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3.2 Analisi dei sonetti d’amore a ignoto interlocutore

3.2.4 Felice speme, ch’a tant’alta impresa

Quando si analizzano le poesie dell’Aragona bisogna sempre tener presente il motivo autobiografico. Abbiamo visto che nei sonetti precedenti Tullia fa suo l’argomento dell’amore e lo intreccia con la propria vicenda personale ed esistenziale. In Qual vaga Philomena, che fuggita per esempio, a un certo punto l’io lirico tenta la fuga definitiva dal “tempio di Ciprigna” senza però riuscirci, perché il legame con questa Venere ‘pandèmia’ protettrice dell’amore erotico, materialista, legato al corpo – cioè il tipo di amore che Tullia esercita per professione –, è troppo forte e finisce per sprofondarla nell’abisso del senso di colpa e del dissidio interiore. In questo senso il rifiuto dell’amore coincide con il rifiuto del suo modo di vivere da cortigiana. Ma il motivo autobiografico si incardina su un grande topos letterario della tradizione petrarchista, secondo cui è giusto sbarazzarsi dell’amore terreno, poiché distoglie l’animo dall’amore delle cose celesti; ed è quanto S. Agostino nel Secretum rimprovera a Petrarca che, a causa dell’amore per Laura, devia il suo desiderio ‘dal Creatore alla creatura’.

Nel sonetto che analizziamo di seguito Tullia esplora il topos complementare: quello dell'elevazione spirituale prodotta dall'amore. Tale tema non lascia spazio alla trattazione autobiografica della contrarietà dell’esistenza, che origina dalla condizione di cortigiana143; infatti, a differenza dei sonetti precedenti,

che sono assorbiti da una visione cupa e opprimente dell’amore ed esibiscono una ‘semantica del dolore’144 che li accompagna dal primo all’ultimo verso, il sonetto

presente registra, invece, un’inversione di tendenza e si apre nel segno luminoso della speranza.

Si legga:

Felice speme, ch'a tant'alta impresa145

ergi la mente mia, ch’adhor adhora dietro al santo pensier, che la innamora,

143 Si noti, però, che il sinta gma «a spra sorte», a l v.11 del presente sonetto, si offre a noi come una reminiscenza di quella condizione; il sinta gma è una va ria zione di «rea sorte» (son 29, §3.1, p. 47), «a ntica sorte» (son.30,§3.2, p.52) e di «ma lva gia sorte» (son. 33,§3.5, p.67).

144 Espressione presa in prestito da Adria na Liri, che così ria ssume le scelte lessica li compiute da Vittoria Colonna , in pa rticola re nelle rime deplora torie. Cfr. Liriche del Cinquecento¸ cit., pp. 67 e sgg.

145 Sonetto su cinque rime a schema ABBA ABBA CDE DCE, occupa la posizione n°31 nella raccolta di rime dell’Aragona.

sen’vola al ciel per contemplare intesa. De’ bei disir in gentil foco accesa, miro ivi lui, ch'ogni bell'alma honora. Et quel ch'è dentro, e quanto appar di fora, versa in me gioia senz'alcuna offesa. Dolce, che mi feristi, aurato strale, dolce, ch'inacerbir mai non potranno quante amarezze dar puote aspra sorte. Pro mi sia grande ogni più grave danno; che del mio ardir per haver merto uguale più degno guiderdon non è che morte.

L’«alta impresa»146 di Tullia è l’amore sublimante di cui scrive, che

rinfocola in lei il desiderio del cielo e la porta alla contemplazione del paradiso147.

Nella seconda strofa la poetessa si dice «accesa» da un fuoco che stavolta è «gentil», cioè ‘nobile’, ‘elevato’ – alla maniera dantesca insomma –, e non più «lento», come nel sonetto Amore un tempo in così lento foco148, dov’era sottintesa

la natura posticcia, lasciva e soprattutto paralizzante della passione amorosa. Ella contempla con ammirazione e gioisce delle virtù dell’amato, che risplendono sia dentro che fuori: un omaggio alla tradizione lirico-amorosa stilnovista, secondo la quale il piacere è legato alla semplice testimonianza della bellezza dell’amata – in questo caso dell’amato –, che diviene così motore di perfezionamento spirituale e strumento di salvezza.

Se il coinvolgimento sentimentale nei confronti d i quest’uomo misterioso fosse reale, ancor più interessante sarebbe conoscere la sua identità. Finora sono state avanzate due ipotesi. Il primo è, come sappiamo, il fiorentino Piero Mannelli, ritenuto da molti critici, tra cui Bongi, Biagi, Celani e Baldacci, il destinatario di tutti i sonetti senza intestazione che seguono Poi che mi diè natura a voi simile149; il secondo è Messer Lodovico Dolce, data l’anafora dei vv.9-10. J. Hairston,

146 Sinta gma solenne a dotta to con gra nde frequenza da i poeti del Cinquecento.

147 Il lessico della prima strofa sottolinea questa vertica lità : il ca mmino, guida to da un amore sconfinato, protende Tullia verso l’alto.

148 Si veda §3.1, p. 47.

149 Si veda §3, p. 38 e sgg. Noi ritenia mo che non ci sia no a bba stanza elementi per confermare questa ipotesi.

curatrice dell’edizione più recente delle rime di Tullia, nel breve apparato esegetico che accompagna il sonetto scrive, infatti

the repetition of “dolce” at the beginning of verses 9 and 10 suggests that perhaps this sonnet was intended for Lodovico Dolce, who, according to Claudia Di Filippo Bareggi, was the editor of d’Aragona’s canzoniere150.

Tuttavia, l’idea non la convince appieno, infatti si affretta ad aggiungere: “in the translation, I have opted for the less daring solution, however, that “dolce” is merely an adverb”.151 Lodovico, in effetti, lavora al servizio dei Giolito per i quali

traduce, rivede, plagia diverse opere antiche e moderne; ed è presso i Giolito che nel 1547 e ’49 escono a stampa le due edizioni della raccolta dell’Aragona. Ciò detto, tuttavia, un amore così sublime per il presunto curatore delle rime non ci risulta, poiché non disponiamo di altre testimonianze, né da parte di Tullia né dello stesso Dolce, a sua volta poeta molto prolifico; dovremo, pertanto, accontentarci dell’anonimia del destinatario.

In ogni caso, l’‘alta impresa’ di amare costui esige da parte dell’io poetante un grande «ardir» (v.13) nonché spirito di sacrificio. Ella è disposta a tollerare il massimo della sofferenza possibile in nome di questo amore, infatti accetta come «degno guiderdon»152 addirittura la morte. Un finale piuttosto amaro rispetto alle

premesse iniziali: il sonetto si apre, infatti, nel segno della ‘felice speme’, alto fastigio aereo che motiva e sospinge il canto di Tullia, e si chiude con un terribile presagio di morte.

I problemi da sottoporre ora alla nostra attenzione, per il presente componimento e i successivi quattro153, sono due: stabilire se esista un rapporto tra

invenzione letteraria e realtà extra-letteraria e, ancor più importante, indagare una possibile correlazione tra i sonetti, cioè capire se questi diano vita a uno sviluppo narrativo coerente, tanto da spingerci a parlare di ‘poemetto’ o di ‘piccolo canzoniere’ all’interno della raccolta.

150 J. Ha irston, The poems and letters, cit., p.108.

151 Ivi. Rigua rdo a lla pa ra fra si del v.9 chiosa , inoltre, che «Dolce» potrebbe essere considera to sia un aggettivo che un avverbio. Nel primo caso intenderemmo: ‘dolce freccia dorata che mi feristi’; nel secondo “dolcemente mi feristi, freccia dorata”.

152 Il termine ‘guiderdone’ origina da l provenza le e vuol dire ‘premio’ o ‘ ricompensa ’ (di solito ela rgita da lla donna a l poeta a mante). È molto utilizza to da i poeti della Scuola sicilia na , gra zie a i quali raggiunge Dante. Qui vale piuttosto come ‘conseguenza’.

153 Cioè S’io ’l feci unqua, che mai non giunga a riva; Se ben pietosa madre unico figlio; Se forse