrive in un quadrato, come 4 – 1. S’immagini un retico-lo di 4 × 4 posizioni occupate tutte meno una da tessere numerate da 1 a 15. La mancanza della sedicesima consente di scombinare le altre quindici (inizialmente ordinate su quattro file in modo progressivo: 1-4, 5-, -1 e 1-15) e di ricomporre il loro ordine facendole scorrere nello spazio creato a ogni spostamento. Il gioco consiste in sintesi in un movimento pendolare dall’ordine al caos e dal caos all’ordine. Ci sarebbe voluto il cubo di Rubik,

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un secolo dopo, per mettere in ombra il Fifteen Puzzle di Chapman, il Gioco del quindici, un rompicapo a cui si deve l’affinamento delle menti di parecchie generazioni.

Lasciando i giochi da tavolo, il 15 lo si incontra moltiplicato per due in alcuni spazi aperti di forma rettangolare: quelli su cui due orde di ragaz-zoni si affollano intorno a una palla che rimbalza ubriaca. Inventato sulla sponda orientale dell’Atlantico al tempo in cui su quella occidentale veniva al mondo il futuro postino, il rugby si gioca in 15 contro 15. Ogni squadra si divide in attaccanti e difensori, con la differenza che le posizioni degli attaccanti sono definite da uno schema relativamente semplice, mentre quelle dei difensori sono definite da uno schema estremamente complesso.

Schemi a parte, il fascino di questo gioco, in cui la palla si può prendere sia con le mani sia coi piedi e il cui fine è condurla al di là della linea bianca dietro l’ultimo avversario, nasce dal varo di una regola tanto semplice quan-to illogica: avanzando verso la meta i giocaquan-tori possono sì passarsi la palla al fine di sottrarla alle grinfie degli avversari ma – e qui sta il bello – devo-no passarsela lanciandola in direzione opposta a quella in cui corrodevo-no. Nel rugby, infatti, il giocatore corre in avanti, ma la palla viaggia all’indietro:

una regola assurda, e per questo geniale. Chapeau.

Fuori mano1.

È pressoché fatale che in un gioco come il rugby, praticato su campi spes-so fradici di pioggia, nella furia dello scontro la palla scivoli via come la tavola dalle mani del Mosè di Mel Brooks. Irruenza giovanile in un caso, incertezza senile nell’altro, entrambi gli incidenti sono imputabili alla na-tura imperfetta del corpo umano. C’è però un modo non accidentale per sfuggire di mano, indipendente da qualunque imperfezione fisica o tur-bamento emotivo. Osserviamo le nostre mani: focalizzando l’attenzione sulle dita possiamo visualizzare i numeri da 1 a 10. Ci sono delle differenze curiose presso i vari popoli: c’è chi comincia a contare dal pollice e chi dal mignolo; chi forma il  adoperando il pollice, l’indice e il medio, chi lo fa estendendo le dita centrali, chi le ultime tre, e gli esempi potrebbero continuare. Indipendentemente da ogni stato emotivo e da qualsiasi codice di significazione, le dita agevolano anche la messa a fuoco di una natura singolarmente sfuggente: quella di un numero divenuto, quasi per assurdo, un’icona della pienezza: il 7.

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Si considerino i numeri da 1 a 10 e si provi a moltiplicarli o a dividerli, visualizzando sulle mani l’operazione relativa. Per abbreviare la procedura si escludano a priori la moltiplicazione e la divisione per 1, nonché la divisio-ne di un numero per sé stesso. Allora: l’1 è moltiplicabile per , , 4, 5, 6, 7, ,

 e 10: tante possibilità ma tutte invalidate dall’esclusione a priori. Dunque, si proceda oltre. Il  è moltiplicabile per , , 4 e 5; se lo si moltiplica per 6, il prodotto (= 1) non è più visualizzabile sulle dita di due mani. Per lo stesso motivo il  è moltiplicabile per  e per  ma non per 4 e per i numeri successivi. Fin qui si sono considerati soltanto tre numeri, tutti e tre primi e quindi indivisibili se non per sé stessi e per l’unità. Andando avanti comin-ceranno ad affacciarsi numeri non solo moltiplicabili ma anche divisibili, e il risultato dell’una o dell’altra operazione sarà sempre visualizzabile sulle dita delle mani. Per rendersene conto, si consideri la terna successiva.

Il 4 è sia moltiplicabile sia divisibile per : in un caso produce  e nell’al-tro . Quarto numero primo, il 5 non è divisibile, però è moltiplicabile per :

il prodotto dà 10 e corrisponde al numero totale delle dita. Da qui in avanti qualunque moltiplicazione richiederebbe la chiamata in causa di almeno un piede, perché se per visualizzare il numero di partenza occorre già ricor-rere a una seconda mano non ci sarà modo di effettuare una moltiplicazio-ne, sia pur minima, senza evitare che il prodotto superi il 10. Limitandosi a considerarne la divisibilità, del 6 si registrano due esiti,  se diviso per  e

 se diviso per : due quozienti per cui una mano basta e avanza. Giacché d’ora in poi non sarà più possibile moltiplicare ma solo dividere, si continui considerando la terna che culmina col numero più grande, il 10.

La prima possibilità di divisione del 10 la suggeriscono le mani: diviso per  il 10 dà 5, infatti la mano ha cinque dita; dopodiché vale anche l’in-verso, diviso per 5 il 10 dà , infatti le cinque dita si distribuiscono parita-riamente su due mani. Numero dispari, il  non è divisibile per ; però lo è per , e, dato che il quoziente è , si può osservare come sulle dita siano visualizzabili due quadrati,  =  e  = 4. Prospere sotto l’aspetto geo-metrico non meno che sotto quello aritmetico, le mani accolgono anche un cubo: l’, numero divisibile per  e per 4 e pertanto esprimibile come

 ×  × , ovvero come : appunto un cubo, contiguo al quadrato ottenibile mediante lo scambio fra base ed esponente,  = .

Per fare chiarezza, proviamo a schematizzare. Due avvertenze: nella tabella il corsivo evidenzia le operazioni escluse a priori (moltiplicazioni e divisioni per 1, divisione di un numero per sé stesso) mentre il trattino (–) sostituisce i quozienti decimali (ad es.  : 4 = 0,75) e i prodotti “sfuggenti”

(ad es.  × 4 = 1).

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moltiplicazioni divisioni

4 5 4 5

1 2 3 4 5

4 6 10 1

6 1

4 1

5 10 1

6

7

4

10 5

La tabella evidenzia per ogni numero la possibilità di compiere tutte le di-visioni e tutte le moltiplicazioni visualizzabili sulle punte delle dita. Il nu-mero più vivace è il , protagonista di quattro operazioni; i più calmi il 5 e il

, protagonisti di una ciascuno; il , il 4, l’ e il 10 lo sono di due; nessuno, curiosamente, lo è di tre. Resta da esaminare il comportamento del 7. Es-sendo dispari, il 7 non è divisibile per ; inoltre, è anche un numero primo:

non potendolo dividere, l’unica cosa da fare è moltiplicarlo ma, se lo si fa anche solo per , il prodotto (= 14) balza fuori dalle mani; se lo si fa per , per visualizzarlo (= 1) non bastano nemmeno le dita dei piedi. Disastro.

Infatti il 7 è l’unico, fra i numeri da 1 a 10, a non poter prendere parte al gioco. Soggetto incoercibile, il 7 non si lascia dividere e, appena si tenta di moltiplicarlo, sfugge come il capitone di casa Cupiello. L’unico modo per ammansirlo – il 7, non il capitone – è valorizzarne le qualità innate: confe-rendogli l’attributo, sacro per molti versi, della pienezza.

Calcolatrici digitali1.

La palla da rugby deve l’originalità della propria fisionomia a un insieme di ragioni. Da un lato la forma ovale agevola il gioco in tre situazioni: quan-do, stringendo la palla al petto con una mano, l’atleta corre verso la me-ta tenendo con l’altra gli avversari a disme-tanza; quando, afferrando la palla con entrambe le mani, la passa al compagno che lo segue; e infine quando, nell’atto di segnare una meta, la inchioda a terra al di là della linea. D’altro lato, nel momento in cui la palla rimbalza sul terreno la sua forma deter-mina traiettorie bizzarre, introducendo un elemento di incertezza da cui

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deriva la necessità di operare continui cambi di direzione, moltiplicando così le occasioni di scontro.

Passando dalla palla da rugby all’oggetto che ne ispira la forma, può essere interessante affrontare il problema di come effettuare un trasporto di uova. Il mezzo più iconico è il cestino di vimini, cosparso di paglia e infilato nel braccio coperto dalla manica del camicione a quadri; ma gli svantaggi sono molti, dall’ingombro materiale alla necessità di dedicargli stabilmente un arto, dal rischio del cozzo fatale al numero esiguo di unità trasportabili. All’estremo opposto, quanto a poesia, si colloca la confezio-ne che occhieggia dagli scaffali dei moderni supermercati, un capolavoro d’ingegneria applicata la cui descrizione in termini matematici comporta il ricorso a concetti superiori. A metà fra i due estremi rifulge una soluzione che abbina un’efficacia notevole a un valore formativo inestimabile: il con-fezionamento con carta di giornale.

L’aspetto didatticamente premiante di questo esercizio è l’immediata messa a fuoco della coppia oppositiva pari/dispari: laddove sulla paglia del cestino il numero di uova può essere indifferentemente pari o dispari, a patto che non sia eccessivo, nella carta di giornale un numero dispari di uova – provare per credere – non è allocabile; a meno di voler sacrificare un intero quotidiano per garantire la materia prima a una banale frittata.

Dunque, e la confezione del supermercato ne è la conferma, in assenza di cestino le uova s’impacchettano in numero pari: ma qual è il numero ideale?

Nei supermercati si trovano cofanetti da 4, 6, , 10 e 1 uova sempre disposte su due file, accorgimento che conferma la bontà dell’impacchet-tamento more antiquo. Confezionare 1 (= 6 × ), 10 (= 5 × ) o anche  (= 4 × ) uova con carta di giornale è semplicemente impossibile poiché a differenza del cartone o della plastica la carta non è rigida: se riunite in numero superiore a 6, dunque, le uova sono destinate a finire come la tavola del Mosè di Mel Brooks. Ecco allora profilarsi l’elevato valore formativo dell’avvolgimento con carta di giornale: la disposizione secondo il modello

 ×  = 6 coniuga il massimo grado di sicurezza con un impiego virtuoso del mezzo, idealmente il mezzo bifolio formato lenzuolo; genere oggi purtrop-po raro, ragion per cui l’operazione si effettua spesso, non senza difficoltà, ricorrendo a un bifolio intero formato tabloid.

Dove si trova, in natura, il modello che ispira la confezione ideale in carta di giornale? La risposta non è dentro di noi, ma addosso a noi. Osser-viamo ancora le nostre mani, rivolgendo le palme verso lo sguardo e foca-lizzando l’attenzione non tanto sulle dita quanto sulle falangi4. Le quattro

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dita diverse dal pollice constano di tre falangi ciascuna; dunque, esse offro-no una magnifica calcolatrice in base 1 su cui il pollice è invitato ad agire come su uno smartphone. Su questa calcolatrice integralmente digitale non è difficile individuare il modello ispiratore della confezione ideale del do-no delle galline: divaricando medio e anulare e serrandoli rispettivamente contro indice e mignolo s’intravede addirittura una coppia di cofanetti da sei. E, a cascata, si mette a fuoco la straordinaria versatilità del numero 1, divisibile per  (divaricare medio e anulare e contare le falangi di ogni cop-pia di dita: quoziente 6), per  (riunire le dita e osservare trasversalmente falangi, falangine e falangette: quoziente 4), per 4 (divaricare tutte e quat-tro le dita e contare le falangi di una di esse: quoziente ) e per 6 (questa è l’operazione meno intuitiva perché occorre considerare prima le falangi e poi le dita: ma l’azione da compiere è sempre divaricare medio e anulare serrandoli rispettivamente a indice e mignolo: quoziente ). Alzi la mano chi s’era accorto di avere in mano due calcolatrici digitali; fra lettori stupiti e lettori annoiati finisce come se l’autore di questo libro anziché a studiare in biblioteca andasse a servire al Roland Garros: 6-0.

Quindi, il 1 è un numero tanto splendido da generare un concetto fatto apposta per comunicarlo, la dozzina; ma in questa sede, o per lo meno per il momento, è più utile riflettere sulla sua metà. Al fine di assicurare il miglior esito al trasporto delle uova tramite carta di giornale conviene, soprattutto se si dispone di mani piccole come da bambini, afferrare il pa-rallelepipedo sui suoi lati corti. La richiesta d’attenzione che il pacchetto esige durante il trasporto può essere esaudita in due modi: o mediante una generosa donazione di tempo e neuroni o mediante una soluzione negozia-le del tipo “io ti porto a casa incolume e tu intanto m’insegni qualcosa”. Nel secondo caso la riflessione può partire da una domanda in apparenza facile:

le uova sono disposte in tre file da due o in due file da tre? A giudicare dalla posizione delle mani in due file da tre, come un sestetto di pallavolo; ma quando il trasporto si sarà concluso, il pacchetto sarà stato posato sul tavolo e la confezione sarà stata aperta, le uova potranno apparire anche disposte in tre file da due. Anzi, sarà istintivo vederle così, giacché un ovale si tende a concepirlo come un cerchio allungato e non come un cerchio allargato5. Svaporata l’angoscia del cozzo, la superficie della tovaglia diverrà lo sce-nario di un confronto serrato, destinato a esaurirsi dinanzi al problema di come dividere la frittata. Con un unico taglio corrispondente al diametro, ossia in due metà? O con tre tagli a partire dal centro, ossia in tre terzi?

Sullo sfondo s’intravede l’antitesi fra sacro e profano, oggetto del nostro primo racconto.

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game De do dadi

1501. Carlo v ha un anno di vita e l’America dieci scarsi di storia, dicono i Conquistadores. La città in cui Lennon comporrà Imagine, oggi centro del mondo, non esiste ancora; l’Oceano sulla cui sponda occidentale la sua antenata Nieuw Amsterdam prenderà forma oltre un secolo dopo è solca-to da imbarcazioni che entrano ed escono dai porti affacciati sulla sponda orientale. Nel Mediterraneo la Serenissima contende al Turco il primato negli scambi, e a Venezia come a Bisanzio convergono navi sfarzose, merci preziose e menti briose. Una di queste appartiene a un suddito del duca di Urbino, Ottaviano Petrucci. Desideroso di perfezionarsi nelle arti della stampa, praticate in laguna sulla scorta del magistero di Gutenberg, Petruc-ci vi si era trasferito Petruc-circa diePetruc-ci anni prima. Mentre Colombo navigava haPetruc-cia el Oriente por el Occidente, Petrucci aveva provato ad adattare la tecnica dei caratteri mobili alle esigenze della musica: aveva messo a punto un sistema grazie a cui, imprimendo in tre fasi prima il rigo, poi le note e poi le parole, riusciva a stampare canzoni. Spacciata per un’invenzione epocale quella che era in realtà un’applicazione alla musica di una tecnica in uso da tempo in altri settori, l’astuto forestiero aveva chiesto al doge il privilegio di eser-citare in modo esclusivo la sua professione nei territori della Repubblica.

Ottenutolo nel 14 per un termine di vent’anni, Petrucci s’era rimboccato le maniche e nel 1501 aveva impresso il primo libro musicale della storia:

un’antologia che, senza peritarsi di scomodare le lingue classiche, aveva in-titolato Harmonice Musices Odhecaton; tradotto, Cento canzoni di musica armonica.

Le cento canzoni erano in realtà 6 ma questo non importa, conside-rando come il titolo assolva spesso la funzione di specchietto per le allodole.

Quel che importa è che la raccolta, compilata con l’aiuto di un collabora-tore e stampata con grande eleganza, riuniva il meglio della produzione vocale del tempo: non una serqua di cicalate o di stornelli a voce sola ma un florilegio di canzoni armoniche ovvero polifoniche, in buona parte su testi francesi. La lista degli autori comprende nomi che hanno fatto la storia della musica, da Antoine Busnoys a Loyset Compère, da Jacob Obrecht a Johannes Ockeghem, da Heinrich Isaac a Josquin des Prez. La cosa sor-prendente non è tanto l’assenza di nomi italiani – peraltro celati, c’è da supporre, dietro alcune delle canzoni adespote – quanto la presenza di un mercato disposto ad accogliere un prodotto di tale pregio ed esclusività. I riscontri dovettero essere lusinghieri, tanto che nel giro di pochi anni

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trucci non solo ripubblicò l’Odhecaton due volte, ma mise in cantiere anche

trucci non solo ripubblicò l’Odhecaton due volte, ma mise in cantiere anche

Nel documento biblioteca di testi e studi / 1461 musica (pagine 23-35)