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Cronache Economiche. N.038, 15 Giugno 1948

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(1)

CRONACHE

UINDICINALE A CURA DELLA CAMERA DI COMMERCIO INDUSTRIA E AGRICOLTURA DI TORINO ^ V f f i S B ? L 1 2 5

(2)
(3)
(4)

N A Z I O N A L E

COGNE

S. p. A.

C A P I T A L E S O C I A L E L, 2 . 0 0 0 . 0 0 0 . 0 0 0

I

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(5)

N. 38

15 Giugno 1948

r

ACHI

C O N S I G L I O DI R E D A Z I O N E

dott. AUGUSTO BARGONI

prof. dott. ARRIGO BORDIN

prof. avv. ANTONIO CALANDRA

dott. GIACOMO FRISETTI

prof. dott. SILVIO GOLZIO

prof. dott. F R A N C E S C O

P A L A Z Z I - T R I V E L L I

prof. dott. LUCIANO GIRETTI Direttore

dott. AUGUSTO BARGONI Condirettore responsabile

QUINDICINALE A CURA DELLA CAMERA DI COMMERCIO INDUSTRIA E AGRICOLTURA DI TORINO

IL M E T O D O DEL T U F F O

Ieri soltanto i produttori vinicoli francesi si dimostra-vano brillantissimi nel sabotare l'unione doganale ed economica franco-italiana col pretendere Che i loro colleghi al di qua delle Alpi si impegnassero a non aumentare le quantità prodotte nel 1939. Risultando naturalmente solidali col governo di Parigi, che nel dicembre 1947 — a tre soli mesi dall'annuncio solenne •dell'inizio dei favori in vista dall'unione doganale stes-sa! — già aveva aumentato i dazi all'importazione sui

nostri vini e altri alcoolici.

Oggi 'è la volta dei produttori vinicoli italiani, che vogliono dal governo di Roma un aumento di dazi su tutte le importazioni da qualsivoglia paese dei prodotti

del settore vinicolo e liquoristico e richiedono addi-rittura, nelle more di attuazione del provvedimento, la sospensione del rilascio di ogni licenza per il contin-gente d'importazione contemplato nell'ultimo accordo commerciale tra Italia e Francia. E si tròvano in ottima e numerosa compagnia: quella di certi produttori di articoli farmaceutici o di vetro o di legno ricostituito e sintetico, tutti strillanti in coro presso i Ministeri di essere in grado di soddisfare perfettamente alle esi-genze del mercato interno e persino straniero, tutti affermanti la necessità assoluta di negare licenze di importazione di prodotti stranieri similari (anche qua-lora si dovesse impedire la conclusione di affari di reciprocità capaci di permettere l'esportazione di merci italiane!) e tutti ovviamente dimentichi di svelarci l'ar-cano che, 'pur di riuscire linfine ad apprenderlo, ci fa-rebbe idi buona grazia pendere dalle loro labbra: il mistero cioè del costo al quale le esigenze degli

ita-liani verrebbero tanto meravigliosamente soddisfatte. Se non vi fosse da piangere, vi sarebbe da ridere nel constatare come gli interessati o ignoranti fana-tici dei sipari d'acciaio economici pullulino iin Italia, in Europa e nel mondo intero. Dopo tanto guerreggiare economico e delle armi, dopo tanto discorrere di ideali di giustizia, di unione europea, di libertà dalla paura e dal bisogno, proprio l'ingiustizia ha da dominare, proprio la disunione dei sipari d'acciaio ha da svilup-parsi in un microcosmo autarchico, proprio paura e bisogno — apocalittici cavalieri galoppanti di conserva con le guerre e le rappresaglie economiche — hanno da tiranneggiarci, mentre, e citiamo soltanto un paio d'eiempi, l'Europa viene definitivamente spezzata in due parti (di cui una almeno continua ad essere un mosaico), mentre gelosie non si sa bene se più meschine o più ridicole pretendono conservarne una porzione capitale in condizioni di forzata paralisi, mentre le Repubbliche Sud Americane elevano archi di trionfo

alle autarchie, mentre l'Australia pone l'emigrazione italiana al l i vello di quella gialla o nera e l ' a m -metterebbe, sì, m a soltanto per l'in-ferno insalubre di certe sue pianta^ giorni di zucchero, ove i nostri l a -voratori sarebbero buoni abbastan-za per tirare le cuoia?

Video meliora proboque, sed de-teriora sequor. Può esser questa la

divisa dei governanti del mondo? Ma allora, davvero, l'esperienza pas-sata non è proprio servita a nulla? Intendiamo l'esperienza ¡che,

clamo-rosamente iniziatasi, dopo una prima guerra orrenda, con l'assurdo geografico ed economico di Versaglia, ha man m a n o collezionato le colpe, gli errori e gli orrori co-muni degli egoismi economici, provocando e giustifi-cando le reazioni delle imperiali conquiste amiate per il posto al sole e delle teorie bellicistiche sugli « spazi vitali » geopolitici. E d è sfociata poi nella seconda guerra, più orrenda della prima, e sfocierà domani — se l'umanità si farà ancora bocciare agli esami di ripa-razione — nella guerra ultima, fa quale, tutto distrug-gendo, travolgerebbe per sempre con sè ogni spe-ranza nella ragione umana e segnerebbe il trionfo fi-nale della forza bruta.

.Scriveva Enrico Heine, nei Reisebilder, di credere

che attraverso le lotte del dolore le belve possano di-ventare uomini e aggiungeva che solo il malato è uomo, perchè, appunto, le sue membra hanno una sto-ria di dolore e sono come spiritualizzate. Le lotte del dolore umano nell'ultimo trentennio dovrebbero ormai esser state sufficienti e sufficiente sembra pure essere la malattia presente dell'umanità perchè le beive di-ventino uomini e sappiano non soltanto vedere, ma

anche seguire il meglio, smettendola una buona volta dì comportarsi come quei quattro famosi capponi di Renzo, intenti sempre a beccarsi l'un l'altro, tra 'Compagni di sventura.

A i politici in generale, e ai governanti del mondo in particolare, l'umanità, Che li ha sentiti facondi di parole, chiede ora di essere fecondi di opere e soprat-tutto di sapersi imporre, per il bene comune, a quelle minoranze ristrette, se pur rumorosissime — ma non è forse la peggior ruota 'del carro quella che più delle altre cigola? — le quali nella politica del tanto peggio economico e sociale dei protezionismi trovano, a danno delle grandi maggioranze, il vantaggio del tanto meglio personale. La stessa umanità chiede, se necessario, il ricorso a quel « metodo del tuffo » delle unioni econo-miche immediate e a largo raggio della cui ineluttabilità sembra essersi convinto il Ministro Spaak. M e -todo che può provocare qualche raffreddore — e cioè qualche sacrificio anche penoso — m a serve a guarire dal cancro delle chiacchere inutili e del perseverare negli errori del passato da parte di chi, eternamente pavido, non ardisce abbandonare gli orli della piscina. Tutti sanno, d'altronde, che non ci si può lavar la testa senza bagnarsi i capelli e che a forza di voler sempre salvare capra e cavoli si finisce immancabil-mente per venir divorati dal lupo.

*

pag. pag-pag.

SOMMARIO:

Il m e t o d o del tuffo Lo spirito e la l e t t e r a (C. Sircana) Austerity (W. Ròpke)

La v i a del risanamento industriale

(G. Alpiho) . . . pag.

U n grande successo della chimica x industriale (L. Kossovich) . . . . pag.

Rosa dei venti pag.

M e r c a t i pag,

N o t i z i a r i o estero ; pag

Il X X X I salone i n t e r n a z i o n a l e

dell'automobile (L. Acciani;

Il m o n d o offre e chiede pag

T r a t t a t i e accordi c o m m e r c i a l i . . pag. 23

Disposizioni ufficiali per il com-m e r c i o con l'estero pag. 26

P r o d u t t o r i italiani pag. 29

(6)

L ' U N IO N E_ ECONOMICA FRANCO - ITALIANA

LO SPIRITO E LA LETTERA

A chiusa del discorso pronunciato il 13 maggio

durante la riunione di Torino dei rappresentanti

delle Camere di Commercio francesi e italiane,

pubblicato nel N. 35-36 di « Cronache Economiche »,

il signor Cusenier, Presidente della Camera di

mercio di Parigi, ha detto che le Camere di

Com-mercio dei due paesi dovranno impegnare tutta la

loro autorità e tutta la loro attività per attirare

l'attenzione e per provocare la simpatia nel largo

settore dell'opinione pubblica sul quale si esercita

la loro influenza, onde creare un clima favorevole

alla comprensione e alla soluzione dei problemi che

l'Unione Franco-Italiana pone innanzi a entrambe

le nazioni.

E' fuori dubbio che l'azione delle Camere di

Com-mercio potrà avere un effetto di grandissima

im-portanza, ma riteniamo che da sola non può essere

sufficiente se si vuole arrivare alla meta prefissa,

c'hié non è soltanto quella di facilitare lo scambio

fra i due paesi, bensì l'altra, assai più vasta e

importante, di armonizzare tutte le attività in modo

tale da trasformare Francia e Italia in una

federa-zione che assomigli a quella degli Stati Uniti di

America, con due prime stelle alle quali potranno

aggiungersene molte altre fino alla costituzione

della Federazione europea.

All'opera delle Camere di Commercio dovrebbe

perciò affiancarsi quella di tutti gli altri settori, e

prima fra tutte quella del settore politico.

Or-bene, dobbiamo constatare invece, che quando

en-tra in ballo la politica, non solo manca qualsiasi

sforzo per realizzare i prineipii posti dall'accordo

di Torino, ma sembra che si faccia l'impossibile

per impedire la creazione di quel clima favorevole

auspicato dal signor Cusenier, e che deve

svilup-parsi in tutti i ceti della popolazione. Vediamo

in-fatti che mentre si parla di unificazione e di

scam-bi, non solo di prodotti, ma- di uomini, di capitali

e di comunicazioni, vengono sollevate delle pretese

da parte della Francia su certe oasi tripoline

pren-dendo pretesto dalla opportunità di inserire nel

territorio coloniale francese certi tratti di strada

o, peggio ancora, di far pascolare in detto

terri-torio alcuni greggi che attualmente vanno a

pasco-lare in quello che era territorio coloniale italiano

e che tale dovrebbe ritornare.

Non abbiamo nessuna intenzione di

drammatiz-zare l'incidente, tanto più che riteniamo le

ri-Chieste francesi di scarso valore materiale: è però

indubbio che questo gesto — che contrasta, fra

l'altro, con quello della Russia e dei suoi satelliti,

favorevoli alla restituzione integrale all'Italia, in

amministrazione fiduciaria, delle sue colonie

pre-fasciste, — non ha contribuito a creare l'auspicato

clima favorevole, ma ha prodotto al contrario una

penosa impressione e aumentato quel senso di

dif-fidenza generato in molti dalla nuova creazione che

presuppone l'abbandono di tutte le inutili pretese

nazionali a favore dell'interesse comune.

A cosa può servire avere fissato certe regole per

proteggere taluni vini italiani in Francia o per

proi-bire l'appellativo idi «

cognac » agli alcoolici

ita-liani che assomigliano alla «

fine » francese, se viene

a mancare all'accordo fra i due paesi lo spirito ideale

necessario a convincere i due popoli clr.ie un'era

veramente nuova è cominciata, molto lontana e

differente da quella del passato, quando alle

ripe-tute professioni di amicizia e fraternità latina

fa-cevano seguito le punture di spillo in attesa delle

cannonate?

E' inutile che ci facciamo delle illusioni: se ci

sta a cuore questa Unione Franco-Italiana che

deve essere il preludio della unione europea, senza

la quale il nostro vecchio continente è destinato

a cadere in vassallaggio altrui, bisogna, che ci

de-cidiamo finalmente a quel benedetto colpo di

spu-gna più volte proposto e mai attuato, abolendo

tutte le recriminazioni e rivendicazioni e

dimenti-cando i reciproci errori del passato. Ben vengano

a pascolare i greggi francesi in territorio italiano,

o viceversa! Facciamo che essi si trovino come in

casa loro perchè l'Unione deve abolire nelle

metro-poli e nelle colonie tutte le difficoltà, in primo

luogo fra le popolazioni di confine che debbono

poter circolare liberamente dando inizio a quel

fe-nomeno di osmosi salutare e ineluttabile per la

for-mazione della Unione economica che dovrà

svilup-parsi in Unione finanziaria e politica.

Bisogna mettersi in testa che questa nuova

for-mazione è « utile », cioè « porta dei vantaggi » nella

stessa misura ai due paesi, anche se in taluni

set-tori può sembrare più favorevole a uno di essi, o

addirittura nociva all'altro. Muoia pure il «

cognac »

italiano, e se anche 1'« arzente » dovrà subire la

concorrenza delle «

flnes » francesi e morire, poco

male, e poco male se l'industria conserviera del

mezzogiorno della Francia dovrà soffrire della

con-correnza italiana. Nell'interno della stessa Francia

e della stessa Italia non muoiono oggi e non sono

morte ieri tante imprese industriali per opera di'

concorrenti più abili e meglio attrezzate? Nessuno

dei due paesi ha subito grandi danni per questa

concorrenza eliminatrice, ma anzi ne ha tratto

van-taggio perchè i prodotti sono andati migliorando di

qualità e diminuendo di costo, mentre il contrario

si è verificato quando il protezionismo di Stato ha

voluto frenare o addirittura rendere impossibile

ogni concorrenza.

Di un'altra verità bisognerebbe poi convincersi:

che l'Unione Franco-Italiana non potrà essere

rea-lizzata se alle metropoli non saranno associate

con eguali intendimenti ed eguali provvedimenti,

anali© le colonie. E non tema la Francia di

per-derci, perchè se all'interno ha bisogno di un

mi-lione circa di lavoratori stranieri, un bisogno non

inferiore ha di trovare braccia per sviluppare il

proprio impero coloniale meglio che non possa farlo

con la mano d'opera indigena. Senza contare che

anche in questo campo l'unione fa la forza, e il

fermento del mondo arabo, e coloniale in genere,

dovrebbe servirle di ammonimento.

Già nel fascicolo di « Cronache Economiche » del

1° ottobre 1947, scrivevamo: «(Salviamo l'Europa

organizzando l'Africa ». L'Unione Franco-Italiana

fornisce il modo di iniziare quell'organizzazione,

ed è bene che essa proceda di pari passo con la

formazione della nuova Europa confederata, perchè

senza l'appendice del continente nero che darebbe

all'Eurafrica il vero carattere di continente

Me-diterraneo, essa non potrebbe riacquistare la

po-tenza e l'indipendenza necessarie ad assolvere

an-cora il suo compito di mediatrice fra Oriente e

Occidente e di regolatrice delle sorti del Mondo.

(7)

A U S T E R I T Y

J

p a r W I L H E L M R Ö P K E ~

LA CROISADE

I N T E R N A T I O N A L E

C O N T R E LE L U X E

Il y a peu de temps,

je voulus acheter une

nouvelle serviette

dans un magasin de

Copenhague, celle que

je possédais me

pa-raissant décidément

trop râpée; je

pen-sais aussi que ce

n'é-tait pas une si

mau-vaise idée que

d'a-cheter de bons objets

en cuir dans un pays

renommé pour son

élevage du bétail. Le

vendeur me déclara

être au regret de ne

pouvoir répondre à

mon désir; il n'avait,

me dit-il, à m'offrir

que des

marchandi-ses en simili, d'une

qualité douteuse,

é-tant donné qu'on ne

pouvait se procurer

des

Oibjects en

véri-table cuir de boeuf

sur le marché danois. Lorsque, quelque peu étonné,

je lui demandai où passaient alors toutes les peaux

des boeufs du pays, il me répondit qu'on fabriquait

bien des serviettes et des porte-feuilles, mais qu'on

considérait ces objets comme un luxe que le

Da-nemark ne pouvait s'offrir à l'heure actuelle. Ces

marchandises, poursuivit-il, sont toutes exportées,

et il vous sera sans doute aisé d'acheter a Genève

les meilleures serviettes du Danemark.

En réalité, moi qui suis économiste, j'aurais dû

le savoir. De par ma profession, j'aurais dû

con-naître le

jeu singulier qui se joue aujourd'hui en

matière de commerce international, jeu auquel je

venais de participer modestement en cherchant

en vain à acquérir une serviette en cuir à

Copen-hague. Ce jeu n'est d'ailleurs pas nouveau,

puis-qu'il était déjà à la mode il y a des siècles, à

l'époque du mercantilisme. On peut le décrire à

peu près comme suit: chaque pays s'énorgueillit

de fabriquer toutes sortes de produits de qualité,

qui ne sont pas absolument indispensables à

l'exis-tence, mais qui revêtent à juste titre pour

cha-cun de l'importance. Tout homme, qu'il soit riche

ou pauvre, aime en effet ce que l'on appelle les

marchandises de luxe et il est prêt à travailler

et à épargner pour les acquérir. Mais toujours

plus nombreux sont les gouvernements qui

ten-dent à en rendre l'achat impossible à leurs

assu-jettis — c'est bien à dessein que nous employons

ce terme — en exportant leurs propres

marchan-dises de luxe et en ne laissant pas entrer dans le

pays les produits étrangers de même genre. Le

résultat final de ce mode de faire qui est devenu

international, c'est qu'il ne reste que peu de pays

où l'on peut acheter ces «marchandises de luxe»,

ou librement ou en quantités raisonnables. Ces

quelques pays ne sent pas nécessairement des

na-tions riches, comme les Etats-Unis et la Suisse,

mais aussi des contrées comme la Belgique,

ap-pauvrie et dévastée par la guerre, mais qui,

con-trairement à d'autres pays ravagés par les

hosti-lités, a su s'acheminer dans la voie du bon sens

et du travail.

Les

motifs par lesquels on cherche d'habitude à

justifier cette

croi-sade internationale

contre le luxe

pa-raissent

convain-cants. Notre pays,

nous dit-on, est trop

pauvre pour « se

pa-yer » des biens qui

ne sont pas

absolu-ment indispensables.

Des maisons ou du

blé sont plus utiles

que des montres

suis-ses. Tel est le

raison-nement très simple

que l'on tient. Et les

hommes sont

d'au-tant plus disposés à

l'accepter que les

bonnes choses de ce

monde sont quoi

qu'il en soit — ce

que les démagogues

taisent toujours — si

rares que seule une

minorité peut en

jouir, minorité

con-tre laquelle il est

tou-jours aisé de

mobili-ser l'envie, la haine

et l'amour propre

individuel. Et ainsi, il est facile de convaincre les

nations de ne pas s'opposer ouvertement à leurs

gouvernements lorsque ceux-ci exportent tant qu'ils

peuvent les marchandises de luxe produites dans

le pays et ferment leurs frontières à ces mêmes

objets provenant de l'étranger.

Q U E L Q U E S ERREURS F O N D A M E N T A L E S

Tout celà, nous venons de le dire, semble

con-vaincant. Et c'est pourquoi nombreux serent ceux

qui s'étonneront lorsqu'on leur dira que cette «

phi-losophie de l'austérité » est fausse. Elle repose

sui-des arguments d'une logique très discutable et elle

aboutit à des mesures nuisibles et contradictoires.

La croisade menée actuellement contre le luxe est

l'une des forces qui frustrent notre civilisation de

ses meilleurs fruits, qui enlèvent son élan

inté-rieur à l'existence e qui font toujours davantage

descendre les peuples au niveau d'une vie

végéta-tive et d'une « misère contrôlée ». Mais cette

philo-sophie, hostile au luxe et paternaliste, est

malheu-reusement aussi l'un des moyens les plus efficaces

permettant à une bureaucratie étouffante,

sembla-ble à celle que connut la décadence antique, de

prouver qu'elle est indispensable et d'étendre

tou-jours davantage ses compétences. Et rares sont

ceux qui 'osent encore proclamer qu'en réalité, c'est

cette même bureaucratie qui représante le luxe

que les peuples ne peuvent plus aujourd'hui « se

payer ».

Par où pèche ce raisonnement? La première

ob-jection qu'on peut lui opposer est qu'il est

impos-sible de définir objectivement ce qui est un bien

de luxe. Les montres suisses sont aujourd'hui l'une

des principales victimes de la croisade

internatio-nale déclanchée contre le luxe. Mais qui oserait

prétendre que des montres de qualité sont un luxe

dans une époque comme la nôtre, où la mesure

exacte du temps joue un si grand rôle? Lorsqu'on

commence à opérer de telles distinctions, on ouvre

la porte toute grande à l'arbitraire. Et chacun sait

dans quelle mesure la politiques commerciale des

Etats use aujourd'hui de cet arbitraire.

Mais ce raisonnement est erroné pour un motif

In questo articolo, scritto per « Cronache Economiche »,

ii nostro illustre collaboratore Prof. Wilhelm Ropke pone da par suo in guardia contro il sofisma rettori^o e demagogico secondo cui i vari paesi dell'Europa :n rovina dovrebbero attuare 1'« austera » politica eco-nomica, del necessario in luogo di quella, « di lusso », del superfluo. L'insigne economista tedesco dimostra a chi ancora non l'abbia compreso che una tale poli-tica economica porta fatalmente alla cristallizzazioni della « miseria controllata » per la grande maggio-ranza dei cittadini costretti a rinunciare alle belle e buone cose da cui è costituito il « superfluo », per sostituirle con i sacrifìci diventati purtroppo neces-sari, onde permettere il mantenimento — vero « lus-so », questo! — di enormi burocrazie improduttive e parassitarie. A n c h e l'Italia, paese povero tra i poveri, non ha nulla da guadagnare, anzi tutto da perdere, facendo la politica del necessario, mentre la sua pro-sperità potrà un giorno realizzarsi con la politica del superfluo, e cioè con la creazione di un'economia tra-siormatrice, che commerci molto e importi per rie-sportare, dopo aver aggiunto alle materie prime o ai semimanufatti stranieri il valore di un lavoro vera-mente produttivo, e crei prodotti e servizi di lusso, non necessari, quali le carrozzerie fuori serie, i vini tipici, le frutta e le verdure selezionate, gli articoli di moda e d'artigianato, l'ospitalità ai turisti stranieri. Così i quadri, i ceselli, i broccati e i commerci di lusso delle spezie crearono la ricchezza delle nostre fiorenti

(8)

plus profond encore. Peu importe qu'un

gouverne-ment intitule luxe telle ou telle chose tant qu'il

nous laisse à nous, qui sommes des êtres capables

de discernement, la liberté de décider si nous

pou-vons

nous l'offrir ou non. Or, la bureaucratie

col-lectiviste moderne s'arroge justement le droit de

nous enlever cette liberté de décision en déclarant

que, la « nation » ne pouvant se permettre ceci ou

cela, elle interdit ou limite l'importation d'une

marchandise donnée. Toute l'argumentation sur

laquelle on se base pour interdire la libre entrée

des marchandises de luxe présume que la

bureau-cratie sait mieux que les consommateurs ce qui

leur est bon et utile. Par conséquent, la dite

-bureau-cratie doit veiller strictement à ce que l'on

intro-duise dans le pays une quantité donnée de blé, au

lieu d'une certaine masse d'oranges ou bien un

vo-lume donné de papier (employé en grande partie

par cette même bureaucratie) au lieu d'un certain

nombre de chaussures ou de montres de qualité.

En d'autres termes, le

gouvernement nourrit la

présomption étonnante de nous demander de

pré-férer

sa liste arbitraire de priorité à la nôtre. Il

part de l'idée que les hommes ne se rendent pas

compte ou oublient même qu'il n'est pas un affamé

qui préfère boire du café plutôt que de consommer

du gruau d'avoine et que les consommateurs

pla-ceront leur argent dans des logements et non dans

des automobiles, s'ils désirent que se construisent

de nouvelles maisons. Lorsque nous demandons si

un pays peut « se payer » des montres suisses, des

tissus de qualité, des frigidaires ou des souliers de

luxe, nous posons en réalité une toute autre

ques-tion. Nous nous demandons, en somme, si

l'en-semble des consommateurs de ce pays, en

deman-dant des marchandises, exprime qu'il les préfère

à d'autres biens dont les consommateurs 'ont déjà

suffisamment ou qu'ils considèrent comme

super-flus. Autrement dit, lorsque le commerce privé

in-troduit des oranges dans le pays, pour répondre

aux désir des consommateurs, démontre que de

nombreux citoyens, lesquels doivent véritablement

savoir si les oranges sont une chose à laquelle ils

tiennent, sont arrivés à la conclusion qu'ils

peu-vent se les offrir. Ces singuliers citoyens, on les

appelle des

consommateurs, et c'est pour eux que

la Providence a fait mûrir ces fruits savoureux.

Tout cela paraît, nous le craignons, inadmissible

pour les hommes qui se sont spécialisés dams ce

que l'on pourrait appeler la «pruderie sociale ». Ils

nous demanderont avec indignation comment nous

en arrivons à identifier l'intérêt des ricihies avec

celui de tout le pays qui, lui, est pourtant pauvre

Ce reproche nous est fort sensible et nous

n'al-lons pas tarder à prouver qu'il est injustifié. 11

convient tout d'abord de relever que les

marchan-dises «de luxe», pour autant qu'elles entrent en

ligne de compte, ne sont nullement des biens qui

n'intéressent que les «riches». Mais cette

préci-sion ne suffit pas. Il faut reconnaître sans autre

que, lorsque la répartition des revenus est très

iné-gale, il est fort possible que, dans un pays, des

nommes souffrent de la faim, tandis que d'autres

achètent des oranges importées. Mais l'erreur

cou-rante consiste justement dans le fait de croire

qu'en interdisant l'importation d'oranges eu de

frigidaires, on nourrit les affamés, en habille ceux

qui sont nus et l'on procure un toit à ceux qui

n'en ont pas. Tant que le gouvernement

n'intro-duit pas, a

l'inteneur du pays, des mesures

socia-les tendant à corriger cette répartition inégale des

revenus et tant qu'il ne réduit pas le pouvoir

d'a-chat permettant l'acquisition de marchandises de

luxe,. l'interdiction d'importer celles-ci n'est qu'un

emplâtre sur une jambe de bois. Au lieu d'acheter

des objets de luxe étrangers, les hommes

dépense-ront leur argent pour des marchandises

indigènes.

Lorsqu'un consommateur britannique ne peut pas

acheter de montres suisses de qualité, il dépensera

son numéraire en whisky, en cigarettes, en courses

de lévriers ou en séances de cinéma. Et il est de

fait — ce phénomène devrait être connu de

cha-cun — que jamais on n'a en Grande-Bretagne

autant dépensé en tabac, en alcool et en

distrac-tions que sous le régime du dirigisme de la

con-sommation, introduit ces dernières années par le

gouvernement socialiste (1).

iSi l'on veut contraindre une nation à faire

da-vantage d'économies en limitant l'importation de

marchandises de luxe, on pratique une politique

vouée à l'échec; en effet, celle-ci ne supprime pas

le pouvoir d'achat disponible pour l'acquisition des

denrées non-indispensables; elle ne fait que

l'a-cheminer dans d'autres canaux, la plupart du

temps peu désirables. Pour illustrer la chose,

pre-nons le cas d'un homme qui veut acheter une

montre pour Noël à sa femme. Il en est empêché

par des mesures de restriction des importations.

Il est peu vraisemblable qu'il offre à son épouse

un carnet d'épargne' au lieu de cette montre. Il

s'efforcera de trouver une autre marchandise de

luxe, et la conséquence sera que la satisfaction de

l'une et de l'autre partie sera moindre. Quant à la

collectivité, le résultat. final sera pour elle le

sui-vant: une dépense de luxe en tout cas semblable,

mais une satisfaction moins grande et un usagé

anti-économique des forces productrices de ia

nation.

LA «CRISE DE LA B A L A N C E DES P A I E M E N T S »

Le lecteur nous aura peut-être suivi volontiers

jusque-là; mais il déclarera sans doute alors que

nous n'avons pas encore effleuré le fond du

pro-blème. Même si les restrictions mises à

l'importa-tion de marchandises de luxe n'ont pas comme

ré-sultat de susciter une utilisation plus efficace des

forces productives de la nation, ne servent-ell^s

pas essentiellement, dira-t-il, à ménager le plus

rationnellement possible les faibles

réserves en

de-vises d'un pays?

La plupart des hommes considèrent, nous le

crai-gnons, ce raisonnement comme d'une logique

na-turelle et irréfutable. Et pourtant, il part de

con-sidérations incomplètes et par trop simplistes. Un

enfant conclu-era que, s'il limite l'importation de

café, le pays disposera d'un plus grand nombre de

devises pour l'importation de blé ou aura besoin

de moins exporter pour équilibrer sa balance des

paiements. Si l'économie politique était aussi

sim-ple, tous les livres pénétrants qui ont été écrits

depuis deux cents ans sur le problème de la « crise

de la balance des paiements » pourraient être

pas-sés au pilon. En realité, nous avons seulement

cu-blié ce qu'il y a dans ces livres et ce que nous a

appris l'expérience de ces deux derniers siècles. Il

faut avoir déjà compris certaines notions et

cer-taines relations pour saisir que de simples

restric-tions aux importarestric-tions sont aussi peu capable de

résoudre la « crise de la balance des paiements »

qu'une saignée est à même de guérir une grave

maladie interne. Pour tâcher de la faire

compren-dre, nous nous contenterons d'examiner trois

as-pects du problème:

Premièrement-, Lors de la grande inflation

alle-mande, les économistes de ce pays se moquaient

à juste titre de la «passivité de la balance des

paiements voulue par le bon Dieu ». En réalité,

cette « crise de la balance des paiements » n'est

pas un accident isolé, qui survient brusquement

dans les relations économiques internationales.

Elle est, comme on le redécouvre de plus en plus,

le résultat d'une rupture d'équilibre de l'économie

nationale dans son ensenîble. Elle n'est pas, comme

l'a dit récemment le prof. D. H. Robertson

(Cam-bridge) dans le numéro de décembre de

The

éco-nomie journal, comme une « épizootie tombant du

ciel », mais elle est quelque chose que chaque pays

s'il le veut réellement, peut déclancher tout seul

(1) Voir la note Economia dell'austerità dans le ¡numéro

(9)

en une demi-heure, au moyen de la presse à

bil-lets et d'un puissant mouvement syndicaliste. Elle

est le reflet des charges excessives qui pèsent sur

l'économie d'un pays, et qui proviennent de ce que

la consommation et l'investissement imposent à

l'appareil de production nationale des exigences

exagérées. Celles-ci équivalent à une

pression

in-flationniste, qui pousse à la hausse tous les prix,

et donc également les prix des devises étrangères.

Si le gouvernement ne diminue pas ces exigences

excessives, portant à l'inflation, et s'il ne laisse pas

monter les prix et les cours des changes,

c'est-à-dire s'il pratique la politique que nous appelons 3a

politiques « d'inflation refoulée », alors la balance

des paiements, elle aussi, est soumise à une

ten-sion considérable. Dans ces conditions (excès

in-flationniste de pouvoir d'achat sans qu'il ait pour

correctif des prix élevés), on assiste au phénomène

bien connu consistant dans une pénurie des

de-vises qui, dans leurs propres pays, ne sont pas

soumises à de semblables manipulations (devises

«fortes»).

L'origine de la «crise de la balance des

paiements » se trouve donc dans le exigences

exa-gérées formulées envers la production nationale,

exigences à caractère inflationniste dont le

gouver-nement est seul responsable. Pour porter remède

à une semblable «cïise», il ne faut donc pas

li-miter les importations, mais réduire l'inflation

ré-sultant de l'application du programme du

gouver-nement, ou laisser monter les cours des devises.

Jusqu'à ce que celles-ci assument à nouveau leur

fonction en matière de prix, c'est-à-dire le rôle

d'équilibrer l'offre et la demande. Mais c'est là le

moyen auquel répugne le plus l'Etat

bureaucrati-que moderne, parce qu'il rend inutile ses nombreux

fonctionnaires et qu'il diminue son pouvoir.

Deuxièmement: la limitation des importations

entraîne des répercussions que ses partisans les

plus convaincus omettent volontiers de relever. Sa

conséquence la plus immédiate et la plus

impor-tante a trait aux

exportations. L'essence du

com-merce consiste dans la réciprocité et une

limita-tion des importalimita-tions ne peut avoir, tôt ou tard,

comme résultat qu'une diminution des

exporta-tions. Celà vaut pour toutes les catégories de

mar-chandises, qu'elles soient indispensables ou non.

Lorsque le gouvernement britannique interdit aux

anglais d'acheter une montre suisse ou d'aller se

reposer sur les Alpes helvétiques, il empêche

cer-tains suisses de se faire confectionner un complet

d'étoffe anglaise. Ces répercussions sur les

expor-tations surgissent immédiatement lorsqu'il y a

échange entre pays liés par des traités de

com-merce bi-latéraux. S'il s'agit de relations avec un

pays à devises « fortes » * comme la Suisse, ces

ré-percussions sont moins immédiates, mais elles se

produiront cependant à coup sûr aussi. Nombreux

sont les gouvernements qui croient pouvoir

indéfi-niment continuer à acquérir des francs suisses ou

de l'or en exportant librement à destination de la

Suisse, tout en empêchant l'importation chez eux

d'une quantité importante de marchandises

helvé-tiques sous le prétexte que ce sont des « objets de

luxe ». Il saute pourtant aux yeux qu'un pays à

monnaie forte finira par se trouver dans une

si-tuation telle qu'il sera acculé, dans un réflexe de

légitimé défense, à réduire lui aussi ses

importa-tions si les autres pays poursuivent leur mode de

faire. Il convient, à ce propos, de ne pas oublier que,

lorsque les industries d'exportation d'un pays axé

essentiellement sur la livraison de marchandises

de qualité se trouvent placées dans de telles

diffi-cultés, elles le doivent à l'application d'une

idéo-logie particulièrement chère aux collectivistes, et

notamment à la politique de gouvernements qui

ont fait de l'élimination des marchandises de luxe

l'un des éléments essentiels de leur programme

socialiste. C'est donc véritablement faire preuve

d'une singulière inconscience que d'imputer, comme

le faisait récemment, avec une joie maligne, un

journal socialiste, les difficultés éventuelles de

l'hor-logerie suisse au « chaos inhérent au capitalisme ».

Troisièmement: Une semblable politique entraîne

encore d'autres répercussions extrêmement

impor-tantes, qui démontrent combien se leurrent ceux

qui espèrent résoudre la « crise de la balance des

paiements » par des limitations aux importations.

On remarque que la plupart des pays européens

ravagés par la guerre ont basé leur politique de

reconstruction sur une idée simple, à savoir qu'il

faut d'un part réduire au minimum les

importa-tions à l'aide de l'appareil gigantesque et t?out

puis-sant de l'économie dirigée et d'autre part exporter

tout ce dont le gouvernement estime qu'on peut se

passer. On croit que, ce faisant, on

reconstituera

le plus rapidement possible le

capital national. C'est

ce qu'on appelle la philosophie de « l'austérité » et

nous avons relevé déjà plus haut deux des motifs

pour lesquels elle est probablement vouée à

l'é-chec. Une restriction des importations et un

ac-croissement des exportations ne provoquent pas du

tout nécessairement une économie nette pour

l'en-semble de l'économie nationale. Si l'on ne

trans-forme pas l'économie planifiée en une tyrannie

collectiviste et absolue,

supprimant notamment la

liberté de consommation et la liberté du travail,

on ne pourra pas atteindre ce but.

Il faut songer encore au fait que la

reconstitu-tion du capital réel de la nareconstitu-tion ne dépend pas

seulement de la production totale qui passe à la

consommation directe et de celle qui est réservée

aux investissements; elle dépend tout autant du

volume total de la production. Une politique qui

empêche les hommes d'acheter ce qu'ils veillent

tout en paralysant leur

ardeur au travail, leur

initiative individuelle et leur sens de l'épargne,

qui ne peuvent se développer que dans une

atmos-phère de

liberté, de confiance et d'optimisme, ne

peut aboutir à aucun résultat. Or c'est exactement

à quoi aboutissent les systèmes européens qui

veu-lent faire vivre les citoyens dans l'austérité au

moyen de prescriptions gouvernementales. On

sem-ble toujours davantage reconnaître aujourd'hui que

les pays qui ont rigoureusement limité leurs

im-portations et forcé leurs exim-portations n'ont pas

été bien inspirés. Pourquoi travailler avec

achar-nement lorsqu'on ne peut rien acheter que le strict

nécessaire avec ce que l'on gagne en plus et

lors-qu'on ne sait pas pourquoi épargner dans de telles

conditions?

Tel est le raisonnement fort conpréhensible que

tiennent la plupart des hommes. Et le résultat,

c'est qu'un pays perd constamment sur son compte

« production » ce qu'il gagne provisoirement sur le

compte « balance des paiements ». Nous avons

tou-tes les raisons de croire qu'il perdra à la longue

davantage du premier côté qu'il ne gagnera de

l'autre. Excepté en temps de guerre, où les hommes

se trouvent dans un état psychologique

exception-nel, tous les efforts tendant à relever la

produc-tion au moyen d'appels à la responsabilité, au moyen

d'affiches, de décorations ou de représentations de

théâtre n'entraînent que déceptions. Nous pouvons

bien plus être assurés d'avoir toujours à faire à un

pays où la politique économique collectiviste a mis

les choses cul par dessus tête lorsque le

gouverne-ment déclenche une campagne de propagande —

inutile d'ailleurs -— pour susciter un accroissement

du travail ou un développement de l'épargne. Des

affiches comprenant des slogans du genre de « We

work or want » ou de « Epargne davantage et

achète moins » sont le signal d'alarme qui

(10)

lors-qu'ils savent lors-qu'ils pourront acheter, aujourd'hui

• comme demain, quelque chose de bon avec leur

argent qu'ils se mettront aussi à économiser.

LES LÎMITES DE LA F O R M A T I O N

FORCÉE DES C A P I T A U X

Parmi les pays d'Europe ravagés par la guerre,

c'est essentiellement la Belgique qui a obéi à ces

lois de la raisons en provoquant l'ardeur au

tra-vail par l'ouverture de ses frontières aux biens de

consommatfcn, au lieu de prôner « l'austérité » à

la mode et de commettre l'erreur d'instituer par

l'Etat une gigantesque épargne forcée. Il semble

bien que ce pays n'ait pas eu à regretter sa

déci-sion. Il a apparemment reconnu quels grands

dan-gers court la nation lorsque le gouvernement exerce

une pression inflationniste en forçant les

investis-sements, à un moment où les entrepôts contenant

les marchandises de consommation -courante sont

vides. Le rapport dit « Rapport Harriman »,

pré-senté le 8 novembre au Président Truman par des

économistes américains éminents à propos du Plan

Marshall a insisté sur ce point, à juste titre. Ce

rapport remarque que de nombreux pays européens

ont été beaucoup trop loin dans leur plan

collec-tiviste d'investissements et qu'ils ont même

dé-passé les Etats-Unis en ce qui concerne

l'allure de

reconstitution des capitaux, en dépit de leur

pé-nurie en produits de consommation. Ce document

conseille avec raison à ces pays de freiner

forte-ment leur programme de construction et de

mo-dernisation jusqu'au moment où l'Europe sera plus

avancée dans la voie de la guérison économique.

Il est significatif des conceptions qui régnent

tou-jours encore aujourd'hui qu'un ministre d'un pays

de l'Europe Occidentale, désireux de convaincre

une commission américaine de la justesse de sa

politique économique, ait cru en apporter la preuve

la plus frappante en promenant d'un chantier à

l'autre les américains — et que sa tactique ait du

succès. Nous avons tous tendance à admettre que

partout où l'on construit, on accomplit quelque

chose d'utile. Mais le fait de construire n'est pas

une vertu en soi; ce qui est important, c'est de

savoir si la dite construction s'intègre

harmonieu-sement dans l'ensemble de l'économie. Or, ceci

dé-pend en premier lieu de la réponse donnée aux

deux questions: est-il opportun, à un moment

donné, de construire un

volume global donné et,

ensuite, construit-on ce qu'il

faut edifier? Le fait

qu'un pays procède à des constructions ne prouve

rien, si nous avons affaire à une nation

collecti-viste, dans laquelle les deux décisions en question

(volume total des investissements et genre des

in-vestissements) sont prise pardessus la tête des

consommateurs. Car, dans un tel pays, on ne les

consulte pas et c'est sans doute pourquoi certains

collectivistes, qui ne sont plus tout à fait à la page,

qualifient, avec un humour involontaire, une telle

politique de « politique économique tendant à la

couverture des besoins ». Un semblable régime a

ceci de spécial qu'il est en mesure de réduire la

consommation par la contrainte dans une mesure

extraordinaire, et c'est une des particularités de tous

les systèmes colle'ctivistes de l'histoire qu'ils font

toujours usage de cette possibilité pour restreindre

au minimum la consommation et accroître au

maxi-mum la production. Leur règle de vie est «

l'austé-rité » ; mais, de même que dans le passé, le « bon

plaisir du prince » avait pour finir ses limites, de

même les calculs sur lesquels se fonde l'épargne

forcée s'avèrent-ils erronnés. Les limites de cette

politique sont clairement apparus aujourd'hui et

les programmes gouvernementaux plein de

pré-somption, édifiés sans tenir compte des réactions

naturelles des êtres, doivent être soumis à

révi-sion- Lorsque les hommes ne peuvent plus acheter

les marchandises de luxe qu'ils désirent, ils

préfè-rent s'acheter ce luxe qui est «

du bon temps » et

travailler moins; or c'est justement ce dernier bien

de luxe qui cause un mal véritable aux pays

euro-péens — conjugé avec le « luxe » de la bureaucratie.

L'austérité est une mauvaise conception

éco-nomique; elle est aussi de la mauvaise

arithmé-tique parce qu'elle

paralyse l'ardeur du travail et

le sens de l'épargne si nécessaires aujourd'hui. Mais

cette philosophie amère est inhérente à tous les

planificateurs, à tous les collectivistes et à tous les

«commissaires». Elle leur procure une occupation,

du pouvoir et de l'importance. Elle donne à leurs

discours ce cachet ascétique plein de dignité, ainsi

que ce caractère de patriotisme soucieux, elle leur

offre la possibilité de faire des consommateurs les

boucs émissaires de leur fausse politique

économi-que. Ils semblent — il est permis de l'affirmer en

toute sincérité — s'être inconsciemment

accoutu-més à vcir dans les consommateurs quelque chose

de terriblement gênant et désagréable dont,

mal-heureusement, on n'a pas encore trouvé le moyen

de se débarasser. A leurs yeux, c'est faire preuve

d'une impudeur inadmissible que de vouloir

ac-quérir ce qùe l'on veut avec l'argent qu'on a

dure-ment gagné et adopter une attitude intolérable

que d'exiger d'acheter des «marchandises de luxe ».

On envoie promener les consommateurs et on

cher-che à les intimider par des sophismes d'économie

politique.

Il n'y a pas de sarcasme trop fort pour

stigma-tiser une telle mentalité, répandue aujourd'hui dans

le monde entier.

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(11)

LA VIA DEL R I S A N A M E N T O INDUSTRIALE

Il nostro recente articolo sul problema dei costi ci ha valso, non solo da Torino, rilievi di

produt-tori, che puntano su un ritocco del cambio del dollaro verso 800 lire: non già, essi sostengono, per determinare stabilmente un livello di minor valu-tazione della lira sul mercato internazionale, ma

per ottenere, attraverso una sia pur transitoria ragione più -favorevole di ricavo, la spinta iniziale

alla ripresa e al riattivarsi delle esportazioni. A parte il fatto che sarebbe davvero deplorevole, dopo aver ottenuto una certa libertà e l'aggancia-mento dei cambi a un meccanismo sensibile di mercato, reclamare una nuova tutela, occorre

ricor-dare chiaramente, per gravose esperienze delle quali tuttora soffriamo, a cosa conducono queste

spinte iniziali reclamate, in modo innocente e

ma-gari ingenuo, da ogni categoria alle prese con problemi eccedenti le difficoltà correnti. Esse sono sempre soluzioni monetarie di squilibri organici dei fattori del complesso produttivo, che non pos-sono correggere tali squilibri ma solo riportarli su altre basi numeridhie, sempre aggravandoli: na-scono così le rincorse tra prezzi e salari, oppure tra costo dei cicli ed espansione del credito, o ancora

tra costi interni e cambi esteri.

In proposito non è male analizzare, perchè tut-tora in fase di elaborazione, la tanto discussa que-stione del credito. Nei suoi discorsi di quand'era ancora ministro del Bilancio, Luigi Einaudi ha sem-pre respinto, energicamente, la definizione di restri-zione o ridurestri-zione del credito, che veniva data della

sua politica in materia. Le cifre stanno a docu-mentare l'esattezza del suo diniego e, infatti, os-servando i dati del trimestre ottobre-dicembre 1947, •cioè del periodo cruciale di quella politica, vediamo : — il totale per le banche della voce « Portafoglio » (la più indicativa dell'assistenza fornita ai settori industriali e commerciali) passa nel trimestre da 217 a 246 miliardi;

— la consistenza della stessa voce per il « Consor-zio sovvenConsor-zioni su valori industriali » (ente speci-fico per tale assistenza) passa da 12,6 a 20,6 mi-liardi, dei quali ultimi ben 16,6 riscontati alla Banca d'Italia e pertanto a carico dell'emissione di bi-glietti per le esigenze industriali e commerciali.

Non si è trattato quindi di una riduzione e nep-pure di un blocco nelle concessioni di Aido, ma di un semplice rallentamento al processo di espansione del credito, in atto senza interruzione dal giugno

1946. Senza dubbio varie banche, non avendo te-nuto conto sufficiente dei precedenti avvertimenti del Governatore della Banca d'Italia, si trovarono tra settembre e ottobre 1947, all'atto di dover ag-giornare il prescritto riversamento percentuale sui depositi, in condizioni di disporre un brusco arre-sto dei fidi, invece del rallentamento, creando di-sagi in settori parziali e un'onda psicologica di timore: ma la spiegazione esauriente del disagio generale è data solo dall'analisi della funzione che l'espansione del credito aveva assunto nel campo produttivo e con riferimento alla corsa dei costi. Il credito permetteva, come abbiamo altra volta -illustrato, di differire, la vendita dei prodotti per una almeno d'elle successive fasi della rincorsa prezzi-salari e, soprattutto, di coprire nella sua ra-gione crescente la sempre maggiore area di costo dei cicli. Se sotto un riflesso politico venne a for-marsi cosi uno strumento per scaricare sulla col-lettività, ossia sulla generalità dei cittadini come portatori di carta moneta, gli oneri sociali (salari fuori concorrenza, maestranze esuberanti, ecc.) che in sede politica si addossavano al solo ceto dei produttori, ne derivò in campo tecnico-economico un meccanismo di facile dinamica, nel quale si in-serirono le aziende tutte e che cagionò una ben rude scossa quando si dovette, per non precipitare nell'inflazione completa, imporre un arresto.

Quanto è avvenuto e avviene per la voce « cre-dito » ci rende ben cauti per quella « cambi ». Il problema dei costi, pregiudiziale per

l'esporta-zione, non va mascherato nel gioco monetario, ma risolto in sede tecnica, con l'aggiornamento degli impianti e il ripristino del rendimento del fattore umano. Aibbiamo altra volta accennato ai fattori passivi della riduzione dei costi, ossia alla

pres-sione sugli esborsi vivi aziendali (salari, oneri assi-curativi, ecc.), ciò che costituisce la via più facile e rapida, ma anche più ingrata e socialmente dan-nosa e deve, quindi, valere come mezzo estremo o comunque integrativo: è invece il caso di soffer-marci sui fattori attivi, ossia sull'incremento in

quantità e qualità dei prodotti per mezzo dell'ag-giornamento e « riconversione » degli impianti, al livello tecnico dei paesi più progrediti e concorrenti.

Parlare di « riconversione » vuol dire arrischiarci in conteggi di fabbisogni finanziari, che nessuno si è (finora curato di valutare seriamente, ma che in ordine di grandezza possono implicare le centi-naia di miliardi per ognuno dei principali settori dell'industria italiana: per il solo Piemonte e con riferimento ai due rami prevalenti, il meccanico e il tessile, siamo portati a indurre un fabbisogno non inferiore ai 250 miliardi. Ciò mette in maggior ri-lievo l'assenza, già lamentata nel nostro studio sugli aspetti creditizi della crisi regionale, di una qualsiasi attrezzatura di credito a medio e lungo termine: onde restano vivi, per mantenerci sulla nostra abituale linea realistica e senza affidarci a progetti non avviati a concretarsi, gli appunti fatti sulla condotta di accaparramento dello stato sul mercato del risparmio, a danno del normale finanziamento diretto delle imprese.

Nel 1° quadrimestre 1948 la consistenza dei Buoni ordinari del Tesoro è passata da 314 a 415 mi-liardi, per cui ben 101 miliardi di risparmio fresco sono stati assorbiti dalle casse statali, per spese

in grandissima parte di consumo; nello stesso periodo gli aumenti di capitale di talune maggiori società italiane — 8 miliardi della Fiat e 6 della Montecatini — sono stati coperti in Borsa a gran fatica e solo spingendo i diritti relativi a bassis-simo prezzo. E' evidente, quindi, come in defini-tiva solo l'assestamento del bilancio statale, o me-glio la graduale normalizzazione restrittiva dell'in-tervento e della spesa statale, con la conseguente limitazione dei bisogni finanziari e dell'accaparra-mento del risparmio, potrà consentire un principio di attuazione dell'assestamento industriale.

Di questi tempi, poi, si è aperta una nuova pro-spettiva col famoso « fondo lire », alimentato dalle vendite delle forniture gratuite comprese nel piano Marshall: su tali fondi di centinaia di miliardi si sono sfrenati gli appetiti e piovono i progetti di utilizzo, da quelli economici ai politici e so-ciali. Poiché molto si parla per tali utilizzi di indu-strializzazione, speriamo che almeno si agisca con buon senso, evitando di creare doppioni alle indu-strie esistenti e ancor più di essi precari e anti-economici: creare industrie col denaro facile, che scende dall'alto senza costo e senza rischio, non ga-rantisce quella valutazione rigorosa e responsabile dei costi, che sola può offrire organismi vitali e non altri carichi passivi per la collettività.

La strada da seguire è semplice ed evidente: por-tare questa massa di manovra, di cui nessun go-verno italiano ha mai disposto e forse mai più disporrà, al servizio della « riconversione » delle in-dustrie esistenti, cominciando dalle più sane e suscettibili di attività vitale ed economica: assi-curando l'occupazione altrimenti precaria della at-tuale maestranza e traendo dal « fondo » anche i mezzi per sovvenire decorosamente ai bisogni dei non moltissimi « veri » disoccupati, per un pe-riodo di transizione e finché la risanata economia non possa, almeno in parte, assorbirli. Senza di ciò, prepariamoci pure ad affrontare a capo chino una grave crisi, di sovraproduzione non smerciata prima e di inattività poi; crisi ohe da tempo denunciamo e cui poco scaltramente si finge di non credere!

(12)

È possibile la produzione su larga scala della benzina sintetica Italia?

UN GRANDE SUCCESSO DELLA CHIMICA INDUSTRIALE

Pochi sanno che una notevole parte dei combustibili liquidi, che la Germania utilizzò durante la guerra per rifornire le sue forze corazzate, non proveniva dai poz-zi romeni, nè dagli olii sintetici ricavati dal carbon fossile, ma bensì semplicemente dall'acqua. Tale affermazione, se può sem-brare assurda, è invece perfetta-mente esatta: bisogna ricordarsi che, ancora nel lontano 1923, i chimici tedeschi Tropsch e Fi-scher scoprirono ohe il gas, ot-tenuto facendo passare il vapore acqueo sul carbone rovente, co-stituisce un'eccellente materia prima per la produzione della benzina sintetica. Infatti, in pre-senza di opportuni catalizzatori ed a temperature molto elevate, l'ossido di carbone e l'idrogeno reagiscono tra loro, dando luogo a formazione di benzina e Idi acqua.

Per chi non lo ricordasse, i ca-talizzatori sono tutte quelle so-stanze che accelerano le reazioni chimiche: per esempio, l'acqua è t composta di ossigeno e di

idro-geno, ma i due elementi non si combinano se sono messi sempli-cemente a contatto. Basta invece una piccolissima quantità di pla-tino perchè la loro combinazione avvenga istantaneamente, mentre in condizioni normale occorre-rebbe un periodo estremamente lungo : beji 200.000 miliardi di se-coli! Il platino, in questo caso, agisce da catalizzatore, rimuoven-do tutti gli ostacoli che impedi-scono una rapida reazione; così pure una scarica elettrica, fatta avvenire in una miscela di idro-geno ed ossiidro-geno, provoca una combinazione immediata dei due elementi.

Il metodo tedesco per la produ-zione della benzina sintetica, seb-bene ingegnosissimo, non era stato tuttavia sufficientemente perfezionato dal punto di vista tecnico: il carburante ottenuto, oltre ad essere molto costoso, era di qualità scadente. Apposite raf-finerie, costruite troppo in fretta, non poterono risolvere soddisfa-centemente il problema, ed il pro-dotto finito, poco adatto per i po-tenti motori a scoppio, risultava sempre di un costo talmente alto Ohe, in condizioni normali, la Germania non avrebbe avuto il tornaconto di produrre la. ben-zina sintetica e sarebbe ritornata all'importazione degli idrocar-buri naturali.

Ma già nel 1923 l'esperimento di Tropsch e Fischer aveva sol-levato uno straordinario interesse negli St^ti Uniti. Subito dopo la fine dell'ultimo conflitto, il

proce-dimento tedesco per la produ-zione della benzina sintetica è stato attentamente studiato dai tecnici americani. Occorre pre-mettere che, specialmente negli Stati Uniti, è stato più volte af-fermato che le riserve mondiali del petrolio sembrano destinate ad esaurirsi entro pochi decenni; inoltre, le richieste crescenti dei combustibili liquidi da parte del-l'industria hanno spinto i tecnici ad occuparsi seriamente della scoperta tedesca. E' da tenere presente che non soltanto il va-pore d'acqua può essere impie-gato per la produzione della ben-zina sintetica : molti gas naturali, tra i quali il metano, di cui esi-stono ingentissimi giacimenti an-che in Italia, costituiscono un'ot-tima materia prima per la pro-duzione dei combustibili liquidi. Il metano, se bruciato in presenza di opportune quantità di ossigeno puro, si trasforma in ossido di carbonio e in idrogeno, la miscela cioè, da cui sono partiti originà-riamente i tedeschi.

Tuttavia, da esperienze preli-minari fatte in America, è risul-tato che, per produrre razional-mente dal metano il carburante sintetico, è necessario disporre di ossigeno in abbondanza, ma si dovrebbe avere questo ossigeno ad un costo non superiore al due per cento del suo attuale prezzo com-merciale. Inoltre le enormi quan-tità di calore, che si sviluppano durante la reazione, aumentano le difficoltà tecniche e costruttive degli impianti occorrenti. La so-luzione del problema è stata af-fidata da uno dei più brillanti ingegneri chimici americani, Per-cival Keith, e dalla documenta-zione recentissima pervenuta al-l'Istituto Bibliografico italiano ri-sulta che il Keith è riuscito ad ottenere uno dei più grandi suc-cessi della chimica industriale moderna, mettendo a punto un nuovo metodo, denominato 1'«

Hy-drocol Process», per lo sfrutta-mento dei gas naturali nella pro-duzióne di carburanti sintetici. In apposite « camere di reazione » egli ha installato un sistema di tubi a circolazione d'acqua, uti-lizzando il calore che si svilup-pa durante il processo per tra-sformare l'acqua in vapore, che a sua volta viene adoperato per fare azionare una serie di com-pressori e di altri meccanismi, destinati alla produzione di ossi-geno. L'uso razionale di questo primo impianto sperimentale ha dato brillanti risultati: è stato possibile, infatti, produrre l'ossi-geno ad un prezzo

sufficiente-mente basso, rendendo l'intero processo sfruttabile industrial-mente.

Oggi è già in funzione negli Stati Uniti un impianto di carat-tere industriale, nel quale viene prodotta benzina sintetica se-condo il metodo di Keith. Tale benzina è di caratteristiche mol-to superiore a quella prodotta dai tedeschi durante la guerra ed il suo costo non supera quello cor-rente del mercato. I risultati ot-tenuti con la « Hydrocol Pro-cess » hanno avuto una larga eco negli ambienti industriali e fi-nanziari americani, e sono in co-struzione nuovi grandi stabili-menti per la produzione dei car-buranti liquidi sintetici, su vasta scala industriale.

Il perfezionamento del metodo tedesco, metodo che ha costituito uno dei segreti di guerra gelosa-mente custoditi dalla Germania, non può essere passato sotto si-lenzio in Italia. Vi sono molte ragioni che dovrebbero indurre la nostra industria ad interessar-sene attivamente: i giacimenti di metano del sottosuolo padano sono considerati molto importanti e, come si ricorderà, i tecnici americani hanno seguito attenta-mente i sondaggi sperimentali ef-fettuati dalle Società petrolifere italiane. Tali sondaggi sono stati riconosciuti assai promettenti; ancora circa un anno fa ha de-stato una certa meraviglia il fat-to che gli americani si siano se-riamente interessati dei nostri giacimenti di metano, mentre il petrolio abbonda nei pozzi ap-partenenti alle grandi Compagnie statunitensi, nell'America Latina e nel Medio Oriente. Ora tale in-teressamento trova la sua spie-gazione: già in quell'epoca gli esperimenti di Keith erano in atto e stavano per concludersi fa-vorevolmente.

Verrà certo il giorno, e non molto lontano, in cui la produ-zione su larga scala dei combusti-bili liquidi sintetici, ad un costo economicamente vantaggioso, di-venterà una realtà anche in Ita-lia. Non si tratterà più di mode-sti tentativi, ma di una produ-zione economicamente sana, im-postata su solide basi, che risol-verà definitivamente e radical-mente il problema dei carburanti in Italia. Così, uno dei segreti di guerra, frutto della genialità dei chimici tedeschi, perfezionato dalla tecnica americana, sta per diventare preziosa conquista del-l'umanità nella ricostruzione pa-cifica del mondo.

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