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3.2 Analisi dei sonetti d’amore a ignoto interlocutore

3.2.7 Se forse per pietà del mio languire

Il dolore dato dalla perdita di un figlio è così profondo da risultare incomprensibile per chi non l’ha mai esperito. Per una madre colpita da una simile disgrazia un conforto, un consiglio rappresentano l’unica valvola di sfogo, indispensabile per alleggerire la rottura di un legame così viscerale, e sopravvivere alla sua assenza. Nella cornice della prima quartina del sonetto precedente la poetessa ha tratteggiato con efficacia tale esperienza femminile alla ricerca di pathos, di cui si è servita per rafforzare il contrasto finale: con l’ultima terzina, infatti, Tullia si riallaccia all’esordio, e adopera lo stesso lessico percommentare questa volta il suo personale stato emotivo, anticipando giàil profondo turbamento che sarebbe provocato dalla perdita del ‘bel sole’, metaforicamente l’amato; d’altra parte la vita aveva ricevuto un significato nuovo dall’incontro con lui – la poetessa lo dice in Rime 31 – e ciò rende il pensiero di perderlo ancor più insopportabile. Inoltre, il sospetto di avere una colpa o di essere costretta dal destino – da sempre avverso – le fa dichiarare l’impossibilità di volere un conforto o un consiglio che allevi la sua sofferenza.

Se nel sonetto precedente la fine del legame è ancora paventata come ipotesi, ora questo legame entra ufficialmente in crisi. Tullia si trova a Roma e ‘languisce’ nel dolore, nel turbamento e nella costernazione sbigottita – ma non ancora rassegnata – che origina dal distacco definitivo dall’uomo. In lei non vibra più la gioia dell’amore, bensì ardono fino a consumarla le fiamme del desiderio frustrato. Si legga:

Se forse per pietà del mio languire173

al suon del tristo pianto in questo loco ten’ vieni a me, che tutta fiamma, e foco ardomi, e struggo colma di disire, vago augellino, e meco il mio martìre ch'in pena volge ogni passato gioco, piangi cantando in suon dolente, e roco, veggendomi del duol quasi perire;

173 Sonetto su cinque rime a schema ABBA ABBA CDE CDE. «Gioco» a l v. 5 sta per ‘gioia ’. Il verso 7 riprende il «cantando…o ver piangendo» di Rvf CCCLIII , 1-2. Si notino la dittologia sinonimica «fiamma e foco» al v.3; l’ossimoro «amena e cruda» al v. 9 e l’altro accoppiamento a ntitetico «e morte e vita » a l v. 10: queste figure sono tipiche della scrittura petra rchista .

pregoti per l'ardor, che sì m'addoglia, ne voli in quella amena e cruda valle ov'è chi sol può darmi, e morte, e vita. Et cantando gli dì, che cangi voglia, volgendo a Roma 'l viso, e a lei le spalle174,

se vuol l'alma trovar col corpo unita.

Luigi Baldacci, che ha incluso il componimento nell’antologia dei Lirici del Cinquecento, in nota si è così espresso:

A Piero Mannelli. È quanto di meglio Tullia abbia lasciato: senza un’impronta personale, ma tuttavia fuori da quelle ambizioni di eloquenza nelle quali mal sapeva sostenersi. Il colloquio col vago augellino richiama quello del Petrarca nel son. Vago augelletto che

cantando vai.175

Tralasciando la vexata quaestio del corrispondente del sonetto, e sorvolando sul giudizio troppo severo del Baldacci circa le capacità espressive dell’Aragona – che finora non hanno deluso le attese –, ci concentreremo sull’utile riferimento al Canzoniere.

Vago augelletto che cantando vai176 di Petrarca è una poesia molto famosa; ribalta in parallelo Quel rosignuol, che sì soave piagne (Rvf CCCXI), che abbiamo già incontrato lungo l’analisi del sonetto Qual vaga Philomena, che fuggita177.

Si ricordi che in Rvf CCCXI il dolore del poeta era inasprito dal contrasto con la natura in pieno rigoglio: tutto in primavera si predispone all’amore, tranne il poeta, che piange la scomparsa della donna amata isolandosi nella tristezza. In Rvf CCCLIII il soggetto poetico condivide il lamento con il ‘vago augelletto’, che 174 Ba lda cci sostiene che il v.13 consenta di da ta re il sonetto dop o il 1549. In effetti, sa ppiamo da un documento intitolato Tassa sulle Cortigiane che nel 1549 l’Aragona dimorava a Roma vicino a Palazzo Carpi, nel rione Campo Marzio; tuttavia l’ipotesi è da escludere, dal momento che il componimento figura nella ra ccolta già a ll’a ltezza della sua prima edizione a sta mpa , nel 1547. Ciò nondimeno, considera ta la frequenza dei via ggi di Tullia – molti dei qua li sono documenta ti, ma molti a ltri no – è verosimile si trova sse nella città na ta le a l momento della scrittura del sonetto. Si noti, infine, come il verso richia mi il petra rchesco «a Roma il viso e a Ba bel le spa lle» di Rvf 117. 175 Luigi Ba lda cci, Lirici del Cinquecento, cit., p. 336.

176 Rvf CCCLIII: «Va go a ugelletto che ca nta ndo vai, / over pia ngendo, il tuo tempo pa ssa to, / vedendoti la notte e ‘l verno a lato / e ‘l dì dopo le spalle e i mesi gai, // se, come i tuoi gravosi a ffa nni sa i, / così sa pessi il mio simile sta to, / verresti in grembo a questo sconsola to / a pa rtir seco i dolorosi gua i. // I’ non so se le pa rti sa ria n pa ri, / ché quella cui tu pia ngi è forse in vita , / di ch’a me Morte e ‘l ciel son tanto avari; // ma la stagione et l’ora men gradita, / col membrar de’ dolci a nni et de li a ma ri / a pa rla r teco con pietà m’invita ».

piange la compagna perduta sul far della notte e dell’inverno, invece che di giorno e a primavera. Questa volta c’è affinità tra i sentimenti del poeta e il contesto naturale: come per l’uccellino, infatti, anche per l’io lirico si appressano ‘la stagione e l’ora meno gradite’, ovvero il freddo e buio tempo che caratterizza la vita degli amanti soli e infelici. Petrarca istituisce, dunque, un confronto tra se stesso e l’augelletto. Ma c’è uno scarto:

lo stato dell’augelletto è dichiarato simile (v. 6) a quello del soggetto, al punto che innesca la fantasia di una condivisione (vv.7-8), ma immediatamente a seguire, sul cambio della partizione strofica, l’atto della comparazione viene in un certo senso ripensato, come se il soggetto si risovvenisse che, a differenza dell’uccellino, non ha la possibilità di ritrovare «in vita» l’oggetto della perdita (vv.10-11), laddove l’animale potrebbe avere ancora da qualche parte la consorte perduta.178

Ciò detto, se il sonetto di Tullia mancasse di “un’impronta personale” – per tornare alle parole di Baldacci – il suo poetare risulterebbe identico a quello del modello, invece ci sono notevoli differenze. In primo luogo non viene fatta alcuna comparazione, sia pure “imperfetta”179, tra il soggetto poetico e l’’augellino’, che

semplicemente viene a Tullia spinto da pietà, poiché la sente disperarsi. Fra l’altro, il ricordo dei momenti gioiosi del passato, nell’ambito delle miserie del tempo presente, infonde al canto un’intonazione ancor più pietosa.

L’augelletto di Petrarca e l’augellino di Tullia condividono lo stesso aggettivo, una parola petrarchesca che però è particolarmente cara all’Aragona, cioè «vago». L’avevamo già incontrato in Qual vaga Philomena, che fuggita, con cui il presente sonetto in qualche modo dialoga, così come dialogano fra loro i sonetti del Canzoniere che abbiamo visto sopra e che fungono da modelli per le Rime. Il ‘vago’ è in primo luogo l’erratico, chi o ciò che si muove vagando instabile; per estensione rappresenta colui che desidera e insegue con volubilità ciò da cui è attratto. Non vi è, di fatto, aggettivo migliore per rappresentare l’uccellino che svolazza da un ramo all’altro obbedendo a ciò che gli dice l’istinto. A quest’immagine la poetessa affida

178 S. Bozzola , Le occasioni del testo. Venti letture per Pier Vincenzo Mengaldo , a cura di Andrea Afribo Sergio Bozzola Arna ldo Solda ni, Cleup SC, Pa dova , 2016, p. 44.

l’espressione dei moti del proprio animo. La sua è una passione vivace e instancabile: ella sempre vagheggia, accarezza con la mente, sogna, ma nel farlo arde e si strugge, poiché l’oggetto del suo desiderare è irraggiungibile. Ecco perché nella sirma si rivolge all’uccellino in preghiera, affidandogli il compito di volare in quella «amena e cruda valle»180 dove si trova l’amato, per dirigergli un canto che

lo convinca a volgere lo sguardo verso Roma, luogo dove ora risiede. Il ruolo dell’uccellino viene riscritto: da alter-ego del poeta ne diviene il messaggero oppure, se vogliamo, una metafora della poesia stessa.

D’altra parte, la poesia rappresenta per Tullia l’unico mezzo espressivo con cui cercare consolazione e ricavarsi un piccolo, intimo spazio di libertà. L’abbiamo già constatato in Qual vaga Philomena, che fuggita, dove il volo dell’usignolo rappresentava proprio una parentesi fugace di libertà dalla prigionia psichica dell’amore, che veniva inteso sia come una forza irresistibile sulla quale non si ha possibilità di controllo e che mette l’io di fronte alla sua impotenza, sia come metafora della vita da cortigiana, che impone pesanti vincoli alla libertà individuale e soffoca ogni altra ambizione.

A mezzo della parola poetica Tullia può ‘librarsi in volo’ liberamente, oltrepassando le barriere geografiche che la dividono dall’amato. Se la comunicazione diretta con l’uomo è impedita dalla distanza che li divide, l’unico esile veicolo– esile come un uccellino – con cui può sperare di raggiungerlo e intrecciare con lui un dialogo è proprio la poesia.

180 Molti critici da nno per sconta to che sia la va lle in cui gia ce Firenze, per via dell’a ssocia zione del destina ta rio a Piero Ma nnelli.