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Fra i temi che caratterizzano la koinè petrarchista, quello amoroso è il più comune. L’argomento soddisfaceva i bisogni della comunità letteraria del Cinquecento e si adattava alle nuove invenzioni, che a loro volta davano vita a un mercato pronto ad assorbire sempre nuovi prodotti. Quasi tutti gli aspiranti poeti e poetesse raccoglievano le proprie poesie come storie di anime innamorate, imitando – chi più, chi meno – fedelmente il modello trecentesco per antonomasia. Ciò per dire che la presenza dell’amore in un ‘canzoniere’ o in una silloge di testi poetici non è un fatto rilevante e di per sé non desta troppa curiosità. Nella raccolta di Tullia, però, questo tema acquista valore per almeno tre motivi: innanzitutto, l’argomento si limita a un gruppo molto ristretto di sonetti posti in chiusura della prima sezione delle Rime, i quali pertanto costituiscono un fenomeno isolato; intorno al destinatario di questi sonetti è stata costruita una complessa vicenda, di cui parleremo fra breve, e la sua identità è tuttora in discussione; infine, riteniamo che sia giusto offrire un’analisi dei summenzionati sonetti, poiché svelano una certa vivezza di ispirazione e una passionalità irrequieta – altrimenti ignota all’autrice – che può gettare nuova luce sulla delicata questione della doppia identità di Tullia d’Aragona.

Il primo elemento importante che balza all’occhio, e distingue le poesie d’argomento amoroso da tutte le altre presenti nella silloge, è la mancata specificazione di un destinatario. Per di più, non è possibile intuire dal contesto elementi che ne facilitino l’individuazione, come abbiamo osservato viceversa nel caso delle poesie offerte a Cosimo I97, dove, in assenza di intestazione,

compensavano l’allocutivo «Signor», accompagnato da epiteti e da altri riferimenti inequivocabili alla sua persona.

Si osserva, però, che la serie di liriche amorose succede immediatamente al sonetto composto per un tale ‘Piero Mannelli’. Questa circostanza è importantissima, perché può dar adito a malintesi, e infatti probabilmente ha

confuso le idee di tre illustri critici del XIX secolo: Salvatore Bongi (1825-1899), Guido Biagi (1855-1925) ed Enrico Celani (1867-).

Tanto per cominciare, chi è questo Mannelli, e che ruolo esercita nelle Rime? Salvatore Bongi, in una nota dei suoi poderosi Annali98, ci rivela che fu

Gaetano Milanesi il primo a identificarlo con Piero di Lionardo di Niccolò Mannelli, nato il 4 agosto del 152299. Attualmente si ipotizza che fosse membro di

una famiglia di banchieri originaria di Firenze e che in seguito lasciasse la città per occuparsi, a Lione, degli interessi finanziari di un’altra importante famiglia fiorentina: i Salviati. Sappiamo, inoltre, che fu amico del Cardinale Giovanni Salviati ed ebbe una corrispondenza epistolare con il fratello di lui, Bernardo, anch’egli sulla via della carriera ecclesiastica100.

Prima di queste recenti scoperte, le notizie circolanti sul suo conto erano piuttosto scarne, nondimeno Bongi, Biagi e Celani vi si aggrapparono con tenacia. Del resto, erano convinti che i sette sonetti d’amore fossero privi di destinatario perché tutti dialoganti con la figura di Piero Mannelli; infatti, succedevano immediatamente al componimento a lui destinato, che era, quindi, l’ultimo e l’unico preceduto dalla dedica.

Tale circostanza fu ritenuta sufficiente a giustificare la storia dell’innamoramento di Tullia nei confronti di Piero. Il giovane fiorentino fu dipinto come il favorito della schiera di amanti dell’Aragona, l’unico capace di gettare scompiglio nel cuore della donna, che il disinganno della vita cortigiana aveva reso impenetrabile, rieccitando sentimenti travolgenti, che a loro volta diedero vita ai versi più belli e raffinati che si possano leggere nella raccolta.

Questa teoria, elevata al grado di realtà, condizionò diverse letture delle Rime, per esempio quella che è stata data, circa un secolo più tardi, da Luigi Baldacci, il quale, nella sua edizione dei Lirici del Cinquecento, annotava che solo

98 Gli annali di Gabriel Giolito de' Ferrari, da Trino di Monferrato, stampatore in Venezia , descritti e illustra ti da Sa lva tore Bongi, volume primo, Rom a , presso i principa li libra i, 1890, p. 182. 99 Mila nesi (1813-1895) fu uno storico dell’a rte nonché un membro dell’Acca demia della Crusca. Si occupò, inoltre, dell’archivio mediceo e nel 1889 divenne direttore degli archivi. Della scoperta mise a l corrente l’a mico Bongi, forse a mezzo di una lettera informa le, poiché quest’ultimo non cita a lcuna fonte scritta .

nella vicenda con Piero Mannelli101 la voce di Tullia si piegava “a un’inflessione

particolarmente femminile”102. Quest’affermazione, fra l’altro, conferma i dubbi

che lo studioso nutriva circa le abilità poetiche della donna; d’altronde, è documentato dalle lettere che in molti casi, in fase di revisione e forse anche di stesura, Tullia si facesse aiutare dai suoi maestri, primo fra tutti Benedetto Varchi. Baldacci, intendeva dire, forse, che solo nel caso delle liriche d’amore l’afflato poetico e la sua concretizzazione erano originali e autentici, poiché sostenuti e motivati da un sentimento ‘sincero’.

Ma, per capire meglio il ruolo che è stato assegnato all’attore protagonista della fortunata vicenda sentimentale, leggiamo le parole di Salvatore Bongi, il quale scrisse che:

l’amico prediletto di Tullia, quello, anzi, che pare le facesse rompere il proposito di non volersi più innamorare davvero, fu Piero Mannelli, giovane che passava di poco i venti anni, al quale la donna mandò le poesie più appassionate che si leggono nella raccolta, e fra gli altri il sonetto

Qual vaga Filomena, che fuggita,

che è il suo più bello, e che si suole riferire per saggio della sua poesia. Ma il Mannelli, seppure possono intendersi i sensi nascosti nelle frasi poetiche di Tullia, la lasciava struggere nel suo fuoco, e tutt’al più la tormentava colla gelosia e co’ rimproveri.103

Specificando in nota che quest’ultimo particolare è possibile desumerlo dall’analisi del sonetto Se io il feci unqua, che mai non giunga a riva.

Nel frattempo, Guido Biagi andò a impreziosire la storia con altri dettagli leziosi. Per esempio, nella sollecitudine di dare una fisionomia conveniente al giovane, scrisse che

biondo era e bello e di tal leggiadro aspetto da colpire la fantasia d’una dotta ricercatrice e tentatrice della virile bellezza.

101 A proposito del suo cognome, si noti che la gra fia subisce un’oscilla zione: ta lvolta trovia mo -n, ta la ltra -nn-. Ad esempio, nella lirica che contiene l’indirizzo ‘a Piero Ma nelli’ la poetessa gli si rivolge chiamandolo ‘Manel gentile’; ma nell’arco del Cinquecento è documentata a Firenze la presenza della famiglia ‘Mannelli’, com’emerge fra l’altro da uno studio condotto da Pasquale Foca rile, I Mannelli di Firenze. Storia, mecenatismo e identità di una famiglia fra cultura mercantile

e cultura cortigiana, Firenze University Press, 2017, a cui si rima nda .

102 L. Ba lda cci, Lirici del Cinquecento, Firenze, Sa la ni, 1975, pp. 257-258. 103 S. Bongi, Gli annali, cit., p. 182.

Ma questi brevi cenni al fascino di Mannelli sono stati ricavati, anch’essi, dall’ultimo sonetto di quella serie, Ov’è (misera me) quell’aureo crine, in cui Tullia rifà il Petrarca mentre, compunta, invoca le parti elette perdute del corpo dell’amato – crine aureo, viso etereo, occhi che rispecchiano virtù, membra candide – che sono conformi alla tipica imagery petrarchesca; non a caso Hairston chiosa il sonetto come “a classic Petrarchan blazon”104.

Ora, lo scopo di questa premessa non è certo quello di svilire l’opera di questi studiosi. Prima di tutto bisogna riconoscere loro di aver svolto un lavoro straordinario, rintracciando fonti e testimonianze d’archivio con cui sono stati colmati molti vuoti nella ricostruzione biografica della vita della poetessa. Tuttavia, se dobbiamo parlare delle rime amorose, bisogna constatare che la vicenda che hanno messo in piedi è piuttosto fantasiosa e, nel tentativo di scremare la realtà dalla poesia, hanno fomentato ipotesi che, per quanto stimolino la curiosità romantica dei lettori, rimangono prive di fondamento.

Sempre Biagi scriveva che

La Tullia innamorata gli scriveva versi e sonetti […]; l’amò come spesso ama la cortigiana che, dopo aver sacrificato a tutti gli dei e semidei dell’Olimpo, sente il bisogno d’onorare, con un culto speciale e più intenso, quel dio che si è essa stessa foggiato. Questo nuovo affetto, spuntato sul vecchio tallo delle sue arti lusingatrici, fu l’ultima forse delle sue passioni, ed essa proseguì105 del suo amore ardente e imperioso il nobil

giovane. […] [La gelosia] costringeva l’altera donna a darsi per vinta, a confessarsi per prigioniera d’amore, nonostante le sdegnose ripulse sofferte, doveva essere una di quelle tarde passioni che non perdonano e che, come il vaiuolo, segnano chi ne è colpito.106

Tutti questi interventi, benché fuorviati da un eccesso di zelo critico – se così possiamo definirlo –, partecipano alla fortuna delle Rime di Tullia e possiedono, se non altro, un grande pregio: dato che sono modellati sulle poesie, rappresentano un utile preludio all’analisi, perché ci aiutano a familiarizzare con il contenuto dei sonetti, carezzando temi quali lo sbocciare inatteso di un affetto, la

104 J. Ha irston, The poems and letters, cit., p.112, nota 131. 105 Sic.

gelosia che grava fino a imprigionare la libertà individuale, il dolore dato dalla perdita dell’amato, e così via; di conseguenza, quando si va a esaminarli nell’insieme, si è spinti a considerarli parte di una sorta di poemetto o di piccolo canzoniere d’amore, autonomo rispetto alla raccolta e dotato di uno svolgimento narrativo coerente. Evidentemente le poche poesie di Tullia ispirate da amore, in questa silloge nata sotto altri auspici, vanno recepite come un fenomeno peregrino, motivato da ragioni che forse non ci è dato conoscere, ma supporre sì, e lo faremo più avanti.

Nel frattempo, concludiamo il discorso sui critici dell’Ottocento riportando le parole di Enrico Celani, il quale entrò a far parte della storia editoriale delle Rime curando un volume, datato 1891, in cui, dopo aver tracciato una biografia dettagliata della poetessa, presentava una ristampa delle poesie che ne riarrangiava l’ordine originale107. Egli a proposito di Tullia commentò che:

Al contrario della Franco che canta l'amore dei sensi, l'Aragona è tutto ideale, tutto spiritualismo; i suoi affetti vogliono rasentare il cielo, e solo raramente trovasi qualche accenno alla triste sua vita; è invasa dalla manìa di passare ai posteri insieme ai letterati che ella canta, cerca ogni maniera di ricoprire la cortigiana con la poetessa, ed eleva i suoi canti indistintamente a tutti, principi e cardinali, letterati e soldati, uomini serii e burloni quali il Lasca; per lei l'uomo, essere animato, è nulla: la fama di un uomo, il tutto; il solo affetto per il giovane Mannelli si può credere sincero, tutte le altre proteste che inficiano le rime e quei sonetti che cambiato indirizzo, giravano d'adoratore in adoratore in edizioni stereotipe e consolavano tanto il Muzio che il Martelli, fanno a buon diritto dubitare di tutte queste espansioni cantate così altamente e serenamente.108

Sembra quasi che Celani ce l’avesse con Tullia per il fatto di non accettare di buon grado la sua condizione di cortigiana e di pretendere di essere qualcuno che non era. Agli occhi del curatore questa ‘colpa’ penalizzava il prodotto del lavoro artistico dell’Aragona, alimentando dubbi sul valore delle sue liriche. Ma è sensato fare un ragionamento simile? E poi, è giusto bollare di affettazione le poesie

107 Cela ni intervenne sul testo in modo da elimina re le coppie di sonetti. Dispose le poesie di Tullia una di seguito all’altra, isolandole dalle proposte e risposte degli interlocutori. L’ordine originale è sta to ripristina to, più ta rdi, da Julia L. Ha irston , che ha correda to la sua edizione di un’ulteriore a ppendice di liriche miscella nee, pubblica te dopo il 1547 o rinvenute in ma noscritti.

occasionali –cioè la maggior parte– per sottolineare di contro l’autenticità del canto amoroso, solo perché ritenuto espressione di sentimenti reali? La qual cosa è, per inciso, tuttora in discussione.

Quanta verità è rintracciabile nelle parole di Tullia?

Tutti quesiti interessanti, ai quali si risponde che no, non è sensato né giusto porre la questione sul piano dell’autenticità.

Non si deve dimenticare che alla grande passione per le lettere, a cui Tullia si votava in cerca di redenzione, si mescolavano i costumi e gli obblighi della cortigiana nei confronti della società pagante. La sua scrittura mirava a compiacere ed era sorvegliata dai grandi maestri della contemporaneità. E poi, non importava che il canto fosse diretto a principi, grandi poeti, uomini d’arme, ecclesiastici, oppure ad amici, Tullia poteva variare la formula allocutiva e, a seconda dell’importanza del dedicatario, scegliere se rivolgerglisi con la seconda persona singolare o plurale; ma la libertà di dire restava limitata, parzialmente preclusa a una donna della sua condizione109. Di contro, in quasi tutte le sue liriche affiorano

sentimenti quali gratitudine, affetto, rammarico o indignazione, che non vi è ragione di credere insinceri.

Per di più, la cosiddetta “mania di passare ai posteri” di cui è addirittura “invasa”, vista da Celani se non con sfiducia almeno con sospetto, è forse la più schietta delle sue rivendicazioni, che ha dietro finalità sia pragmatiche che ideali. Poteva essere d’aiuto per la carriera invocare nomi illustri e imitare le prove artistiche dei colleghi poeti. Inoltre, nominare maestri come Bembo o Varchi poteva servire a consolidare la sua identità poetica, oppure a sancire un legame di affiliazione a un circolo letterario, dove avrebbe ricevuto incoraggiamento e supporto. Da un lato, quindi, Tullia si tutela e promuove la cultura e le abilità che possiede, merci di scambio preziose nel mondo cortigiano da cui proviene, dall’altro desidera intimamente lasciare ai posteri una buona immagine di sé, e se può scegliere tra la cortigiana e la poetessa, preferisce sacrificare la prima a beneficio della seconda. Il motivo della fama è, quindi, cardinale, sia nella

109 Al contra rio, per esempio, della Ma rchesa Vittoria Colonna , che da lla sua posizione a ltolocata e protetta poteva giova re di una ma ggiore indipendenza espressiva .

conduzione della propria vita che nell’antologia lirica, che oltretutto è corale, perché lo scopo primario è quello di raccogliere omaggi da parte di altri poeti:

Come scrive Ann Rosalind Jones:

“She collects trophies from literary men whom she rewards by publishing her own poems of praise to them. She is quite forthright about this process of exchange. […]. She defines one technique for garnering fame: naming the famous […] each poet attributes his/her success to the other and the juxtaposition of the two texts confirms that each provides a springboard for the other’s virtuosity.”110

Questa strategia di cooperazione è testimoniata con evidenza dalla stessa struttura delle Rime111 che contengono, oltre alle sezioni di ‘proposta e risposta’ e all’Egloga del Muzio, una quinta sezione di ben cinquantacinque sonetti: il tributo ‘spontaneo’ di diversi all’ingegno e al buon nome dell’Aragona.

Il topos della fama, come un filo rosso, percorre tutta l’opera ed è importante anche in relazione al nostro discorso sulle liriche amorose, su cui adesso ritorniamo.

110A. R. Jones, The currency of Eros: women's love lyric in Europe, 1540 -1620, India na University Press, Boomington: India na polis, 1990, pp. 107-109.