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Enti non commerciali

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E MANAGEMENT

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN CONSULENZA

PROFESSIONALE ALLE AZIENDE

TESI DI LAUREA

Enti non commerciali

Il relatore Il candidato

Prof.ssa Giulia Boletto Elisa Gheri

Sessione di laurea 02/10/2017 Anno accademico 2017/2018

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Introduzione

1. Classificazione degli enti non societari in enti commerciali o non commerciali 1.1. Il ruolo primario dell’”oggetto” per la qualificazione di un ente non societario 1.2. Criterio formale e attività effettivamente esercitata

1.3. Prevalenza ed essenzialità dell’attività svolta quale valutazione complessiva tra elementi qualitativi e quantitativi

1.4. Attività commerciale e attività non commerciale

1.4.1. Dottrina che riconduce l’economicità al pareggio

1.4.2. Dottrina che riconduce l’economicità alla lucratività : riflessioni sulla portata e contenuto dell’art 143

1.4.2.1. Riflessioni sulla portata e contenuto dall’art 148 e le indicazioni ritraibili dalla normativa Iva

1.4.2.2. Riflessioni in un ottica di armonizzazione del sistema rispetto alla configurazione del presupposto d’imposta

1.4.3. Tesi che prescinde dal requisito dell’economicità 1.4.4. Rassegna della giurisprudenza in materia

1.4.5. Prospettive ricostruttive

1.4.6. La corrispettività e gli elementi da confrontare per determinare l’economicità 1.4.7. Attività svolte con assetti corrispettivi ma con strutture anomale di costo 1.4.8. Gestione di partecipazione e sua qualificazione

1.4.9. Irrilevanza della destinazione e della esistenza di un risultato positivo 2. Adempimenti fiscali e contabili enti non commerciali

2.1. Criterio di quantificazione dell’imponibile dell’ente non commerciale 2.2. Le esclusioni applicabili agli enti non commerciali

2.2.1. Le raccolte pubbliche di fondi

2.2.2. I contributi per attività convenzionate con la pubblica amministrazione 2.3. Obblighi di contabilità e forfetizzazioni

2.4. Deduzioni e detrazioni 2.5. Dichiarazione dei redditi 2.6. Imposte Indirette

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2.6.2. Irap 2.6.3. Imu

3. Riflessioni derivanti dall’introduzione di leggi speciali: focus su organizzazioni di volontariato e Onlus

3.1. Profilo soggettivo e finalità meritevole nell’art 6 del dpr n.601 del 1973 3.2. Leggi speciali

3.2.1. Organizzazioni di volontariato

3.2.2. In breve fondazioni musicali e bancarie 3.2.3. Onlus

4. Riforma terzo settore: dalla legge delega alla pubblicazione in gazzetta ufficiale del codice del terzo settore

4.1. Legge delega di riforma del terzo settore 4.1.1. La nuova nozione di ente non commerciale

4.1.2. I principi della legge delega in materia di ente non commerciale 4.1.3. Verso il superamento della nozione di ente non commerciale? 4.2. Codice del Terzo settore

4.2.1. La nuova fiscalità degli enti del Terzo settore e profili di criticità Conclusione

Bibliografia

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Introduzione

La nozione di ente non commerciale è presente solo nell’ordinamento tributario non sono rinvenibili nozioni simili negli altri rami dell’ordinamento. Non esiste, poi, alcuna influenza delle qualificazioni effettuate in sede civile o una qualche corrispondenza tra gli enti del primo libro del codice civile e gli enti non commerciali. Le associazioni riconosciute e non , fondazioni , comitati , possono essere inquadrati tra gli enti non commerciali, sia tra quelli commerciali, perché ai fini della classificazione si prescinde dalla struttura dell’ente e dal fine perseguito. Quindi l’indipendenza rispetto alle definizioni civilistiche è anche conseguenza del diverso criterio fissato dalla disciplina dei vari settori, in sede tributaria il fattore discriminante delle due categorie di enti non societari è la natura dell’attività principale, in sede civilistica la distinzione tra enti del I e V libro è fondata sullo scopo finale.

Nel primo capitolo vedremo come l’oggetto assume un ruolo primario nella qualificazione di un ente non societario come non commerciale infatti dal comma 4 dell’art 73 si evince chiaramente, come l’elemento cruciale per qualificare un ente sia l’oggetto inteso come il tipo di attività da questo svolta, intendendosi per quest’ultima l’attività al cui svolgimento l’ente è funzionalmente orientato e che dunque si rivela, appunto «essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari dello stesso». Nessun rilievo assume la rilevanza sociale delle attività perseguite, l’assenza del fine di lucro o la destinazione dei risultati. Detto ciò occorre innanzitutto domandarsi quale rilevanza abbia il dato formale nell’individuazione della commercialità dell’ente poiché il comma 4 dell’articolo 73 attribuisce importanza, per i soggetti residenti, innanzitutto a quanto indicato dall’atto costitutivo, dallo statuto o dalla legge, e solo in mancanza dello stesso si fa riferimento all’attività effettivamente esercitata (comma 5). Sul punto vedremo le due principali posizioni dottrinarie, una che attribuisce rilevanza al dato formale e l’altra invece al all’attività effettivamente esercitata, e poi come l’entrata in vigore nel 1998 dell’attuale articolo 149 del Tuir abbia influito su tal punto. Successivamente illustrerò le diverse posizioni dottrinarie che sono intervenute per stabilire la natura commerciale o non commerciale dell'attività dell'ente. Vedremo come secondo la dottrina maggioritaria, la natura commerciale o non commerciale dell’attività dell’ente deve essere valutata esclusivamente ai sensi dell’art. 55 TUIR è legittimo però chiedersi se la norma debba essere integrata con gli elementi previsti in sede civilistica in quanto essa facendo

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riferimento alle attività di cui all’art. 2195 c.c., rinvierebbe anche all’art. 2082 c.c. e dunque all’economicità della gestione o se basta la semplice riconducibilità di una attività ad una delle fattispecie previste dal 2195 c.c.. L’economicità secondo la dottrina maggioritaria è considerata come semplice remunerazione dei fattori produttivi e, banalmente, si potrebbe parlare di un’attività economica quando le entrate eguagliano le uscite, conducendo ad un sostanziale pareggio di bilancio. Su un distinto versante si è posta un’altra dottrina (minoritaria) che considera economica e quindi commerciale non tanto l’attività tesa al pareggio di bilancio bensì l’attività gestita secondo criteri programmativamente improntati al conseguimento di un profitto. La posizione però si fonda sull’idea che l’art. 143 debba contribuire alla definizione generale del concetto di attività commerciale integrando quindi l’art 55. Inoltre per determinare l’economicità delle attività svolte dagli enti non societari, vedremo le difficoltà dovute alla struttura articolata di entrate e di uscite che connota gli enti.

Nel secondo capitolo illustrerò il criterio di quantificazione dell’imponibile complessivo a fronte dell’inquadramento nella categoria soggettiva degli enti non commerciali che è diverso da quello previsto per gli enti commerciali. Gli adempimenti previsti per gli enti non commerciali sia per quelli che svolgano anche attività commerciale sia per quelli che non svolgono nessuna attività commerciale. Vedremo come per quelli che svolgono anche attività commerciale, l’obbligo di tenere contabilità separata e come per quelli ammessi alla contabilità semplificata si possa optare per la determinazione forfettaria del reddito d’impresa. Le esclusioni applicabili agli enti non commerciali. Le deduzioni e le detrazioni previste per gli enti non commerciali. La dichiarazione dei redditi prevista per gli enti non commerciali. L’Iva e L’Irap per gli enti non commerciali.

Nel terzo capitolo vedremo come la svalutazione delle finalità meritevoli e non lucrative sia evidenziata ai fini della qualificazioni degli enti non societari come enti non commerciali tali caratteristiche verranno rivalutate in diverse leggi speciali focus su quella che ha introdotto la tipologia soggettiva Organizzazione di volontariato (ODV) nel 1991 e la categoria tributaria Onlus introdotta nel 1997 e vedremo se tali rivalutazioni indirizzano verso la irrilevanza della natura delle attività principali e di conseguenza della qualificazione di enti non commerciali.

Nel quarto capitolo partendo dal fatto che la Legge Delega 106 del 2016 all’art 9 comma 1 disponeva la revisione complessiva della definizione di ente non commerciale che potesse andare verso un vero superamento della distinzione tra natura commerciale e non commerciale degli enti , riconoscendo un regime tributario di vantaggio esclusivamente in

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base allo scopo costitutivo dell’ente. Si riscontra invece, a seguito dell’approvazione in via definitiva del decreto recante il codice del terzo settore da parte del Consiglio dei ministri il 28 Giugno 2017 pubblicato sulla gazzetta ufficiale il 2 Agosto 2017 come il regime d’imposizione diretta continua ad essere radicato sulla distinzione tra attività commerciali e non commerciali.

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1.Classificazione degli enti non societari in enti commerciali o non commerciali

Il tema affrontato in questa tesi impone una precisazione preliminare la nozione di enti non commerciali è esclusivamente di carattere tributario. Tale termine è, infatti, relativamente recente, lo troviamo per la prima volta, nella riforma tributaria degli anni ‘70, nel d.p.r 29 settembre 1973, n. 598, e identificava quella categoria di soggetti sottoposti ad Irpeg che l’art. 2 lett. c del decreto individuava in modo più circostanziato negli ”enti pubblici e privati, diversi dalle società, non aventi per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di un’attività commerciale”: in evidente contrapposizione rispetto alla speculare e complementare categoria soggettiva degli enti non societari pubblici e privati che lo stesso art 2 lett. b descriveva come “aventi per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di un’ attività commerciale”. La terminologia in questione, conservando invariata una simile portata identificativa, è passata indenne al varo del testo unico delle imposte sui redditi di cui al d.p.r 22 dicembre 1986 n. 917, e, in seguito, al ben più impegnativo banco di prova rappresentato dalla attuazione della l. 7 aprile 2003, n. 80, legge delega per la riforma del sistema tributario1 per infine approdare

,immutata, nella vigente disciplina dell’imposta sul reddito delle società (Ires) ove, difatti, la distinzione degli enti non societari in enti non commerciali e commerciali risulta riproposta in termini sostanzialmente invariati e con la medesima funzione di discriminazione soggettiva, prodromica all’accesso ad un diverso regime di rilevazione dell’imponibile, sin dall’origine attribuitale in seno alla disciplina Irpeg. Di tale categoria soggettiva non solo non si rinviene traccia in altre branche dell’ ordinamento giuridico, ma mancano altresì corrispondenti nel previgente sistema d’imposizione sul reddito come disciplinato da ultimo dal testo unico delle leggi sulle imposte dirette di cui al d.p.r 29 gennaio 1958, n. 545, laddove le uniche categorie soggettive fiscalmente rilevanti risultavano essere rispettivamente: quella dalle remote origini , degli enti tassabili in base al bilancio e quella, in verità priva di fondamenti normativi ma di creazione eminentemente giurisprudenziale, degli enti privi di scopo di lucro. Il che induce ad ipotizzare che la categoria concettuale in questione, non solo assuma senso e significato in un ottica squisitamente tributaria ma, trovando la propria genesi e la propria

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collocazione nell’alveo della disciplina delle imposte sui redditi cosi come scaturente a seguito della riforma tributaria degli anni ’702.

1.1 Il ruolo primario dell’oggetto per la qualificazione di un ente non societario

La qualificazione di un ente non societario3 come commerciale o non commerciale ai fini

delle imposte sui redditi è condotta innanzitutto sulla base dell’articolo 73 del Tuir, il quale individua i soggetti passivi dell’Ires4 tra questi individua sia gli enti commerciali,

sia gli enti non commerciali. La commercialità è uno degli elementi assieme alla residenza su cui si basa la classificazione dei soggetti passivi delineata nel 1 comma di detto articolo, e consente di distinguere ai primi due insiemi di soggetti le società e gli enti commerciali residenti al terzo gli enti non commerciali residenti e al quarto le società e gli enti di ogni tipo non residenti. Poi per gli enti residenti l’art 73 al comma 4, stabilisce che “l'oggetto esclusivo o principale dell'ente residente è determinato in base alla legge, all'atto costitutivo o allo statuto, se esistenti in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata o registrata”. E successivamente sempre al comma 4 ci dice l’oggetto principale è “l'attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall'atto costitutivo o dallo statuto” . Passando al comma 5 si prevede che “in mancanza dell'atto costitutivo o dello statuto nelle predette forme, l'oggetto principale dell'ente residente è determinato in base all'attività effettivamente esercitata nel territorio dello Stato; tale disposizione si applica in ogni caso agli enti non residenti”. Dopo aver esplicitato la norma sicuramente è chiaro, da quanto sopra descritto, il ruolo

2Vedi FALZEA A., GROSSI P., CHELI E., GALLO F. Enciclopedia del diritto (parte su Enti non commerciali

(diritto tributario)), Giuffrè Editore - 2007

3 Per quanto attiene la tipologia di enti non societari che possono assumere la veste di ente non

commerciale (o commerciale) sono da considerare le associazioni, le fondazioni, i comitati, i consorzi, gli enti pubblici (con esclusione di organi e amministrazioni dello Stato, comuni, consorzi tra enti locali, province, regioni, comunità montane che, ai sensi dell’art. 74 Tuir, non sono soggetti ad imposta) ; i trust e le “organizzazioni” che rientrano nella fattispecie “aperta” delineata dall’art. 73, 2 comma, primo periodo, Tuir.

4Art 73 tuir comma 1. Sono soggetti all'imposta sul reddito delle societa':

a) le societa' per azioni e in accomandita per azioni, le societa' a responsabilita' limitata, le societa' cooperative e le societa' di mutua assicurazione, nonche' le societa' europee di cui al regolamento (CE) n. 2157/2001 e le societa' cooperative europee di cui al regolamento (CE) n. 1435/2003 residenti nel territorio dello Stato;

b) gli enti pubblici e privati diversi dalle societa', nonche' i trust, residenti nel territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attivita' commerciali;

c) gli enti pubblici e privati diversi dalle societa', i trust che non hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attivita' commerciale nonche' gli organismi di investimento collettivo del risparmio, residenti nel territorio dello Stato;

d) le societa' e gli enti di ogni tipo, compresi i trust, con o senza personalita' giuridica, non residenti nel territorio dello Stato.

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primario dell’oggetto nella qualificazione di un ente non societario. Per chiarire l’esatto significato dell’art. 73 TUIR, è necessario innanzi tutto accertare se l’oggetto esclusivo o principale come discrimine tra natura commerciale e non commerciale, intenda riferirsi allo scopo dell’ente stesso o, invece, esclusivamente all’attività svolta per realizzare detto scopo.

Dalla lettura del comma 4 sopra riportato si evince chiaramente, come l’art. 73 TUIR prende in considerazione l’oggetto dell’ente inteso in senso proprio e cioè l’attività che questi deve svolgere al fine di perseguire il proprio scopo. Come osservato da autorevole dottrina, al fine di qualificare un ente non societario come ente non commerciale il legislatore prescinde dal tipo di finalità (egoistica o altruistica) perseguita, e anche dalla qualificazione dell’ente in sede civile5. Non esiste, una qualche corrispondenza tra gli enti

del primo libro del codice civile e gli enti non commerciali. Le associazioni riconosciute e non , fondazioni , comitati , possono essere inquadrati tra gli enti non commerciali, sia tra quelli commerciali, perché ai fini della classificazione si prescinde dalla struttura dell’ente e dal fine perseguito. Quindi l’indipendenza rispetto alle definizioni civilistiche è anche conseguenza del diverso criterio fissato dalla disciplina dei vari settori, in sede tributaria il fattore discriminante delle due categorie di enti non societari è la natura dell’attività principale, in sede civilistica la distinzione tra enti del I e V libro è fondata sullo scopo finale. Per quanto riguarda lo scopo si precisa ai fini fiscali rileva in via diretta solo qualora costituisca una condizione necessaria per garantire, in presenza di ulteriori requisiti stabiliti di volta in volta, un trattamento agevolato o un regime speciale a soggetti che perseguono un fine istituzionale meritevole di tutela (ad es. la riduzione dell’IRES del 50% prevista dall’art. 6, D.P.R. n. 601/1973 o il regime previsto per le ONLUS dal D.Lgs. n. 460/1997). Tuttavia, tale recupero dello scopo dell’ente come condizione per la concessione di trattamenti fiscali privilegiati ha assunto nel tempo rilevanza sempre maggiore e sembra essere diventato, dall’introduzione delle ONLUS come istituto chiave del terzo settore, quasi un sistema parallelo e concorrente con l’ordinaria qualificazione basata sull’attività svolta. Occorre, innanzitutto domandarsi quale rilevanza abbia il dato formale nell’individuazione della commercialità dell’ente dato che la norma al comma 4 dell’art 73 stabilisce, per i soggetti residenti assume importanza, quanto indicato dall’atto costitutivo, dallo statuto o dalla legge, al comma 5, invece, precisa che solo in mancanza dello stesso si fa riferimento all’attività

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effettivamente esercitata6. Per quanto riguarda il dato formale esso risponde innanzitutto

ad esigenze di certezza nella qualificazione di un ente: è tramite esso che si può qualificare l’ente ex ante, sulla base del programma che esso è istituzionalmente destinato a realizzare e che quindi lo caratterizza. La fonte da cui rinvenire le scelte dell’ente sarebbe da accertarsi sulla base di un documento munito delle forme richieste (atto pubblico o scrittura privata autenticata) e dovrà essere individuato certamente sulla base della lettera del documento, ma si dovrà avere riguardo, non solo ad eventuali modifiche formali dell’oggetto statutario, ma anche all’ipotesi di una modifica priva delle predette forme o di fatto, quando cioè il regolamento vincolante le parti non è sin dall’origine quello desumibile dall’atto, ma risulta racchiuso in contestuali controdichiarazioni. Per quanto riguarda il criterio dell’attività effettivamente esercitata le scelte dell’ente sono rinvenibili dalla realtà fattuale.

1.2 Criterio formale e criterio dell’attività effettivamente svolta

L’importanza di tale dato formale è ritenuta dalla dottrina prevalente minore di quanto appaia ad un primo esame della norma. Anzi, di fatto la rilevanza di tale norma viene ad essere notevolmente ridimensionata (e subordinata) rispetto all’accertamento dell’attività effettivamente svolta dall’ente. La preferenza per il criterio dell’attività effettivamente svolta anche in presenza di statuto formalmente in regola e cioè di una fonte documentale idonea a far conoscere in modo certo le scelte effettuate dall'ente societario è data a seguito dell'osservazione che, in presenza di statuto rispettoso delle forme prescritte e in assenza di vincoli o controlli atti a verificare il rispetto delle disposizioni ivi contenute venivano svolte, talvolta anche in via principale, attività commerciali non previste. Di conseguenza potevano essere definiti non commerciali ,in base al criterio formale, enti che svolgevano attività produttive di reddito, che peraltro procuravano entrate di rilevante entità. La palese divergenza tra disposizioni statutarie e attività svolta in concreto e la entità dei proventi da attività commerciali non statutarie, orientavano verso un interpretazione che, tenendo conto delle situazioni di fatto, anche per l'identificazione dell'attività principale, ampliava l'ambito di applicazione del criterio dell’attività effettivamente svolta alle ipotesi di differenza tra realtà e previsioni statutarie. In concreto, si sostituiva il criterio sostanziale a quello formale pure nelle ipotesi in cui

6 Precisazione per gli enti non residenti si avrà riguardo solo a quest’ultimo parametro cioè quello

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sarebbe stato applicato quest'ultimo. Difatti, è stato più volte osservato in dottrina ed in giurisprudenza come una qualificazione basata sul solo dato formale consentirebbe di fatto ad un ente di collocarsi a proprio piacimento nella categoria degli enti commerciali o in quella degli enti non commerciali, a seconda della maggior convenienza fiscale a collocarsi nell’una o nell’altra, e che fosse quindi da escludere una intenzione del legislatore in tal senso. L’orientamento per tale criterio trova poi una conferma nel disposto dell’articolo 149 del Tuir, primo comma, secondo il quale “indipendentemente dalle previsioni statutarie, l'ente perde la qualifica di ente non commerciale qualora eserciti prevalentemente attività commerciale per un intero periodo d'imposta”7. Tale

norma esplicita chiaramente la necessità di accertare in termini di effettività la natura dell’ente dichiarata in sede di costituzione o nello statuto, prendendo quindi in esame l’attività da questi effettivamente svolta. Da quanto appena esposto bisogna allora chiedersi quale sia quindi l’effettivo rilievo da attribuire all’oggetto risultante da atto costitutivo, statuto o dalla legge. Una parte della dottrina ritiene che il legislatore abbia comunque inteso attribuire valore giuridico alla disposizione contrattuale dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata e non all’attività effettivamente esercitata, forse anche in ragione delle difficoltà applicative che reca il criterio di effettività; peraltro, tale volontà espressa del legislatore emergerebbe dal fatto che fin dalla riforma tributaria del 1971-1973 il legislatore avrebbe potuto mutare le sue scelte in merito ai criteri per la qualificazione di un ente, invece è rimasto ancorato alle disposizioni fissate dall’art 738. La dottrina prevalente, invece, riconosce la prevalenza della realtà effettiva

rispetto al dato formale quando la prima contraddica palesemente la seconda. Una parte di questa dottrina sembra non attribuire alcuna rilevanza alle previsioni statutarie, le quali apparirebbero solamente come degli indici formali e delle fonti di legittimazione all’esercizio di un’attività, e dà rilievo alla natura dell’attività concretamente esercitata

7In merito all’espressione “intero periodo d’imposta” occorre osservare che, secondo quanto esposto

dall’Amministrazione finanziaria nella Circolare n. 124/E del 1998, tale periodo indica solo la proiezione temporale entro la quale osservare l’attività di un ente, ma sarà sufficiente che la prevalenza dell’attività commerciale sia accertata per la maggior parte del periodo d’imposta.

8Così A. M. PROTO, Attività istituzionali degli enti diversi dalle società: ipotesi di definizione, cit., 305, in cui

viene osservato come «si deve sottolineare invece che la scelta del legislatore, fissata all'art. 87 [ora 73], conferma quella dell'art. 2 previgente, per cui […] il legislatore certamente non ignorava nel 1973 e non continua ad ignorare la realtà. In occasione dell'emanazione del testo unico, avrebbe potuto modificare le sue scelte, se non lo ha fatto forse ha ritenuto necessario ancorare la disposizione ad un dato certo e quindi ribadire, per quanto riguarda l'individuazione dell'attività principale, quanto già fissato all'art. 2, ultimo comma, del decreto previgente, senza attribuire rilevanza giuridica all'eventuale non coincidenza tra l'attività formalmente principale e l'attività, quantitativamente prevalente, confermando che il criterio di effettività è applicabile solo alle ipotesi in cui non esiste un atto nelle forme richieste».

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quale unico criterio discretivo9; altra parte della dottrina ritiene invece che comunque un

primo accertamento sull’oggetto dell’ente debba essere effettuato sulla base del dato formale, e che solo qualora la realtà fattuale contraddica palesemente il dato formale si debba far riferimento alla prima in luogo della seconda 1011. In realtà quest’ultime due

principali posizioni dottrinarie sono molto più simili di quanto possa apparire, perché entrambe riconoscono pur sempre la prevalenza della sostanza sulla forma, quantomeno nel caso in cui vi sia contrasto tra le disposizioni statutarie formali e l’attività effettivamente svolta. La questione tuttavia non può essere risolta in questi termini, visto che le disposizioni dell’art. 73, 4 comma , Tuir, attribuiscono rilievo in modo espresso alle previsioni statutarie (se esistenti in forma qualificata) e non, invece, all’attività di fatto svolta12. Una parte della dottrina, ritiene che proprio l’introduzione della norma

contenuta nell’attuale articolo 149 del Tuir, confermi la volontà del legislatore di attribuire valore, in via di principio, al criterio formale di qualificazione dell’ente; è chiaro infatti che il legislatore avrebbe ben potuto, invece di introdurre la norma in parola, semplicemente eliminare il riferimento al criterio formale ed uniformare la qualificazione degli enti residenti a quelli non residenti. Quindi l’articolo 149 può essere al limite considerato un criterio sussidiario, in quanto ha una applicazione sia logicamente (poiché presuppone che un ente sia già stato qualificato come ente non commerciale) sia cronologicamente (poiché non può che essere accertato ex post) successiva all’articolo 73 comma 4.

9F. GALLO, Fondazioni e fisco, cit., 1163.

10In tal senso M. CANTILLO (Enti non lucrativi – diritto tributario, in Enc. Dir., Milano, 2000, IV

aggiornamento, 524), il quale rileva che le eventuali diversità della realtà fattuale, quando non contraddicano in modo radicale le previsioni statutarie, possono assumere rilievo solo sul piano

ermeneutico, allo scopo di interpretare correttamente le clausole statutarie, nonché A. FEDELE (Il regime fiscale delle associazioni, in Riv. dir. trib., 1995, I, 342 ss.). Rileva inoltre P. BORIA, L’imposta sul reddito delle persone giuridiche, in A. FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 885, il quale, pur ritenendo che l’esame dell’attività in concreto esercitata rappresenti un criterio sussidiario, afferma che «nella sensibilità dottrinale e (almeno in buona misura) giurisprudenziale tradizionalmente si è andato consolidando il convincimento che il contrasto tra la dichiarazione programmatica, pur formalizzata in modo idoneo (nel rispetto cioè dei requisiti di legge), ed il contenuto effettivo dell’attività svolta debba risolversi a favore di quest’ultimo».

11Vi è comunque una dottrina minoritaria (M. COGLIATI DEZZA, Enti commerciali e non commerciali - dir.

trib., cit., 2) che attribuisce – pur riconoscendo che non debba rappresentare un muro invalicabile nella qualificazione di un ente – assoluta preminenza al dato formale e quindi ad un’interpretazione letterale dell’articolo 73, comma 4 del Tuir.

12 Vedi PROTO A.M. “la dottrina che attribuisce rilievo prevalente al criterio sostanziale trova origine

nell’erroneo presupposto che lo statuto influenzi l’ottenimento della classificazione degli enti non commerciali…lo scopo statutario è valorizzato solo per l’identificazione dell’attività principale non per la definizione della sua natura”

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L’articolo 149 risponde non tanto ad un’esigenza di qualificazione ex se degli enti e ciò si evince dalla rubrica dello stesso, il quale è intitolato “Perdita della qualifica di ente non commerciale” e quindi presuppone che in realtà una qualificazione sia avvenuta, non c’è dubbio che tale disposizione è stata inserita con finalità di tipo antielusivo, ovverosia di contrastare pratiche volte ad ascrivere alla sfera degli enti non commerciali soggetti assolutamente commerciali alla duplice funzione di evitare possibili elusioni1314.

1.3. Prevalenza ed essenzialità dell’attività svolta quale valutazione complessiva tra elementi qualitativi e quantitativi

Nell’ipotesi in cui i menzionati atti prevedano lo svolgimento di più attività di cui alcune di natura commerciale altre di natura non commerciale bisogna individuare quale di esse è quella principale, l’art 73 la definisce come “l’attività essenziale per la realizzazione diretta degli scopi primari”. Si ritiene come tale locuzione si concentri su concetti eminentemente qualitativi, come appunto l’essenza e lo scopo primario, che pongono in luce la necessaria relazione tra l’attività svolta e le finalità perseguite. Poiché l’attività è ciò che l’ente svolge per perseguire il proprio scopo, è in relazione ad esso che bisogna verificare il primato di un’attività sulle altre. A tal fine, l’individuazione degli scopi dell’ente si pone come antecedente necessario alla determinazione dell’attività principale. Avendo presente il fine, quando un’attività consente di realizzarlo in via immediata e vi contribuisce in larga misura, configurandosi come essenziale per l’ente, allora l’attività può essere definita principale. Ciò non era ipotizzabile attribuendo rilievo alla attività effettivamente svolta in quanto quest’ultima richiede una identificazione dell’attività principale in base ad un rapporto quantitativo con le altre e non in base alla sua relazione con il fine statutario. È chiaro come quella prevista dall’articolo 73, comma 4 non possa riferirsi ad elementi quantitativi, poiché essi sarebbero non ancora emersi e (nel migliore dei casi) solo prospettici. La rilevanza del confronto quantitativo invece, assume completa evidenza in relazione ai parametri posti dal legislatore per la perdita di ente non commerciale (da tali norme sono esonerati solo gli enti ecclesiastici riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili e le associazioni sportive dilettantistiche). Quale strumento per la misurazione della prevalenza dell’attività commerciale o di quella istituzionale viene fornita una serie di

13è evidente che l’articolo 149 non è in senso stretto una norma antielusiva, bensì una norma che ha in

parte anche funzioni antielusive.

14FRANCO A. Tesi del Dottorato di Ricerca in Diritto Tributario delle Società di Alberto Franco, discussa

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parametri da utilizzare per “pesare” l’una attività rispetto all’altra. Il secondo comma di detto articolo prevede infatti che “ai fini della qualificazione commerciale dell'ente si tiene conto anche dei seguenti parametri:

a) prevalenza delle immobilizzazioni relative all'attività commerciale, al netto degli ammortamenti, rispetto alle restanti attività15;

b) prevalenza dei ricavi derivanti da attività commerciali rispetto al valore normale delle cessioni o prestazioni afferenti le attività istituzionali;

c) prevalenza dei redditi derivanti da attività commerciali rispetto alle entrate istituzionali, intendendo per queste ultime i contributi, le sovvenzioni, le liberalità e le quote associative16;

d) prevalenza delle componenti negative inerenti all'attività commerciale rispetto alle restanti spese.”

non può sfuggire come non solo si tratti di elementi esclusivamente di ordine quantitativo, che non sempre consentono di valorizzare ciò che , per sua natura spesso non è misurabile in termini economici ma anche come spesso si mettano a confronto elementi di natura non omogenea (ricavi e valore normale , redditi ed entrate istituzionali, componenti da valutare in base al principio della competenza economica? e spese da valutare in base al principio di cassa?). Per non parlare delle difficolta nell’individuare la quota da imputare all’attività commerciale e quella da riferire all’attività in caso di elementi di uso promiscuo dunque, impostata in questi termini la valutazione si presenta estremamente difficoltosa, opinabile e non priva di incertezze. Deve, pertanto, essere considerata favorevolmente l’interpretazione pressoché univoca data dalla dottrina e confermata dalla circolare min. 12 maggio 1998, n. 124 secondo la quale i parametri indicati nel secondo comma dell’art. 149 TUIR non comportano “automaticamente la perdita di qualifica di ente non commerciale, ma sono particolarmente significativi e

15 Per stabilire la prevalenza delle immobilizzazioni relative all’attività commerciale, ex art 149 2 comma

lett.a) la circolare n.124/E ha chiarito che il raffronto va effettuato tra le immobilizzazioni relative all’attività commerciale - tra le quali devono comprendersi tutte le tipologie indicate nell’art.2424 c.c. e cioè le immobilizzazioni materiali, le immobilizzazioni immateriali e le immobilizzazioni finanziarie – e gli investimenti relativi alle attività istituzionali ivi compresi gli investimenti relativi alle attività

decommercializzate.

16 Per quanto concerne la lettera c) che prende testualmente in esame la “prevalenza dei redditi derivanti

da attività commerciali rispetto alle entrate istituzionali, intendendo per queste ultime i contributi, le sovvenzioni, le liberalità e le quote associative”, la circolare n.124/E ha precisato che il “raffronto va effettuato fra i componenti positivi del reddito d’impresa e le entrate derivanti dall’attività istituzionali. Da entrambi i termini del raffronto vanno esclusi i contributi percepiti per lo svolgimento di attività aventi finalità sociale in regime di convenzione o accreditamento. Detti contributi, infatti, non concorrono alla formazione del reddito degli enti non commerciali ai sensi dell’art.143, comma 3, lett.b), del TUIR.

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inducono ad un giudizio complessivo sull’attività effettivamente esercitata. Questa norma, in sostanza, non contiene presunzioni assolute di commercialità, ma traccia un percorso logico, anche se non vincolante quanto alle conclusioni, per la qualificazione dell’ente non commerciale, individuando parametri dei quali deve tenersi anche conto (e non solo quindi) unitamente ad altri elementi di giudizio.”

Quindi la valutazione ex art. 149 è anzitutto quantitativa, ma non esclusivamente: si noti a tal fine come la lettera della norma preveda che “ai fini della valutazione della commercialità dell’ente si tiene conto anche dei seguenti parametri”, per cui la valutazione in merito alla perdita della qualifica di ente non commerciale si risolve pur sempre in un giudizio complesso, stante la facoltà di ricorrere ad ulteriori parametri , non necessariamente quantitativi, nonché ad altri elementi desumibili dall’analisi dei singoli enti esaminati17.

In tale prospettiva, quindi, i parametri quantitativi enunciati dalla norma in commento costituiscono non presunzioni legali di commercialità anche perché, la norma non prevede quanti parametri debbano essere soddisfatti ai fini della perdita della qualifica di ente non commerciale se sia sufficiente uno, o due, o tre su quattro, o ancora tutti bensì indizi valutabili in concorso con le caratteristiche complessive dell’ente 18. Tali parametri

quantitativi sembrano integrare una sorta di presunzione di economicità, poiché, come osservato da autorevole dottrina, gli elementi indicati dal secondo comma dell’articolo 149 sembrano potersi ricondurre tutti al requisito della economicità, inteso come lo svolgimento dell’attività indirizzato al mercato ed idoneo ad assicurare nel suo complesso la durabilità dell’azienda remunerando i fattori produttivi impiegati19.Da ciò se si

ammette la riconducibilità di detti parametri all’alveo dell’economicità, questi non possano essere di per sé stessi sufficienti a qualificare un ente poiché l’economicità, non è l’unico requisito necessario per qualificare un’attività come d’impresa commerciale, e quindi corrispondentemente non può essere l’unico requisito a qualificare un ente come commerciale ai sensi dell’articolo 149 del Tuir. In base a quanto appena esposto, sembra possibile chiedersi se le differenze che intercorrono nella valutazione dell’essenzialità art. 73 c. 4 e della prevalenza art. 149 siano in qualche misura suscettibili di dar luogo a risultati radicalmente differenti in merito alla qualificazione di un ente, non solo in situazioni “patologiche” in cui, ad esempio, l’attività effettivamente esercitata non

17In tal senso, oltre che la relazione ministeriale, anche la Circolare n. 124/E del 1998 e, in dottrina, E.

D’ANGELO, in G. TINELLI (a cura di), Commentario al Testo Unico delle Imposte sui Redditi, cit., 1279.

18Relazione ministeriale al D. Lgs. n. 490 del 1997. 19F. GALLO, Fondazioni e fisco, op. cit., 1163.

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corrisponde affatto a quella prefigurata al momento della costituzione dell’ente, ma anche in casi in cui continui ad esservi perfetta coincidenza (quali-quantitativa) nel tempo tra oggetto statutario e attività svolta. Tale eventualità è certamente possibile, stante la non perfetta coincidenza tra “essenzialità” e prevalenza; tuttavia, sembra improbabile che un ente si qualifichi come non commerciale quando è a conoscenza del fatto che l’attività prevalente (almeno in termini quantitativi) sarà quella commerciale; ciò anche in ragione del fatto che la norma di cui all’articolo 149 del Tuir può certamente comportare che l’ente perda la qualifica di ente non commerciale sin dal primo esercizio in cui esso si trova ad operare, quindi, anche se ad un primo esame si potrebbe ritenere che la qualificazione di un ente vada effettuata solo sulla base dell’articolo 73 comma 4 del Tuir, in tal caso l’articolo 149 avrebbe di fatto anche una sorta di funzione integrativa per chi si trova a valutare sin dall’origine la commercialità o meno di un ente. Dalla principale prassi amministrativa ministeriale (risoluzioni 7 febbraio 2001, n.19/E; risoluzione 4 marzo 2002, n.70/E; risoluzione 11 Ottobre 2007, n.286/E) si deduce che sostanzialmente tutto venga ricondotto ad un concetto di prevalenza. Dunque non solo è necessario identificare l’attività principale , ma essa va quantificata, con la conseguenza che si rischia di ridurre tutto quanto ad un problema quantitativo, senza tenere in minima considerazione criteri di tipo qualitativo.

1.4.Attività commerciale e attività non commerciale 1.4.1. Dottrina che riconduce l’economicità al pareggio

Nell’ambito degli enti non societari la qualificazione “commerciale” attribuita all’attività principale svolta, determina l’inclusione del soggetto passivo interessato tra gli enti commerciali, mentre nel caso opposto, tra quelli non commerciali. Qualificare un soggetto come commerciale rende irrilevante qualsiasi ulteriore indagine sulla natura delle attività svolte dall’ente, essendo queste reputate tutte produttive di reddito d’impresa. Altrettanto non accade nell’ambito degli enti non commerciali, in cui la distinzione della natura delle attività è fondamentale, essendo il reddito complessivo frutto della somma delle diverse categorie di reddito. Secondo la dottrina maggioritaria20,

20GALLO F., I soggetti del libro primo del codice civile e l'irpeg: problematiche e possibili evoluzioni, op. cit.,

p. 349; ZIZZO G., L’imposta sul reddito delle società, op. cit., p. 245; FEDELE A., Il regime fiscale delle associazioni, op. cit., p. 336; CASTALDI L., Gli enti non commerciali nelle imposte sui redditi, op. cit., p. 240; FICARI V., Strumentalità dell’attività, op. cit., p. 5.

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ai fini della qualificazione di una attività come commerciale deve farsi riferimento alle disposizioni dell’art. 55 TUIR21. L’art 55 dispone che per esercizio di impresa

commerciale, come tale produttiva di reddito di impresa, si intende quello derivante dallo svolgimento per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell’art. 219522 c.c., anche se non organizzate in forma di impresa. Il comma 2

dell’articolo stesso precisa poi alla lettera a) che le prestazioni ed i servizi non comprese nell’art. 2195 c.c. producono reddito di impresa, purché la relativa attività sia organizzata in forma di impresa, risolvendo, ai fini fiscali, i dubbi esistenti nella dottrina civilistica sulla estensione della nozione d’impresa. Per quanto riguarda l’abitualità, si evince come è richiesto nello svolgimento dell’attività, un sufficiente grado di stabilità e regolarità nel tempo, anche se questo non vuol dire necessariamente né continuità né ripetitività. Non è necessario che l’attività si protragga ininterrottamente, essendo pacifico che anche un’attività stagionale possa essere ritenuta abituale, né tanto meno che si caratterizzi per un numero ripetuto di affari, essendo altrettanto certo che anche una sola operazione di rilevante entità economica possa configurarsi come attività produttiva di reddito d’impresa, soprattutto quando la sua realizzazione implichi lo svolgimento di più operazioni. Il requisito dell’abitualità consente di separare dai redditi d’impresa i redditi diversi, che appunto sono originati dall’esercizio di attività commerciale solo occasionale. Ancora è agevole rilevare che la nozione fiscale è ben più ampia di quella civilistica, non essendo richiesto, per le attività riconducibili alle fattispecie previste dall’art. 2195 c.c., il requisito della autonoma "organizzazione in forma di impresa", che si ritrova invece nell’art. 208223 c.c. Si tratta quindi di una norma nata per operare nel

quadro dell’imposta sulle persone fisiche (Irpef), che mal si presta ad essere usata come parametro per determinare la natura commerciale dei soggetti (Ires) , in quanto a tali

21E non già alla stregua di quanto disposto dall’art 143 del Tuir come invece sembra ritenere PROTO,

Attività istituzionali, cit.,passim. Invero, la collocazione del disposto di cui all’art 143 all’interno della disciplina di rilevazione del materiale imponibile di enti già qualificati come non commerciali dimostra che la norma in questione non può essere assunta come parametro di riferimento per ricostituirvi una definizione generale di attività fiscalmente commerciale.

22 Articolo 2195 c.c. Sono soggetti all'obbligo dell'iscrizione nel registro delle imprese gli imprenditori che

esercitano:

1) un'attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi; 2) un'attività intermediaria nella circolazione dei beni;

3) un'attività di trasporto per terra, per acqua o per aria; 4) un'attività bancaria o assicurativa;

5) altre attività ausiliarie delle precedenti.

Le disposizioni della legge che fanno riferimento alle attività e alle imprese commerciali si applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività indicate in questo articolo e alle imprese che le esercitano.

23 Articolo 2082 c.c. E’ imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata

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soggetti è preclusa per definizione la possibilità di svolgere un’attività di lavoro autonomo e qualsiasi attività di un ente è ovviamente caratterizzata da piena fungibilità soggettiva. Piuttosto, al fine di una corretta delimitazione del campo degli enti non commerciali, non sembra sufficiente considerare la tipologia di attività svolta nella sua oggettività, dovendosi tenere altresì conto del modulo gestionale adottato per l’esercizio di tali attività. Il disagio causato dall’apparente limitatezza definitoria che connota l’individuazione delle attività commerciali art. 55 TUIR ha spinto parte della dottrina ad interpretare il dettato normativo in modo tale da dar rilievo, nella nozione di commercialità, a profili impliciti quali il criterio di gestione adottato per lo svolgimento dell’attività e l’inserimento della medesima nella dinamica di mercato, profili che acquistano senso e rilevanza proprio quando si opera una qualificazione con riguardo non al campo delle persone fisiche, ma a quello degli enti.

A parere della maggiore dottrina, la commercialità dell’attività svolta dall’ente in via istituzionale va apprezzata non solo avendo riguardo al suo contenuto oggettivo e, dunque, verificando la sua ricomprendibilità tra quelle di cui all’art 55 Tuir, ma altresì ed in primis, ponendo l’accento sul metodo gestionale che ne caratterizza lo svolgimento: potendosi qualificare propriamente commerciale solo quell’attività, pur rientrante tra quelle tipologicamente menzionate all’art 55, il cui esercizio sia improntato ad un criterio di gestione di tipo economico e che proprio in ragione di ciò, si ponga in un rapporto dinamico con il mercato24. Il requisito dell’economicità di gestione dell’attività

commerciale troverebbe preciso fondamento normativo già nello stesso dettato dell’art. 55 TUIR. Tale norma, infatti, facendo riferimento alle attività di cui all’art. 2195 c.c., rinvierebbe anche all’art. 2082 c.c. e dunque all’economicità della gestione, distintiva dell’attività imprenditoriale, secondo gli ormai consolidati esiti a cui è pervenuta la giurisprudenza civilistica in materia25. Pertanto, alla stregua di siffatta dottrina, nella

24 Così testualmente GALLO “… non si ha attività commerciale quando l’attività è svolta, benchè

riconducibile oggettivamente a quelle elencate nell’art 2195 non sia “alimentata” con il corrispettivo dei beni o dei servizi prodotti ; quando i beni e servizi derivanti dallo svolgimento dell’attività non siano destinati al mercato e, comunque, l’ammontare del corrispettivo fissato non sia determinato in base alle regole del mercato”.

25Da ultimo Cass., Sez. III, 19 giugno 2008, n. 16612 secondo cui: “Questa Corte ha ripetutamente

affermato (Cass. 5766/1994, 16435/2003, e 7725/2004) che la nozione di imprenditore, ai sensi dell’art. 2082 c.c., va intesa in senso oggettivo, dovendosi riconoscere il carattere imprenditoriale all’attività economica organizzata che sia ricollegabile ad un dato obiettivo inerente all’attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi, rimanendo giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro, che riguarda il movente soggettivo che induce lo imprenditore ad esercitare la sua attività con organizzazione degli elementi personali e materiali necessari per il funzionamento del servizio, e dovendo essere, invece, escluso il suddetto carattere imprenditoriale dell’attività nel caso in cui essa sia svolta in modo del tutto

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valutazione della natura (commerciale o non commerciale) dell’attività si dovrebbe innanzitutto verificare se la stessa, oltre ad essere oggettivamente riconducibile alle attività di cui all’art. 55 TUIR, sia un’attività economica ai sensi dell’art. 2082 c.c., ossia improntata a quel criterio di gestione idoneo quantomeno a reintegrare, col corrispettivo dei beni e servizi ceduti, i fattori di produzione impiegati e quindi volto a perseguire almeno il pareggio di bilancio e l’autosufficienza finanziaria.

1.4.2. Dottrina che riconduce l’economicità alla lucratività: riflessioni sulla portata e contenuto dell’art. 143

Su un distinto versante si è posta un’altra parte della dottrina26, la quale accogliendo la

tesi che afferma imprescindibile la valutazione dei criteri di gestione al fine di valutare la commercialità di un’attività, al contempo se ne distacca laddove ritiene che il legislatore tributario abbia delineato una propria, autonoma nozione di commercialità diversa da quella civilistica. Più precisamente stando a questo orientamento dottrinario, la normativa tributaria considererebbe economica e quindi commerciale non tanto l’attività tesa al pareggio di bilancio bensì l’attività gestita secondo criteri programmativamente improntati al conseguimento di un profitto. Tale interpretazione è confermata dall’orientamento della Suprema Corte che ha ricollegato la nozione di commercialità a quella di economicità, intesa come attività orientata a conseguire un utile , ribadendo che non c’è attività economica se si tende solo al conseguimento della coperture dei costi27.

Anche la corte di Giustizia, ritiene che lo sfruttamento del bene e il vantaggio economico non può essere rinvenuto in una attività che invece di ricercare il massimo profitto effettua una blanda gestione in pareggio. Tale interpretazione troverebbe riscontro normativo nell’art 143 1° comma del tuir dispone testualmente che “per gli enti non commerciali non si considerano attività commerciali le prestazioni di servizi non

gratuito, dato che non può essere considerata imprenditoriale l’erogazione gratuita dei beni o servizi prodotti”.

26A. GENOVESE, La nozione giuridica dell’imprenditore, Padova, 1990, p. 27; A. M. PROTO, Ancora in tema

di enti non societari, in Rass. Trib., 1995, f. 11, p. 1812; A. M. PROTO, Classificazione degli enti diversi dalle società e natura delle attività esercitate, in Rass. Trib., 1995, f. 3, p. 548.

27Cass.,sez. I civ.,26 febbraio 1990, n.1439, Giur.comm.,1991, II, 366 e segg., indentifica l’economicità

nell’attitudine a conseguire utili; Cass., sez. III pen.,13 gennaio 1999, n.310, in Corr.trib.,1999,1748, per definire la natura dell’attività di gestione di un bar all’interno di una associazione, a seguito dell’analisi dell’art 111 4° comma , del Tuir e dell’art. 4, 5° comma, dell’Iva, afferma che, anche nell’ipotesi di somministrazione di pasti e bevande, la natura commerciale disposta da tali norme presuppone comunque che le attività siano svolte “ con il conseguimento di un utile economico”, diversamente se si consegue solo la copertura dei costi non c’è attività economica e quindi commerciale, e richiama la precedente Cass., sez. III pen.,2 luglio 1997, n.6342; in tal senso già Comm. Trib. Centr.,22 gennaio 1992,n.415, in Comm.trib.centr., 1992,I,35.

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rientranti nell’art 2195 c.c. rese in conformità delle finalità istituzionali dell’ente senza specifica organizzazione e verso pagamento di corrispettivi che non eccedono i costi di diretta imputazione”. Inoltre, secondo l’opinione della dottrina appena riportata, il concetto di attività commerciale troverebbe anche conferma per un verso nell’art 148 del tuir e per un altro anche nella stessa disciplina Iva. La correttezza della tesi avanzata starebbe nella coerenza rispetto ai principi che improntano il sistema impositivo diretto, in particolare, rispetto al presupposto dell’imposizione (il presupposto del tributo identifica attività almeno potenzialmente economico-redditive). La riconduzione all’area della lucratività consentirebbe di considerare fiscalmente rilevanti attività produttive di reddito; e abbassare la linea di economicità per ricomprendervi anche le ipotesi di mera autosufficienza finanziaria comporterebbe la paradossale estensione dell’aria di rilevanza fiscale a tutta una serie di attività in realtà redditualmente irrilevanti in quanto non produttive per definizione di utilità dunque di materia imponibile.

La non idoneità dell’art 143 ad assumere quel valore di norma sistematica ,ricognitiva di principio, che gli si vorrebbe attribuire sembra desumersi tanto dalla natura circostanziata della fattispecie in essa contemplata, quanto alla sua collocazione non già tra disposizioni preliminari in materia di Ires bensì all’interno della disciplina in materia di determinazione dell’imponibile Ires specificatamente dettata per gli enti non commerciali infatti la norma sembra piuttosto investita del compito di escludere limitatamente agli enti già qualificati come non commerciali , la commercialità di specifiche attività che in mancanza di tale precisazione sarebbero imponibili. Stando alla lettera della norma perché possa escludersi la commercialità dell’attività non è sufficiente che la stessa sia esercitata verso pagamento di corrispettivi non eccedenti i costi di diretta imputazione, essendo necessario altresì che si tratti di prestazioni di servizi non rientranti nell’art. 2195 c.c. rese in conformità alle finalità istituzionali dell’ente senza specifica organizzazione. In altri termini dal tenore della norma sembra inequivocabilmente concludere che per il legislatore la commercialità non è esclusa in forza non solo del criterio di gestione adottato ma, altresì in considerazione di una serie ulteriore di circostanze che vanno dalla tipologia di attività, alla sua collocazione nel complesso quadro operativo dell’ente, e ancora al grado di sua funzionalizzazione organizzativa. L’art 143 TUIR costituisce a ben vedere non una norma di principio ma una disposizione posta al solo fine di escludere la commercialità di specifiche attività, altrimenti imponibili, limitatamente ad enti già qualificati come non commerciali.

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Ai fini della decommercializzazione si ricorda che è tale solo quando riguarda un’attività che si potrebbe inquadrare come commerciale. Ed infatti, visti gli elementi appena elencati, le attività richiamate dall’art. 143 sarebbero di regola commerciali (ex art. 55, c. 2), trattandosi di attività di prestazioni di servizi diverse da quelle dell’art. 2195 c.c., economiche (nel caso di corrispettivi pari ai costi; mentre quelli inferiori ai costi delineano un’attività non economica e quindi non commerciale) e svolte con un’organizzazione (quella generale dell’ente). Il problema discende dal modo di intendere l’art. 55, c. 1 e, ancora prima, l’art. 2195. Se si pensa che quest’ultimo è potenzialmente in grado di includere qualsiasi tipo di attività, è ovvio che l’ambito del comma 2 dell’art. 55 si restringe. La sua funzione resta relegata, così, soprattutto alla distinzione dei casi al confine tra redditi di lavoro autonomo e redditi d’impresa e, quindi, si riferisce a quelle attività che si estrinsecano attraverso le energie fisiche e intellettuali personali. Nel caso in cui, invece, l’orientamento sia sfavorevole alla tendenziale onnicomprensività, allora l’art. 55, c. 2 trova una maggiore possibilità di applicazione. La scelta di una delle due posizioni non è di poco conto perché, se un’attività rientra nell’art. 2195, per essa non c’è possibilità di decommercializzazione ai sensi dell’art. 143; viceversa, se non vi rientra, può essere sottoposta a questa misura. Di conseguenza nel primo caso (di tendenziale universalità), la norma dell’art. 143 avrà una portata minore, perché le attività “diverse” saranno poche. Nel secondo caso, invece, essa avrà maggiori possibilità di applicazione. Elemento fondante l’applicazione dell’art. 143 è la specifica organizzazione grazie ad essa, infatti, è possibile distinguere i casi in cui l’attività resta interna all’ente, essendo svolta mediante l’organizzazione istituzionale, da quelli in cui l’attività assume una funzione autonoma, al punto tale da avere una propria struttura. Che un’attività secondaria sia prestata con le strutture tipiche dell’ente è normale e discende dal fatto che si tratta di attività che, se anche commerciali, sono svolte di regola con finalità riconducibili all’ente stesso. Per cui, in relazione a questi casi di uso di organizzazione dell’ente, il problema della commercialità si pone solo quando l’attività è caratterizzata dal conseguimento di ricavi superiori ai costi e, in ogni caso, quando si tratta di attività estranee a quella istituzionale. Diverso è il caso in cui l’ente abbia un’organizzazione dedicata o specifica, per tale intendendo un insieme di beni e di persone appositamente combinate per l’esercizio di quella particolare attività secondaria (cioè prestazione di servizi non rientrante nell’art. 2195)98. In questo caso si può ritenere che l’attività sia autonomamente esistente e differenziata dall’attività istituzionale, per questo da non consentire la sua decommercializzazione. Il concetto della specifica organizzazione,

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perciò, è restrittivo rispetto a quello più generale dell’organizzazione dei beni in forma d’impresa dell’art. 55 e consiste appunto in una organizzazione ad hoc distinta e separata da quella generale . Per quanto riguarda il concetto di conformità essa può discendere da due diversi elementi, o meglio, può essere riscontrata su un piano materiale o su un piano ideale. Il primo caso è quello più semplice. Infatti, nel gruppo delle attività secondarie vi sono delle attività che non sono né contrarie né estranee allo scopo e che hanno una stretta relazione materiale con l’attività istituzionale. Queste attività possono essere definite come accessorie. Tra queste includiamo sia quelle che, qualificandosi come mezzo di sostegno all’attività principale, ne agevolano lo svolgimento, che quelle che, accostandosi ad essa, la migliorano, integrano e completano. Esse hanno una così forte dipendenza dall’attività istituzionale che possono porsi sullo stesso piano e considerarle in rapporto diretto con lo scopo, se pure con le dovute differenze, ricordando cioè che un’attività è comunque essenziale e che l’altra non lo è, ma anzi esiste nella misura in cui occorre alla prima. Accanto a queste attività che hanno un rapporto diretto con l’attività istituzionale abbiamo poi quelle che, invece, non manifestano lo stesso tipo di legame diretto con l’attività principale e quindi con lo scopo ultimo. Tuttavia, anche se è assente un contributo strumentale e funzionale in senso proprio, si può ugualmente valutare il rapporto tra l’attività secondaria e il fine e riscontrare una relazione di conformità su un piano ideale. In questo caso, l’attività secondaria non contribuisce al compimento dell’attività istituzionale o del fine in maniera diretta, ma si avvicina ugualmente al fine perché soddisfa e persegue i valori che caratterizzano l’operato dell’ente, inserendosi in modo organico nel progetto operativo dell’organizzazione. Si parla non più di attività accessorie, ma di attività meramente conformi, cioè di attività che si muovono esternamente all’attività istituzionale in sé, sono strutturalmente indifferenti ad essa, ma ugualmente in linea con i fini dell’ente . Quando non vi è una strumentalità materiale, non abbiamo accessorietà, ma semplice conformità. L’accessorietà ha come punto di riferimento diretto l’attività istituzionale e indiretto. Dunque, se ci troviamo innanzi ad attività secondarie che esprimono un rapporto di strumentalità nei confronti dell’attività istituzionale e di conseguente funzionalità allo scopo 55, possiamo parlare di attività accessorie o conformi in senso stretto Se, invece, il rapporto di strumentalità materiale con l’attività principale non c’è, ma vi è comunque una sintonia tra l’attività e i valori di cui il fine è espressione, possiamo parlare di attività meramente conformi. Per l’art. 143, sia le attività che abbiamo definito conformi in senso stretto o accessorie che quelle meramente conformi. Quindi la conformità è intesa in senso ampio e non potrebbe

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credersi diversamente. Al di là della terminologia usata, non avrebbe senso confinare la norma ai soli casi della mera conformità, ossia di una vicinanza ai fini dell’ente, ed escludere, invece, i casi di strumentalità materiale, in cui l’integrazione con l’attività principale è più forte e di conseguenza lo è anche la funzionalità al fine. Se si accettasse questa restrizione, rischierebbero di rimanere commerciali proprio quelle attività che sono più integrate con il fine e non semplicemente conformi. Né d’altro canto, vista la terminologia usata, vi sarebbe spazio per escludere le ipotesi di conformità in senso più ampio. L’irragionevolezza di questa interpretazione ci porta perciò a considerare nella conformità dell’art. 143 sia le attività strumentali dal punto di vista materiale all’attività principale e funzionali allo scopo (cioè le attività accessorie), che quelle meramente conformi. Alla luce della disposizione analizzata è evidente che, in primo luogo, per poter decommercializzare, tutte le condizioni necessitano di essere verificate contemporaneamente e che, in particolare, non è la sola conformità ai fini a far venire meno la commercialità di un’attività, ma è proprio la sostanziale mancanza di produttività di ricchezza e di autonomia riscontrabile in determinate situazioni

1.4.2.1. Riflessioni sulla portata e contenuto dell’art. 148 e le indicazioni ritraibili dalla normativa

Volendo ancora chiarire si analizzano gli ulteriori dati normativi a favore della tesi in cui l’attività è commerciale solo se improntata al conseguimento di un profitto e dunque solo laddove si verifichi che i corrispettivi siano fissati in misura superiore ai costi di diretta imputazione, si cerca di comprendere su quale base possa affermarsi che la natura ricognitiva di principio dell’art 143 troverebbe conferma nell’art 148 tuir. Dal combinato disposto del 1° e 2° comma dell’art 148 al 1° comma “Non è considerata commerciale l'attività svolta nei confronti degli associati o partecipanti, in conformità alle finalità istituzionali, dalle associazioni, dai consorzi e dagli altri enti non commerciali di tipo associativo. Le somme versate dagli associati o partecipanti a titolo di quote o contributi associativi non concorrono a formare il reddito complessivo”. Al 2° comma “Si considerano tuttavia effettuate nell'esercizio di attivita' commerciali, salvo il disposto del secondo periodo del comma 1 dell'articolo 143, le cessioni di beni e le prestazioni di servizi agli associati o partecipanti verso pagamento di corrispettivi specifici, compresi i contributi e le quote supplementari determinati in funzione delle maggiori o diverse prestazioni alle quali danno diritto. Detti corrispettivi concorrono alla formazione del reddito complessivo come componenti del reddito di impresa o come redditi diversi

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secondo che le relative operazioni abbiano carattere di abitualità o di occasionalità”. Si ricava la conferma che la commercialità dell’attività dipende dalla sua gestione secondo metodo economico, la disposizione incaricandosi soltanto di precisare che i termini della questione non si spostano laddove l’attività sia svolta da un ‘ente associativo e sia rivolta ai singoli associati: il fatto che a fronte della prestazione resa l’associato versi un corrispettivo specifico dimostra l’onerosità del rapporto e dunque la economicità e commercialità dell’attività. Più precisamente è possibile affermare non commercialità al 1° comma del 148 è fondata sull’assenza di economicità in quanto per le attività ivi indicate non esiste una relazione con i contributi versati. Il loro pagamento costituisce solo l’adempimento di uno degli obblighi associativi assunti con il rapporto di partecipazione che non è correlato all’attività svolta nei confronti del socio, e quindi alla prestazione ricevuta. L’essenzialità del requisito dell’economicità al fine di definire l’attività commerciale , il suo contenuto e le caratteristiche specifiche emergono con più evidenza dal disposto normativo del secondo comma . La seconda parte del 148 contiene disposizioni che stabiliscono un trattamento fiscale differenziato per taluni enti associativi esso dispone al comma 3 “Per le associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali, culturali, sportive dilettantistiche, di promozione sociale e di formazione extra-scolastica della persona non si considerano commerciali le attivita' svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali, effettuate verso pagamento di corrispettivi specifici nei confronti degli iscritti, associati o partecipanti, di altre associazioni che svolgono la medesima attivita' e che per legge, regolamento, atto costitutivo o statuto fanno parte di un'unica organizzazione locale o nazionale, dei rispettivi associati o partecipanti e dei tesserati dalle rispettive organizzazioni nazionali, nonche' le cessioni anche a terzi di proprie pubblicazioni cedute prevalentemente agli associati”. Queste disposizioni rispecchiano i criteri caratterizzanti le norme di agevolazione che si distinguono da quelle definitorie della prima parte della norma. Va rilevato infatti che, per quanto riguarda i destinatari della disposizione emerge la tendenza ad attribuire un ruolo determinante alla meritevolezza degli scopi perseguiti che, invece non incide sulla individuazione della attività tassabili. Una serie di vincoli statutari seleziona ulteriormente il profilo soggettivo degli enti agevolati28 anche qui come nel

288. Le disposizioni di cui ai commi 3, 5, 6 e 7 si applicano a condizione che le associazioni interessate si

conformino alle seguenti clausole, da inserire nei relativi atti costitutivi o statuti redatti nella forma dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata o registrata:

a) divieto di distribuire anche in modo indiretto, utili o avanzi di gestione nonche' fondi, riserve o capitale durante la vita dell'associazione, salvo che la destinazione o la distribuzione non siano imposte dalla legge;

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comma 1° e 2° si fa riferimento al corrispettivo specifico e anche qui non si fa riferimento alla entità di tale corrispettivo. L’indizio normativo che orienta verso una nozione di economicità integrata da attività potenzialmente in grado di aumentare la ricchezza emerge della regole contenute nel comma 7 il quale dispone “Per le organizzazioni sindacali e di categoria non si considerano effettuate nell'esercizio di attività commerciali le cessioni delle pubblicazioni, anche in deroga al limite di cui al comma 3, riguardanti i contratti collettivi di lavoro, nonché l'assistenza prestata prevalentemente agli iscritti, associati o partecipanti in materia di applicazione degli stessi contratti e di legislazione sul lavoro, effettuate verso pagamento di corrispettivi che in entrambi i casi non eccedano i costi di diretta imputazione”. Tale disposizione non rappresenta, infatti, un’agevolazione che limita ulteriormente quella dell’art 148, 3° comma , ne un supporto alla tesi che definisce commerciali le attività gestite in pareggio ma anzi si può ravvisare come il 7° comma dell’art 148 rappresenta una disposizione omologa a quella contenuta nel 143 quindi secondo una parte della dottrina è in questo comma che si potrebbe avere la conferma del carattere ricognitivo dell’art 143. Per la dottrina minoritaria la disciplina degli enti associativi conferma il metodo economico della gestione, identificato in quello che determina almeno un potenziale arricchimento. Sul punto anche la cassazione. Per la diversa posizione29 non si riesce bene a comprendere per quale ragione tale requisito sia

b) obbligo di devolvere il patrimonio dell'ente, in caso di suo scioglimento per qualunque causa, ad altra associazione con finalità analoghe o ai fini di pubblica utilità, sentito l'organismo di controllo di cui all'articolo 3, comma 190, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e salvo diversa destinazione imposta dalla legge;

c) disciplina uniforme del rapporto associativo e delle modalità associative volte a garantire l'effettività del rapporto medesimo, escludendo espressamente la temporaneità della partecipazione alla vita

associativa e prevedendo per gli associati o partecipanti maggiori d'eta' il diritto di voto per l'approvazione e le modificazioni dello statuto e dei regolamenti e per la nomina degli organi direttivi dell'associazione; d) obbligo di redigere e di approvare annualmente un rendiconto economico e finanziario secondo le disposizioni statutarie;

e) eleggibilità libera degli organi amministrativi, principio del voto singolo di cui all'articolo 2532, comma 2, del codice civile, sovranita' dell'assemblea dei soci, associati o partecipanti e i criteri di loro ammissione ed esclusione, criteri e idonee forme di pubblicita' delle convocazioni assembleari, delle relative

deliberazioni, dei bilanci o rendiconti; e' ammesso il voto per corrispondenza per le associazioni il cui atto costitutivo, anteriore al 1 gennaio 1997, preveda tale modalita' di voto ai sensi dell'articolo 2532, ultimo comma, del codice civile e sempreche' le stesse abbiano rilevanza a livello nazionale e siano prive di organizzazione a livello locale;

f) intrasmissibilita' della quota o contributo associativo ad eccezione dei trasferimenti a causa di morte e non rivalutabilita' della stessa.

9. Le disposizioni di cui alle lettere c) ed e) del comma 8 non si applicano alle associazioni religiose riconosciute dalle confessioni con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese, nonche' alle associazioni politiche, sindacali e di categoria.

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