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«Fasseli gratia per poetessa». Lettura tematica e stilistica delle Rime di Tullia d'Aragona

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Academic year: 2021

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Indice

Capitolo primo ...6

1.1 Tullia d’Aragona. Una biografia. ...6

1.2 La struttura e il contenuto delle Rime... 17

Capitolo secondo ... 20

2.1 La dedica a Eleonora Di Toledo ... 20

2.2 Analisi dei sonetti a Cosimo I, Duca di Firenze... 24

2.2.1 Se gli antichi pastor di rose e fiori... 26

2.2.2 Signor, pregio, e honor di questa etade. ... 28

2.2.3 Signor d’ogni valor più d’altro adorno... 31

2.2.4 Nuovo Numa Thoscan, che le chiar’onde... 34

2.2.5 Signor, che con pietade alta, e consiglio ... 38

2.2.6 Dive, che dal bel monte d’Helicona ... 40

2.2.7 Né vostro impero, anchor che bello, e raro ... 44

Capitolo terzo... 46

3.1 Le rime d’amore... 46

3.2 Analisi dei sonetti d’amore a ignoto interlocutore ... 53

3.2.1 Poi che mi diè natura a voi simile ... 53

3.2.2 Amore un tempo in così lento foco ... 56

3.2.3 Qual vaga Philomena, che fuggita ... 60

3.2.4 Felice speme, ch’a tant’alta impresa ... 67

3.2.5 S’io ’l feci unqua, che mai non giunga a riva ... 70

3.2.6 Se ben pietosa madre unico figlio... 75

3.2.7 Se forse per pietà del mio languire ... 78

3.2.8 Ov'è (misera me) quell'aureo crine ... 82

3.3 Conclusione sul presunto gruppo di sonetti d’amore per Piero Mannelli.. 86

Capitolo quarto ... 91

4.1 L’originalità di Tullia d’Aragona ... 91

Conclusione... 110

5.1 Questioni metriche e stilistiche ... 111

5.2 Il significato della raccolta... 120

TAV.I ... 123

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Introduzione

«Noi volemmo senza più dar un esempio della letteratura e dello stile delle belle italiane del secolo decimosesto. E crediamo che la Tullia farà loro onore.»1

La presente tesi è una lettura delle Rime di Tullia d’Aragona. Le ragioni di questa scelta sono due: la prima è la realizzazione di una volontà: Tullia desiderava lasciare di sé fama nel mondo come di una donna, sì, di incomparabile bellezza, ma soprattutto di spirito elevato e di ingegno fuori del comune. La prima cosa che emerge dal canzoniere è che Tullia,

invasa dalla mania di passare ai posteri insieme ai letterati che ella canta […] eleva i suoi canti indistintamente a tutti, principi e cardinali, letterati e soldati, uomini serii e burloni2.

Ma è importante ricordare che quando le sue rime e quelle a lei dedicate finiscono sotto i torchi dell’officina di Giolito, la pratica letteraria e artistica non rappresenta una garanzia di sostentamento e un motivo di distinzione nel panorama muliebre italiano, quanto piuttosto un’occasione per riabilitare la sua reputazione, guastata dal passato di cortigiana; in altre parole, “cerca ogni maniera di ricoprire la cortigiana con la poetessa”3.

Certo, al di là del finalismo morale che anima Tullia, vedere il suo nome precedere quello dei più illustri personaggi del mondo culturale coevo dovette essere per lei un motivo di vanto, l’estrema realizzazione di una vita, perciò, venendo al mio proposito – che confesso essere nutrito da certa solidarietà femminile –, mi piacerebbe assecondare questo nobile ‘capriccio’ di notorietà, perché si continui ancora a parlare e a scrivere di Tullia d’Aragona. D’altra parte, la bella cortigiana non si è mai accontentata di ricever lodi da parte degli

1 C. Teoli, Della infinità d’amore: dialogo di Tullia d’Aragona; colla vita dell’autrice scritta da

Alessandro Zilioli, G. Da elli e C. Teoli Editori, Mila no, 1564, p. IX.

2 Le rime di Tullia d'Aragona, cortigiana del secolo XVI / edite a cura e studio di Enrico Cela ni, Bologna , presso Roma gnoli Da ll'Acqua libra io editore, 1891, nella versione e -book consulta bile all’indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/biblioteca/lice.

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ammiratori, che furono tanti – a legger il Biagi4, più di trenta solo le celebrità, molti

dei quali ardentissimi spasimanti; basti per tutti l’esempio di Girolamo Muzio, autore di sonetti e di un’ecloga, Tirrhenia, a lei dedicati, testimonianza di una passione travolgente e duratura nel tempo.

La seconda ragione che motiva questo lavoro è che l’‘antologia corale’5

rientra nella temperie culturale, tanto vasta quanto affascinante nelle sue articolazioni, del petrarchismo cinquecentesco, e precisamente del petrarchismo femminile, ed è la prima raccolta poetica del secolo a essere stata pubblicata a stampa con il consenso dell’autrice, mentre era ancora in vita. Nella storia delle pubblicazioni a stampa di versi femminili Tullia è, infatti, seconda solo a Vittoria Colonna, che, tuttavia, era favorevole a una circolazione esclusivamente manoscritta e privata dei suoi versi, non a quella incommensurabilmente più ampia e capillare garantita dalle edizioni a stampa.

L’editio princeps delle Rime della Signora Tullia di Aragona; et di diversi a lei risale al 1547, e viene pubblicata a Venezia presso l’editore Gabriele Giolito de’ Ferrari; sempre presso di lui, seguono una seconda edizione, nel 1549, che presenta alcune varianti nel lessico, molto probabilmente per iniziativa dei correttori editoriali, e costituisce l'ultima pubblicazione prima della morte della poetessa6; e una terza, nel 15607, che è poco più che una ristampa della versione del

’47 e rinuncia ai rimaneggiamenti introdotti nella precedente. Più di un secolo dopo, nel 1693, Antonio Bulifon pubblica un’edizione a Napoli8 e nel 1726 Luisa Bergalli

include quattordici sonetti dell’Aragona nella sua importante ed izione in due volumi di rime femminili, pubblicata a Venezia presso l’editore Antonio Mora9.

Data l’importanza storica, oltre che letteraria, dell’antologia lirica di Tullia d’Aragona, tenterò di offrire una lettura critica che dia spessore ad alcune poesie e renda conto della cifra stilistica profonda e originale dell’autrice.

4 Cfr. G. Bia gi, Un’etera romana, in «Nuova a ntologia », s. III, vol. 4, 1886.

5 Cfr. Introduction, J. L. Ha irston, The poems and Letters of Tullia d’Aragona and Others. A

bilingual edition, Iter Inc., Toronto, 2014.

6 Rime della signora Tullia di Aragona; et di diversi a lei: Di novo ristampate et in più luoghi

corrette.

7 Rime della signora Tullia di Aragona; et di diversi a lei: Nuovamente corrette e ristampate . 8 Rime della sig. Tullia d’Aragona, di nuovo date in luce.

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L’edizione a cui faccio riferimento è quella di Julia Hairston del 2014 (The poems and Letters of Tullia d’Aragona and Others. A Bilingual edition, Toronto, Iter Inc.), che per le Rime si è basata sulla ristampa di Giolito del ’49. La decisione della studiosa è discutibile, poiché la tiratura scelta non rappresenta l’ultima volontà dell’autrice, tuttavia la sua edizione è migliore di quella di Enrico Celani del 1891 – che mi limito a consultare –, poiché nel realizzarla il curatore ottocentesco ha stravolto arbitrariamente l’ordine dei testi trasmesso dalla stampa di Giolito.

Nel presente contributo affronterò l’analisi di alcuni sonetti scelti fra quelli della prima sezione della raccolta. Nel primo capitolo mi soffermerò sui primi sette sonetti destinati a Cosimo I, preceduti dalla lettera dedicatoria a Eleonora di Toledo; l’analisi aiuterà a mettere a fuoco le strategie di potere e le dinamiche relazionali nella Firenze del Cinquecento, nonché l’atteggiamento di Tullia nei confronti del Duca e dell’élite letteraria fiorentina. Nel secondo capitolo affronterò un gruppo di liriche di materia amorosa, dalla n°28, che è dedicata a Piero Mannelli, presunto poeta rivale di Tullia – per qualcuno l’amante –, fino alla n°35; l’analisi di questi sonetti ci consentirà di indagare il rapporto complesso e difficile della poetessa con il tema dell’amore, in relazione alla propria immagine pubblica di cortigiana. Nel terzo capitolo parlerò nello specifico di due sonetti molto noti: il n°25, indirizzato al predicatore Bernardino Ochino, si offre come una testimonianza dello spirito inquieto e vivace di Tullia, che per una volta travalica i limiti della poesia laudativa d’occasione e adotta un tono sarcastico contro il destinatario, finendo per esprimere la sua opinione sul complicato tema del libero arbitrio, un argomento di grande attualità negli anni turbolenti della Controriforma; infine, vedremo il sonetto n°36, dedicato a una cagnolina, che gioca sulle emozioni e la pietà e costituisce una prova di eleganza e di raffinatezza, la dimostrazione di una profonda disposizione empatica e di una intelligenza emotiva cristallina, che esonda dall’argine ristretto di quattordici versi del sonetto.

Fino ai nostri tempi le raccolte di liriche del Cinquecento hanno sempre riportato, per esigenze di brevità e per la loro natura di collettori di testi, analisi sommarie dei singoli componimenti. Il nome dell’Aragona non sempre appare e laddove succede l’apporto del curatore è quasi sempre minimo, approssimativo, talvolta critico nei confronti del ruolo della poetessa nel panorama petrarchista

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femminile cinquecentesco. Un commento introduttivo e un apparato di note, che per lo più gettano luce sui vocaboli desueti al fine di facilitare la lettura del testo, non esaurisce la varietà di stimoli e di suggestioni che Tullia d’Aragona è in grado di regalare. Della nostra selezione di testi offriremo un’analisi puntuale, argomentativa e critica, che esplori nel dettaglio la psicologia della scrivente e le ragioni della sua poetica. Per facilitare questo compito, però, prima di procedere con l’analisi dei componimenti, credo sia imprescindibile inquadrare la figura di Tullia d’Aragona con alcune coordinate biografiche.

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Capitolo primo

1.1 Tullia d’Aragona. Una biografia.

La nostra poetessa nacque a Roma10 dalla cortigiana Giulia Campana, detta

Ferrarese, e – se vogliamo dar credito a lei – dal cardinale Luigi d’Aragona, che era nipote illegittimo del re di Napoli, Ferdinando I. L’anno di nascita è ignoto, ma in generale si ritiene che Tullia sia nata sullo scorcio del primo decennio del Cinquecento.

Della sua giovinezza abbiamo poche notizie; Girolamo Muzio in un sonetto a lei dedicato scrive che «visse in tenera etade presso a l’onde / del più bel fonte, che Thoscana honori»11. Fu infatti a Firenze tra il 1517 e il 1518, e a Siena nel 1519,

come ci conferma anche Pietro Aretino in un passo dei Ragionamenti: Tullia essendo altre volte la madre cortigiana in Roma, si partì con questa sua figliuola picciola per andar dietro a un suo innamorato […] e capitò a Siena, dove la fanciulla imparò ad esser virtuosa e a parlar sanese12.

Tullia ricevette un’educazione raffinata e colta e, poiché cresceva in grazia e bellezza, ereditò dalla madre il mestiere della cortigiana.

Nel 1523 fece ritorno a Roma. Sono diversi i documenti che attestano questo soggiorno. Da molti biografi viene citata la novella VII degli Ecatommiti di Giovanni Battista Giraldi Cintio. Questi certamente doveva avere il dente avvelenato contro Tullia – o perché mal tollerava le licenze del mondo cortigiano o, più probabilmente, perché aveva ricevuto un rifiuto – e fu uno dei pochi a tracciare di lei un ritratto poco lusinghiero. Per esempio, a proposito del suo aspetto scriveva che:

era di viso non piacevole, il quale, oltre la bocca larga e le labbra sottili, era disordinato da un naso lungo, gibbuto e nella estrema parte grosso e atto a portare sommo difetto in ogni bella faccia, s'egli tra le guance vi fosse posto.13

10 Muzio nella sua ecloga , Tirrhenia, scrive «questa tra le sponde / na ta del Re de’ Fiumi», ovvero il Tevere; ma è definito così a nche il Po da Virgilio.

11 Il sonetto è Amor nel cor mi siede, e vuol ch’io dica, di Girola mo Muzio.

12 Pietro Aretino, I ragionamenti, a cura di D. Ca rra roli, Ca ra bba, La ncia no, 1914, vol. II, p.241. 13 Giova n Ba ttista Gira ldi Cinzio, Gli Ecatommiti, a c. di Susa nna Villa ri, Tomo I, Sa lerno editrice, Roma , 2012, p.171.

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Giraldi taceva, però, dei suoi capelli biondo oro, dettaglio fondamentale secondo il canone di bellezza del tempo, e sosteneva che l’unico pregio che aveva erano gli occhi, definiti «ladri nei movimenti loro, con una certa forza vivace che parea che gittasse fuoco negli altrui cori».14

La suddetta novella VII racconta di una cortigiana, Nana15, che «di casa

Arragona si fa chiamare […] quantunque vilissima», innamorata di un giovane romano di nome Saulo. Nana viene obbligata dalla madre a trascorrere sette notti con un tedesco di nome Gianni, facoltoso ma sudicio e brusco di modi. Trascorsa la prima notte, è decisa a sbarazzarsi di lui e dopo qualche tentativo ci riesce, ma nel frattempo si sparge la voce di questo suo lenocinio e Saulo, inorridito, si rifiuta di vederla ancora. Invisa a tutti, Nana è costretta ad abbandonare Roma.

Giraldi fingeva che la sconcia novella fosse ambientata nel 1527, e a quell’anno faceva risalire la partenza di Tullia da Roma; ma la novella è stata pubblicata molto più tardi, nel 1565, per cui non possiamo prendere per buono questo riferimento, in quanto fittizio e usato, con ogni probabilità, per screditare la cortigiana. Oltretutto, da una corrispondenza epistolare tra due importanti uomini politici del tempo, Filippo Strozzi e Francesco Vettori, si desume che Tullia si trovava ancora in città nel 1531. In breve, Strozzi era stato convocato a Roma dal pontefice Clemente VII, per discutere la possibilità di instaurare a Firenze, allora Repubblica popolare, un regime oligarchico che coprisse surrettiziamente il potere assoluto del duca Alessandro de’ Medici16. Il più ricco banchiere d’Italia, dunque,

chiedeva consiglio a Francesco Vettori, che si trovava a Firenze come ambasciatore, e costui, in una lettera datata 14 febbraio 1531 gli replicava:

E perché mi scrivete con la Tullia accanto, non vorrei la leggessi similmente con essa accanto, perché amandola voi come femmina che ha spirito, perché per bellezza non lo merita, non vorrei mi potesse nuocere con qualcuno di quelli ch’io nomino. Io non sono per ammonire Filippo

14 Ivi, p. 176.

15 «Così detta , non perchè ella sia picciola della persona , ma per mostra re la sua sconvenevole e non proporziona ta gra ndezza con voce di contra rio sentimento». Gira ldi, Ecatommiti, Ivi, p. 170. Il sopra nnome è, quindi, a ntifra stico.

16 Gira va voce che egli fosse figlio illegittimo di Clemente VII, noto per la sua tendenza al nepotismo. Infatti, grazie all’accordo con l’imperatore Carlo V, siglato a Barcellona nel giugno 1529, ottenne il ritorno dei Medici a Firenze e Alessa ndro ne fu signore da l 1523 a l 1527 e da l 1530 a l 1532; infine, fu primo duca di Firenze da l 1532 a l 1537, qua ndo fu a ssa ssina to da l cugino Lorenzino, detto Lorenza ccio, a rtefice di un va no tenta tivo di riporta re in vita la repubblica .

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Strozzi […] ma ho inteso di non so che cartelli e di sfide andate a torno che mi hanno dato fastidio pensando che un par vostro, uomo di 43 anni voglia combattere per una femmina […] non vorrei di presente vi metteste a questo pericolo di voler combattere per causa tanto leggiera; e vi ricordo che degli uomini come voi ne nascono pochi per secolo, e questo non dico per adulazione.17

Non sappiamo dire quando l’Aragona conobbe Filippo Strozzi, ma di certo i due dovettero essere molto affiatati se, addirittura, Vettori temeva che la donna fosse messa a parte delle più segrete cospirazioni politiche, appannaggio di pochi uomini al potere, e si meravigliava che un uomo maturo e rispettabile potesse atteggiarsi a giovane innamorato e sprovveduto, al punto da rischiare la vita in duello per difendere l’onore di lei; rischio che, in ogni caso, lo Strozzi si peritò dal correre. Sempre Filippo Strozzi, in un’altra lettera datata 25 novembre 1531, scriveva a Zanobi Bracci:

«

Tullia, se io vo seco in questa primavera a Vinetia, ne ha promisso venirsene poi meco costì et starsi tutta l’estate»18. Il soggiorno

veneziano dell’Aragona non è testimoniato da materiali d’archivio, tuttavia possiamo affidarci a documenti letterari che ci permettono di collocare Tullia a Venezia in compagnia di scrittori del calibro di Bernardo Tasso, che le indirizzò un buon numero di sonetti, e di Sperone Speroni, che fece di lei una Diotima interlocutrice nel suo Dialogo d’amore.

Il 10 Marzo 1535 nacque Penelope d’Aragona ad Adria19. Di lei è in dubbio

se fosse la sorella (sorellastra) di Tullia oppure la figlia: oggi si ritiene che fosse la secondogenita20 di Giulia Campana, che le attribuì lo stesso cognome nobile della

sorella maggiore, d’Aragona

,

“quasi che i parti del suo ventre appartenessero a quel seme anche dopo la morte del cardinale”21. È comunque risaputo che Tullia le fu

legatissima, e lo sconfinato amore e il ruolo di guida inseparabile che svolse nei suoi confronti trovano riscontro nelle parole del Muzio che, più tardi, nel quarto

17 E. Cela ni, Le rime di Tullia d'Aragona, cit., p. 10.

18 A. Ba rdi, Filippo Strozzi (da nuovi documenti), Archivio storico ita lia no 14, 1894, pp. 3-78. 19 Il toponimo si riferisce a una piccola citta dina veneta tra l’Adige e il Po, ma era a nche il nome poetico di Venezia a ncora in uso.

20 Così, a lmeno, si legge nell’epita ffio sepolcra le sul pa vimento della chiesa di S. Agostino a Roma. In disa ccordo Sa lva tore Bongi, che negli Annali di Gabriel Giolito de’ Ferrari ipotizza che Penelope fosse, in rea ltà , figlia di Tullia .

21 S. Bongi, Il velo giallo di Tullia D’Aragona, in «Rivista critica della lettera tura ita lia na » III, n.3, 1886, p. 93.

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libro delle Egloghe, contenente le egloghe funebri, piangerà la scomparsa di Penelope22 e a proposito di Tullia scriverà: «per natura sorella, per amore / et per

studio le fu madre e maestra».23

Vale la pena ricordare che il 1535 era anche l’anno in cui a Venezia veniva pubblicata La tariffa delle putane di Venegia, anonimo poemetto in terzine24 che

riproduce il dialogo tra un Forestiere e un Gentiluomo veneziano. Il gentiluomo fornisce all'interlocutore l'elenco e il prezzo delle meretrici attive a Venezia e a un certo punto fa il nome di Tullia d’Aragona, dipingendola come la più turpe e spregevole fra tutte. Si vedano i vv.301-306:

Or de’ casi di Tullia d’Aragona, a la qual mezzo palmo di budello lava pisciando il fonte d’Elicona. Vol diece scudi a torlo ne l’anello e cinque in potta e questa lasciarete per la maggior puttana di bordello.

Ciò rende evidente a quante ostilità fosse sempre soggetta una cortigiana. Pur potendo ammantarsi di notevoli capacità artistiche e intellettuali e pur godendo dell’ammirazione di uomini celebri, la fama conquistata dalla giovane ne faceva il bersaglio privilegiato degli scritti più disparati e impietosi.

Qualche mese dopo la nascita di Penelope, Tullia fece ritorno a Roma25, ma

vi rimase per poco tempo e nel 1537, per ragioni che ci sono ignote, dovette abbandonare la città natale per dirigersi a Ferrara. La notizia è confermata dalla lettera che Battista Strambellino inviò a Isabella d’Este, marchesa di Mantova, di cui riportiamo il seguente passo:

V. Ecc. intenderà come gli è sorta in questa terra una gentil cortegiana di Roma, nominata la Signora Tullia, la quale è venuta per stare qualche mese per quanto s’intende. Questa è molto gentile, discreta, accorta et di ottimi et divini costumi dotata; sa cantare al libro ogni mottetto et canzone, per rasone de canto figurato; et tanto

22 L’ecloga è intitola ta a d Argia, il nome pa stora le di Penelope d’Ara gona . 23 J. L. Ha irston, The poems and letters, cit. p. 17.

24 Lo si a ttribuisce a d Antonio Ca va llino, poco noto giurista e poeta pa dovano, poiché scrive il sonetto proemia le e ma nda una missiva a Pietro Aretin o in cui gli comunica l’a ssenza di copie dell’opera da inviargli. Cfr. La tariffa delle puttane di Venegia, a cura di Danilo Romei, "Nuovo Rina scimento", 2020, pp. 6 e sgg.

25 Lo a ttesta una sua lettera a utogra fa , da tata 21 luglio 1535, invia ta a messer Fra ncesco de’ Pa zzi. Cfr. Ha irston, The poems and letters, cit. p. 288.

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accomodamente si porta che non c’è homo né donna in questa terra che la paregi, anchora che la Illustrissima Signora Marchesa di Pescara sia eccellentissima, la quale è qui, come sa Vostra Eccellenza26.

In quel momento la marchesa Vittoria Colonna era in visita a Ferrara per ascoltare le parole di fra’ Bernardino Ochino, un noto predicatore originario di Siena; la Colonna lo seguiva ovunque, spinta tanto dall’amicizia e dall’ammirazione nei suoi confronti quanto da un intimo bisogno di rinnovamento spirituale. Trovandosi a Ferrara, anche Tullia assistette alla predicazione di Ochino e se ne risentì molto, perché il frate aveva attaccato le «finte apparenze, e il ballo, e il suono», proprio le arti in cui era versata, nonché gli oggetti della sua formazione umanistica e, in particolare, cortigiana. Ferita nell'orgoglio, gli indirizzò un sonetto dai toni accesi e dissonanti, in cui rivendicava con decisione il libero arbitrio dell’uomo e la piena liceità morale delle sue azioni.

Durante la permanenza a Ferrara, Tullia strinse amicizia con Girolamo Muzio ed Ercole Bentivoglio e loro la riempirono di lodi e adulazioni “che servirono a formare quella reputazione di onesta che la fama e le pasquinate avevano molto deteriorata”27. In breve tempo le si radunò attorno una schiera di

poeti e gentiluomini che riconobbero in lei non solo la cortigiana ma anche la poetessa e, quanto a bellezza e a ingegno, la ritennero superiore persino alla divina Vittoria Colonna.

Tullia fu nuovamente a Roma intorno al 154028 e poi a Siena, dove sistemò

i suoi affari e prese marito. Era l’otto gennaio del 1543, come specifica l’atto matrimoniale conservato presso l’Archivio di stato di Siena, che recita:

Anno Domini M. D. XLIII, indictione secunda, die vero Martis VIII. Mensis Jannarii.

D. Silvester olim.... de Guicciardis ferrariensis contraxit matrimonium cum Tullia Palmeira de Aragonia per verba de presenti et anuli dationem et receptionem respective in forma iuris et sacrorum canonum et omni meliori modo, ctc. Rogantes. etc.

Actum Senis.

26 La lettera è conserva ta a ll’Archivio di sta to di Ma ntova, Archivio Gonza ga 1251, ff. 191r-192v. 27 E. Cela ni, Le rime di Tullia d'Aragona, cit. p. 11.

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Ego Sigismundus Mannius Ugolinius notarius rogatus.29

L’atto è importante perché ci consente di identificare il marito: tale Silvestro Guicciardi, gentiluomo di Ferrara, di cui però non si sa molto altro; inoltre, instilla qualche dubbio sulla paternità da attribuire a questo Palmieri di casa Aragona, prima ignoto. Qui Tullia è detta, infatti, ‘Palmeria de Aragonia’, e in un altro documento, ancor più chiaramente, «Filia quondam Constantii de Palmeriis de Aragona»30. Quindi, sconfessando il Muzio, che in un luogo di Tirrhenia31 faceva

riferimento al Cardinale Luigi d’Aragona, Salvatore Bongi identifica con sicurezza il padre di Tullia con Costanzo Palmieri di Aragona32, mentre Celani si chiede se

non si tratti “di un familiare del cardinale d'Aragona che acconsentì a sposare la Giulia Campana a prezzo d'oro”33 per mascherarne le attività illecite; poi soggiunge:

Non ci peritiamo rispondere a quesìti così ardui ed anche inutili; bastano per noi tutte le testimonianze dei contemporanei a stabilire che la poetessa fu, pure illegittimamente, del sangue d'Aragona.34

Quindi, abbiamo detto che nel 1543 Tullia giunse a Siena e prese marito. Qualche mese più tardi, durante la Pentecoste, fu denunciata per aver indossato una sbernia, abito sfarzoso che contrastava con la legislazione suntuaria cittadina, ma le accuse caddero, poiché fu provato che ella, in qualità di donna sposata, conduceva una vita più che onesta. Così si legge nel Decreto del Capitano di Giustizia del 1544:

La Signora Tullia de Aragona per la pascha di Spirito Santo portò la sbernia contro li Statuti.

Ottaviano Tondi – Horatio Pecci – Il Signor Gapare, Servitore del Sig. D. Giovanni.

Vide in filo processum agitatum super vita causa ex quo apparet de sententia per quam fuit declaratum sibi licere portare sberniam, stantibus omnibus, etc35.

29 S. Bongi, Documenti senesi di Tullia d’Aragona, in «Rivista critica della lettera tura ita lia na » IV, n.6, 1887, p. 187.

30 Ibidem.

31 Vv.296-302: «Or fra molt’a ltri uscio del chia ro sa ngue / Un gra n pa stor, che di purpuree bende / Ornato il crine, e la sacrata fronte, / Com’amor volle, un giorno per le rive / Del vago Tebro errando, a gli occhi occhi suoi / Corse l’a spetto gra tioso, e novo / De la bella IOLE». Iole era il nome pa storale che Muzio da va a Giulia Ferra rese.

32 S. Bongi, Documenti senesi, cit., p. 187. 33 E. Cela ni, Le rime di Tullia, cit. p. 11 34 Ibidem.

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Gli uomini sopracitati erano con lei quando fu colta in fallo. A proposito, si sottolinea che costoro erano tutti politicamente schierati dalla parte di Carlo V, un dato piuttosto rilevante e connesso con la vicenda biografica della poetessa.

Bisogna premettere che gli anni delle guerre d’Italia furono, in generale, turbolenti per la Toscana, contesa tra l’impero ispano-asburgico, la Francia di Francesco I e il papato di Paolo III Farnese, che voleva installarvi i suoi eredi.36Siena, all’epoca in cui vi abitava Tullia, era formalmente uno stato vassallo

dell’imperatore asburgico, il quale, a partire dal 1530, vi aveva dislocato un suo rappresentante spagnolo. Lo scopo dell’agente imperiale era quello di condizionare la politica estera senese senza partecipare ufficialmente al governo della città; tuttavia, dovette ripetutamente scontrarsi con una cittadinanza riottosa e un particolarismo politico che la poneva costantemente sull’orlo della guerra civile.

A Emilio Tondi Tullia avrebbe scritto un sonetto37 pieno di cordoglio per la

morte del fratello Ottaviano, della fazione novesca38, caduto nel tumulto dei

Popolani del ’46; un altro lo avrebbe dedicato a Francesco Crasso, a nome di tutti gli esuli senesi. E molto presto anche lei, che era affiliata alla fazione degli sconfitti, sarebbe stata costretta alla fuga per non rischiare la vita.

Riparò, infatti, a Firenze, sotto la protezione di Cosimo I de’ Medici e di Eleonora di Toledo. Anche se aveva passato i trent’anni, “le restava tanto di bellezza e di grazia, che presto le fu concesso di rinnovare a Firenze gli incantesimi già operati in altre città”39. Nella sua villa vicino a Firenze, in cui abitava con la

madre e la sorella, ospitò abitualmente i più insigni intellettuali, i cui nomi figureranno nella fortunata antologia lirica come mittenti e destinatari di sonetti: Iacopo Nardi, Anton Francesco Grazzini detto ‘Il Lasca’, Francesco Maria Molza,

36 Cfr. Ma rco Pellegrini, Le guerre d’Italia 1494-1559, Società editrice il Mulino, Bologna , 2009. 37 Il sonetto occupa la posizione n°26 della ra ccolta : «Siena dolente i suoi migliori invita / a la grimar intorno a l suo gra n Tondi, / a l cui va lor ben furo i cieli secondi, / poscia invidia ro l'onora ta vita . // Ma rte il pia nger di lei col pia nto a ìta , / morto 'l ca mpion, cui fur gli a ltri secondi; / io prego i miei sospir ca ldi e profondi, / ch'a sfoga r sì gra n duol porga no a ìta . // So che non pon reca r miei tristi a ccenti, / a voi, messer Emilio, a lcun conforto, / che fra ta nti dolori il primo è 'l vostro. // Ma 'l duol si tempri; il suo morta le è morto; / vive 'l suo nome eterno fra le genti:/ l'a lma trionfa nel superno chiostro».

38 Entra mbi i fra telli Tondi era no a ttivi nel Monte dei Nove, una delle tre divisio ni politiche del governo repubblica no di Siena , quella a cui sembra va fosse a ffilia ta la poetessa .

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Ugolino Martelli, Francesco de’ Pazzi e Pietro Mannelli40. Ma di quella bella scuola

di poeti e letterati il più assiduo e affezionato frequentatore fu Benedetto Varchi, poeta, storiografo e linguista fiorentino, che le sarà accanto come mentore in molteplici occasioni. Ad esempio, nella primavera del 1547, quando Tullia d’Aragona venne fermata, interrogata e le fu intimato di obbedire alla legge suntuaria che era stata emanata dal Duca Cosimo I il 19 ottobre del 1546, la cui ‘brutta prosa’ – per usare le parole di Bongi – recitava:

Le meretrici non possino portar vesti di drappo né seta d’alcuna ragione, ma sibbene quante gioie e quanto oro e argento esse vorranno, & sien tenute a portar un velo, o vero sciugatoio o fazzoletto o altra peza in capo, che habbi una listra larga un dito d’oro o di seta o d’altra materia gialla, e in luogo che ella possa esser veduta da ciascuno, & tal segno debbin portar a fine che esse sien conosciute dalle donne da bene e di honesta vita […]41

Tullia che ormai pensava di non esser più compresa nel ruolo delle cortigiane, per la vita morigerata che conduceva e le amicizie e la stima di cui godeva, rimase molto turbata da questo attacco improvviso alla sua persona e, su consiglio di Don Pedro, nipote di Eleonora di Toledo, e con l’aiuto del Varchi, presentò alla Duchessa una supplica, cui allegò una raccolta di sonetti dedicati a lei da illustri letterati, chiedendo l’esenzione dall’infamante legge del velo giallo.

La richiesta trovò il favore di Eleonora, “che sola aveva il segreto di vincere la dura austerità del marito”42, il quale intervenne con un breve e lapidario: «Fasseli

gratia per poetessa».43

L’episodio è molto simile a quello verificatosi a Siena un anno prima, con la sostanziale differenza che questa volta Tullia non è stata graziata in quanto donna sposata, ma in ragione dei suoi meriti artistici, o meglio “per la rara scientia di Poesia et filosofia, che si ritrova con piacer de’ pregiati ingegni la Dotta Tullia d’Aragona”44.

40 Che il Ma nnelli fosse l’unico in gra do di suscita re in lei, dopo ta nto tempo, un sentimento d’amore a utentico, come ritengono a lcuni, è tuttora in discussione.

41 S. Bongi, Il velo giallo, cit., p. 89. 42 Ibidem.

43 Ibidem.

44 Arch. Di Sta to in Firenze: Luogotenenti e Consiglieri S. Eccellenza il Duca di Firenze, documento riporta to da S. Bongi ne Il velo giallo, cit., p. 90.

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Nello stesso 1547, Tullia fece pubblicare presso l’editore Giolito non solo i componimenti a lei dedicati ma anche i suoi, dimostrando che la “poetessa aveva salvata la cortigiana”45 e insieme avevano trionfato. A quell’anno risaliva anche la

pubblicazione del raffinato Dialogo della infinità d’amore, dedicato a Cosimo I, che aveva come protagonisti il Varchi, il dottor Benucci e la poetessa sotto pseudonimo; ma il Muzio, a cui il dialogo era stato affidato prima della pubblicazione, pensò di ripristinare il nome vero, per i motivi che spiega nella lettera prefatoria al testo:

Voi introducete un ragionamento fatto tra voi, il Varchi, e il dottor Benucci: e perciocchè in quello si dicono molte cose della virtù vostra e delle vostre lode, a voi non pareva che vi si convenisse nominarvi per lo proprio vostro nome, e per modestia vi eravate appellata Sabina. Or non parendo a me che bene stesse in un dialogo un nome finto tra due veri […] presi per partito […] di rimetter Tullia […] Io non so di essere mai stato di alcuna Sabina: so bene di essere stato, e di essere della signora Tullia.46

Purtroppo l’idillio cessò presto: Tullia avrebbe fatto ritorno a Roma, e questa volta per sempre. In una lettera datata 10 ottobre 1548 salutava il Varchi, con parole piene di gratitudine:

Tanto si rammenterà l’anima mia di vostra signoria et e le infinite cortesie ricevute dalla bontà sua et benifizii […] Non scrivo a vostra signoria quanto mi paia strano lo havermi allontanare, col corpo però, da lei perché dicendo il vero so che difficilmente sarebbe creso et forsi preso per cirimonia sarebbe, ma tacendo i miei danni solamente pregherò con tutto l’affetto del cuor mio vostra signoria che non si smentichi di me in tutto, et che ogni volta che io gli mandarò qualche mia cosa, al solito della sua bontà, come mio maestro et il mio Dante, si degni correggerlla et ornarlla47.

Al suo arrivo trovò una Roma profondamente mutata, resa più cupa dall’influenza di Papa Paolo III, che aveva posto il sigillo sul ritorno dell’Inquisizione e aveva ordinato il Concilio di Trento nel 1545.

45 S. Bongi, Il velo giallo, cit., p. 90.

46 Dialogo della infinità d’Amore, cit, pp. 6-7. 47 Ha irston, The poems and letters, cit., p. 304.

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Non conosciamo le ragioni che spinsero la poetessa, ormai affermata, a lasciare Firenze; possiamo solo ipotizzare, con Bongi, che i suoi guadagni fossero insufficienti ai bisogni della casa o che la madre volesse introdurre sulla ricca scena romana la sorellina Penelope, come fece un tempo con Tullia.

Ad ogni modo, sappiamo da un documento intitolato Tassa sulle Cortigiane, che nel 1549 l’Aragona dimorava vicino a Palazzo Carpi, nel rione Campo Marzio e che il suo reddito, al confronto con quello di altre cortigiane, era tra i più elevati della città. Le cortigiane erano tenute a versare annualmente una somma che equivaleva al 10% sul totale dei loro guadagni e i proventi sarebbero serviti a ripristinare il ponte di S. Maria che era in cattivo stato.

Fu in quella casa che Penelope si spense, all’età giovanissima di quattordici anni, il 1° febbraio del 1549, seguita poco dopo dalla madre. Entrambe trovarono pace sotto i marmi della chiesa di S. Agostino.

Tullia continuò a scrivere poesie, rivolgendole a uomini del clero, come il Cardinal d’Urbino e il Cardinal del Monte, e pubblicò alcune sue rime spirituali in un’antologia lirica, edita da Girolamo Ruscelli nel 1553.

L’ultima sua fatica è stata il volgarizzamento dallo spagnolo di un poema epico quasi sconosciuto: Il Meschino, altramente detto il Guerrino, che rimase inedito e fu fatto stampare a Venezia, postumo, nel 1560. Tullia, nella prefazione, ne parla con ostinato orgoglio, lamentando che il libro più letto dagli italiani erano a quel tempo i ragionamenti dell’Aretino e altre opere infamanti verso le cortigiane:

onde non è poi stato maraviglia, se ambitiosi di questa sua gloria [del Boccaccio], si sien posti degli altri a far le

Nanne & le Pippe, le Puttane Erranti, & perfino quel

libro, che ha per certo offeso troppo altamente la maestà della gentilissima città di Siena48

E con parole di umore senile, che suonano tanto come una retractatio della sua vita precedente: «Io adunque, la quale ho ne’ primi anni miei havuta più notizia del mondo, che ora con miglior senno non vorrei aver havuta»; presentò al pubblico di lettori questo suo libretto «tutto castissimo, tutto puro, tutto cristiano», augurandosi che risultasse gradito, almeno nelle intenzioni.

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Tullia morì tra il 3 marzo e il 15 aprile del 1556, lasciando un testamento in cui chiese che le sue spoglie venissero seppellite insieme a quelle della madre e della sorella: così ‘Iole’ e ‘Argia’ furono raggiunte da ‘Tirrenia’; poi, dispose che alcuni suoi beni materiali, come certi oggetti e indumenti, fossero elargiti a conoscenti e collaboratori; fece alcune donazioni a istituti ecclesiastici e di carità e, infine, proclamò suo erede universale un bambino, Celio, che da qualcuno fu ritenuto suo figlio.

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1.2 La struttura e il contenuto delle Rime

Gli anni del soggiorno fiorentino rappresentano per Tullia d’Aragona un periodo d’oro. Il 1547, in particolare, è importante, perché vedono la luce due suoi prodotti artistici: le Rime e il Dialogo della infinità d’amore, una discussione dotta dagli accenti neoplatonici e ficiniani, figlia di una tradizione particolarmente in voga nel Cinquecento.

Ma vediamo quali sono la struttura e il contenuto delle Rime. Come accennato sopra, si tratta di un’antologia corale, che prende a modello le Rime di Pietro Bembo49, il quale per primo adottò questo tipo di soluzione; la differenza è

che Bembo, nel realizzarle, scelse di relegare i sonetti dei corrispondenti in appendice, riferendoli ai propri mediante la citazione del primo verso. Diversamente, Tullia – o chi per lei – alternò le coppie di sonetti di corrispondenza seguendo l’ordine di proposta/risposta: una scelta d’avanguardia e molto azzeccata, poiché la comparsa, nel corpo del libro, di una coralità di voci ha il pregio di rendere la lettura più perspicua, oltre che interattiva e dinamica, ed evidenzia l’elemento di novità, rispetto al canzoniere lirico petrarchesco di carattere soggettivo e costante. Il libretto, così come si presenta nell’edizione a stampa di Giolito del ’37, reca il titolo Rime della signora Tullia di Aragona; et di diversi a lei in Vinegia appresso Gabriel Giolito de Ferrari MDXLVII, e si apre con la dedicatoria che Tullia indirizza – col concorso di Benedetto Varchi – alla Duchessa Eleonora di Toledo.

Seguono trentotto liriche, scritte da Tullia: sette sonetti a Cosimo de’ Medici, duca di Firenze; quattro a Eleonora; a Maria Salviati de’ Medici; a Don Luigi di Toledo; a Don Pedro di Toledo; al Cardinal Pietro Bembo; a Rodolfo Baglioni; a Francesco Crasso; a Francesco Molza; al Colonello Luca Antonio (Cuppano); a Ugolino Martelli; tre a Benedetto Varchi; uno a Girolamo Muzio; al predicatore Bernardino Ochino; a Emilio Tondi; a Tiberio Nari; a Piero Mannelli; otto senza destinatario, l’ultimo dei quali vede come protagonista Lilia, un animale domestico,

49 Pietro Bembo orga nizza il suo corpus di Rime nel 1530, da ndo vita a ll’editio princeps, pubblicata a sta mpa presso i fra telli da Sa bbio a Venezia ; seguono una rista mpa a ccresciuta nel 1535, che è quella a pa rtire da lla qua le Bembo sceglie di includere in a ppendice le composizioni degli interlocutori, e infine, due sta mpe postume nel 1548: una cura ta da Pietro Gra denigo, genero dell’autore, pubblicata a Venezia presso Giolito; l’altra da Carlo Gualteruzzi, pubblicata a Roma presso Dorico.

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probabilmente una cagnolina; uno strambotto senza destinatario; una sestina senza destinatario.

Le liriche che succedono sono, poi, raggruppate in altre quattro sezioni. Non sappiamo se a stabilire tale assetto fu la poetessa, Girolamo Muzio – che contribuì alla pubblicazione e il cui apporto nella raccolta è evidente, come si vedrà più avanti–, o ancora se si deve all’iniziativa dell’editore e del suo entourage.

La seconda sezione, intitolata Sonetti della signora Tullia, con le risposte, prevede nove sonetti di corrispondenza, di cui Tullia è la mittente: Tullia – Porzio; Tullia – Muzio; Tullia – Varchi; Tullia – Ugolino Martelli.

La terza, Sonetti di diversi alla s[ignora] Tullia, con le risposte di lei, contiene undici sonetti, ed è analoga alla precedente, ma speculare, perché Tullia è, qui, destinataria: Lattanzio Benucci – Tullia; Muzio – Tullia; Alessandro Arrighi – Tullia; Niccolò Martelli – Tullia; Il Lasca – Tullia; Ugolino Martelli – Tullia

La quarta sezione accoglie un’egloga, o dialogo pastorale, di 337 endecasillabi sciolti: La Tirrhenia del Mutio alla Signora Tullia.

Girolamo Muzio fu autore, fra le altre cose, di trentacinque egloghe, che pubblicò a stampa nel 1550, per i tipi di Giolito, suddivise in cinque libri.50 Il primo

libro contiene Le Amorose, che seguono l’evoluzione dell’amore – prima profano e sensuale, poi nostalgico e venato di gelosia, infine sereno e spirituale – per l’etera Tullia, l’eterna musa del poeta, a cui allude con il nome pastorale di Tirrenia51.

Quella che diventerà la settima e ultima egloga del primo libro, composta tra il ’46 e il ’47, appare per la prima volta nelle Rime della d’Aragona, preceduta dalla dedica che rimanda alla dimensione platonica dell’amore, fonte di ispirazione di quei versi52.

50 La serie è intitola ta Egloghe del Mutio Iustinopolitano divise in cinque libri. Le amorose libro

primo, le marchesane libro secondo, le illustri libro terzo, le lugubri libro quarto, le varie libro quinto.

51 Cfr. F. Ba usi, Un’egloga inedita (e sconosciuta) di Girolamo Muzio, in «Studi di Filologia Ita lia na », vol. XLVII, 1989, pp. 211-54.

52 «E per ta nto oltra le molte a ltre rime, a lle qua li lo a mor vostro mi è sta to Helicona , e voi stata mi sete Musa fa vorevole, mi è nuova mente venuta fa tta una nuova compositione pera ventur a più a ffettuosa , che a rtificiosa , nella qua le ingegna to mi sono di fa re un disegno di voi più pa rticola re che a ltro, il qua le infino a d hora io ha bbia visto che sia sta to fa tto da a ltrui.» Ha irston, The poems

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Il nome Tirrhenia fa riferimento alla Toscana, dove Tullia svolse la sua formazione giovanile, e tutta l’ecloga contiene riferimenti alla vita e alla carriera letteraria della protagonista.

È stato osservato che:

the movement in this text is from d’Aragona’s complete “presence” in the first section to her complete “absence” in the last, where she is, however, the sole topic conversation53.

Infatti, la poetessa ha già passato il testimone al Muzio, con l’egloga Tirrhenia, e la raccolta si chiude con la quinta sezione, che si configura come una sorta di proto-tempio, giacché questo genere verrà inaugurato ufficialmente solo nel 1555, con la raccolta in lode di Giovanna d’Aragona, pubblicata a Venezia da Girolamo Ruscelli, Del tempio alla divina signora Giovanna d’Aragona, per i tipi di Plinio Pietrasanta.

La sezione in lode di Tullia racchiude ben cinquantacinque sonetti di diversi alla Signora Tullia d’Aragona, che hanno l’effetto di sottolineare, appunto, la stima e soprattutto la fama di cui la poetessa gode presso intellettuali e ottimati provenienti da ogni parte d’Italia: Ventotto sonetti da Girolamo Muzio; cinque da Benedetto Varchi; tre da Giulio Camillo; due da Ippolito de’ Medici; due da Francesco Molza; due da Ercole Bentivoglio; due da Filippo Strozzi; due dal Dottore de’ Benucci; tre da Alessandro Arrighi; due da Benedetto Arrighi; uno da Latino Iuvenale; uno da Ludovico Martelli; uno da Simone dalla Volta; uno da Camillo da Montevarchi.

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Capitolo secondo

2.1

La dedica a Eleonora Di Toledo

Prima di affrontare la lettura dei sonetti dedicati al patrono, Cosimo I, vale la pena spendere qualche parola a proposito della lettera dedicatoria che apre la raccolta, che reca il titolo: Alla illustrissima et eccellentiss. Signora la s. donna Leonora di Tolledo Duchessa di Firenze padrona sua osservandiss. Tullia di Aragona. Si legga:

Io so bene Nobilissima e virtuosissima Signora Duchessa, che quanto la bassezza della condition mia è men degna della altezza di quella di Vostra Eccellenza tanto la rozezza de' componimenti miei è minore dello ingegno et giudicio suo: e per questa cagione sono stata in dubbio gran tempo se io dovessi indirizzare a così grande et honorato nome quanto è quello di Vostra Eccellenza, così picciola e t così ignobile fatica, come è quella de' Sonetti composti da me più tosto per fuggir l'otio molte volte, o per non parer scortese a quelli che i loro mi haveano indirizzati, che per credenza di doverne acquistar fama o pregio alcuno appresso le genti. Ma desiderando io di mostrare in qualche modo qualche parte della devotissima servitù mia verso Vostra Eccellenza per gli obblighi che le ho molti et grandissimi sì a lei, e sì a quella dello invitto et gloriosissimo consorte suo, presi ardimento, e mi risolsi finalmente di non mancare a me medesima, ricordandomi che i componimenti di tutti gli scrittori hanno in tutte le lingue, et massimamente quegli de' Poeti, avuto sempre cotal gratia et preminenza, che niuno quantunque grande, non solo non gli ha rifiutati mai, ma sempre tenuti carissimi. Perché io ancor che (come ho detto) conosca benissimo così l'altezza dello stato suo, come la bassezza della condition mia; presento umilmente con devotissimo cuore queste mie poche, basse et picciole fatiche alle moltissime, grandissime et altissime virtù di lei, pregandola con tutto l'animo non al dono voglia né a chi dona, ma a sé medesima riguardare.

La poetessa rivolge questo scritto liminare a Eleonora di Toledo. Nel redigerlo, si fa aiutare da Benedetto Varchi, che ne supervisiona la scrittura come aveva fatto precedentemente con la supplica, inviata alla Duchessa su consiglio del nipote Don Pietro di Toledo, per chiedere l’astensione dalla legge suntuaria fiorentina che le imponeva il velo giallo delle cortigiane. Infatti, in una lettera conservata negli autografi Palatini della Biblioteca Nazionale di Firenze, Tullia scriveva al Varchi:

Padron mio osservandissimo,

è parere del signor don Pietro che io facci presentare più presto che sia possibile i sonetti alla Signora Duchessa et

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con essi una suplica […] se mai vostra signoria si affaticò per me volentieri, se mai pensò di giovarmi et farmi benefitio, adesso mi aiuti et soccorri del suo sapere, in esporre questa supplica che a vostra signoria sarà facile non altrimenti che se ragionasse familiarmente et a me farà gratia tale che maggiore non ne spero o desio et essendogli già ubligata dirò che lo faci per sua bontà et per la fede che ho in essa: et quanto più presto, maggiore sarà il benefitio riceverò. 54

Anche in occasione della dedica abbiamo ragione di credere che dietro la penna dell’autrice ci sia l’attenta regia di messer Varchi, il quale era sostenitore, da membro dell’Accademia Fiorentina, di una riforma linguistica e dell’istituzione di una gramatica che ponesse il dialetto fiorentino al vertice della scrittura letteraria. È grazie al suo contributo se possiamo leggere un’epistola dedicatoria che rispecchia il costume dell’epoca e ossequia le tradizionali partizioni dell’oratoria.

Il titolo, di sette righe in corpo maiuscolo, abbonda di aggettivi di grado superlativo e di epiteti ridondanti, ad esempio «signora/la signora donna Leonora», seguiti dal titolo nobiliare della destinataria e dalla dichiarazione di devota servitù – s’intende, intellettuale – della poetessa.

Il rapporto che Tullia instaura con l’interlocutrice è di natura asimmetrica e la differenza che corre tra le due, in termini di nobiltà, prestigio ed educazione, è marcata dalla presenza nel testo di coppie di sostantivi di significato opposto, quali ‘bassezza/altezza’, ‘rozzezza/ingegno’, i primi nelle coppie riferiti a Tullia, i secondi a Eleonora; e aggettivi, come ‘grande et honorato’, legati al buon nome della Duchessa, e ‘picciola e ignobile’, che qualificano l’impresa scrittoria con la quale Tullia si sforza di eguagliarlo, quel buon nome. Si osservi anche la locuzione, di sapore petrarchesco, ‘poche basse et picciole fatiche’, con i tre aggettivi in asindeto che trovano i corrispettivi opposti al grado superlativo più avanti, nell’espressione ‘moltissime, grandissime et altissime virtù di lei’; anche il consorte di Eleonora, il duca Cosimo I, viene definito ‘invitto et gloriosissimo’.

È, d’altronde, espediente comune della letteratura cortese e dei testi di dedica in generale l’innalzamento del dedicatario, che ha il fine di intesserne l’elogio, mentre il – in questo caso la – dedicante va incontro a uno speculare

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abbassamento.55 Per esempio, Tullia raggiunge le vette della più ostentata modestia,

quando scrive:

Sonetti composti da me più tosto per fuggir l’otio molte volte, o per non parere scortese a quelli che i loro mi havevano indirizzati, che per credenza di doverne acquistar fama o pregio alcuno appresso le genti.

C’è un fondo di verità in queste parole, dato che i sonetti composti sono quasi tutti di corrispondenza; eppure, in questa escalation di humilitas, a un certo punto della dedicatoria, in fase di argomentatio, la poetessa soggiunge, timidamente, ma con una punta di fierezza:

Ma […] presi ardimento, et mi risolsi finalmente di non mancare a me medesima, ricordandomi che i componimenti di tutti gli scrittori hanno in tutte le lingue, et massimamente quegli de’ Poeti havuto sempre cotal gratia et preminenza che niuno quantunque grande, non solo non gli ha rifiutati mai, ma sempre tenuti carissimi.

Tullia che ovunque l’arte professata la conduca riesce sempre a inserirsi nei salotti in cui si ragiona di cultura e ad assistere ai processi creativi della poesia, ci dice che sente di poter recitare lei stessa una parte in questo panorama variegato, con la consapevolezza di chi, per anni, ha fatto parte del pubblico e ne conosce i gusti. Anche se sullo sfondo, questo pubblico ci viene presentato, ed è un pubblico di livello, fatto di lettori che si dilettano a scrivere, proprio come lei.

Viene da pensare che l’apporto del Varchi, in questo punto specifico, sia minimo, poiché troviamo l’espressione autentica della volontà di Tullia di essere letta come venivano letti tutti coloro che avevano l’ardire di pubblicare versi: “un brulichìo fermentante di gente che credeva di essere petrarchesca quando metteva in versi ogni episodio di vita”56.

Così, con l’espressione «non mancare a me medesima» la poetessa vuol dirci, ad un primo livello, che non intende sottrarsi all’obbligo di ricambiare il favore ottenuto da Eleonora; ma anche, ad un secondo livello, che non vuole arrecare un torto a se stessa restando nell’ombra, quando è chiaro che chiunque scriva nella lingua dei poeti è ben accetto e accolto dal pubblico contemporaneo.

55Cfr. M. Terzoli, I margini dell’opera nei libri di poesia: Strategie e convenzioni dedicatorie nel

Petrarchismo italiano, Neohelicon 2010, Springer. Versione online consulta bile a ll’indirizzo :

https://link.springer.com/a rticle/10.1007/s11059 -010-0060-y.

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Già, in limine, Tullia fissa di sé quest’immagine di autrice lirica, che affida ai suoi versi da consegnare ai futuri lettori.

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2.2

Analisi dei sonetti a Cosimo I, Duca di Firenze

L’Aragona si serve della scrittura per trasformare la propria immagine pubblica di cortigiana in quella di una donna virtuosa. Osservando la prima sezione della raccolta, che è costituita da quarantanove testi scritti da lei, notiamo che quelli di natura encomiastica si ritagliano lo spazio maggiore. Spesso i curatori delle odierne antologie sulle rimatrici del Cinquecento sorvolano sulla produzione di corrispondenza o di occasione dell’Aragona, prediligendo tematiche più apprezzabili e suggestive, per esempio quella amorosa, di cui parleremo più avanti. Alla base di questo scarto vi è l’idea che si tratti di “affettati panegirici […] cui solo la mano di Varchi o di altri letterati amici dava forma stereotipata”57. Innanzitutto,

non c’è ragione di dubitare della buona fattura, o dell’appartenenza delle poesie: per quanto ne sappiamo, le incursioni dei maestri, Girolamo Muzio e Benedetto Varchi, si limitarono a qualche ritocco formale; inoltre, non possiamo trascurare la questione dei componimenti di occasione e di corrispondenza, sia in considerazione del loro numero elevato, sia per il ruolo di ‘cortigiana onesta’58 che Tullia

esercitava: in questo senso la loro analisi è utile a inquadrare meglio la figura dell’autrice dal punto di vista biografico e storiografico. Infine, se vi prestiamo davvero attenzione, ci rendiamo conto che tali liriche non sono un esercizio sterile e inerte, dettato esclusivamente da esigenze di natura ‘economica’: racchiudono idee e inquietudini che coinvolgono l’io lirico, la sua storia personale, e sono frutto di uno sforzo creativo spesso originale e innovativo.

Questa è la ragione per cui abbiamo scelto di analizzare la serie di componimenti dedicati a Cosimo I. Com’è ovvio, Tullia riserva uno speciale riguardo alla famiglia medicea e al Duca di Firenze, il più importante dei destinatari, dimostrandosi abile nel creare variazioni sul tema della lode e della celebrazione del suo signore e patrono. A lui sono dedicati i primi sette sonetti, che occupano la

57M. Antes, Tullia d’Aragona, cortigiana e filosofa. Con il testo originale Della infinità di amore , Ma uro Pa glia i Editore, Firenze, 2011, p.39.

58 L’epiteto deriva da lla celebre fra se tra tta da l Liber notarum (1498) di Joha n Burcha rd, ma estro di cerimonie pontificio: «Quedam cortegiana, hoc est meretrix honesta» (‘Una cosiddetta cortigiana, cioè una prostituta rispettabile’). “Quello di Burchard è il più antico documento conosciuto che usa il termine «cortigia na » per riferirsi non a una distinta da ma di corte – chia ra mente il significa to origina rio del termine –, ma a una prostituta .”. Cfr. M. Antes, Tullia d’Aragona, cortigiana e

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posizione più rilevante: Se gli antichi pastor di rose, e fiori; Signor, pregio, e honor di questa etade; Signor d’ogni valor più d’altro adorno; Nuovo Numa Toschan, che le chiar’onde; Signor, che con pietade alta, e consiglio; Dive, che dal bel monte d’Helicona; Né vostro impero, anchor che bello, e raro.

Cosimo I de’ Medici era l’erede del ramo cadetto dei Medici di Castello, figlio del condottiero Giovani delle Bande Nere e di Maria Salviati. Poco prima di assumere il controllo di Firenze, Cosimo dovette scontrarsi con quel gruppo di fuorusciti, partigiani dell’ordinamento repubblicano, che erano insorti con l’appoggio del re di Francia e si erano uniti sotto la leadership di Filippo Strozzi, il quale, insieme al figlio Piero, tentò di marciare su Firenze. Nell’agosto del 1537, Cosimo riuscì a bloccare e a sconfiggerne l’esercito presso Montemurlo e Strozzi fu imprigionato nella Fortezza da Basso a Firenze dove, nel dicembre del 1538, si suicidò, lasciando una lettera contenente le sue ultime volontà in cui menzionava la figura del Catone dantesco: il suicidio assunse, così, un indubbio valore ideologico. Questa premessa è importante per capire uno dei motivi per cui Tullia, dieci anni dopo, si rivolge con tanto zelo e dedizione al signore di Firenze: avendo intrattenuto per anni una relazione con lo Strozzi, quando si vide ottenere la grazia da Cosimo, che di Filippo era stato nemico mortale, la poetessa sentì come ancor più urgente e prioritaria la necessità di rendergli omaggio, nel tentativo di svincolarsi del tutto dal ricordo della sua pericolosa relazione. Infatti, al Duca dedicò anche il Dialogo della Infinità d’amore, scritto che ha incontrato nel corso del tempo unanime approvazione e considerazione.

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2.2.1 Se gli antichi pastor di rose e fiori

Il componimento proemiale figura in molte antologie liriche dedicate ai rimatori del Cinquecento, probabilmente in ragione della sua posizione incipitaria e della funzione ideologica a esso correlata. Nel sonetto Tullia si rivolge al Duca con l’amplificazione laudativa tipica dell’uso encomiastico, che sfrutta il topos della modestia: le è impossibile cantare le lodi del signore, perché gli strumenti a sua disposizione, le parole e i versi, sono destinati al fallimento. Questo tema si distende in tutto lo spazio delle due quartine, che costituiscono un’unica domanda retorica. Si legga:

Se gli antichi pastor di rose e fiori59

sparsero i tempii, e vaporar gli altari d'incenso a Pan, sol perché dolci, e cari avea fatto alle nimphe i loro amori:

quai fior degg'io Signor, quai deggio odori, sparger al nome vostro, che sian pari a i merti vostri, e tante, e così rari, ch'ognihor spargete in me gratie e favori? Nessun per certo tempio, altare, o dono trovar si può di così gran valore, ch'a vostra alta bontà sia pregio eguale. Sia dunque il petto vostro, u' tutte sono le virtù, tempio; altare, il saggio core; vittima, l'alma mia, se tanto vale.

Il sonetto non ha carattere consuntivo o retrospettivo, inoltre manca l’appello ai lettori, che contraddistingue l’esordio petrarchesco, così come l’invocazione alle Muse, familiare al Bembo, che viene posticipata al sonetto sesto. Il componimento proemiale di Tullia può essere ascritto al genere del sonetto pastorale, in voga nel Cinquecento, poiché presenta un’ambientazione arcadica, che vede protagonisti i pastori intenti a compiere offerte di fiori e di essenze al dio Pan, per ringraziarlo di aver propiziato loro l’amore delle Ninfe.

59 Sonetto su cinque rime a schema ABBA ABBA CDE CDE. I versi, tutti endeca silla bi, si a ttengono a lla regola bembia na secondo cui la qua rta e la sesta silla ba non possono essere a tone contempora neamente; frequenti sono le a na strofi e sopra ttutto gli enjambements; il lessico rispecchia il gusto petra rchesco ed è privo di pa role ra re.

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Nella seconda quartina le rose, i fiori, i vapori d’incenso, che la poetessa intende spargere60 a imitazione dei pastori, rappresentano metaforicamente i sonetti,

cioè gli ex-voto poetici che Tullia offre in cambio delle «gratie» e dei «favori» elargiti da Cosimo, dall’alto, come se fosse una divinità.

Anche qui riscontriamo, come nella dedica, il tipico understatement della poetessa: «il gran valore», l’«alta bontà» di Cosimo non possono essere eguagliati da alcuna azione di Tullia che abbia «pregio eguale».

Nella seconda terzina la poetessa istituisce un’identità tra il petto di Cosimo, sede delle virtù, e il tempio, luogo deputato alla venerazione di qualcosa che, per sé stesso, è nobile, alto, degno di culto e di onore; inoltre, il cuore di Cosimo è l’altare, e l’anima di Tullia la vittima che dev’essere immolata per il sacrificio.

Non bastano, pertanto, i soli versi: l’offerta deve riguardare l’intera persona intellettuale e spirituale dell’Aragona. Tullia si consacra interamente a Cosimo come a un dio misericordioso, colui che l’ha salvata da una vergogna infamante, evitandole di divenire ‘favola’ presso le genti, per dirla con Petrarca.

Di questo sonetto esiste un’altra versione, precedente a quella pubblicata nella raccolta, conservata all’interno del ms. Magliabechiano VII 195, f. 75v. che contiene liriche indirizzate all’Accademia degli Umidi61. Il testo presenta delle

varianti meramente formali, che non alterano, dunque, il senso del dettato poetico così come lo abbiamo presentato.

60 Tullia insiste su questo verbo, ritorna tre volte nello spa zio delle due qua rtine, coniuga to in modi diversi.

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2.2.2 Signor, pregio, e honor di questa etade.

È il secondo componimento della raccolta, che gioca decisamente sul tema della lode ed è carico di suggestioni provenienti dal modello petrarchesco. Si legga:

Signor, pregio, e honor di questa etade,62

cui tutte le virtù compagne fersi, che con tante bell'opre, e sì diversi effetti gite al ciel per mille strade; quai sien, che possan mai tante, e sì rade doti vostre cantar prose, né versi? In voi solo (et son parca) può vedersi giunta a sommo valor somma bontade. Voi saggio, voi clemente, voi cortese; onde nel primo fior de' più verd'anni vi fu dato da Dio sì grande impero, per ristorar tutti gli andati danni; et, con potere eguale al bel pensiero, por sempiterno fine a tante offese.

Nel primo verso Cosimo I viene definito «pregio e honor di questa etade». La parola “pregio”, nell’accezione provenzale di ‘vanto’, è impiegata dal Petrarca in più luoghi del suo Canzoniere. Prendiamo a esempio la canzone 29, Verdi panni, sanguigni oscuri o persi: qui troviamo l’espressione «pregio di onestade», da riferire alla castità che Laura “conserva intatta come la foglia del lauro conserva inalterato il colore verde”63. D’altra parte, sembra che la canzone abbia agito in

modo obliquo nella memoria lirica di Tullia, che da lì ha attinto anche il sintagma «etade nostra»64, variandolo in «questa etade». Identica anche l’espressione

«compagne fersi»65, che nella canzone è riferito alle stelle benevoli che

accompagnano i natali di Laura, mentre qui alle virtù del duca fiorentino, compagne

62 Sonetto su cinque rime a schema ABBA ABBA CDE DEC. Endeca silla bi regola ri ca ra tterizzati da lla presenza di qua lche enjambement nella fronte e a llittera zioni nella sirma ; il lessico è comune, fatta eccezione per il lemma «fersi», cioè ‘si fecero’. Le grafie sono latineggianti, come nel caso di «honor» e della congiunzione «et»; i meta pla smi, a d es. le forme con epitesi «eta de» e «bonta de», sono massicciamente presenti, poiché d’uso nella lirica petrarchesca. Abbondanti le rime complesse, come la rima ricca «eta de:bontade», la rima pa ronoma stica «fersi:versi», quella inclusiva che coinvolge i lemmi «diversi:versi:vedersi» e la rima franta/inclusiva «verd’anni:danni».

63 Cfr. F. Petrarca, Il Canzoniere. Edizione commenta ta a cura di Ma rco Sa nta ga ta, Mondadori, «I Meridia ni», Mila no, 1996, p. 164.

64 Rvf. 26, vv.26-27. I due membri del sinta gma sono sepa ra ti da enjambement. 65 Ivi, v. 43.

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di «tante bell’opre», i cui «effetti» sono tali da spianargli la via al Cielo. Non appare superfluo citare, infine, il v.40 della suddetta canzone, che recita: «ché men son dritte al ciel tutt’altre strade». Petrarca, nella strofa di riferimento, illustra la ragione di fondo del paradosso d’amore, consistente nel fatto che egli, benché soffra per l’atteggiamento distaccato della donna amata, non desidera affatto essere sciolto dal nodo che lo vincola a lei, “perché questa amorosa è la via più diretta per conseguire la salvezza”66. Ma se per il Petrarca vale quanto appena detto, nel caso di Cosimo

de’ Medici sono le imprese, le azioni a dischiudergli il cammino per il Cielo: nientemeno che «mille strade»!

L’esagerazione iperbolica rientra in quell’atteggiamento di calcolata piaggeria connaturato ai sonetti di corrispondenza, che puntano a compiacere il destinatario, specialmente se prestigioso, come in questo caso. Va da sé che alla poetessa non riesce di cantare, e con la prosa e con la poesia, le tante e rare doti che il duca possiede, egli che unisce a «sommo valor somma bontade»: Il topos dell’impossibilità di dire e lodare con un linguaggio adeguato allo scopo occupa tutto lo spazio della seconda quartina.

Nelle terzine successive questo Leitmotiv, di per sé generico, trova parziale esplicitazione, in quanto la poetessa allude all’esordio politico del Medici e alle difficoltà e agli «andati danni» che la sua famiglia è stata costretta a patire a causa della disarmonia interna al ducato fiorentino e all’atavica ostilità che ha da sempre pervaso i rapporti con la repubblica di Siena.

La perifrasi «nel primo fior de’ più verd’anni», indicante giovane età, non è esagerata, dal momento che Cosimo I, quando assunse il potere, aveva appena diciassette anni67. Era il 9 gennaio 1537. Il duca Alessandro de’ Medici era stato

appena assassinato dal cugino Lorenzino,

vindice mano dell’aristocrazia che, dietro le insegne della Florentina libertas, rivendicava le proprie tradizionali prerogative di un organismo politico autonomo contro l’affermarsi del principato68.

66 Ibidem, nota 40, p.63.

67 Cfr. M. Pellegrini, Le guerre d’Italia, cit.

68 Sa lva tore Lo Re, La vita di Numa Pompilio di Ugolino Ma rtelli. Tensioni e consenso

nell’Accademia Fiorentina (1542-1545), in «Bruniana & Campanelliana», I, gennaio 2004, Vol. 10,

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In quel vuoto di potere, il partito dell’oligarchia filo-medicea, guidato da Francesco Guicciardini, avanzò la candidatura di Cosimo, appartenente al ramo cadetto della famiglia; candidatura risolutiva, che anche l’imperatore Carlo V si persuase a sostenere. Così, il giovanissimo Cosimo si guadagnò il titolo, mentre imbracciava le armi contro l’esercito di fuoriusciti capitanato da Filippo Strozzi.

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2.2.3 Signor d’ogni valor più d’altro adorno

Il terzo sonetto della serie è Signor d’ogni valor più d’altro adorno. Le prime due quartine del componimento esplorano, variandolo, lo stesso tema del sonetto precedente: la celebrazione del valore di cui è ammantato Cosimo I69, il

quale è «duce fra tutti i Duci altero, e solo»70; mentre nelle successive terzine la poetessa dà a intendere che la sua poesia è guidata anche dall’intento e dal desiderio di raggiungere posizioni più elevate, principalmente negli ambienti di corte. Si legga:

Signor, d'ogni valor più d'altro adorno;71

duce fra tutti i Duci, altero e solo: COSMO, di cui dall'uno all'altro Polo, et donde parte, e donde torna il giorno, non vede pari il Sol girando intorno, me, che quanto più so v'honoro, e colo, prendete in grado, e scemate il gran duolo de l'altrui ingiusto oltraggio, e indegno scorno. Né vi dispiaccia, che 'l mio oscuro e vile cantar, cerchi talhor d'acquistar fama a voi più ch'altro chiaro, e più gentile; non guardate Signor, quanto lo stile vi toglie (ohimè) ma quel che darvi brama il cor, ch'a vostra altezza inchina humile.

Invocato per la prima (e ultima) volta, il nome proprio del duca si presenta, per ragioni metriche, in una veste sincopata. Quest’uso, in realtà, è molto comune

69 L’imma gine del va lore come orna mento è topica della poesia petra rchista .

70 La scelta degli a ggettivi non è ca sua le ed è orienta ta da lla lettura del ca nzoniere petra rchesco. Al v. 51 della ca nzone 323, si trova proprio il sinta gma «a ltera e sola »; ma , più in genera le, è possibile scorgere ‘solo’, nel senso di ‘solitario’ e poi di ‘unico’, e ‘altero’ con i significati di ‘alto’, se è riferito, per esempio, a l volo di La ura -fenice; di ‘dista cca to’, se a ssocia to a lla donna che si nega ; di ‘superiore’, quindi ‘superno’; e di ‘nobile’. Il duca «altero e solo», cioè nobile e unico, si potrebbe anche dire ‘di una nobiltà unica’, si distingue dagli altri signori italiani per il suo valore senza eguali. 71 Sonetto su qua ttro rime a schema ABBA ABBA CDC CDC. Rime rego la ri; le pa role-rima ‘giorno’, ‘intorno’, ‘scorno’ vengono adoprate, convenzionalmente insieme, in molti canzonieri, ad esempio nelle Rime del Bembo; l’ottetto a bbra ccia un periodo ricco di subordina te, in a ppa renza sconnesso per via delle a na strofi che coinvolgono i versi fina li; l’a llittera zione della denta le sonora, nella prima qua rtina , rende il detta to poetico più dolce da l punto di vista fonico, e ha qua si un va lore semantico, dato il proposito di Tullia di blandire l’interlocutore. Efficaci enjambements nelle terzine. Si notino, inoltre, la dittologia sinonimica , di sa pore a rca izza nte, a l v. 6, «honoro, e colo», e l’aggettivo-rima posto in clausola, «humile», con valore avverbiale.

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