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Cronache Economiche. N.027, 1 Febbraio 1948

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QUINDICINALE A CURA DELLA CAMERA DI COMMERCIO INDUSTRIA E AGRICOLTURA DI TORINO

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»KEMME

REGOLAZIONE

AUTOMATICA

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N. 27 Io Febbraio 1948

CONSIGLIO DI REDAZIONE dott. A U G U S T O B A R G O N I prof. dott. A R R I G O B O R D I N prof. avv. ANTONIO CALANDRA d o t t . G I A C O M O F R I S E T T I prof. d o t t . S I L V I O G O L Z I O p r o f . d o t t . F R A N C E S C O P A L A Z Z I - T R I V E L L I

prof. dott. L U C I A N O GIRETTI D i r e t t o r e

dott. A U G U S T O B A R G O N I C o n d i r e t t o r e r e s p o n s a b i l e

QUINDICINALE A CURA DELIA CAMERA DI COMMERCIO INDUSTRIA E AGRICOLTURA DI TOHINO

IL SOFISMA DELLA COMPLEMENTARIETÀ

Capite spasso -che, quando si tratti il problema — aggi finalmente compreso mi programma d'azione ur-gente dei politici - dell'unione doganale fra- due o più paesi,'ci si riferisca alla loro maggiore o minore com-plementarietà, per sostenere la maggiore o minore con-venienza dell'unione doganale stessa.

Si incorre così in un errore provocato da oltre mez-zo secolo di degenerazione protezionistica.

Il sostener; che non è opportuna l'unione doganale o meglio economica (le tariffe non essendo ormai più che un decrepito e quasi innocuo arnese della politica commerciala) fra il paese A e il paese B, perchè A e B non sono complementari e hanno economie orientate verso la produzione ideigli stessi 'beni, !è ragionamento in buona parte infondato. Tutti i paesi del mondo in-fetti, quale più e quale meno, questo gridandolo alto e forte ai quattro venti e quello cercando invece di ovattare gli .edhl 'degli interventi economici del pro-prio governo, hanno da decenni fatto dell'autarchia: si sono cioè sforzati di produrre sul proprio territorio tutto l'occorrente alla vita della propria popolazione, elevando accanto alle frontiere politiche le frontiere economiche intraQcianti il movimento degli uomini, delle merci e dei capitali, e dividendo il nostro pia-neta in compartimenti stagni.

Se, quindi, un tempo, A si era specializzato nel pro-durre l'acciaio e B nel propro-durre il grano, e i due paesi si scambiavano parte delle produzioni cui risultavano rispettivamente più idonei, essi erano complementari e cercavano anzi — coirne durante la maggior parte del secolo scorso — di aumentare il più possibile simile complementarietà, in 'base a quel principio dei costi comparati e della divisione del lavoro che, sviluppando la specializzazione dei singoli, permetteva la più .effi-cace combinazione dei fattori produttivi, quindi ila mas-sima produzione, quindi ancora il massimo benessere comune.

Con l'andazzo protezionistico-autarchico del recente passato, il movimento ebbe aid invertirsi, e i governi si sforzarono con ogni mazzo di diminuire la specia-lizzazione internazionale e di aumentare invece il « far da s'è », annullando la complementarietà naturale e cer-cando di sostituirla con un'autosufficienza artificiale. Il

smo ingannatore degli interventismi economici ha ¡messo fra le ruote della prosperità. Niella vita eco-nomica, infatti, non si avverano miracoli, tutto si paga e ogni prodotto ha -un costo di produzione, che può essere basso o alto, economico o antieconomico, ragio-nevole o assurdo. La parola « costo » fu sempre pru-dentemente sottaciuta dai fautori del protezionismo, se non per invocare una specie di diritto divino alla « di-fesa » dei loro propri costi di produzione antiecono-mici. Ma le conseguenze di questo oblio furono catastro-fiche e il protezionismo costò: non soltanto per la paz-zesca elevatezza di certi coisti di produzione improdut-tivi, ma anche, purtroppo, per il costo umano della miseria delle classi povere, per quello delle lagrime di cui la miseria gronda, e anche per quello <M san-gue versato nelle san-guerre di cui il protezionismo è tanta cagione.

Il costo, anche soltanto economico, e non la comple-mentarietà, è l'argomento basilare che dev'esser tenuto presente quando si parli di sviluppi del commercio in-ternazionale. Ripeschiamo dunque la parola « costo », con le conlsiiderazioni ad essa legate, dal dimenticatoio in cui è stata cacciata dagli uomini provocatori di di-sastri economici e politici. E non ci si preoccupi trop-po, se fra i paesi da stringersi in unione doganale sembra mancare la complementarietà. Effettuata l'u-nione, la complementarietà non mancherà di compa-rire e di svilupparsi quando sull'Inno e sull'altro ter-ritorio ci si tornerà a specializzare a seconda delle proprie attitudini e delle diverse risorse naturali

Naturalmente l'unione doganale comporta dei costi, a sua volta, e cioè dei sacrifici. Ciò che è stato co-, strutto sulla sabbia dell'antieconomia protezionistica

dovrà per forza scomparire, e il problema è senza dubbio gravissimo. Ma non vlè altra via d'uscita e bisogna intraprenderla con coraggio, anche se gli er-rori passati ci costringono ormai a ricorrere a qualche forma di eutanasia prolungata nel tempo per render meno dolorosa la scomparsa graduale dei doppioni in-naturali.

Chi, mummificato nel malvezzo del non vedere più —.— ™ „„„„„„^c. u».iiumxiìuwiuii ai linciale, n i n della punta del naiso dei propri egoismi miopi, paese A, già produttore specializzato d'acciaio, produsse continua a confrontare non i costi di produzione ma andhe il grano, e ;il paese B sviluppò a sua volta l'in- la similitudine dei prodotti, .dovrebbe comprendere ^ W a siderurgica, sicché jjiggi i due paesi prima com- pritaa che sia troppo tardi che la scelta ormai

s'im-- j s'im-- J ' P°ne e non potrà più venir differita: la scelta, cioè, tra l'unicità di territorio economico che può venir paci-ficamente creata dalla libertà di scambi oltre fron-tiere rifattesi semplicemente politiche, e l'altra uni-cità, quella idei Grnssrawm economico e politico insie-me, dhe si realizza invece con la conquista armata. 0 . ^ „, ^ ^.v,»^ x UÀ. UÀ pillila wiii

plementari, e tendenti a divernirlo in misura sempre maggiore, ormai più non lo sono. Ohi giudica (dell'op-portunità delle unioni doganali in base alla complemen-tarietà dei paesi in predicato di parteciparvi può quindi oggi dimostrarvi in quattro e quattr'otto, con dovizia di documentazione statistica, che l'unione doganale non è opportuna.

A questi sofisti in buona o in mala fede va data una risposta che tronchi una volta per

sempre le gambe assai corte dei loro argomenti bugiardi. Basta os-servare che il crescente annulla-mento della complementarietà na-turale dei singoli paesi non è av-venuto per miracolo di bacchetta magica, trasformante zolle sterili, miniere avare e altri fattori ane-mici in fattori produttivi da paese di Cuccagna. Tale annullamento artificiale e contrario alla natura e al buon senso si è verificato in-vece per opera di bastoni tutt'al-tro che magici, che il

miracoli-S O M M A R I O :

Il sofisma della complementarietà pag. Consigli di gestione (G. Alpino) . . pag. Salvare l'Europa con unioni

doga-nali? ( W . Ròpke) pag. Un passo avanti (P. Jannaccone)

Le relazioni commerciali del Pie-monte (D. Gribaudi)

Il sistema fiscale americano . . La ferrovia Cuneo-Nizza (É. Collidà) pag La crisi piemontese e i problemi

del credito (A. Bordin)

pag. 4 pag. 5 pag. 6

Pag-Rosa dei venti Mercati

Rassegna borsa-valori . . . Il problema economico tedesco e

l'Italia (G. Cosma) . . . . Attività della Camera . . . Notiziario estero

Il mondo offre e chiede . .

Borsa compensazioni pa g l 25

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C O N S I G L I DI G E S T I O N E

Sono tornati all'ordine del giorno, nello scorcio del travagliato 1947, i consigli di gestione e francamente ci spiace che ciò non sia avvenuto, come a nostro avviso dovrebbe, sotto il profilo di un problema soprattutto tecnico : ma attraverso agi-tazioni largamente extra-sindacali, invece, e in chiara funzione tattica (sia pure preferibile ai di-sordini e agli scioperi) della generale offensiva poli-tica delle sinistre estreme contro il governo.

Comunque, premesso che i problemi economici contingenti lasciano ben poco adito a studio e se-rena esperienza di riforme di struttura e mettereb-bero i fautori di esse in serio imbarazzo, se venisse loro offerto di assumere iniziative concrete e orga-niche con relativa responsabilità dei risultati, rite-niamo opportuno lumeggiare sommariamente gli aspetti tecnico-economici e pratici della questione.

Anzitutto una obbiezione di natura funzionale: è possibile, nell'attuale stadio di divisione politica e di accesa animosità sociale, trasferire il problema su un piano tecnico e in un quadro di costruttiva cooperazione tra le due parti interessate, impren-ditori e maestranze? La risposta è ovviamente ne-gativa, non appena si considerino forze e uomini esponenti dell'odierna agitazione, in gran parte non preocupati di fondare e perfezionare i consigli di gestione, ma di usarli come mezzi « tattici » nella « strategia » dello scardinamento della proprietà aziendale: col fine di sostituire ad essa il datore di lavoro onnipotente e insindacabile, lo Stato, di fronte al quale i consigli non avrebbero evidente-mente, come non ebbero in Russia, modo né ra-gione di vivere.

Una successiva obbiezione di natura organica : possono i consigli di gestione, ancorché sorgenti da accordi negoziati e con premesse tecniche, espressi però dalla maestranza in base al solo vincolo di di-pendenza e alla funzione aziendale, identificare una cooperazione con l'azienda secondo convergenza di interessi e unicità di intenti e scopi? La risposta è ancora negativa, se pensiamo che la rappresentanza operaia, per ovvie ragioni pratiche e anche eletto-rali, tenderà a far prevalere i problemi salariali e, in ogni evenienza, le soluzioni e i programmi pro-duttivi capaci di dare frutti immediati o vicini, alla maestranza transitoria e comunque sensibile ai 'bisogni del momento : sacrificando, invece, quei pro-blemi di avviamento .e accantonamento, di poten-ziamento e programmi a risultati differiti, che sono tipici della mentalità dell'imprenditore, neppure troppo premuto da esigenze personali.

Appare quindi inevitabile un continuo conflitto, effettivo o potenziale, tra due diverse direttive e visuali di interesse, dal quale può solo derivare il disinteressamento del capitale, la rinuncia a nuovi investimenti e il ripudio del rischio, ancorché con-nessi a previsioni di maggior utile: ossia la ten-denza a lasciar cadere responsabilità e oneri sulla collettività, a una graduale statalizzazione indu-striale, che riteniamo dannosa al progresso econo-mico e al vantaggio di tutti e di ciascun ceto sociale.

Come evitare questa organica e dispersiva anti-tesi e associare, con aderenza e responsabilità, l'in-teresse aziendale del dipendente a quello dell'im-prenditore, fino ad accettare un sacrificio di asten-sione attuale per un maggior vantaggio futuro? Semplicemente con la partecipazione alla proprietà

aziendale, attraverso il libero azionariato dei lavo-ratori: che non dovrà giungere in via gratuita, ma attraverso la valorizzazione data da un atto di ri-sparmio o di utilizzo previdenziale. A ciò non man-cano i mezzi, sia come destinazione di risparmio mo-netario in base alle diverse capacità e ambizioni dei singoli (si pensi all'afflusso della 13a mensilità nei nuclei familiari con più elementi occupati), sia come investimento (sempre facoltativo) delle indennità di anzianità maturate : nel quale caso si avrebbe nel passivo aziendale un semplice trasferimento di im-porti dal conto « Pondi di terzi » al conto « Capitale Sociale ».

Se le azioni dei dipendenti seguiranno la nor-male disciplina privatistica, come ci auguriamo, avremo assemblee di azionisti in piena parità, inve-stitori esterni e collaboratori interni; se avranno invece una disciplina speciale, l'incontro avverrà più opportunamente in secondo grado, nei consigli

am-ministrativi, con l'addizione di componenti eletti in preassemblee dei dipendenti. Si apre in argomento ampio campo di studi e di regolamentazioni: a noi preme di sottolineare il principio (immissione « pri-vata » nella proprietà) e la via di attuazione.

Tale via implica naturalmente una rinuncia intel-ligente, ad egoismi e posizioni esclusive, da parte di chi deve dare e una non meno intelligente e responsabile comprensione da parte di chi deve ri-cevere. Si tratta soprattutto di promuovere per i dipendenti, in occasione di aumenti di capitale (come già previsto in norma aggiuntiva al Codice Civile) o in via normale, l'acquisizione di titoli o quote sociali, con facilità di condizioni e procedure : eventualmente entro limiti di importo (come per le cooperative) e con vincolo al trasferimento (almeno parziale) per. la durata del rapporto di dipendenza. Su un più elevato piano politico-sociale potrebbe concorrere un'azione legislativa contro gli abusi di concentrazione del campitale e le forme sociali a ca-tena che permettono a gruppi compatti di mino-ranza di funzionare da maggioranze: si potrebbe stabilire limiti (in percentuali sul capitale sociale) alle grandi partecipazioni individuali, favorire le di-visioni di pacchetti e sindacati azionari, spezzare insomma ogni forma di monopolio rigido di ge-stione. Sono evidenti le conseguenze generali di di-rettive siffatte, che potrebbero operare per noi tutti consumatori (a somiglianza di legislazioni straniere) anche contro il monopolio di mercato.

Il programma, che trascura ovviamente le aziende familiari o con ristretto nucleo sociale, si rivolge anzitutto ai cosiddetti « complessi », sui quali i par-titi popolari appuntano la « questione sociale ». B' senza dubbio assurdo osteggiare i complessi come tali, perchè la grandissima dimensione si conferma

« ottima » in molti casi (si pensi al costo dell'at-trezzatura di un tipo, nell'industria automobilistica) ; inoltre essi offrono, senza necessità di rovinose « na-zionalizzazioni » e appunto grazie al loro vero ed effettivo « anonimato » la base migliore per le in-vocate riforme di struttura.

Ricordiamo in argomento che proprio in simile tipo di azienda si ha una grandissima divisione della proprietà (in talune società, decine di migliaia di azionisti), con casi non infrequenti (ved. un servizio pubblico torinese) di larga partecipazione del per-sonale dipendente.

Tutto questo sarà naturalmente osteggiato da coloro che, per distruggere la proprietà privata, si mostrano oggi difensori di essa in certe non defi-nite dimensioni « medie » e « piccole » e cercano di spezzarne il fronte, facendosi campioni della resi-stenza ad «ingiustizie» governative (dalle restri-zioni creditizie alle imposte patrimoniali). La loro tattica è riprova della forza insopprimibile di questa aspirazione primordiale dell'uomo, trionfatrice nei secoli di tutte le pressioni collettivistiche, sia teocra-tiche che spartachiste : ma occorre comprendere che il principio si difende oggi democratizzandolo, ossia non sminuendolo in compromessi che lo scorag-giano, ma estendendolo a tutti, nella pienezza mas-sima di facoltà consentita dal progresso economico e dalla complessità sociale.

Il nostro ideale è: quanti cittadini, tanti pro-prietari; alla dignità ed eguaglianza politica, re-cate dal suffragio universale, unire la dignità ed eguaglianza economica, garanzie di responsabilità e di rendimento massimo di ognuno al servizio di tutti. E', con tutta evidenza, un ideale più rivolu-zionario e progressivo di quello che vuole il ritorno allo Stato assoluto, vecchio come il mondo, tiranno economico (e necessariamente politico) di una massa di sudditi. GIUSEPPE ALPINO

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SALVARE L'EUROPA CON UNIONI DOGANALI?

d i W I L H E L M R Ö P K E

L'economista britannico Alfredo Marshall osser-vò una volta molto esattamente che per un econo-mista è assai diffìcile essere un buon patriota e go-derne al tempo stesso la fama. L'economista sa che è proprio per patriottismo ch'egli deve smascherare il falso patriottismo dei protezionisti e render ben chiaro ai suoi connazionali perchè il libero scambio giovi più del protezionismo agli interessi nazionali. Ma gli ignoranti e le persone in mala fede cercano di far passare la sua difesa dei liberi commerci co-me mancanza di patriottismo e, siccoco-me gli igno-ranti e le persone in malafede sono purtroppo molto numerosi, risulta per il nostro economista tutt'altro che facile conservare la nomea di buon patriota.

L'osservazione del Marshall può venir generaliz-zata. In ogni paese è compito ingrato dell'economi-sta imbrigliare gli entusiasmi con le redini della ragione, rendendo così ai suoi simili un servizio ine-stimabile, ma purtroppo anche spregiato e incom-preso da molti. L'economista non ritiene necessario assicurare che anch'egli desidera che i salari siano i più alti possibile, ma ritien doveroso indicare come tale fine possa venire raggiunto senza recare una perdita secca alla comunità. Egli è convintissimo che la disoccupazione sia un gran male, da evitarsi ad ogni costo; ma, invece di limitarsi ad affermarlo ad alta voce, considera suo dovere attirare l'atten-zione sulle condizioni cui bisogna soddisfare affinchè la * disoccupazione stessa venga evitata.

Nè diverso è il compito dell'economista, quando si tratti della questione tanto attuale di un'unione doganale, sia di alcuni paesi soltanto, sia dell'in-tera Europa. Se richiesto del suo parere al ri-guardo, l'economista risponde quanto segue: è dav-vero ammirevole che vi decidiate finalmente a darvi sul serio da fare per sradicare il naziona-lismo economico e va da sè che considero ottimo il vostro fine. Noi moderni abbiamo imparato a servirci con molta cautela della parola « progres-so », e temiamo un poco di renderci ridicoli se ancora la ripetiamo; ma, come andremmo in-contro ad un regresso spaventoso se venissero ri-Stabilite le dogane .interne, eliminate nel corso dei secoli XVIII e XIX, così constateremmo senza dubbio un progresso apprezzabilissimo, se oggi vari paesi del mondo, con procedimento analogo a quello un tempo seguito dalle province e dai cantoni, si fondessero in unioni doganali. Quanto maggiore il territorio in. cui una elivisione razionale del lavoro e un intenso scambio di merci non fossero ostacolati da impedimenti artificiali, tanto meglio per tutti, se davvero si intende realizzare ciò che alla lunga rappresenta la maggior comune conve-nienza. In nessuna regione della terra più che in Europa una simile fusione economica internazio-nale rappresenterebbe un maggiore progresso, perchè non esiste alcuna regione ove maggiore sia la contraddizione tra il potenziale economico e l'organizzazione politica di un continente. Se poi si riflette alla densità della popolazione del-l'Europa e all'assoluta necessità del nostro conti-nente di sfruttare al massimo il suo potenziale eco-nomico, si vede quale sia l'urgenza di porre fine a tale contraddizione. Senza per ora trattare la questione se la così necessaria integrazione eco-nomica dell'Europa debba raggiungersi di un sol colpo, con lo stabilimento di un'unione economica europea, oppure in varie tappe rappresentate

dal-l'unione di singoli paesi particolarmente simili po-liticamente, etnologicamente o economicamente e cioè secondo il modello del « Benelux », l'unione doganale tra il Belgio l'Olanda e il Lussemburgo — ci sembra opportuno cercar di chiarire alcune questioni fondamentali, spesso trascurate con leg-gerezza dagli entusiasti.

La prima questione suona così: quali paesi pos-sono fondersi prima d'altri in un'unione doganale? Un'umione doganale, in quanto rappresenti una vera unione economica, significa che fra i. paesi riunitisi si forma un'inostacolata divisione del la-voro nella produzione e aumenta il flusso degli scambi commerciali.

Ciò è tanto più utile quanto più i paesi sian tali da completarsi economicamente, senza che l'unione debba provocare un rivoluzionamento catastrofico della struttura economica di uno di essi o di am-bedue. Invece, quanto più simile è la struttura economica dei paesi in questione, tanto più im-portanti divengono per loro le relazioni commer-ciali con terzi paesi e tanto minori vantaggi deb-bono essi attendersi da un'unione doganale. Te-nendo presente quanto sopra, sembra dubbio che sia possibile e utile fondere fra breve l'intera Europa in un'unione doganale, anche volendo am-mettere che la Russia sia disposta a rinunciare al suo « Grossraum » e cioè porre fine alla sua poli-tica autarchica che, se continuata, ncn permette-rebbe in alcun modo la formazione di un'unione economica con l'Europa occidentale.

Si può ragionevolmente consigliare agli Stati Scandinavi oppure alla Svizzera di rinunciare ai loro interessi d'oltremare, nella misura che verrebbe richiesta dall'accesso a un'unione doganale europea? Ed ecco sorgere una questione molto più im-portante e profonda. Un'unione doganale significa l'eliminazione dal mondo di un certo ammontare di barriere doganali, qualora quella dell'unione stessa nei riguardi degli altri paesi non venga in-nalzata in proporzione. L'unione doganale è quindi il risultato di una politica commerciale liberista. Ma se un paese è disposto ad eliminare i suoi dazi, perchè mai deve aver bisogno di un'unione doga-nale? Perchè non apre i suoi confini verso tutti i paesi che siano disposti ad adottare nei suoi ri-guardi una politica di reciprocità? Salta così agli occhi la principale caratteristica delle unioni do-ganali: quando esse si realizzano vengono aperti i confini di un paese verso un altro, che non sol-tanto apre i confini a sua volta, ma è anche pronto al tempo stesso ad addivenire all'unifica-zione della politica economica. La tanto deside-rata estensione del territorio economico in forma unitaria si verifica soltanto quando l'unione do-ganale rappresenti una vera unione economica^ come nel caso classico dello « Zollverein »

germa-nico; ma per ciò è innanzitutto necessaria una corrispondente unione politica. Se ad esempio la Svizzera, applicando una politica commerciale li-berista, diminuisce i propri dazi all'importazione — in via autonoma oppure a mezzo della recipro-cità dei trattati commerciali — o addirittura si converte al libero scambio, essa rimane politica-mente quel che era. Se invece la Svizzera aderisce ad un'unione doganale, essa rinuncia a buona parte della sua indipendenza politica e, trattandosi di un piccolo Stato, finisce per mettersi in balìa del

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paese partecipante all'unione doganale che sia po-liticamente più potente..

Un'unione doganale non rappresenta quindi sol-tanto un'integrazione economica, ma anche un'in-tegrazione politica. Proprio in ciò è la radice delle difficoltà cui va incontro l'unione doganale e la spiegazione del fatto che sino ad oggi si siano rea-lizzate cosi poche unioni e soltanto fra popoli che si sentano strettamente legati gli uni agli altri. La difficoltà era già grande in passato, quando, per fare dell'unione doganale una vera unione eco-nomica, si trattava soltanto di eliminare gli ostacoli delle dogane. Se le dogane fra due paesi venivano abolite, non rimanevano altri ostacoli al libero flusso dei rapporti commerciali oltre i confini, di-ventati invisibili come quelli di una provincia. Di conseguenza non esistevano altre questioni impor-tanti di politica commerciale, tali da costringere i paesi unitisi a sacrificare in alcun modo la loro sovranità.

Tale era la situazione al tempo della politica eco-nomica liberista e di un sistema economico che fa-ceva alla politica il minor numero possibile di con-cessioni; il sistema, cioè, dell'economia di mercato. Oggi invece, come subito possiamo constatare, le difficoltà politiche per la realizzazione di un'unione doganale capace di portare ad una reale unione economica sono diventate gigantesche. Il posto dell'economia liberista è stato più o meno inte-gralmente occupato dall'economia collettivista; da un'economia, cioè, che ha fatto il governo di un paese sempre più signore dell'economia. Oggi l'abo-lizione delle dogane non basta più a permettere il raggiungimento di un'unione economica e quindi a raggiungere ciò che prima veniva concesso da una semplice unione doganale. Bisogna tener conto non solo del sistema di contingenti e del controllo delle divise, ma anche dell'intero sistema di un'economia nazionale imposta dall'alto e pianificata. Un'unione doganale raggiungerebbe lo scopo che oggi si pro-pongono i suoi fautori soltanto se anche i sistemi dei contingenti, dei controlli delle divise e dell'eco-nomia pianificata venissero in pari tempo unificati. Ma una simile unione rappresenterebbe in pratica la fusione dei due governi interessati in uno Stato unico; fusione tanto più difficile quanto più nume-rosi e più ampi fossero i fini propostisi dai singoli governi. Quanto più un governo è collettivista, tanto più numerosi e tanto più estesi sono i suoi fini, e quindi tanto meno è probabile la sua fusione con un altro governo.

Coloro che oggi si attendono il risanamento del-l'Europa dalle unioni doganali peccano per un ana-cronismo. Dimenticano cioè ohe ormai siamo entrati nell'èra del collettivismo, in cui la vita economica viene sempre più politicizzata. Se si vuole ottenere gli effetti delle antiche unioni doganali, occorre ormai ricorrere ad un'unione politica in un governo centrale internazionale. Ma proprio tale governo centrale diventa aspirazione sempre più utopistica, quanto più si aumenta la sovranità di ogni singolo governo col sistema del collettivismo nazionale.

Se quindi coloro che oggi propugnano unioni da-ganali sono al tempo stesso fautori del collettivismo, essi peccano non soltanto di un anacronismo, ma al tempo stesso anche di una confusione spirituale imperdonabile. E occorre dir loro che il risanamen-to dell'Europa potrà esser raggiunrisanamen-to soltanrisanamen-to se il collettivismo viene messo in disparte, una volta per sempre. Fin quando non si arriverà a ciò, l'en-tusiasmarsi per le unioni doganali significa qualcosa di simile al voler mettere il morso alla ccda di un cavallo.

L'UNIONE DOGANALE FRANCO - ITALIANA

UN PASSO AVANTI

« La Nuova Stampa » del 21 gennaio ha pub-blicato questo articolo del Prof. Pasquale Jannaccone, sul problema dell'unione doganale franco-italiana. Lo riproduciamo per cortesa concessione dell'illustre studioso, a seguito del suo precedente articolo già comparso nel nu-mero 22-23 di « Cronache Economiche ».

La Commissione mista, incaricata degli studi pre-liminari per la formazione di un'Unione doganale franco-italiana, ha presentato ai governi dei due paesi una relazione la quale afferma la possibilità del sorgere del nuovo organismo e ne indica le con-dizioni essenziali di vita. Il riconoscere che nessuna

insuperabile ¡difficoltà si oppone ad una più intima ed unitaria collaborazione economica tra la Francia e l'Italia, e che molte ragioni la consigliano, è già un avvìo alla sua realizzazione, pur se ancora lungo è il cammino da percorrere perchè il generico con-senso sulla sua convenienza si tramuti in specifici accordi sui modi di coordinare e contemperare i ri-spettivi interessi.

Il nome di « unione doganale » designa oggi molto incompiutamente i nuovi organismi che dovrebbero formarsi in Europa per accrescerne l'efficienza pro-duttiva ed ampliarne ed ¡unificarne il mercato. Non si tratta più soltanto di sopprimere dazi doganali fra paesi partecipanti ad ogni singola « unione » e di agguagliarne le tariffe nei loro scambi con ogni altro paese; ma di eliminare fra loro ogni intralcio, di qualsiasi natura, che menomi o ritardi la circola-zione delle merci, degli uomini e dei capitali, e di addivenire ad una distribuzione nuova, per qualità e quantità, delle rispettive forze produttive. Il Bel-gio, l'Olanda ed il Lussemburgo hanno bene inteso queste esigenze; e benché la minore estensione dei loro territori e la natura delle loro produzioni ren-dano meno arduo il processo di unificazione econo-mica, hanno non 'di meno preveduto che il suo com-pimento debba passare per tre fasi successive. Ma i problemi che FUnione franco-italiana dovrà risol-vere sono più numerosi e complessi di quelli del Benelux e dovranno essere affrontati in un ordine diverso. Mentre, infatti, il Benelux crede di potere già nella primsí- fase sopprimere i dazi fra i tre paesi ed agguagliare le tariffe verso gli altri, rimandando alle fasi ulteriori le questioni del trattamento fiscale delle merci e delle imprese produttive e le questioni monetarie, è proprio alla soluzione di questi ultimi e più ardui problemi che bisogna dare 'a precedenza perchè possa nascere e vivere il nuovo organismo franco-italiano.

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Ì W M M J 4. E FA' BARBARICA E FEUDALE

I primi tre articoli del Prof. D I N O G R I B A U D I sulla storia delle relazioni commerciali del Piemonte sono stati pubblicati nel n. 16, 19 e 21 di « C r o n a c h e E c o n o m i c h e » .

Per una provvidenziale azione di compenso, le invasioni barbariche, che danno il colpo di grazia all'ancor maestoso, ma pericolante edificio dell'Im-pero romano, aprono ai portati della sua civiltà, per il tramite della fede in Cristo Signore, le vie di tutta l'Europa, fino ai tenebrosi mari del Set-tentrione. Quelle invasioni spezzano, è vero, l'or-ganismo statale unitario, che faceva del Mediter-raneo come un grande lago, ed i traffici, qui già attivissimi, ne soffrono, ma alle antiche vie del commercio si saldano ora paesi giovani, poco co-nosciuti, nel centro ed ai margini oceanici del con-tinente.

Pur continuando Roma ad esercitare un fascino irresistibile, accresciuto dalla maestà 'del Pontifi-cato, i centri del potere politico ed economico in Italia si spostano verso Nord, per essere a mag-gior contatto con le sorgenti di energia umana, con le risorse e specialmente con i vasti, promet-tenti mercati dell'Europa barbarica. Ravenna, Mi-lano, Pavia fioriscono come capitali e come sedi di importanti attività economiche. La momentanea decadenza del commercio mediterraneo, provocata dell'ergersi dei regni romano-barbarici di fronte all'Impero d'Oriente, e poi (secoli VIII-X) le ben più gravi difficoltà create ¡alla navigazione dalla frattura fra Occidente cristiano ed Oriente isla-mico, favoriscono le comunicazioni terrestri lungo la pianura padana ed attraverso i valichi alpini. Questo continentalizzarsi delle maggiori cor-renti commerciali ripaga, almeno in parte, il Pie-monte del danno conseguente al frazionamento del-l'unità territoriale romana, massime col distac-co delle Gallie. Vero è che, dal punto di vista stret-tamente politico, i primi nuovi padroni dell'Italia — Goti, Bizantini, Longobardi — non attribuisco-no grande importanza alla attribuisco-nostra regione, tanto

(e fu un bene) da non occuparla mai per intero, ma appunto questo relativo disinteresse agevolò il mantenersi di abbastanza attivi rapporti tra il Piemonte e le contigue formazioni politiche d'ol-tralpe, in via di graduale rassodamento. Così pri-ma i Borgognoni di Gondebaldo tennero per qual-che tempo, con l'intera valle di Aosta, i passaggi dell'« Alpis Graia» e dell'« Alpis Poenina » : poi fu Tecdorico, che ricongiunse all'Italia la Proven-za ed ebbe, come reggente, il governo di molta parte della Gallia meridionale e della Spagna. In-fine, nel dominio dei valichi alpini sottentrarono ì Franchi, ereditando i rapporti già stabilitisi fra il Piemonte e le due Borgogne.

In sostanza si può dire che anche nei periodi più bui della nostra storia regionale, ad onta dello stato di abbandono delle strade e della loro scarsa sicurezza, le correnti di traffico che s'inalveavano tra lira e dollaro possano essere realmente mante-nute, ed in cui la parità tra il franco e la lira cor-risponda al rapporto tra i rispettivi poteri di acqui-sto e questi non siano troppo disuguali, si presenta dunque come una condizione (anzi come la sintesi di tre condizioni) che dev'essere precedentemente realizzata perchè l'Unione franco-italiana sia un organismo vitale. Il che, come si vede, oltre all'es-sere un problema tecnico -di grande delicatezza e complessità, è fondamentalmente un problema poli-tico; perchè la stabilizzazione monetaria richiede un'opera di governo tutta rivolta a quello scopo, mentre in entrambi i paesi essa è ora più preoccu-pata delle instabili condizioni dell'ordine pubblico e dei contrastanti interessi elettorali che concorde-mente tesa verso il risanamento finanziario e mo-netario.

nelle maggiori vallate del Piemonte settentrionale, iion inaridirono mai del tutto. A mantenerle in vita ed a rianimarle concorse non poco la sempre più frequente pratica dei pellegrinaggi alla Roma di Pietro ed ai Luoghi Santi di Palestina; pellegri-naggi che forniscono prima inconscia occasione e poi ricercato pretesto di varia attività di traffico. Gli ospizi che arditi monaci fondano al Grande e al Piccolo S. Bernardo, sulle rovine delle « man-siones » romane, confortano e rassicurano anche i « mercatores » ed i « negotiatores » ! Ai quali, nel frattempo, operazioni di guerra schiudono e addi-tano nuovi valichi di grande avvenire, come il Cenisio.

Da varie fonti franche (come il testo di Gorbie del 706) risulta a chiare note che la Gallia mero-vingica riceveva, e in non piccole quantità, da Bi-sanzio e dall'Oriente in genere, seterie, gioielli, vini, papiro, e soprattutto spezie. Quale strada se-guivano questi prodotti, che giungevano pure alla lontana Inghilterra? Anche facendosi un certo po-sto a Marsiglia nelle importazioni dall'Oriente, bi-sogna ritenere che la maggior parte di esse (date le precarie condizioni dei traffici nel Mediterraneo occidentale) passasse per Venezia. Prova ne sia che la futura regina dell'Adriatico, abilmente destreg-giandosi tra Bisanzio (porto d'imbarco) ed il regno dei Longobardi (retroterra padano), aveva con-cluso nel 715 un trattato di commercio con Liut-prando per il trasporto sul Po e sui suoi affluenti, non solo del sale della laguna, ma anche di spezie e di altri prodotti dell'Oriente.

In realtà nell'alto medioevo il trasporto di uo-mini e di merci sulla rete fluviale padana ebbe un notevole sviluppo, non spiegabile (deterioramento delle strade a parte) se non con la necessità di as-sicurare il transito a mercanzie destinate, come si diceva, a « transalpinare ». Il che significava, nel maggior numero dei casi, attraversare il Piemonte con provenienza da Pavia, grande porto di smista-mento, prossimo alla confluenza del Po e del Ti-cino. A questo commercio con i paesi d'oltralpe furono, per qualche tempo, interessati grandi mo-nasteri. Ed è particolarmente significativo il con-statare che quello della Novalesa, mentre godeva di speciali privilegi nel portò di Pavia, otteneva (ot-tobre 769) da Carlomagno, re dei Franchi, che i suoi uomini potessero negoziare in quel regno « con esclusione dal teloneo e da altre gravezze che il fisco regio era solito riscuotere, si tratti di merci trasportate in carri o a sema, o per mari, o anche a spalla d'uomo ».

La riunificazione del mondo occidentale, e' soprat-tutto la riunione del « regnum Italiae » al dominio

(Continua a pag. 8)

Quando questa iniziale difficoltà sarà superata, le modificazioni che dovranno compiersi nella strut-tura economica dei due paesi imporranno sì ad en-trambi certi sforzi e costi di adattamento, ma non costituiranno ostacoli tali da giustificare la rinun-zia ai vantaggi che potrebbero ritrarre dal più facile approvvigionamento di materie prime, dall'aumento della produzione e delle esportazioni e dall'amplia-mento del loro mercato in temo. Ed a ridurre quei •costi, come a conseguire questi vantaggi, saranno necessarie provvidenze governative e ponderate in-tese fra i produttori stessi in agni settore agricolo e industriale, le ¡quali, contemperando gli interessi dei singoli, stimolino la ricostruzione ed il rinvigo-rimento di tutta la vita economica europea.

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IL SISTEMA FISCALE AMERICANO

Il 15 marzo di ogni anno è negli Stati Uniti la « giornata ideile tasse », la giornata cioè in cui tutti i cittadini riempiono il modulo di denuncia e lo spediscono entro la mezzanotte. Il governo lascia che ciascuno faccia da sè i conti di quanto deve al fisco, calcolando il suo reddito o comunque le sue entrate, e faccia pervenire la denuncia agli uffici competenti. Se il contribuente non sa orientarsi da solo di fronte alte disiposizioni solitamente molto complesse che regolano questa materia, vi sono molti modi in cui egli può farsi aiutare. Parecchie settimane prima che scada il termine per la denun-cia, tutti i giorni i quotidiani pubblicano rubriche contenenti istruzioni e chiarimenti sui diversi pro-blemi fiscali. Le edicole e i librai espongono tutta una fioritura di opuscoli e opuscoletti che possono essere di guida al contribuente. I sindacati nomi-nano delle commissioni incaricate di venire in aiuto ai propri dipendenti in queste questioni; e presso molte ditte il ragioniere è a disposizione degli im-piegati per ogni chiarimento. I funzionari del fisco tengono delle conversazioni alla radio e tutti i cit-tadini sono invitati a consultare, ove ne abbiano bisogno, gli esperti degli uffici fiscali.

Il governo ha naturalmente dei sistemi per con-trollare l'esattezza delle dichiarazioni e reprimere le evasiosi. In primo luogo, tutte le denunce ven-gono esaminate da contabili specializzati in materia, abilissimi nello scoprire gli errori. La maggior parte di questi sono stati compiuti in buona fede, per errore di calcolo, o per ignoranza delle disposizioni, o per mancanza di accuratezza. In questi casi, il con-tabile scrive al contribuente, spiegandogli la natura

dell'errore ed invitandolo a rettificarlo. Se l'errore è troppo complicato per essere spiegato in una let-tera, allora il cittadino viene invitato a recarsi presso l'Ufficio competente perchè gli siano forniti a voce i necessari chiarimenti. Se il contabile ritiene che sia necessario procedere a un esame dei registri del contribuente, può inviare un apposito incaricato. In genere, nessuna penale è applicata per questi errori. Nei pochi casi, invece, in cui si sospetta la frode, la pratica viene affidata a speciali investi-gatori.

Quando viene provata l'intenzione fraudolenta, si applica una penale del 50 per cento, e nei casi più gravi è prevista anche la denuncia all'autorità giu-diziaria. La percentuale di questi casi è però molto piccola, come dimostra il fatto che lo scorso anno, su cinquanta milioni di contribuenti, vennero sco-perti solo quattromila casi di falsa denuncia.

Per i lavoratori a reddito fisso, il pagamento delle tasse è agevolato dal sistema della ritenuta,

instau-rato nel 1943, in base al cosiddetto principio «

Pay-As-You-Go », che vuol dire « paga quando vai a

riscuotere ». Il datore di lavoro, nell'effettuare la ritenuta, è obbligato a rilasciare una ricevuta in cui viene specificato l'ammontare del denaro trat-tenuto. Se si tratta di un lavoratore in proprio, allora il governo compie ogni anno un calcolo pre-suntivo del reddito ed egli corrisponde trimestral-mente quanto da lui dovuto al fisco. Negli altri casi, il cittadino può rimettere periodicamente al fisco le rate da lui dovute, durante il corso dell'anno, e alla fine viene fatto il conguaglio tra quanto da lui dato e quanto dovuto. In questo conteggio, si tiene naturalmente conto di tutte le variazioni verificatesi nel suo reddito, nel numero dei familiari a carico,

e degli acquisti straordinari da lui effettuati. Spesso avviene che, nel calcolo finale, il contribuente si accorga di avere pagato più di quanto dovuto, nel qual caso chiederà la restituzione del denaro ver-sato in eccesso.

La determinazione dell'ammontare degli oneri fi-scali è fatta sulla base della capacità contributiva del singolo. Se il reddito dell'individuo è veramente cospicuo, la maggior parte di esso va allo Stato. Il minimo imponibile è fissato in 500 dollari all'anno a persona, ed elevato di altri 500 dollari per ogni persona a carico e dell'equivalente delle spese che godono di esenzione fiscale. L'imposta è progres-siva, nelle proporzioni che si possono desumere dal-l'esempio seguente: per un individuo senza carico di famiglia, è del 9 % per un reddito di 1000 dol-lari, del 18 % per un reddito di 5000 doldol-lari, del 23 % per un reddito di 25.000 dollari, del 63 e mezzo per cento per un reddito di 100.000 dollari, del-l'84 % per un reddito di -un milione di dollari.

L'aumento del minimo imponibile per i familiari a carico non è diverso per i più ricchi da quello fissato per i' meno abbienti.

Al pagamento delle imposte sono naturalmente tenuti, oltre che gli individui, le società industriali e commerciali. Se il reddito netto di un'azienda supera di 50.000 dollari, essa è tenuta al paga-mento di un'imposta del 38 % su tutti i suoi profitti. Percentuali minori sono previste per le società più piccole.

I dividendi pagati dalle società sono considerati reddito nei confronti dei singoli azionisti, i quali pagano su di essi l'imposta, malgrado che il pro-fitto da cui i dividendi stessi derivano sia stato già gravato dal fisco.

Oltre all'imposta siul reddito, che è la più impor-tante, il governo americano ricorre ad altri due tipi principali di imposta per assicurarsi le entrate ne-cessarie. Esse sono l'imposta di successione e quella di fabbricazione.

La prima si applica sui patrimoni che superano i 60.000 dollari, e viene calcolata inizialmente in ragione del 3 %, aumentando progressivamente e fortemente, sino ad arrivare ad un massimo del 77 % per i patrimoni che vengano valutati dieci milioni di dollari od oltre. Sono esenti dall'imposta i lasciti ad istituzioni di beneficenza.

Per quanto si riferisce alla seconda, l'imposta di fabbricazione, essa viene generalmente discussa dagli economisti e da alcune personalità politiche, e sin dalla fine della guerra si è molto parlato di abolirla o di ridurla. La critica di cui più frequente-mente essa è fatta segno è che il suo onere viene a gravare indifferentemente sui ricchi e sui poveri. Ciò però è in parte attenuato dal fatto che i con-sumi voluttuari sono i più tassati.

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LA FERROVIA CUNEO-NIZZA

Fu nel lontano 1850 che si cominciò a porre il problema della ferrovia Cuneo-Nizza. Quel dina-mico sindaco di Cuneo, per la storia on.le Brunet, fervido seguace del Cavour, si pose a capo della agitazione, mentre erano ancora in corso i lavori della Torino-Cuneo. Completati questi ed entrata nel 1853 in esercizio la nuova linea, apparve sùbito la necessità di prolungarla fino al mare, collegando la capitale dello Stato, con la capitale della Contea di Nizza. Il Brunet prese, senza frapporre indugi, accordi con la Municipalità di quella nobile citta-dina, e, per affrettare i tempi, attesa anche la mag-gior vicinanza con Torino, fece assumere da Cuneo l'incarico di fare approntare il progetto di mas-sima. Questo fu redatto diligentemente dall'inge-gnere Cerrotti, il quale credo fosse allora il Capo idei Genio Militare dell'esercito Sardo. Egli nel 1856 lo presentava, in nitida e chiara compilazione, agli Enti interessati per l'esame e per la eventuale approvazione. Il tracciato della linea su per giù seguiva l'attuale percorso; raggiungeva il colle di Tenda a quota 1046, lo attraversava con una gal-leria di metri seimila e cinquecento e ne usciva a quota novecentosettanta; quindi, mantenendosi sulla destra della Roja, passava sotto il Giauma con una breve galleria, e si portava sulla destra del torrente Bevera Ano al Capo Murtula; da qui a Mentone, a Villafranca, a Nizza. Lo sviluppo del-l'intero percorso sarebbe stato di km. 106 circa, il costo di lire quarantacinque milioni, ivi com-prese le spese per la dotazione del materiale. Il progetto prevedeva fin da allora la opportunità di ubicare la nuova stazione di arrivo a Cuneo sull'al-tipiano, all'ingresso della grande piazza allora in progetto, per collegarsi quindi alla linea di Torino attraversando la Stura con un nuovo grandioso ponte-viadotto.

Il tracciato non piacque ai Nizzardi, i quali gli preferivano il percorso lungo la Vesubia, percorso che si sviluppava alle spalle di Nizza attraversando tutta la Contea, ma allontanando la linea dalla zona rivierasca, verso Oneglia e Savona. Inoltre quel tracciato sarebbe riuscito notevolmente più difficoltoso, imponendo, fra l'altro, una galleria di oltre undici chilometri per attraversare il colle delle Finestre, che bisognava, di più, raggiungere a quota 1400 e cioè ad una quota di difficile transito invernale. Non se ne fece nulla per allora. Cuneo pagò il suo progetto (ben L. 30.000, di quelle an-tiche), lo conservò gelosamente, ed attese tempi migliori.

La pratica non fu certamente messa a dormire, ma, con la tenacia propria dei cittadini di quella nobile città, ad ogni occasione favorevole essa ve-niva tratta fuori, non fosse altro per tenere viva l'agitazione. Se ne era occupato anche di proposito il gran Conte, il quale, in una tornata della Ca-mera Sabauda del 1860, si esprimeva in questi termini : « desidero che il Governo possa por mano a quest'impresa di non dubbia utilità sia per Nizza e la Contea, sia per il bacino dell'alto Po e dell'alto Tanaro ».

Ma purtroppo, dopo il trasferimento della Contea alla Francia, gli stessi interessi che poteva avere il nuovo Regno Italico per collegare Nizza a To-rino, allo scopo di conservare, malgrado il nuovo stato di cose, le antiche tradizioni di affari e di sentimenti che legavano la Contea al Piemonte, agivano più fortemente, ma in senso contrario, da parte francese, dove, viceversa, si teneva ad annul-lare tali rapporti. La questione fu ripresa più de-cisamente sul finire del 1866. In questo torno di tempo un gruppo di benemeriti cittadini di Cuneo, con a capo l'on.le Caranti, dava incarico al cele-bre ing. Agudio di studiare il progetto di una fer-rovia Cuneo-Ventimiglia attraverso il colle di Ten-da « approfittando, come si dice nell'apposita re-lazione, dei nuovi metodi suggeriti dagli ulteriori progressi della scienza e dell'industria ferroviaria».

L'Agudio in unione all'ing. Arnaud, dell'Ammini-strazione provinciale cuneese, progettò una ferrovia a scartamento ridotto di m. 1,15, la quale avrebbe dovuto raggiungere il colle di Tenda, che sarebbe stato attraversato con una galleria di soli metri 2800, mediante un- sistema di cremagliere adattate ai tratti di linea più inclinati, così da ridurre al minimo le speciali e dispendiose opere d'arte che altrimenti si sarebbero rese necessarie per superare le forti pendenze. La linea sarebbe venuta a co-stare intorno ai diciotto milioni, e l'Agudio si ri-prometteva di realizzare personalmente il suo ardi-mentoso progetto a certe condizioni, una delle quali era la concessione di un sussidio globale di otto milioni e cioè quattro dal Governo italiano, due e mezzo dal Governo francese, uno e mezzo da altri enti e corpi morali. Non se ne fece nulla nep-pure questa volta. E chi ricorda le vicende di quei tempi in Francia ed in Italia può anche darsi ra-gione del perchè.

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al-berghi della Riviera. In tanto preoccupante silenzio sulle possibilità e sulla volontà di un sollecito ripri-stino di questa linea, conviene a questi tre centri mettere sul tappeto, con azione concorde, il pro-blema della rapida ricostruzione del tratto inter-rotto. In verità da parte italiana si è fatto quanto era di nostra spettanza. E' il percorso francese che attende l'opera di riattamento, ma purtroppo non se ne parla neppure. D'altra parte chi ha interesse a questa linea? Noi abbiamo interesse per il tratto che, transitando obbligatoriamente sul suolo fran-cese, unisce Limone a Piena; Nizza per il tratto che la unisce a Breil con Torino ed oltre. A quella città la linea è necessaria tanto quanto a Torino, ed anzi anche di più, perchè in definitiva Torino, per recarsi in Riviera, ha a propria disposizione la linea di Savona, che le cure del nostro Capo Com-partimento Ferroviario vanno rendendo sempre più efficente. Ma Nizza per collegarsi col Centro Eu-ropa ha soltanto questa linea, perchè l'altra, la litoranea ligure, la allontana di oltre cento chilo-metri, e quella interna francese, ancora di più. Inoltre la Torino-Nizza, per quanto ferrovia di mon-tagna, tuttavia è stata costruita con criterio da grande turismo fin dall'origine, e pertanto per treni rapidi, quali furono quelli che la percorsero fino agli ultimissimi tempi. Ed allora, poiché gli inte-ressi dei tre centri si intersecano e si completano gli uni con gli altri, è da augurarsi che si addivenga ad una intesa comune, con un comune indirizzo, con una comune simultanea azione presso i rispet-tivi Governi. Ma per l'amor di Dio, senza costitu-zione di Comitati, i consueti addormentatori di ogni sana iniziativa. E' sufficiente una azione concorde tra le Camere di Commercio interessate. Per esem-pio Torino può rendersi iniziatrice del movimento

e anche dirigerne gli sviluppi, interessando alla soluzione tutta la Deputazione politica piemontese e quanti altri Enti ed organizzazioni è possibile, per prospettare al Governo la importanza della que-stione e l'urgenza di risolverla. Altrettanto dovrebbe fare Nizza. E cosi un primo convegno potrebbe essere tenuto o a Torino od anche a Nizza, un se-condo nell'una o nell'altra città, un terzo, che po-trebbe anche essere il conclusivo, nella bella Cu-neo. E poi, se non si è ancora concluso, ricomin-ciare da capo. Ed ogni volta chiedere il concorso valido, efficace della stampa cittadina di qualunque colore, perchè la questione riveste carattere sul quale tutti si deve essere d'accordo; di qualunque natura, anche tecnica, anche sindacale, perchè la questione interessa ogni ceto di cittadini, ogni ma-nifestazione di attività. Si può riuscire? Credo di :ù.

ETTORE COLLIDA

LE RELAZIONI COMMERCIALI DEL PIEMONTE

(Continuazione da pag. 5)

franco, per opera di Carlo Magno, favorì natural-mente e sviluppò le relazioni di commercio tra l'Italia e la Francia, rallentate, ma non venute mai meno nei secoli precedenti. E tale collegamento, che si mantiene, ma per breve tempo, anche dopo le partizioni di Verdun e di Mersen, con l'unione del regno italico alla Lotaringia, portando a gra-vitare verso il Nord della Francia e la valle del Reno, dove ha sede il potere imperiale, mette spe-cialmente ih valore i passi della valle d'Aosta ed il Sempione, mentre minor ampiezza di orizzonti ha il traffico che si svolge per la vai di Susa. Gli ostacoli creati dagli Arabi alla navigazione occi-dentale nel Tirreno e nel golfo del Leone restrin-gono ancora la cerchia ed il volume del commer-cio, già piuttosto modesto, che superava i valichi delle Alpi Marittime e dell'Appennino ligure.

L'Impero carolingio, pur essendo un aggregato eminentemente continentale, non intende rinun-ciare ai contatti con l'Oriente, ed a questi contatti un'unica comoda via rimane aperta: quella della valle padana, che conduce ai transiti alpini. Trop-po frequentemente interrotte e malsicure sono le

vie dei Balcani e troppo lunga la deviazione ini-ziata dai Vareghi seguendo i fiumi della Russia. Non per nulla Carlo Magno mira ad impossessarsi

di Venezia e poi, non essendovi riuscito, stringe con essa importanti trattati di commercio che i suoi successori si affrettano a rinnovare.

Oltre all'Italia settentrionale l'Impero carolingio ha un altro intenso focolare di operosità

economi-ca, i Paesi Bassi, le cui coste sono animate da una navigazione molto attiva, in contrasto con l'atonia che ha colpito gran parte del Mediterraneo. I mer-canti che dall'Italia portano in Francia le sete e le droghe dell'Oriente non fanno più il viaggio di

ritorno a vuoto, ma caricano, tra le altre merci del Settentrione, i panni ed i mantelli («pallia frisonica») che escono dagli opifici imperiali delle Fiandre. A questo commercio, facilitato da misure di protezione e di riassetto delle strade e da fran-chigie nei confronti dei pedaggi minori, vediamo già partecipare mercanti astigiani, che, più nume-rosi in Francia ed in Borgogna, si sono tuttavia spinti sulle coste del Mar del Nord e della Manica e forse anche fino all'Inghilterra.

Anche in ordine al commercio interno il quadro che possiamo farci del Piemonte nell'età barbarica e feudale è meno fosco dì quel che si credeva in passato. Durante il basso impero romano terre de-maniali e latifondi si sono certo formati anche nella nostra pianura, ma nel restante territorio, e soprattutto in collina ed in montagna, i liberi col-tivatori erano ancora numerosi. Come la conquista longobarda, così quella franca hanno esercitato un'influenza minima sulla struttura economica della campagna, migliorata, anzi, per l'attività tu-telatrice e bonificatrice di grandi e piccole abba-zie. Relativamente lontano dalle maggiori vie di invasione e dai campi di più aspra lotta, raccolto nella cerchia delle sue montagne, privo di grandi risorse atte a sollevare la cupidigia dei barbari, il Piemonte dovette soffrire la loro autorità e le loro angherie di vincitori in minor grado che altre par-ti d'Italia.

Certo, anche da noi si ebbe un periodo di ritor-no all'ecoritor-nomia naturale e di decadenza urbana, ma non si giunse a vera frattura fra città e cam-pagna. Se scomparvero addirittura due cittadine industriose, come Industria e Pollentia, nelle altre un piccolo ceto di artigiani, di commercianti, di bottegai manteneva rapporti con le terre del con-tado. In ogni centro di qualche importanza si te-neva un mercato settimanale che serviva soprat-tutto a provvedere di generi alimentari il centro stesso ed il suo distretto. A più vasta cerchia di affari erano destinate le fiere annuali. Spiccavano tra queste le fiere di Novara, di Gozzano, di Domo-dossola e soprattutto di Vercelli, dove, al principio del secolo X l'esposizione e la contrattazione delle merci, in occasione della solennità di S. Eusebio, duravano quattordici giorni. Se ne può facilmente dedurre una notevole vivacità di scambi tra Pie-monte e Lombardia e tra PiePie-monte e Svizzera, at-traverso il Sempione.

Lo sfasciamento dell'Impero carolingio e la con-seguente anarchia, lo spezzettamento territoriale dovuto al diffondersi del feudalesimo, le incursio-ni degli Ungheri, e, più ancora, quelle dei Sarace-ni, ebbero gravi ripercussioni sulle correnti com-merciali che aittraversavano il Piemonte. Le comu-nicazioni con la Provenza furono pressoché inter-rotte: quelle dei valichi alpini settentrionali (Val di Susa e Val d'Aosta) a lungo insidiate e rese pe-ricolose dai predoni mussulmani di Frassineto

(Provenza). Pure, data la continua minaccia ara-ba gravante sui porti francesi, a chi, dai paesi del Nord, voleva andare in Italia non restava altra via aperta che il passaggio delle Alpi. Sicché, anche in questo turbinoso periodo che si chiiide sotto l'in-cubo della fine del mondo (fine X secolo) il Pie-monte non vien meno alla funzione di raccordo fra l'Italia, la Francia ed i paesi del Settentrione europeo.

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I I B R I

LA C R I S I P I E M O N T E S E

E I P R O B L E M I D E L C R E D I T O

Non si possono in-tendere i problemi del credito de! Paese od anche di ima sua particolare regione, se almeno per sommi capi non si conosca la situazione econo-mica del mercato dal

quale questi problemi traggono origine. Guerra e dopoguerra — come dimostra lo studio piano ed informato del dr. Alpino (1) — hanno pro-fondamente inciso sul reddito nazionale, riducendo il risparmio tanto in valore assoluto quanto in per-centuale del reddito totale. In termini di beni ciò vuol dire che le scorte dei beni e dei servizi di consumo nonché l'aliquota del loro flusso corrente, le quali vanno ad alimentare le forze di lavoro (a qualunque genere esse appartengano) immesse nei vari cicli produttivi, sono assai impoverite. Conse-guenza di ciò: l'attività produttiva resta ridotta e prevalentemente rivolta ai cicli produttivi più brevi, come a quelli che più presto degli altri concludono nei prodotti di uso diretto. E ciò per un semplice fatto concorrenziale fra le richieste di risparmio del primo e le richieste del secondo gruppo di produzioni.

Questa condotta di massima è tuttavia tempe-rata da due fattori: il risparmio forzato, princi-palmente dovuto alla pressióne fiscale e all'infla-zione, e l'acuita sperequazione dei redditi. Mentre il primo s'aggiunge al volume del risparmio vo-lontario e, quindi, accresce le disponibilità per gli investimenti, il secondo fattore rende agevole ai detentori di redditi vistosi l'investimento in cicli produttivi più lunghi di quelli che sarebbero con-sentiti da redditi più perequati. Sicché, anche lad-dove l'economia sia povera e il reddito medio assai basso, si comprende perchè siano possibili (natu-ralmente in volume ridotto) produzioni a lungo ciclo e consumi con un certo grado di saltuarietà. A questo accentramento di redditi in poche mani, fra l'altro, si devono i pochi autofinanziamenti delle aziende anche per gli investimenti a medio ed a lungo termine.

L'inflazione se da un lato, come s'è detto, è ge-neratrice di risparmio forzato (presso coloro i cui redditi monetari nominali si accrescono meno velo-cemente del deprezzamento della moneta) dall'altro eccita i consumi tanto per la facilità dei guadagni di certi percettori quanto per i gravi rischi cui è soggetto il risparmio conservato sotto specie mone-taria. Comunque sia di ciò, chi dispone del ri-sparmio forzato (e cioè i sollecitatori dell'espansione della circolazione e del credito, come fu lo Stato in un primo tempo, commercio, industria ed ancora Stato in un tempo successivo, ed inoltre tutti co-loro che gradatamente sono investiti per la più larga richiesta dei loro prodotti dall'onda d'espan-sione provocata dai primi) ne è venuto in possesso talora con costi nulli, in ogni caso con costi assai inferiori a quelli che importerebbe l'acquisto di risparmio volontario. Tolta la tangente che va ai

(1) G I U S E P P E A L P I N O - La crisi piemontese 0 i

pro-blemi dei credito - Q u a d e r n i idi « C r o n a c h e E c o n o m i c h e », III - Cernerà di C o m m e r c i o , Industria e A g r i c o l t u r a di T o r i n o , 1947.

consumi, e che per la sua origine si tra-duce in uno storno di consumi da certe categorie a certe al-tre, il residuo, ap-punto per la lievità del costo, può essere facilmente instradato negli investimenti a lungo respiro.

Quest'è, grosso modo, il substrato economico della nostra situazione nazionale la cui espressione mo-netaria spesso nasconde la sostanza delle cose. E' perciò inutile parlare di credito a medio e a lungo termine direttamente attinto secondo queste quali-fiche al risparmio volontario, perchè in via di mas-sima questo risparmio è assai modesto e rimarrà tale fino a quando la capacità d'acquisto della mo-neta non oscillerà fra valori alquanto ristretti e, per un processo naturale necessariamente lento di ricostruzione e di riconversione dell'economia na-zionale, il reddito complessivo non andrà aumen-tando. Temperamento a questa situazione è il cre-dito estero e la trasformazione d'una quota del credito, formalmente a breve, in investimenti a lunga durata, il che avviene attraverso l'organizza-zione del credito per l'aliquota dei risparmi che in pratica e per un . certo intervallo rinuncia alla piena disponibilità, oppure attraverso un mercato di facile negoziazione del titolo rappresentante un investimento a media o a lunga scadenza. Ma sia nell'uno che nell'altro caso, anche per la particolare specializzazione delle nostre banche e perchè esse sono pur costrette a tenere conto del rischio di un intempestivo richiamo dei depositi, il costo del cre-dito a lunga cosi ottenuto risulta assai caro appunto perchè, gravando sull'esiguo ammontare di tutto il risparmio, sostanzialmente si trova in concorrenza con gli investimenti a breve. Ogni strappo alla linea di massima testé ricordata seguita dalle ban-che è strappo ban-che richiama una garanzia diretta • o indiretta, attuale o futura, dello Stato (leggi,

della fonte principale del risparmio forzato) nel caso in cui il rischio che si affronta si converta in sinistro. E questo rischio è tutt'altro che lieve: ne sanno qualcosa le aziende che hanno attinto al mercato del breve per ricostruire o convertire gli impianti nella speranza di poter chiudere la partita con credito a lunga (emissione di azioni, ad esem-pio) contando sull'inflazione. Non appena questa è stata contenuta in meno vistosi confini s'è rivelato l'errore d'impostazione dei loro piani e, sotto i pre-testi più diversi, hanno dovuto premere e continue-ranno a premere sullo Stato.

Per una via o per l'altra ci si imbatte sempre nello stesso ostacolo: la scarsezza di risparmio vo-lontario rallenta la ricostruzione e cioè una maggior capitalizzazione dell'economia nazionale, capitaliz-zazione che in Italia, per l'alto tenore demografico, per la forte sperequazione della ricchezza e per la facile adattabilità ad un basso tenore medio di vita, è sempre stata assai scarsa. Non si può riattare la casa se i pochi affitti ch'essa produce (appunto perchè è uno stabile danneggiato) sono assorbiti dalle spese di mantenimento dei proprietari, non si riempiono i granai con i raccolti se la semente è consumata nella confezione del pane. Un'ulteriore compressione dei consumi, sia in alto, sia, è non per esigue categorie, in basso, derivante da una decur-tazione dei redditi per un gioco più economico della produzione e della ripartizione della ricchezza, la riteniamo senz'altro tecnicamente possibile. Ma Nella collana dei « Quaderni di Cronache

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la realtà non è soltanto economica ma politica ed economica insieme e, se fosse soltanto economica, non è esclusivamente retta dai regimi tecnici che portano (quando ciò abbia un senso) ad un mas-simo del reddito totale. Ora, è da credere che la realtà del mercato in cui viviamo sia mutabile nel senso anzi detto e che lo sia a breve scadenza? La risposta che non voglia essere ima semplice spe-ranza, di qualunque genere essa sia, sta sulle gi-nocchia di Giove. Oggi come oggi, volenti o no, dob-biamo fare i conti con i fatti che hanno un lin-guaggio davvero poco lusinghiero.

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Tutto ciò fa pensare che, se non la sola, almeno la preminente fonte nazionale di risparmio da de-stinare ai lunghi investimenti sia il risparmio for-zato ottenuto con la pressione fiscale e con l'infla-zione, fonte che anzitutto deve alimentare 1 bisogni dello Stato, tanto vasti e potenti da invadere e com-primere a loro beneficio i bisogni privati. Sicché, a parte gli aiuti che potranno venire dall'estero, la proposta del dr. Alpino per la soluzione regionale del problema del credito a media e a lunga scadenza è soluzione che, pur costretta nei modesti confini dell'ai}!to alle medie e alle piccole aziende che non siano legate a gruppi autonomi a raggio ultraregio-nale, beneficiari di ben altre possibilità, va presa in considerazione come quella che risponde ad una sana iniziativa e perchè è soluzione staremmo per dire fisiologica del problema. Ma è soluzione che rischia di rimanere sopraffatta dalle forme con cui 10 stesso problema è affrontato e risolto in sede na-zionale; e di ciò bisogna pur tener conto. Se allo Stato per un verso o per l'altro in prevalenza fa capo la creazione e il governo del risparmio, a lunga, sulle sue decisioni che sono, e non possono essere altrimenti, a contenuto politico-economico la re-gione deve far sentire senza fà3si pudori il suo peso. 11 che, almeno per il passato, non è avvenuto nella misura adeguata.

E' di pochi giorni fa la notizia (Globo e Corriere della Sera del 20 novembre) che al P.I.M. perven-nero 50 miliardi di domande di credito delle in-dustrie metalmeccaniche. Di questi, 46 % dalla Lombardia, 26 % dalla Liguria e 10 % dal Piemon-te. Gli operai interessati alle industrie richiedenti

(indice del loro volume) appartengono pel 30 °/o alla Lombardia, per 'il 26 % alla Liguria e pel 25 % al Piemonte. Le domande stanno pertanto nei rapporti 153, 100 e 40; ¡c'è tanto da rimanere assai e assai perplessi. E' possibile che i requisiti richiesti ad ogni postulante portino a questi risultati? Non c'è euforia da un lato, apatia, eccesso di prudenza dal-l'altro? Sottoponiamo le questioni senza risolverle alla meditazione e alle conoscenze d'ogni lettore.

Certo si è che, se la politica governativa, pie-gando verso una inflazione più contenuta e sorve-gliata di quanto fosse quella del passato e verso la rinuncia ad un'ulteriore pressione fiscale, non trova una contropartita o nel credito estero o in altre forme di risparmio forzato (anche se le mo-dalità dovessero nascondere questo carattere), pone un freno alla ricostruzione del Paese senza per altro del tutto eliminare il disordine con il quale fino ad oggi si è svolta. Siffatto indirizzo rallenta il ritmo con il quale procediamo al ricupero d'un reddito perduto e che l'alto peso demografico reclama di avere con la massima urgenza. Naturalmente si può essere di avviso diverso e pertanto ritenere che quel ritmo dovrebbe stare nei modesti limiti del credito straniero (favorito da una stabilizzazione monetaria) e del normale, seppure esiguo, flusso del risparmio volontario che si volge senza costrizioni verso gli investimenti a lunga.

A parte l'opportunità o meno di un drastico mu-tamento dell'antico indirizzo (se non nelle inten-zioni certo nei suoi pratici effetti), specie nei ri-guardi delle aziende che, avvalendosi della passata facilità del credito e con altre cospicue disponibilità in allora correnti, si sono ormai a fondo impegnate nel lavóro di ricostruzione, è politica, questa, che

ha aspetti buoni o cattivi secondo gli interessi da essa favoriti o contrastati; ci sono tanto gli uni quanto gli altri. Ma, in ogni caso, è politica che consapevolmente non vuole usare con tutta la sua efficacia, e nel settore dei consumi, la leva fiscale, tra l'altro strumento prezioso di avvicinamento degli effetti delle due politiche, quella della facilità del credito, l'altra di contrazione e di più sorve-gliato governo. E' politica, ancora, che se mette in circuito scorte formate per pura finalità Specula-tiva, inaridisce il reddito non solo delle più recenti attrezzature ma anche di quelle superstiti dalla guerra, sicché, ad evitare la loro perdita, s'impone, come del resto in parte avviene, una oculata azione di soccorso ch'è in sostanza un tardo correttivo del primitivo indirizzo. Prima di esprimere un giudizio a favore o dell'una o dell'altra politica conviene mettere a nudo le loro caratteristiche. Ed è quello che abbiamo tentato di fare.

Dal canto suo il dottor Alpino, considerando il problema delle scarse disponibilità e ponendolo esclusivamente sotto l'angolo visuale dell'organiz-zazione del credilo, ravvisa un graduale tempera-mento alla grave situazione non tanto in artificiose espansioni della circolazione quanto in tutte le prov-videnze che possono agevolare la formazione del risparmio ed il suo impiego nelle forme più red-ditizie.

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Tutto ciò riguarda il credito a medio e a lungo termine. Per il problema del credito a breve, del resto strettamente connesso al primo, le pagine del dr. Alpino chiariscono ch'esso è anzitutto pro-blema nazionale e poi, per certe sue peculiari qua-lifiche, problema regionale. E' problema nazio-nale quello di aumentare le scarse disponibilità re-lativamente ai bisogni, il che più che da un aumen-to dei saggi dei depositi si può ottenere da tutti i provvedimenti intesi a raggiungere una maggior sta-bilità del loro potere d'acquisto e da una mortifi-cazione degli impieghi diremo così a carattere spe-culativo. E' assai probabile che quei provvedimenti riflettano i loro benefici simultaneamente e nell'uno e nell'altro settore. Ciò non toglie che le banche, alleggerendo le loro attrezzature e, con maggior efficacia, tenendo più conto della redditività delle imprese richiedenti il credito che dell'entità delle loro scorte e dei loro impianti, possano contribuire alla maggior efficenza del risparmio a breve.

In sede regionale il nostro • Autore mette ancora una volta in luce il grado di dipendenza del Pie-monte dagli istituti a mercato nazionale delle altre regioni, grado che, in occasione del problema indu-striale, è stato già rilevato nella prima pubblica-zione di questa collana. Forse, in un momento in cui non è certo da lamentare una deficenza di sportelli né si vede la possibilità' di un'espansione degli istituti locali in un mercato territorialmente più vasto di quello finora sfruttato, una parziale soluzione del problema potrebbe essere data da un maggior grado di autonomia concesso dalle centrali alle sedi locali degli istituti a mercato nazionale. Ma è autonomia, codesta, che di certo non verrà se i beneficiari del credito e le banche piemontesi non creeranno una adeguata pressione; per le ban-che tale possibilità da un lato si ricollega all'au-mento dei depositi, dall'altro alla minore pressione dello Stato per convogliarli alle sue casse. In altre parole, è questione che si ricollega a quella del cre-dito a lunga e può trovare la sua soluzione più in sede nazionale che in sede regionale.

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